I SETTE DOLORI DI MARIA

SETTE DOLORI DI MARIA

[Sac. Vincenzo STOCCHI: “DISCORSI SACRI”; Tipogr. Befani – Roma 1884 – Impr.]

DISCORSO XX

“Tuam ipsius animam pertransibit gladius”

Luc. II, 35.

Chi voglia pigliar degno concetto dell’amore sviscerato, e della tenerezza soavissima, onde la Chiesa prosegue la gran Madre del suo Sposo Maria, basta che si riduca alla memoria le molteplici e svariate solennità, colle quali compartite ad intervalli fra l’anno, ne festeggia il nome, ne commemora le gesta, ne riverisce la rimembranza. Diremmo che sempre è bella agli occhi della Chiesa Maria: bella se concetta senza peccato, scende celeste dono dal Paradiso a rallegrare la terra: bella se sorgendo aurora di salute e di pace, instaura col suo nascere il regno della giustizia: se porgendo il famoso assenso all’Angelo messaggero consente al Verbo di pigliar carne umana nell’intemerato suo seno, divenuta Madre di Dio, Maria è più bella: ed è bellissima quando anima ricongiunta col frale onde la sciolse la morte, ascende rivestita di sole a cingere il diadema di Regina del Paradiso. Ma non meno di quando si adorna e trionfa, è bella quando si addolora e languisce, né le pene che lacerarono il cuor di Maria rimangono senza onore e senza memoria. Che dico senza onore e senza memoria? Doveva dire, che mentre i suoi privilegi, le glorie, i trionfi rammemora un giorno solo, due giorni solenni, dentro il volger di un anno, son dati alla rimembranza dei suoi dolori. Amorosa cortesia della Chiesa, che ripaga con raddoppiata onoranza le angosce di chi tanto penò per darle il Salvatore e lo Sposo. E uno di quei giorni è questo che corre, e oggi tutto il mondo cattolico compatisce i dolori che trafissero e lacerarono il cuor di Maria. La quale con gran ragione vendica a se medesima il titolo di Regina dei martiri: Maria portò lunghi anni fitta nel cuore la spada che la trafisse, e ne provò l’un dì più che l’altro atroce il laceramento e la piaga, e venne da ultimo a tale stretta e a tal termine, che il sopravvivere al martirio fu cumulo ineffabile e smisurato di pena, e il morire sarebbe stato refrigerio e conforto. A muovere pertanto il mio e il vostro cuore, perché secondo l’intento di santa Chiesa compatisca ed onori questa cara Addolorata sarà volto tutto il mio faveIlare di questa mattina: e poiché la compassione non si desta per altra via che del metter sott’occhio le ambasce di chi patisce, mi sforzerò con semplice favellare di ritrarre vivamente al possibile come stesse nel pellegrinaggio di questa vita il cuore della nostra Madre, e che coltello e che spada la trafiggesse; e se da Gesù in fuori vi parrà che siasi trovata una creatura umana che patisse più di Maria, mi contento che le neghiate ogni compassione: ma se dopo Gesù scorgerete in Maria la più dolorosa e trambasciata anima che fosse mai, allora vi ricorderò che sarebbe da spietati non amare chi patì tanto per noi. Incominciamo.

