CONOSCERE SAN PAOLO (1)

CONOSCERE SAN PAOLO

[F. Prat, S. J. : La Teologia di San Paolo, vol. I – S.E.I. Ed. Torino, 1945]

Il vaso di elezione. (1)

— SAULO DI TARSO.

1. L’AMBIENTE E L’UOMO. — 2. LA SCUOLA ELLENISTA DI TARSO.

1. Se l’azione divina sulla volontà e l’intelligenza fosse soltanto un impulso meccanico, se l’uomo ispirato fosse soltanto un’arpa che suona sotto le dita di Dio, o una penna che scrive le parole dello scrittore celeste, sarebbe inutile il cercare quale fu la fisonomia e l’ambiente dell’agiografo; ma questi non è materia inerte né strumento inanimato: egli sente, vuole e pensa, e i suoi pensieri e i suoi sentimenti non possono fare a meno di colorire la rivelazione che li penetra, come un fluido colorisce il raggio luminoso che lo attraversa. Isaia ed Ezechiele non ripetono con lo stesso tono lo stesso messaggio divino, e non è questione soltanto di vocabolario; in qualunque traduzione, le visioni di Osea non somiglieranno mai a quelle di Amos, e nessuno non scambierà mai un capitolo di San Marco con una pagina di San Giovanni. Perciò tutti gli esegeti giustamente proclamano la necessità di studiare il carattere individuale degli scrittori sacri con le loro abitudini mentali, con la forma ordinaria del loro pensiero, con la loro educazione e la loro condizione sociale, con le circostanze esterne della loro vita e della loro azione. – Di un uomo, e soprattutto di uno scrittore, si avrà sempre una conoscenza molto imperfetta, finché non si conosce il centro intellettuale e morale in cui è cresciuto. Da questo centro abbiamo il linguaggio, questo meraviglioso strumento dell’attività mentale, l’associazione incosciente e la forma abituale dei pensieri con un patrimonio più o meno ricco di concetti elaborati durante parecchie generazioni prima di arrivare fino a noi; e tutto questo messo insieme costituisce il temperamento dell’anima, come il sangue, la razza, il regime e il genere di vita formano il temperamento del corpo. L’educazione qualche volta modifica, più spesso rinforza questo primo fondo di atavismo; la stessa ispirazione divina non lo elimina, poiché la grazia, ben lungi dal sopprimere la natura, l’innalza e la trasforma, pure lasciandole la sua impronta e la sua individualità perfettamente distinta. – Per la sua nascita e per la sua educazione, Saulo ci fa prevedere una natura complessa in cui si uniranno tutti i contrasti. « Ebreo di nascita, nativo di Tarso e cittadino romano » (Atti, XXI, 29. Cfr. Atti, XXII, 3; XXII, 27.), tale è il suo stato civile che egli stesso denunzia al magistrato incaricato d’istruire il suo processo. Secondo San Girolamo, Giscala fu la culla della sua famiglia (De Viris illustr., 5.): anche il tredicesimo Apostolo sarebbe dunque un galileo. Allora, come oggi, gli Ebrei erano i più cosmopoliti degli uomini. Perseguitati in Palestina da poteri rivali, oppressi dagli invasori, attratti fuori dall’esca del guadagno e dall’istinto del commercio, avevano disseminato le loro colonie in ogni parte dell’impero. Sicuri di trovare dappertutto, presso i loro connazionali, accoglienza, soccorsi e protezione, al più leggero allarme cambiavano paese: l’universo era la loro patria. In quei tempi Tarso era una delle città più fiorenti dell’Asia. Colmata di favori da Poma, libera ed esente da imposte dal tempo di Pompeo il Grande, metropoli della Cilicia dal tempo di Augusto, essa doveva alla sua magnifica posizione la fortuna di essere un centro commerciale di prim’ordine. Dalle alture vicine alla città, sopra i boschetti di palme, l’occhio abbracciava ad un tempo le cime nevose del Tauro, le bianche vele del Mediterraneo, che un fiume allora navigabile, il Cidno, portava fin sotto le sue mura, e finalmente tutta la Cilicia Campestre solcata da innumerevoli canali e coperta di messi. – Quel panorama ridente e grandioso non pare abbia lasciato alcuna traccia nella fantasia di Paolo il quale più tardi attraverserà i luoghi più meravigliosi per le bellezze della natura o per la magia dei ricordi, senza mostrare nessuna ammirazione, senza arricchire il suo stile di un paragone o di un colore qualunque. Sotto questo aspetto egli è il contrario dei Profeti e degli Evangelisti. Si è voluto spiegare questo fenomeno o con una debolezza congenita di vista o con la mancanza del dono dell’osservazione. Il fatto sta che la natura morta non dice nulla a quella mente riflessiva e assorta nello spettacolo della lotta dolorosa di cui l’anima sua è il teatro e il premio. Egli non vede la natura inanimata se non nelle sue relazioni con l’uomo: il suo regno è la psicologia. Da molto tempo si è notato che le sue metafore sono prese quasi tutte, non dallo spettacolo e dalle attività del mondo fisico, ma dalle manifestazioni esterne della vita umana. Egli osserva con attenzione e descrive con finezza i giochi ellenici, i soldati romani agili sotto il peso delle armi, i mercati orientali formicolanti di schiavi, e anche i grandi edifizi, tempi e palazzi, dove si rivela la potenza e l’ingegno dell’uomo. Mentre le figure prese dalla vita dei campi non hanno gran rilievo, le espressioni tecniche del teatro o dello stadio, e soprattutto il suo linguaggio militare, offrirebbero argomenti di studio curiosi e istruttivi.

