CONOSCERE SAN PAOLO (3)

CONOSCERE SAN PAOLO (3)

[F. Pratt, S. J.: la Teologia di San Paolo; S. E. I. Ed. Torino, 1945]

Corrispondenza con Tessalonica (1).

I. LE LETTERE DI PAOLO.

1. CARATTERI GENERALI. — 2. LETTERE O EPISTOLE? — 3. LO STILE DELLE LETTERE.

1. Le due Epistole ai Tessalonicesi, scritte verso l’anno 6, durante il secondo viaggio apostolico, notano il passaggio dall’insegnamento orale, semplice e familiare, alle controversie dommatiche delle lettere maggiori. – Affettuoso, cortese, delicato, pieno di vivacità, di abbandono, di fine ironia, con quel potere istintivo d’insinuarsi nello spirito degli altri, di comprendere e di dividere le loro gioie e le loro pene, che giustamente fu chiamato il dono della simpatia, Paolo era meravigliosamente adatto allo stile epistolare. Senza studio e senza ricercatezza, egli si è creato un genere in cui la spontaneità e la naturalezza si uniscono bellamente con la profondità del pensiero e con la forza della dialettica. Quello che più si ammira è l’unione, nella stessa pagina e nella stessa frase, delle più sublimi lezioni di teologia con le applicazioni più familiari della vita ordinaria. Non si trova nulla di simile nella letteratura classica, come si può ben vedere confrontando il biglietto a Filemone con una lettera scritta da Plinio il Giovine su un argomento quasi identico e in circostanze simili (Plinius Sabiniano, Epist. IX, 21). Il confronto riesce tutto a onore dell’Apostolo. Come appaiono aride e rigide le formole di saluto in uso presso i Greco-romani, vicino alle formule corrispondenti, così sciolte, così varie, così poco convenzionali, delle lettere di Paolo! Per trovare qualche cosa che somigli da lontano alla maniera dell’Apostolo, bisognerebbe piuttosto consultare i papiri recentemente esumati dalle sabbie egiziane. Tutte le sue lettere hanno un pronunziatissimo sapore di famiglia. L’ordine è quasi sempre lo stesso: soprascritta solenne, assai caratteristica, elogio dei destinatari in forma di ringraziamento, esposizione dell’argomento con prova conforme, raccomandazioni morali, augurio finale e benedizione, di pugno dell’Apostolo. – La soprascritta non si deve confondere con l’indirizzo il quale si scriveva a tergo, in modo da restare visibile quando la lettera era chiusa e sigillata. Siccome questo non aveva speciale importanza, perché era sviluppato nella soprascritta interna, non fu trascritto. I titoli che esse portano attualmente, per quanto antichi, non rimontano a San Paolo. La soprascritta comprende tre elementi che si seguono in questo ordine: nome e qualità dei corrispondenti; nome, titoli e meriti dei destinatari, e auguri a questi ultimi. Paolo si dà abitualmente il titolo di Apostolo (eccetto in Tess. I e II, Fil. e Filem.) e unisce quasi sempre con sé dei compagni, Timoteo, Silvano o Sila, Sostene, tutti fratelli che sono con lui. Quando esse non sono interamente personali, come sono le Epistole a Tito e a Timoteo, sono indirizzate a una chiesa particolare, o ai membri di una chiesa, o a una chiesa e ai suoi membri, o ai fedeli e al clero, o a ima chiesa locale e a tutti i cristiani della provincia e anche del mondo intero, oppure a particolari nel tempo stesso che alla chiesa locale. Anche nelle lettere personali vi è un saluto per la chiesa. Eccetto l’Epistola ai Galati, la menzione dei destinatari, collettivi o individuali, è sempre seguita da una parola di elogio o da epiteti onorifici. Paolo augura a tutti la grazia e la pace; le due lettere a Timoteo vi aggiungono la misericordia. L’esordio è un atto di ringraziamento oppure una specie di dossologia. Si spiega l’assenza di questa formula nell’Epistola ai Galati, per lo sdegno dell’Apostolo. Il tono familiare delle Pastorali può anche spiegare l’esordio ex abrupto nell’Epistola a Tito, nella prima a Timoteo. Al ringraziamento vanno unite alcune parole di elogio ai destinatari, alcuni ricordi del passato, certi