1. Di Gesù nostro Salvatore, dice S. Bernardo, che a gran ragione si appella l’Uomo dei dolori, perchè a nativitatis exordio passio crucis sìmul exorta. Fu per Lui una medesima cosa il nascere ed il patire. Quindi andrebbe di lunga mano lungi dal vero, chi si desse a credere che la passione di Gesù cominciasse allora, che nel Getsemani si turbò, spaurì, si contristò, sudò sangue. No: proruppe allora al di fuori e fu manifesta e visibile l’ambascia che lacerava il Cuor di Gesù: ma la passione cominciò in quel cuore fino dal primo istante che palpitò nel petto del Verbo fatto uomo per la salute degli uomini. E di questa battaglia continua, di queste pene sono simbolo e quella treccia spietata di spine che lo circonda e lo stringe, e quella croce che sopra vi gravita, e dicono a tutti che per Gesù non passò un giorno senza dolore. Guardate ora il vivo ritratto di Gesù, guardi e Maria. Che spada è quella che le vedete infitta nel seno non darle posa mai e dentro sempre più immergersi acutamente? È la spada che Simeone le profetò quel giorno, che Ella in compagnia di Giuseppe recò al tempio e offerse al Signore il bambinello Gesù. – Povera Madre! aveva allora allora compiuto la grande oblazione, e ricoverato il suo bambolo con lo sborso del prezzo che la legge imponeva, se lo era raccolto al seno, e con materno vezzo lo carezzava: quand’ecco farsele innanzi il santo vegliardo Simeone e preso dalle braccia di Maria fra le sue il bambino Gesù, levarlo al cielo, e “Costui, esclamare, è posto in rovina e risurrezione di molti, e in bersaglio di contraddizione, ma intanto tu o donna preparati perché una inesorabile spada di angoscia, fia che ti trapassi l’anima da banda a banda. Et tuam ipsius animam pertransìbit gladius.” (Luc. II, 35.) O Dio! Immaginate che ad una madre, mentre si tiene fra le braccia l’unico figlioletto che Ella ama quanto l’anima sua, e se lo stringe al cuore e lo bacia, comparisse dinanzi tutto scuro e rabbuffato un profeta, e “donna, pigliasse a dirle così ispirato da Dio, sappi che assai care pagherai le delizie che ora ti inondano l’anima per conto di cotesto fanciullo”. Fanciullo infelice! Esso è serbato al patibolo dei ribaldi e alla morte dei malfattori. Verrà giorno, e indubitatamente verrà, nel quale sarà rapito all’amor tuo, e alle tue braccia e consegnato al carnefice, e tu lo vedrai. Lo vedrai sopra la carretta immonda dei rei tradotto al patibolo, lo vedrai ascendere tremebondo la ferale scalea, lo vedrai curvare sul lurido ceppo, vedrai piombar lampeggiando la truce mannaia, e dare i tratti e dibattersi il tronco sanguinolento, e guizzare il reciso teschio sotto la mano del manigoldo che pei capelli lo stringerà. Ahimè! Qual cuore di madre potrebbe reggere senza scoppiare a questa denunzia? E come sarebbe possibile, che avesse più un’ora di bene quella infelice donna a cui sovrastasse tanta mole di sventura e di affanno? Allevare un figliuolo e pascerlo col proprio latte, ma allevarlo e pascerlo pel patibolo, avvezzarsi ad amarlo di un amore l’un dì più sviscerato dell’altro, ma non con altro pro che di fabbricarsi via più intenso il dolore: gioire di vederlo crescere e infiorarsi delle grazie innocenti della infanzia e della puerizia, ma aver sempre davanti agli occhi il ferro micidiale, che farà di quel pargolo pieno di vita un cadavere tronco e deforme. Ma nessuna madre si è mai trovata nell’orribile e disperata stretta di questi dolori, nessuna, nessuna da quella infuori che in ogni cosa fu unica, nessuna fuor di Maria. Maria sì, non appena suonò sul labro di Simeone quella denunzia formidabile che acuta spada le doveva trafigger l’anima, intese subito di che spada si trattasse, e le rivelò la gran tela e vide: vide, come allora allora accadesse, tutta la carneficina che si sarebbe fatta del suo Gesù; vide quella mole, quel cumulo, quel subbisso di insulti, di villanie, di contumelie, di