2. Verso l’età di sei anni, il fanciullo ebreo frequentava la scuola. Le scuole celebri abbondavano a Tarso, e in esse si studiavano tutte le scienze, specialmente la filosofia. Su questo punto quelli di Tarso rivaleggiavano con i sofisti di Alessandria e di Atene e avevano anche fama di superarli. Era loro specialità il fornire i precettori ai padroni del mondo: il precettore di Augusto, Atenodoro lo Stoico, era di Tarso; quello di Marcello e di Tiberio, anche, ed entrambi vennero a morire nella loro città natale, carichi di oro e di onori: dove la scienza frutta denaro, non manca mai di seguaci. Non da questi retori Paolo imparò gli elementi delle lettere; il suo greco non è quello delle scuole, ma è una lingua presa dall’uso delle conversazioni, viva, immaginosa, pittoresca, ammirabile per espressione, per originalità e vivacità, ma estranea ai precetti delle grammatiche ufficiali. Dove si trovavano abbastanza numerosi, gli Ebrei avevano le loro scuole particolari da cui erano banditi severamente i libri pagani e dove lo studio principale, se non l’unico, era la Bibbia: soltanto nella Diaspora essa si leggeva in greco. A tale scuola dovette essere mandato Saulo da suo padre, fariseo rigido. – Che egli abbia molto frequentato gli scrittori profani, non bastano a dimostrarlo le tre sue citazioni di poeti. Siccome Arato era della Cilicia e forse di Tarso, è possibile che l’Apostolo prenda direttamente da lui la frase citata dinanzi all’Areopago: « Perché noi siamo della sua stirpe ». Ma quell’emisticchio scorrevole e armonioso era di quelli che i versificatori introducevano volentieri nelle loro composizioni quando l’argomento vi si prestava: lo incontriamo difatti anche nell’Inno di Cleanto a Giove (Atti, XVII, 2). Il verso della Taide di Menandro, che questi, come si crede, avrebbe preso da Euripide, non era che una massima proverbiale di uso comune, e la forma che gli dà San Paolo, secondo i migliori manoscritti, prova che egli non era molto familiare col ritmo del trimetro giambico (I Cor., XV, 33). – Finalmente il motto satirico: « Cretesi, perpetui bugiardi, male bestie, ventri oziosi », che si legge negli Oracoli di Epimenide e, in parte, nell’Inno a Giove di Callimaco, doveva essere spesso lanciato contro i Cretesi dai loro nemici e dai loro rivali. Come si vede, ciascuno di questi tre testi si trova almeno in due autori diversi (Tito I, 12). – Nessun libro profano ha lasciato negli scritti di San Paolo una traccia sensibile della sua influenza. Sembra che l’Apostolo non abbia mai letto le elucubrazioni teosofiche del suo gran contemporaneo Filone di Alessandria, e non deve fare meraviglia, tanto sono diverse le loro mentalità. Si riferiscono talora a Filone le espressioni « immagine di Dio, primogenito della creazione », applicate al Cristo preesistente, ma è assai più naturale cercarne la fonte prima nel Libro della Sapienza. Paolo non s’ispira neppure dagli altri filosofi. La sua morale, insieme con profonde divergenze, ha qualche punto comune con quella degli stoici, e in questo, se si vuole, si