particolari su le circostanze presenti, o liete o tristi, poiché per lui tutto è motivo di ringraziamento. Qualche volta il ringraziamento si prolunga tanto da occupare l’intera lettera e da farne come lo sfondo (I Tess.); altre volte invece ne è nettamente separato (I e II Cor., Fil.); per lo più finisce con confondersi nell’argomento principale a cui esso porta insensibilmente. – Il corpo della lettera varia naturalmente secondo la differenza degli argomenti che si trattano. Quando è una tesi, viene enunziata da principio dopo l’esordio (Rom., Gal., Eph.), e lo sviluppo segue metodico e regolare nelle Epistole ai Romani e ai Galati. più libero e più oratorio nelle Epistole agli Efesini e ai Colossesi. Le lettere a tesi presentano questa particolarità, che la morale è separata dal dogma, in modo che la divisione è binaria; mentre le lettere di argomento multiplo non si possono dividere secondo questo principio, essendo la morale multipla come il dogma. Aggiungeremo che in parecchie Epistole la divisione è poco marcata o non esiste affatto, il che non deve fare meraviglia, poiché in fin dei conti una lettera non è altro che una conversazione scritta. La conclusione incomincia generalmente con comunicazioni personali, con notizie di carattere intimo, seguite da una raccomandazione in favore del messaggero. Poi viene ordinariamente una lista più o meno lunga di saluti. In quel momento Paolo prende egli stesso la penna e vi aggiunge alcune parole o alcune frasi di suo pugno, quasi come firma. Si può prendere come esempio tipico l’Epistola ai Colossesi; ma ciascuna ha le sue particolarità degne di osservazione.

2. Gli scritti di San Paolo sono lettere o epistole? La questione può parere strana, ma non è priva d’interesse né d’importanza, così per l’esegeta come per il teologo. La lettera è una conversazione a distanza; un epistolografo dell’antichità la definisce assai bene: « Uno scritto il quale esprime a una persona assente ciò che le si direbbe se fosse presente ». Tolta la lontananza, la lettera non avrebbe più ragione di essere, perché una visita la sostituirebbe. – Quello che la distingue dall’epistola non è la lunghezza, poiché vi sono conversazioni lunghissime; non è l’argomento, poiché una conversazione può svolgersi intorno alle questioni più serie; non è lo stile, perché certe persone hanno naturalmente un tono oratorio e un linguaggio forbito; non è il fatto che non viene pubblicata, poiché vi sono epistole destinate dai loro autori alla pubblicità, che non hanno mai veduto la luce, mentre certe lettere esimiate recentemente dalle antiche città egiziane, ebbero l’onore di una pubblicità che i loro autori non si aspettavano davvero. Ciò che distingue la lettera dall’epistola, è che l’epistola è una composizione destinata al pubblico, e la lettera è una comunicazione intima e privata. – Non si deve pensare che gli antichi fossero meno gelosi di noi nell’assicurare il segreto delle lettere: i Romani sigillavano col piombo, con la pece o con la cera, le estremità della cordicella che legava le loro tavolette, per sottrarne il contenuto agli sguardi indiscreti; i Greci spingevano talora la precauzione fino a introdurre il legame attraverso i giri del rotolo di papiro, che non si poteva più svolgere senza lacerarlo; gli abitanti della Caldea e dell’Assiria chiudevano le loro corrispondenze in una busta di argilla che, indurita al fuoco, si doveva poi rompere col martello. Qualunque vera lettera è per sua natura segreta e, benché sia del destinatario, questi non ha mai il diritto di pubblicarla mentre è ancora vivo il suo corrispondente, o senza il suo permesso. Le lettere fittizie non sono lettere, e neppure le lettere pubbliche: le lettere poi dette aperte sono così poco lettere, che non sempre si prende la pena di mandarle al destinatario. Ma tra questi generi estremi vi sono infinite gradazioni: vi è la lettera circolare, qualche