tormenti, di stragi, che quel pargoletto vezzoso avrebbero condotto a rassembrare un lebbroso. Un percosso, un umiliato da Dio. E chi può dire in quel primo assalto, in quella prima occhiata, in quel primo stringerlo al seno, che punta, che laceramento, che squarcio. Inorridì, tremò, palpitò, un gelo un ghiado le corse per l’ime ossa; e fu allora per mio credere, che il Cuor di Gesù impresse se medesimo come suggello sul Cuor di Maria per modo che il cuor del Figlio non battesse d’un palpito, non fosse commosso di un affetto, al quale non consentisse e corrispondesse il cuor della Madre. Parmi quindi vederla questa desolata madre, allora quando il suo bambinello rifocillatosi alla viva fontana del seno materno, tendeva verso di Lei e le gettava al collo le tenere manine, e con quell’impeto e con quel sorriso che sogliono i pargoletti le faceva festa e pareva dirle ti amo, stringersi anch’Ella al cuore come l’amor materno la spingea quel caro pegno, ma nella dolcezza di quell’amplesso, quasi nube tenebrosa farsele innanzi il pensiero del sacrificio a cui allevava quel pargolo immacolato, e le pareva vederlo palpitare come un agnello sotto la mano che lo scanna, e non aprir la sua bocca: e ahimè esclamare, ahimè Gesù che sarà di te. A che ti so riserbato! A che strazi ti nutro con questo latte, a che martirii ti preparo con queste cure. Vedrò, vedrò intriso di sangue e coronato di spine codesto capo, che biondeggia a somiglianza dell’oro, vedrò lordato di sputi e di fango cotesto viso, che fiorisce siccome il giglio, e codeste mani così delicate, e codesti così teneri piedi traforati dai chiodi, e nuotare nelle tenebre dell’agonia le stelle di codesti occhi, e ardere di mortal sete cotesta bocca, in cui s’invermiglia la rosa, e quando spirerai l’anima fra due ladri nella croce dei malfattori, io, io ti vedrò con questi occhi, o mia delizia, o mio amore, o bene unico del cuor mio. Così facendosi via più sempre grandicello Gesù correvano i giorni alla desolata, così le notti, e lo contemplasse vinto dal sonno nella povera cuna, o il sonno gli lusingasse sulle ginocchia, o nel sembiante soavissimo, nei vezzi, nelle maniere si giocondasse, sempre, sempre a la gioia si mesceva l’affanno, vedeva sempre le truculente facce dei manigoldi, gli strazi, la croce, e se l’aveste detta felice pel possesso di quel tesoro, non mi chiamate felice, avrebbe risposto, chiamatemi dolorosa, perché è bello il mio Gesù, è amoroso, è gentile, ma fasciculus myrrœ, vi avrebbe risposto, fasciculus myrrœ dilectus meùs mihi (Cant. I , 12.) Questo dolcissimo che è tutto l’amor dell’anima mia, è al mio cuore un fastelletto di mirra, né mi delizia tanto con la soavità dell’odore, che non mi cruci anche pia con l’amaro che dal suo cuore si trabocca nel mio.

2. E fin qui non ho ritratto Maria altro che come madre, né Gesù altro che come figlio, senza quella gran giunta che Dio era Gesù, e Maria la Madre di Dio. E se ineffabile si palesa il dolore di Maria per quello solo che la natura opera nel cuor di ogni madre, che sarà se si attenda a quella soprassoma di pene che nel cuore di tal madre dovette operar la grazia. Certo è uditori, che se l’amor di tutte le madri quante furono, sono e saranno in una sola fiamma di amore si raccogliesse, non avrebbe più proporzione con l’amor che Maria portava a Gesù di quel che abbia l’ombra col corpo e la figura colla realtà. Perciocché l’amor di Maria, era sì amor materno, ma amore materno di carità soprannaturale, amore nel quale non ebbe né avrà mai chi la somigli, come non ebbe né avrà mai chi la somigli nella dignità di Madre di Dio. Insomma Maria amò, o miracolo, amò Dio con amore di Madre, perché l’amor materno che Ella portava a Gesù nella Persona del Verbo si terminava, e Gesù era il Verbo incarnato. Ora dell’ amor di Dio quando si insignorisce di un’anima è scritto, che esso è forte al par della morte, che è