potrebbe vedere un ricordo della sua educazione. I filosofi di quel tempo, specialmente quelli di Tarso e della Cilicia, facevano professione di stoicismo, e può essere che l’Apostolo, nella sua età matura, abbia discusso con essi, ma non vi è nulla, né per le idee né per la terminologia, che indichi chiaramente che egli sia stato alla loro scuola, e non occorre neppure avvertire che la sua pretesa corrispondenza con Seneca è semplicemente una frode letteraria o lo sciocco divertimento di qualche spirito ozioso. – Insomma, questa prima dimora a Tarso non lasciò su la sua intelligenza una traccia profonda; la sua famiglia non si lasciò penetrare dall’atmosfera esterna, e suo padre, Ebreo di antico stampo, sembra che abbia poco gustato la coltura ellenica e le abitudini sociali del mondo greco-romano. Più tardi Paolo potrà chiamarsi « Ebreo figlio di Ebrei, fariseo figlio di farisei », tanto si sentirà estraneo all’ellenismo. Ma un giorno ritornerà a Tarso, nell’età matura, quando la grazia divina lo avrà mutato; allora noterà le ridicolaggini di quei pretesi filosofi che fanno professione di vendere la sapienza, le loro cabale, le loro meschine gelosie, le ingiurie ignobili che si scambiano a vicenda, la loro avidità del guadagno, la loro corruzione mal celata, la loro superbia insopportabile fondata su una grande ignoranza. Il ritratto che, nell’Epistola ai Romani, ci fa di quei pazzi che si dicono saggi, non sembra tanto una copia fatta a memoria, quanto piuttosto un quadro dal vero. Nelle diverse dimore che fece nella sua città natale, si familiarizzò con i Settanta. Egli conosce la Bibbia nelle due lingue, ma quasi sempre la cita in greco, o perché la versione dei Settanta gli fosse davvero familiare, o piuttosto perché, scrivendo egli in greco, gli viene più naturalmente alla memoria il testo greco dei Settanta. – Secondo un calcolo più o meno esatto, ma giusto nel risultato generale, su ottantaquattro citazioni, trentaquattro concordano esattamente con i Settanta, trentasei se ne scostano pochissimo, dieci presentano differenze notevoli, due sono prese dall’ebraico, ma suppongono presente alla mente dell’autore il testo dei Settanta, finalmente due soltanto sono traduzioni affatto indipendenti o appartenenti ad altra versione. Insomma, l’Apostolo non si allontana dalla versione generalmente accettata e le resta fedele anche in casi in cui ci pare gli sarebbe convenuto allontanarsene. – Sotto il nome di Settanta, comprendiamo tutti i libri ammessi nel canone alessandrino che era quello degli Ebrei ellenisti. Paolo lesse certamente il Libro della Sapienza da cui s’ispira nell’esporre la prova filosofica dell’esistenza di Dio, e nel descrivere la panoplia delle virtù cristiane. Anche la similitudine del vasaio e altre simili, ci dicono la stessa cosa. Le relazioni con il Libro dell’Ecclesiastico, meno evidenti, bastano, secondo noi, a rendere probabile la dipendenza letteraria. L’erudizione di Paolo non è libraria: egli possiede a fondo una sola scienza, la religione rivelata; conosce un solo libro, la Bibbia.