volta così vicina alla lettera, che appena se ne distingue: vi è la lettera collettiva che molto si avvicina all’epistola; vi è la lettera in cui l’autore non intende di restringere ad un solo lettore il benefizio della sua composizione e mira ad un pubblico più esteso, oltre al destinatario effettivo; vi è finalmente la lettera di cui si prevede la divulgazione, e che perde tanto più il suo carattere intimo, quanto più l’autore è preoccupato dal pensiero di un pubblico indeterminato, e Cicerone osservò molto bene questo fenomeno psicologico. Chi può dubitare che la preoccupazione di lettori estranei non abbia qualche volta fatto deviare la penna dei più celebri epistolografi? Le loro lettere sono epistole nella misura in cui si presenta al loro pensiero l’immagine di un pubblico possibile. Ad uno di questi generi intermedi appartengono tutte le lettere di Paolo. Che cosa manca a quella pagina incantevole che è il biglietto a Filemone, per essere una lettera in tutto il rigore del termine? Che cosa vi può essere di più familiare, di più personale, di più vivo? Paolo vi appare come amico, come padre, più che come apostolo. Eppure se si osserva più da vicino, egli associa a Filemone non soltanto Appia e Archippo che possono essere della famiglia, ma tutta la comunità cristiana (Fil. 2); è dunque una lettera collettiva. Così l’Apostolo passa con tutta naturalezza e senza pensarci, dal singolare al plurale: « Preparami un alloggio, perché spero di essere presto restituito a voi (Fil. 22) ». Egli non avrà creduto necessario il chiuderla e dovette consegnarla aperta nelle mani di Onesimo che non poteva ignorarne il contenuto. – Le Pastorali sono lettere amministrative che Paolo scrive in virtù della sua autorità apostolica, e in esse parla ai suoi delegati come un superiore ai suoi mandatari. Forse esse contenevano particolarità troppo intime per essere lette interamente alla chiesa, in presenza dei principali interessati, ma è certo che Paolo, nel suo pensiero, unisce sempre a Tito e a Timoteo le comunità cristiane di cui essi hanno temporaneamente la cura. Dimenticando talora che si rivolge a un solo corrispondente, generalizza i suoi avvisi e i suoi ordini; saluta direttamente la chiesa di Efeso e quella di Creta; passa con somma facilità dal singolare al plurale: « La grazia di Dio sia con voi (II Tim. IV) », oppure: « con tutti voi (Tit. III, 15) ». Se questo non basta per togliere alle Pastorali il carattere di vere lettere, dimostra almeno che l’Apostolo, o predichi o scriva, augura sempre alla sua parola la massima diffusione, che le sue comunicazioni non sono di ordine esclusivamente privato e che, ben lungi dal fuggire la pubblicità, la cerca quanto può. – Le lettere ai Tessalonicesi, ai Galati e ai Filippesi, hanno questo di comune con il biglietto a Filemone e con le Pastorali, che devono cioè la loro esistenza ad un bisogno passeggero dei destinatari e che non sarebbero state scritte, se Paolo si fosse potuto recare personalmente dai suoi neofiti. Sotte questo aspetto esse sono vere lettere; ma se ebbero in origine un carattere personale, non hanno nulla di segreto. L’Apostolo prevede che esse circoleranno, e non vi si oppone affatto; sapendo che le lettere passano da una mano all’altra (II Tess. II, 2), ha cura di premunire i fedeli contro i falsari e previene le frodi con mandare un saggio della sua scrittura (II Tess. III, 18); ma non gli viene l’idea di impedire quella divulgazione che egli anzi desidera. – Per la natura del loro contenuto, quelle indirizzate ai Corinzi e ai Colossesi parevano non dover uscire da queste chiese. In esse egli riprende severamente i colpevoli, corregge i disordini di Corinto con un rigore di cui fu tentato di pentirsi, condanna senza riguardi gli errori dei Colossesi. Intanto esige che la lettera mandata ai fedeli di Colossi, sia comunicata ai cristiani di Laodicea, i quali in cambio manderanno quella