tenero, che è geloso, che mette nel cuore smanie indomite ed attuose siccome smanie d’inferno; e finga e stimola come con fiaccole e con facelle di fuoco. Fortis est ut mors dilectio, dura sicut ìnfernus æmulatio, lampades eius, lampades ignis atque flammarum. (Cant. VIII, 6.) Guardate i Martiri. Una scintilla di questo fuoco che li scaldava bastò a farli presti alle cataste, alle mannaie, alle ruote, e nei tormenti e nella morte esultarono come nel giubilo di una festa, e nella gloria di un trionfo. Guardate gli Apostoli e tanti uomini che agli Apostoli si somigliarono: questo fuoco beato che li scaldava, li portò in paesi remoti, barbari, inospiti, tra fame, sete, pericoli, nudità, trafitture: che pretendevano? Di travasare nei petti altrui la fiamma che ardeva nei loro, e la morte pareva loro nulla, purché inducessero un popolo, una città, un’anima a conoscere ad amare Gesù. Guardate i Santi. Mansueti, umilissimi, pacifici, rassegnati, pazienti; ma ad un patto che non si toccasse il loro Dio; se Dio era vilipeso diventavan leoni, il nome di peccato li facea tramortir per orrore della creatura ardita insorgere contro il Creatore, e avvampavano di zelo, e affrontavano ogni fatica, e incorrevano ogni cimento per impedire un peccato. – Ora di Maria ci dice Idelfonso che: velut ignis ferrum, Spiritus Sanctus totam decoxit, incanduit, et ignivit; ita ut in ea tantum Spfritus Sancii fiamma videretur, nec sentiretur nisi tantum ignis amoris Dei. La fiamma dello Spirito Santo tutta, come il fuoco fa il ferro, la investì, la penetrò la infuocò, e non pareva umana cosa, ma fuoco vivo, né innamorata la avresti detta da mero e purissimo amore. Con quella cognizione pertanto che aveva sublimissima della dignità del Verbo incarnato, con quell’amore che verso il Verbo incarnato, viscere delle sue vincere, le cuoceva l’anima, considerava Maria, come ogni eccellenza non solo umana ma angelica era meno che fango rispetto a Gesù; e che era giusto, era degno che tutto il genere umano gli soggettasse la testa come a Signore, e che un oltraggio un’offesa alla dignità di quella persona era tal abisso di perfidia e di male che meno sarebbe stato andare in fasci l’universo, e tutti gli uomini come frutta vizze ed abominevoli essere scrollati all’inferno. Con questo sublimissimo intendimento della dignità di Gesù con quella riverenza di amore, onde aveva per Lui pieno il petto, lo guardava sovente, e tremava davanti quella divina Persona e si sentiva annichilare davanti a Lui, e avrebbe voluto gittarglisi prostesa bocconi e adorarlo con la fronte per terra, e si riputava indegna non dico di averlo in conto di figlio, ma di fissargli gli occhi in fronte e di profferirne il nome. Pure se fissava gli occhi in volto a Gesù, vedendo quella dolce mestizia che nel sembiante dell’uomo dei dolori abitualmente si diffondeva, le soccorreva alla memoria il ricambio che otterrebbe dagli uomini questa smisuranza di carità. Persecuzioni, bestemmie, tradimenti, abbandono, deicidio, peccati senza fine né modo, ecco come gli uomini tratteranno quel Dio che ha preso carne umana per la loro salute. E chi può dire che lancia di dolore, che fiaccola di zelo doveva destarsi in petto a Maria. Ahimè se una Maddalena dei Pazzi al solo nome di peccato mortale che altri pronunziasse davanti a lei, si vedeva impallidire. Tremare, dibattersi, languire e cader come morta sul pavimento; che sarà stato di Maria, di Maria alla quale il cospetto e la vista di Gesù le diceva l’orrendo deicidio, che avrebbero consumato gli uomini in quel suo caro che li voleva salvare? Ah! ben disse Bernardino di Siena, che come tiene dell’infinito la dignità di Madre di Dio, così dell’infinito dovette tenere come l’amore che portava a Gesù, così il dolore che l’anima le lacerava. Quanto plus amabat. tanto plus dolebat, et amor non quem ipsa  portabat Christo eius unigenito Filio erat infinits.