AI PIEDI DI GAMALIELE.

1. LA SCUOLA EBRAICA D I GERUSALEMME. — 2. Uso DELL’ ANTICO TESTAMENTO. — 3. SAULO IL FARISEO.

1. Saulo aveva circa tredici anni, quando andò a Gerusalemme per compiervi la sua educazione, e non sappiamo se ve lo accompagnarono i suoi parenti. Circa quarant’anni più tardi, il figlio di una sua sorella stabilita nella città santa, gli salverà la vita. Già conosciamo le abitudini di viaggiare degli Ebrei di quei tempi e dobbiamo abituarci sempre più ai continui cambiamenti di posto che la storia del secolo apostolico segna a ogni pagina. Il fanciullo era destinato all’arte dello scriba, professione ambigua che preparava a tutte le carriere e apriva la via a tutti gli onori: lo scriba era ad un tempo avvocato e procuratore, magistrato e giureconsulto, consigliere e predicatore, uomo di legge e uomo di chiesa, letterato, retore e grammatico. Gli studenti di Gerusalemme erano allora divisi tra due scuole rivali i cui fondatori, Hillel e Shammai, di leggendaria memoria, personificano agli occhi della posterità, l’uno le vedute ristrette e la grettezza di mente, l’altro le idee larghe di un liberalismo illuminato; ma se dobbiamo credere alla Mishna, la fonte più autorevole delle tradizioni ebraiche, non vi è nulla che provi tale contrasto. – I dissensi si riferivano a minuzie, per esempio alla questione se un uovo fatto di sabato si potesse mangiare nel giorno stesso, oppure se il fiocco a vari colori, chiamato zizith in ebraico, fosse obbligatorio anche per il vestiario della notte. Eccetto queste inezie, le due scuole erano d’accordo: entrambe mantenevano la stretta osservanza della Legge, ricevevano le tradizioni rituali e storiche sovrappostesi alla Thora scritta, erano insomma imbevute del più puro fariseismo. Tuttavia, se possiamo mettere innanzi una differenza, forse la scuola d’Hillel tendeva generalmente verso l’interpretazione meno rigorosa. – Il successore d’Hillel, erede dei suoi principi, se non del suo sangue, era allora Gamaliele il Vecchio, venerabile agli occhi dei Cristiani perché difese gli Apostoli, senza che la sua riputazione postuma ne soffrisse presso i suoi correligionari. Gamaliele è rimasto il tipo ideale del fariseo: « Dopo la sua morte, dice la Mishna, non vi è più rispetto alla Legge; la purezza del fariseismo è morta con lui ». Del resto la sua storia è molto oscura, ed egli è spesso confuso col suo omonimo e nipote Gamaliele II, testimonio della rovina del Tempio e della suprema agonia del popolo ebreo. Il giovane Saulo venne dunque a sedersi ai piedi del Rabban Gamaliele, come onorevolmente era chiamato. Égli veniva a iniziarsi faticosamente alla scienza sacra proprio nel centro della vita nazionale, nel momento in cui Gesù, di sette od otto anni più vecchio di lui, progrediva in grazia e in sapienza, in un angolo oscuro della Galilea. Ci siamo potuto domandare se e quanto il paese natio abbia influito sul pensiero di Paolo; ma per Gerusalemme il dubbio non è possibile. Tarso è la sua patria civile dove riceve, col titolo invidiabile di cittadino romano, quella lingua ellenica che lo fa in certo modo cittadino dell’universo; ma Gerusalemme è la patria dell’anima sua, la patria della sua intelligenza come pure, e più ancora, del suo cuore. Verso Gerusalemme egli convergerà sempre nel corso del suo pellegrinaggio terrestre ed ha pienamente coscienza di avere là ricevuto l’impronta indelebile della sua formazione religiosa e morale; là veramente egli fu istruito ed educato ai piedi di Gamaliele, ed era a una buona scuola. Nonostante le loro sottigliezze puerili e le loro inconseguenze pratiche, i farisei erano i veri depositari della scienza sacra e gl’interpreti più autorevoli della legge divina: Gesù, loro avversario implacabile, doveva rendere loro questa testimonianza, che bisognava seguire il loro insegnamento senza imitarne la condotta.