di cui sono depositari (Col. IV. 16). Le lettere di Paolo circolano mentre egli è ancora vivo — e per ordine suo — nelle altre chiese. Potevano forse i Corinzi tenere esclusivamente per sé le lettere destinate « ai santi di tutta l’Acaia (II Cor. I, 1) », oppure, oltre i confini della Grecia, « a tutti quelli che invocano il nome di Nostro Signor Gesù Cristo, in qualunque luogo? (I Cor. I, 2) ». Se la lettera è tanto meno lettera, quanto più è indeterminato il destinatario e meno personale l’argomento della corrispondenza, quella di Paolo ai Romani si dovrebbe chiamare piuttosto epistola. Paolo scrive a una chiesa che conosce appena di fama e, se si eccettua il motivo di preparare il terreno per un prossimo apostolato, non si vede perché esponga ai Romani, piuttosto che ad altri, la sua tesi su la giustificazione e su le relazioni fra la Legge e il Vangelo. Come circolare, l’Epistola agli Efesini è ancora più impersonale, e sono più indeterminati i suoi destinatari. Per sentire la differenza che passa tra questi due generi di scritti, basta confrontare tra loro le Epistole ai Romani e ai Galati da una parte, e le Epistole agli Efesini e ai Colossesi dall’altra. Paolo suole scrivere in principio delle sue lettere i nomi dei suoi compagni di apostolato, e questo fatto non è senza importanza nella presente questione: egli depone il suo carattere personale e privato nelle sue corrispondenze, e le trasforma, per così dire, in documenti semiufficiali, suscettibili di una pubblicità sempre maggiore. Non già che bisogni dare troppa importanza all’uso del plurale invece del singolare. Se la teoria secondo la quale Paolo, quando parla di sé al plurale, si associa sempre mentalmente o i cristiani in generale o i suoi compagni di apostolato, è insostenibile, ci vogliono però prodigi di sottigliezza — e di una sottigliezza di cattiva lega — per scoprire in quei « noi » l’intenzione di darsi del tono o qualche altra intenzione speciale: è semplicemente una figura retorica così comune nei contemporanei letterati e illetterati del grande Apostolo, che aveva perduto qualunque significato particolare. Al termine del nostro esame, abbiamo il diritto di conchiudere che tutti gli scritti di Paolo sono vere lettere, realmente mandate ai loro destinatari per supplire l’assenza dell’Apostolo e per provvedere a necessità più o meno urgenti. Ma tanto nell’intenzione dell’autore, quanto aghi occhi dei suoi corrispondenti, non erano fatte per rimanere la proprietà esclusiva di una famiglia o di una chiesa; esse dovevano prolungare nel tempo e nello spazio la predicazione di Paolo; erano epistole che le comunità cristiane si facevano premura di raccogliere, e che ben presto presero l’abitudine di leggere pubblicamente nelle riunioni liturgiche.

3. Queste Epistole di una fisonomia così precisa, sono scritte in uno stile ancora più personale. Generalmente i Padri danno ragione all’Apostolo, quando egli dice di non possedere l’arte di una bella lingua: imperitus sermone. Sant’Ireneo gli rimprovera degli iperbati; Origene, delle frasi oscure; Sant’Epifanio, dei periodi intricati; San Gregorio Nisseno, l’uso di parole disusate o adoperate in significato che non è il loro ordinario; San Giovanni Grisostomo, trascuratezza di stile; San Gerolamo, parole improprie, cilicismi e anche solecismi. E Bossuet li riassume tutti quando scrive nel suo celebre Panegirico: « Andrà questo ignorante dell’arte del dire, con la parola rozza, con la frase che sa di forestiero, andrà in quella Grecia raffinata, madre di filosofi e di oratori; e nonostante la resistenza del mondo, egli solo vi fonderà più chiese, che non siano stati i discepoli guadagnati da Platone, con quell’eloquenza che fu creduta divina. Egli predicherà Gesù in Atene, e il più saggio dei suoi senatori passerà dall’Areopago alla scuola di quel barbaro ». Ma vi è anche il rovescio della medaglia: San Gerolamo vanta la