3. Or questo fuoco misterioso di amore pel quale la natura e la grazia, quasi due fiaccole, si mescevano nel cuor di Maria e si intrecciavano in un’unica fiamma, come crebbe, come s’ingigantì per la lunga consuetudine di tanti anni, e come alla misura medesima dell’amore si fè gigante anche il duolo e l’ambascia. Lo sanno le madri quanto quel tenere continuo fra le braccia i lor pargoletti e il nutrirli e il procurarli ed il logorarsi nelle mille sollecitudini che esige la fievolezza di quella età, accresca nei loro petti l’amore: che dico lo san le madri? Anche quelle prezzolate nutrici, che per guadagno tolgono ad allattare gli altrui figliuoli, per quel comunicare che fanno ad essi stemprato in latte il loro sangue medesimo, si vengono a poco a poco infiammando verso il pargoletto che nutriscono di tanto amore, che venuto il tempo di renderlo alla legittima madre si vedono piangere e urlare per impeto di materna pietà, e sembra che si svelga loro il cuore dal petto; or che diremo di Maria? Aveva quest’unico Figlio, che senza opera di Padre s’era ingenerato in Lei di Spirito Santo, della sua sola sostanza. Lo aveva allattato Ella sola ubere de cœto pleno, empiendole miracolosamente il seno il Signore con latte di Paradiso. Quel che può patire una madre povera, disagiata, sprovveduta di tutto lo aveva Ella patito per Lui. Lo aveva veduto spargere il sangue sotto il ferro della circoncisione, perseguitato fin dai primi giorni del viver suo lo aveva trafugato in Egitto, e ricondotto in Giudea con tanto suo rischio, di giorno in giorno se lo era veduto crescere in casa, pieno di grazia e di Spirito Santo, delizia di Dio e degli uomini, chi può dire come a misura dell’età e della persona di Gesù, cresceva l’amore nel cuor della Vergine? Chi può dire a che termine fosse giunto quando all’età dei dodici anni dopo tre dì di ansietà dolorose lo vide nel tempio disputar coi dottori, e a casa lo ricondusse? Eppur lo vedeva garzoncello umile e industrioso, usare verso di Lei tutti quei gentili riguardi che ben nato figliuolo suole a madre diletta, e andar e ad un suo cenno e venire, e la mano divina dechinare a lavori da artigianello, e solamente alla giazia, alla sapienza, alla soavità, al decoro degli atti e delle parole palesarsi quello che era l’Unigenito del Padre. Domandava Ella allora a se stessa; perché tanto eccesso di degnazione in un Dio, e chi incatena in questa umiltà terrestre il Signore e il gaudio del Cielo? E si sentiva rispondere. Propter nimiam charitatem suam: l’amore, l’amore è la catena che lo costringe, l’amore onde si strugge pei figliuoli degli uomini. Che cuore fosse poi il tuo o Maria, e quando il tuo Figlio fioriva dei primi onori di gioventù, adolescente ventenne, e quando la gioventù si maturava in gravità virile all’età di trent’anni, e lo vedevi sempre umile, sempre soave, sempre tenero, affettuoso, obbediente, sollecito pendere dai cenni tuoi e di Giuseppe, qual lingua è che lo possa ridire? Ma ahimè, che la età crescendo, l’amore accumulava il tormento; imperocché ogni giorno, ogni mese, ogni anno erano tanti passi verso i tribunali di Gerusalemme e il Calvario, verso la croce e la morte. E chi può dubitare che ogni giorno, ogni mese, ogni anno non infiggesse la fiera spada sempre più dentro al cuor di Maria? Ecco, doveva dire questa desolata, ecco il mio Gesù cresce in età, dunque si avvicina il tempo funesto; dieci, otto, cinque anni ancora e questo benissimo di tutti i figliuoli degli uomini fatto verme e non uomo, obbrobrio degli uomini ed abiezione della plebe, penderà agonizzante fra cielo e terra dal suo patibolo, e più dei tormenti lo funesteranno le grida incondite della procace plebe, lo scherno diabolico dei sacerdoti sacrileghi, l’odio presente e la ingratitudine futura degli uomini. E qui vinta e trafitta da questo pensiero, o uomini, credo io che gridar dovette nei recessi del cuor trafitto, o uomini venite qua e vedete il mio Figlio, e sappiate che Dio l’ha dato a me, e io l’ho partorito, allattato e cresciuto per la vostra salute. E perché vedo nei vostri cuori covar consigli spietati, perché fremete contro questo agnello, perché gli macchinate la morte? Che vi ha fatto, dite su, che vi ha fatto, rendete ragione alla povera madre dei vostri furori o trafiggetela insieme col figlio. O Martire, anzi Regina dei Martiri, no veramente no, non v’ha dolore che al tuo si pareggi e grande come il mare è la tua contrizione.

4. E per quanto fu in questa stretta, in questa oppressura il cuor di Maria? Per oltre trent’anni. Per oltre trent’anni sempre martire nel profondo dell’anima, ma di martirio arcano e recondito, e Dio solo era testimonio degli amorosi gemiti di questa colomba, né fuor del cuor di Gesù aveva un cuore che si risentisse ai suoi palpiti. Ma alla immaginazione successe finalmente lo sperimento, e come per Gesù la vita di dolore terminò sulla croce, così sul Golgota si consumò in olocausto alla giustizia di Dio il martirio del cuor di Maria, e i dolori che in espettazione la lacerarono tanti anni divennero realtà e la conquisero in opera. Povera Madre, caro le costò l’aver per figliuolo la gran vittima nata a espiare i peccati di tutto il mondo e a gran prezzo pagar dovette il divenir corredentrice degli uomini. Imperocché nata a ritrarre in sé i dolori e le pene di Gesù lontana col corpo, lo vide in spirito pieno di paura, di tristezza, di tedio entrar nel Getsemani, lo vide piegarsi orando con la faccia per terra al cospetto del Padre e inorridire per apprensione del calice che gli soprastava, udì la gran preghiera perché quel calice fosse rimosso da Lui, lo vide sudar vivo sangue, e di quel sangue che era il sangue che aveva derivato da Lei inzupparsi le vesti e il terreno, lo vide traboccato per terra nell’agonia in abbandono d’ogni soccorso, non aver in sostegno neppur le mani degli Apostoli che dormivano, vide tra le tenebre a maniera di lupi inoltrar gli armati, e al chiaror delle fiaccole e delle lanterne trarre innanzi il perfido Giuda, lesse nell’anima fella il nero disegno, udì lo scoppio del bacio infame, vide irrompere la sbirraglia, e catturarsi Gesù, e accompagnò coll’anima in Gerosolima Gesù legato, e udì le strida e gli urli della infellonita plebaglia, e di tribunale in tribunale lo accompagnò, lo vide condannato per bestemmiatore, abbandonato allo strazio di soldatesche furenti, posposto a un ladro, vestito da pazzo, dilaniato dai flagelli, incoronato di spine, dannato a morte, e col carico della croce in spalla muovere alla volta de1 Golgota. È qui fu quando le risuonò nel cuore il comando dell’Eterno Padre che, “donna, le disse, donna al Calvario”. Sorse, credo io, la magnanima a quel comando, compose il sembiante a una costanza sovrumana, alzò gli occhi al Cielo, e gran cose disse, grandi offerte rinnovellò al Signore con quell’occhiata ed andò. Andò e non è né lingua né penna che ridir possa quel che provasse in quella andata, come non è umana cosa che una Madre, volendo Dio, fosse messa a quel gran cimento. Una madre come Maria va a veder morire confitto sopra una croce un figlio unico carissimo e un Figlio Dio. Lo scontrò, dicono, per la via e lo vide, ma qual lo vide? Trafelato, ansante, angosciato sotto il peso della sua croce, ascendeva Gesù l’erta del monte, e non gli pareva più quello, dopo tanto martiro: portava ancora infitta sul capo la corona delle spine, e il sangue gli scorreva per il viso, tutto macero ed affilato pei patimenti; una turba infellonita e baccante lo circondava, e sfogava il furore sul Nazareno con le contumelie e con le bestemmie: camminava lento al desiderio di quei carnefici l’addolorato Gesù, ed essi con urti e sospinte lo stimolavano, ed Egli umile e paziente saliva; ed ecco che Maria lo raggiunse ed oh! che percossa fu quello scontro a quei cuori: guardò Gesù con un profondo gemito dell’anima, e Gesù guardò Lei, e che dissero quelle occhiate, chi può ridirlo? Vedono intanto le turbe la mestissima donna e la segnano a dito, e la insultano di spietata: cuore, gridano, non di donna né di madre, ma di macigno, viene a vedere il supplizio, la carneficina del figlio. Niente smossa per questo dal suo proposito la donna forte, guadagnò finalmente, seguitando Gesù, la cima del monte. Giungere Gesù e scagliarglisi addosso come tigri i carnefici, e spogliarlo delle vesti, e traboccarlo sulla croce, e tendergli le mani e i pedi, e appuntare i chiodi, e dar di mano ai martelli fu un punto solo. E tutto vede, tutto sente Maria: quello stirar delle braccia, quel trar dei piedi