forza, l’energia, i tuoni di Paolo; Sant’Agostino, la sua calda eloquenza; San Giovanni Grisostomo, il suo fascino e la sua potenza persuasiva; lo stesso pagano Longino, la sua passione oratoria e il vigore della sua dialettica. Nello stile, in senso largo, entrano tre elementi: il lessico, la grammatica e la composizione. È noto che il vocabolario di Paolo è anzitutto biblico. Le parole estranee alla lingua dei Settanta, sono per lo più di origine popolare. San Gerolamo le chiamava cilicismi perché, non avendole trovate nei suoi autori, a torto le credeva proprie del territorio della Cilicia; ma un certo numero di esse furono recentemente trovate nei papiri o nelle iscrizioni di quel tempo, e quanto più si spingeranno innanzi tali ricerche, tanto più si accorcerà la lista dei termini di cui si attribuiva finora il conio agli scrittori sacri. Questi non cercavano di creare vocaboli nuovi che non avrebbe compreso nessuno, ma traevano il maggior partito possibile dalle parole usuali e, occorrendo, davano loro nuovi significati. Rivolgendosi al popolo, adoperavano il linguaggio del popolo, e quel linguaggio era ricco, pittoresco e gustoso. – Si è rimproverata a Paolo « ima singolare povertà di espressione »: giudizio troppo sommario e contradetto dai fatti. Nessun altro scrittore del Nuovo Testamento dispone di un vocabolario così esteso. Si sa che egli accumula volentieri i termini quasi sinonimi di cui vuol mettere in rilievo le diverse sfumature; cerca anche le assonanze, le paronomasie, le antitesi, il che suppone un autore interamente padrone della sua lingua. Le frequenti ripetizioni di parole, non sono una prova di povertà, ma è questo un procedimento dialettico od oratorio voluto e pensato, per fissare l’attenzione e per meglio scolpire il pensiero nella mente del lettore. – Certamente la sua sintassi non è la sintassi classica. Se i solecismi propriamente detti vi sono affatto eccezionali, gli ebreismi, pure meno numerosi di quanto si è preteso, non sono tuttavia rarissimi. Ma le sue lettere sono piene di anacoluti, cioè di periodi incompiuti o che si compiono prendendo una piega diversa (Rom. II, 17-21; V. 12-14; I Cor. XIV, 21, Gal. II, 6, etc.). Si devono notare due curiose particolarità: le serie di incidenti che sovraccaricano la frase, rompendo a ogni istante il filo del discorso; e soprattutto le costruzioni di genitivi articolati, in cui il rapporto esatto di ciascun genitivo con la parola che precede, rimane alquanto oscuro. Molte di queste negligenze si spiegano con l’improvvisazione. Paolo non scriveva egli stesso le sue lettere, e l’abitudine di dettare era allora così comune, che « dettare » significava comunemente « comporre ». Certe allusioni degli antichi, ci farebbero credere che la fatica materiale dello scrivano era considerata come incompatibile col lavoro mentale. L’Apostolo seguiva tale usanza che la sua debolezza di vista rendeva per lui più imperiosa. Da ciò derivano le frasi incomplete, i cambiamenti di costruzione, gli incisi e le parentesi, i passaggi repentini da un’idea all’altra, i frequenti ritorni alla stessa idea. Ma mentre gli stilisti rivedevano accuratamente i loro scritti per toglierne gli errori e per cancellarne le asprezze, Paolo li spediva tali e quali, oppure con qualche aggiunta o qualche nuova digressione. Quando però vuole, e forse anche senza pensarci, scrive pagine di una grecità impeccabile; maneggia con maestria quello che vi è di più delicato in un idioma, le particelle; si vede che egli parla il greco come sua lingua materna e non come una lingua appresa tardi e imperfettamente posseduta. Più intimo e più personale che il vocabolario e la sintassi, è l’ordine, la forma e la disposizione delle idee. In un senso verissimo si è potuto dire che lo stile è l’uomo: « La lingua di Paolo è la sua immagine vivente. Come il corpo dell’Apostolo, vaso di argilla, si curva sotto il peso del suo ministero, così