sono strappate mortali al suo cuore: quei colpi son lanciate mortali al suo petto; quei chiodi gli entrano con la punta inesorabile nell’anima; vede squarciate le mani e i piedi di Gesù, geme per dolore, e si tinge di pallore mortale e trambascia, vede dalle mani squarciate e dai piedi zampillare una larga vena di sangue, e del sangue sacrosanto del Verbo tingersi le luride mani e le vesti dei manigoldi e inzupparsi croce e terreno. E non mette un grido quell’anima forte, e dura e sostiene a quello spettacolo, e col sangue di Gesù offre all’eterno Padre per noi l’agonia del suo cuore. Ed ecco la carneficina è compiuta, ecco che robuste mani sollevano il Crocifisso, e si presenta la croce alla apprestata buca, già scende, crolla, ed è ferma. – Oh! come all’urto, alla scossa crosciano l’ossa di Gesù, che gemendo a quello sbalzamento atrocissimo, Padre, esclama, Padre, perdonate loro perché non san quel che fanno, e un grido delle turbe come di mare in tempesta saluta la comparsa del Crocifisso. E Maria ode il crosciar delle ossa, e la preghiera divina, vede al peso della persona dilatarsi e squarciarsi orribilmente le piaghe, e il sangue diluviare a torrenti; ascolta i fischi, le bestemmie e gli applausi dei Giudei infelloniti, e chi grida: ecco colui che distrugge il tempio di Dio e lo rifabbrica in tre giorni, e chi provocandolo con disfida sacrilega: se sei figlio di Dio. gli dice; scendi dalla croce e noi ti crediamo: e chi lo insulta con ischerno bestiale, ha salvato gli altri, dicendo, e non può salvar se medesimo. Vede ed ode tutto Maria: è madre, e non scoppia per duolo? No, dice S. Giovanni. Stàbat iuxta crucem lesu Mater ejus. (Io. XIX, 25.) Sorgeva in mezzo tra due ladroni il Crocifisso e pioveva sangue e penava in dura agonia; una turba smisurata di popolo lo circondava sfogandosi in insulti e bestemmie. A pie’ della croce insieme col prediletto Giovanni stava Maria. Stava piena di morte gli occhi ed il volto, e agonizzava penante, ma non faceva motto, ma durava: solo a quando a quando per impeto di amore sollevava le pupille al suo diletto per rimirarlo, ma subito per soprassalto di ambascia le atterrava. Si scontravano talvolta gli occhi della Madre in quei del Figliuolo ed oh! che guardarsi era quello, e che dicevan quelle occhiate! Tutta la passione di Gesù e l’agonia era passione ed agonia di Maria, e quel cuore materno era l’altare dove l’olocausto si consumava. Tre ore durò Gesù sulla croce: e tre ore la dolorosa Madre sostenne il martirio di quello spettacolo; e vide i carnefici spartirsene fra loro le vestimenta, udì Gesù sitibondo chiedere ristoro alle arse fauci, e avere aceto e fiele per acqua, lo vide condotto all’estremo tra per lo peso dell’iniquità degli uomini e per l’inesorabil decreto della giustizia di Dio. e fra le tenebre orrende che ravvolsero il mondo udì il Figliuolo querelarsi al Padre. O Dio, Dio mio, gridando, perché mi hai tu abbandonato, e incalzato e stretto dall’agonia: Padre, esclamare, nelle tue mani raccomando lo spirito mio, e mettere un grido altissimo, piegare il capo e spirare. Traballò allora per terremoto la terra, si scosse il monte, i sepolcri si scoperchiarono e la natura tutta gemette, ma salda e immobile a pie’ della croce Maria, martire già e più che martire non si levò finché non raccolse fra le sue braccia la salma del suo Gesù. O povera Madre nostra, sostieni alquanto in pace il tuo duolo, che volgerassi in giubilo risorgendo Gesù. Ma io intanto voglio metter fine al mio dire con conclusione di giubilo, ricordando che nel Calvario guadagnammo una Madre, e questa Madre è Maria. Imperocché pendeva Gesù dalla croce, quando veduto a pie di quella con la sua Madre Giovanni. Donna, disse alla Madre, accennando Giovanni, ecco il tao figlio, e a Giovanni, ecco la Madre tua. O che coltello furono queste parole per te: che duro cambio, Gesù con Giovanni, il Figlio di Dio coi figliuoli degli uomini. Ma noi esultiamo figliuoli del tuo dolore, e con fidanza filiale congratulandoci con te Imperatrice del Cielo, o Maria Regina dei martiri, ti diciamo, prega per noi.

5. Dopo quel poco che ho detto dei dolori della dolce Madre nostra Maria, pare a me di poter ricondurre il discorso là onde prese le mosse, e domandarvi fidatamente se dopo Gesù si sia mai trovata un’anima più addolorata dell’anima di Maria. Che dico domandarvelo io? È Maria medesima che ve ne domanda. O vos omnes qui transitis per viam, attendìte et videte si est dolor sicut dolor meus. (Thren. I , 12.). O voi tutti quanti siete che trapassando mi riguardate fra tante pene, ponete e vedete se ci è dolore che al mio pareggi. No, nessun dolore, ci risponde il cuor nostro, si pareggia a quel di Maria, e veramente magna est velut mare contritìo tua, (Thren. II, 12.) l’angoscia che la tormenta a somiglianza di un mare non ha misura. Ma se così è sarà troppo chiedere chi domandi che amiamo Maria, poiché patì tanto cooperando alla salute del mondo, e, che è il medesimo, patì tanto per noi? Ma oltre a questa un’altra conclusione voglio che deduciamo dalla vista della Regina dei martiri, ed è la seguente. Ecco la creatura più santa che sia stata mai o possa essere, la più nobile, la più privilegiata, la più sublime, la più prossima, la più diletta a Dio siccome Colei, che con Dio medesimo tien grado di Figliuola, di Sposa, di Madre. Or qual è il modo che il Signore tiene con Lei per tutto il tempo che Ella trascorre pellegrina su questa terra? Fu vita di oscurità, di travaglio, di povertà, di abbiezione, di dolori e di pene, e chi consideri il tenor dei suoi casi direbbe che non fosse sollevata a quella dignità sublimissima per altro che per patire. Gran cosa! Chi la vedeva, non vedeva altro che un’umile donna, né credeva che meritasse più onore di quello che si doveva alla umile sposa del fabbro di Nazaret, eppure dopo Dio non ci era altezza maggiore, e le regine che cingevan diadema erano nulla di fronte a Lei. Dunque né le grandezze di guesta terra sono vere grandezze, né vere abbiezioni sono le abbiezioni di quaggiù. Vera grandezza è la grazia, vera ed unica abbiezione è il peccato: né è misero chi è tribolato da Dio in questa terra, misero è chi è Che è stato di tante regine, imperatrici, matrone, che mentre Maria si ascondeva nella casetta di Nazaret pompeggiavano fra l’oro e le gemme, insuperbivano fra l’incenso delle adulazioni, e il codazzo dei cortigiani e levavano vanto di podestà e di bellezza. Aprite le loro tombe, e stringete qui fastello putrido d’ossa, e quel pugno di ceneri: ecco quel che resta di loro su questa terra; e questo medesimo, se pur resta, è ignoto e giace sotto le glebe, o si confonde con l’ossame del volgo. Ma Maria l’umile, la tribolata, la dolorosa, dov’è Maria? Apritevi agli occhi nostri o gaudi del Cielo, e tu rivelati e mostrati o reggia del Re dei re. Lassù dove il gaudio è più sincero, dove è più viva la luce, lassù presso al trono di Dio sorge ricinto di splendori divini il soglio della Regina dei Martiri. Vedetela vestita di sole, col disco della luna soggetto ai piedi, incoronata di stelle esser salutata dalla resta e dal plauso dei Santi e riverita dall’omaggio della terra e del Cielo. – Così si onora chi per Gesù e con Gesù è tribolato e patisce. O  beata croce di Gesù sei pesante, sei amara è vero su questa terra, ma duri poco, e poco durano ancora le false gioie di quaggiù. Ma il poco amaro seconda una gioia eterna, alla poca gioia succede l’interminabil tormento. A te dunque mi appiglio o croce diletta cui si apprese Maria, e con te, è in te voglio vivere, e in te morire e con te.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.