le parole e le forme del suo linguaggio si piegano e si spezzano sotto il peso del suo pensiero. Ma da questo contrasto scaturiscono gli effetti più meravigliosi. Che potenza in quella debolezza! Che ricchezza in quella povertà! In quel corpo infermo, che anima di fuoco! Tutta la forza, tutto il movimento, tutta la bellezza vengono dal pensiero; non è lo stile che lo porta, ma è il pensiero che porta lo stile; il pensiero cammina sempre sovraccarico, trafelato, oppresso, trascinandosi dietro le parole… Per portare questa pienezza riboccante d’idee e di sentimenti, le parole e il loro significato ordinario non bastano più; ciascuna di esse, per così dire, è obbligata a portare un peso doppio o triplo. In una preposizione o nell’unione di due termini, Paolo mette tutto un mondo di idee, ed è questo appunto che rende così difficile l’esegesi delle sue epistole e la loro traduzione assolutamente impossibile (A. Sabatier: L’Apôtre Paul, 1896) ». – Il migliore commento ne è la lettura costantemente rincominciata. Bisogna abituarsi a quel dire strano che dapprima respinge e sconcerta per la sua singolarità. Vi s’incontrano frasi le cui parti rientrano in certo modo le une nelle altre, come i cilindri di un cannocchiale, frasi lunghissime, accidentate da digressioni e da parentesi, di cui l’occhio cerca invano di abbracciare l’insieme. Il periodo greco, per quanto classico, non ammette simili dimensioni, perciò quelli di San Paolo non sono periodi. Le sue frasi si possono semplificare, si possono sbarazzare dai particolari che le ingombrano, scaricarle dal peso degli incisi, senza alterare la loro fisonomia e senza turbare la loro andatura. L’idea principale forma un disegno abbastanza apparente in cui sono disposte, come addentellati, definizioni e spiegazioni. Con un po’ di riflessione e di abitudine, si riesce facilmente a scoprirlo. Lo scopo generale serve come punto di ritrovo e, fissando quello, il lettore riesce a orientarsi. Paolo è un dialettico vigoroso che si muove a suo agio nei dedali di un’argomentazione astrusa e lunga. Egli non indietreggia mai dinanzi ad una digressione utile, ancorché il suo lavoro ne abbia da perdere sotto l’aspetto letterario. Certi suoi capitoli presentano l’aspetto di quei conglomerati geologici formati da depositi sedimentari e da lave solidificate, ma il pensiero si segue sempre, come un filone non interrotto, tra quelle masse di apparenza eterogenea. Esaurita la questione incidentale, egli rientra nel suo argomento con una parola messa in vista, piuttosto che con un’esplicita transizione. Se non è assediato dalla parola, come gli viene rimproverato, è trascinato dall’idea che egli segue a ogni costo; ed è anche vero che il suo pensiero qualche volta gira intorno a una parola. Egli percorre volentieri tutta la scala dei significati di un termine, per rivoltare la sua idea sotto tutti i suoi aspetti. Una leggera deviazione lo mette ogni volta sopra un terreno nuovo, e passiamo da un senso all’altro con tanta facilità, che non sempre ci accorgiamo del passaggio. – Egli poi è affatto indifferente alla sua rinomanza di scrittore; se la ride dei precetti della retorica e qualche volta anche delle regole di grammatica. Se molte volte arriva a toccare le più alte cime dell’eloquenza, lo fa sempre, dice Sant’Agostino, senza averne l’intenzione: in lui tutto sgorga dalla sorgente, da una mente riboccante di idee, da un cuore capace di comunicare la commozione quasi senza volerlo. Quando Terzo o qualche altro suo segretario gli rilegge una lettera, non pensate che si fermi a forbire una frase arruffata o a correggere un solecismo, un iperbato o un anacoluto: anzi egli vi aggiunge quei sovraccarichi di cui il suo stile rigurgita, quasi che temesse, col troppo studio e con la troppa raffinatezza, di togliere qualche cosa alla virtù del Vangelo e di offuscare con uno sfoggio di sapienza umana il trionfo della croce.