2. La scuola ebraica era annessa alla sinagoga, e l’istruzione che vi si dava era esclusivamente religiosa. Matematica, geografia, storia profana, filosofia, non esistevano per l’ebreo ortodosso; per lui vi era soltanto la morale, il diritto positivo e la storia sacra, e tutto questo era la Bibbia. Compitandola s’imparava a leggere, e molti scribi la sapevano a memoria, come la sanno anche oggi alcuni pochi Israeliti. Noi vediamo Paolo che la cita sempre a memoria, e anche quando non la cita, il suo linguaggio è un tessuto di reminiscenze inconsapevoli o volute. Il suo stile, come quello di San Bernardo e di Bossuet, è tutto impregnato di espressioni bibliche le quali scaturiscono spontaneamente dai suoi ricordi, il che suppone una conoscenza particolareggiata e minuziosa, frutto di lunghi anni di studio. – Il fiume della rivelazione che ha la sua sorgente sul Sinai, o piuttosto nell’Eden, era continuato a scorrere, sempre accresciuto di nuove rivelazioni, fino alla soglia dell’era cristiana. Gli Ebrei contemporanei degli Apostoli parlavano di Dio, della sua infinita trascendenza, della sua potenza creatrice, della sua provvidenza paterna, in termini che il Cristianesimo non dovette rigettare. La dottrina dei novissimi — retribuzione dei giusti, pene riservate ai cattivi, risurrezione dei morti, giudizio finale — non aveva che da fare qualche leggero progresso per passare nel Vangelo. Altrettanto si può dire del dogma della caduta originale. La maniera di ravvisare la Scrittura come parola di Dio, come espressione della sua intelligenza e della sua volontà, poteva essere accettata senza modificazioni dai banditori della nuova fede. Non ci fermeremo su questa eredità ricevuta dai profeti né sul patrimonio di verità religiose accumulato nel corso dei secoli fino al giorno in cui la luce del Vangelo venne ad ecclissare la fiaccola della Sinagoga: sono senza dubbio fondi assai ricchi, ma non appartengono propriamente al Dottore delle genti. – Non possiamo invece dispensarci dal cercare, negli scritti dell’Apostolo, le tracce della sua educazione rabbinica alla scuola di Gerusalemme. Alla tradizione ebraica egli deve il senso tipico della Scrittura, l’impiego del senso chiamato accomodatizio e l’uso frequente dell’allegoria. – Siccome l’Antico Testamento è come la base del Nuovo, è naturale che lo Spirito Santo, autore di tutta la Bibbia, gli abbia dato un senso profetico o figurativo che risulta e dai racconti stessi e dal modo di narrarli. Questo senso che si sovrappone alla lettera della Scrittura, si chiama senso spirituale, e noi chiamandolo tipico, abbiamo il doppio vantaggio di evitare un equivoco e di conformarci alla terminologia di Paolo. L’Apostolo afferma che il primo Adamo era il tipo di Gesù Cristo, l’Adamo futuro, e sviluppa questa tipologia in due passi celebri (Rom. V, 12-19; I Cor. XV, 22, 45, 49). Così pure la sorte degli Israeliti nel deserto aveva un carattere tipico e fu scritta con lo scopo d’istruirci. Questi fatti figurativi rivestono perciò un significato spirituale che il racconto letterale non diminuisce affatto. Così pure la Legge di Mosè era l’ombra delle realtà future il cui corpo, la sostanza e il vero essere s’identificano con l’economia cristiana (Col. II, 17). Finalmente l’istituzione del matrimonio, ristabilito da Gesù Cristo nella sua unità e nella sua indissolubilità primitive, non pare misteriosa se non per il suo valore simbolico (Ef. V, 32). Non dobbiamo tuttavia credere che San Paolo riconosca il senso tipico soltanto quando ne pronunzia il nome: per lui la Sinagoga è la figura della Chiesa (I Cor. III, 16; II Cor. VI, 16), i sacrifizi antichi, specialmente l’agnello pasquale, sono figure del Cristo (I Cor. V, 7; Eph. V, 2), e certi suoi argomenti non hanno valore se non si ammettono i due significati, il letterale e il tipico, voluti entrambi e affermati dallo Spirito Santo. Non andiamo però agli eccessi: quando l’Apostolo si vanta di predicare soltanto dove ancora non si è udito il nome del Cristo (Rom. XV, 20-21), quando esorta i Corinzi a fare la limosina per stabilire tra i Cristiani quell’eguaglianza che regnava tra gli Ebrei nel raccogliere

la manna (II Cor. VIII, 14-15), e si appoggia, in tutti e due i casi, a un testo biblico, con la formola solenne di citazione, non siamo obbligati ad ammettere che egli veda in quei due testi un senso tipico, come se lo Spirito Santo, con l’aiuto del senso letterale e oltre a questo, avesse inteso di predire la colletta in favore di Gerusalemme o di limitare il campo di azione di Paolo. Qui vi è accomodazione pura e semplice. È privilegio dei predicatori l’adoperare così la Scrittura, e tutti hanno il diritto di esprimere i propri pensieri con le parole dei Libri santi; la formola di citazione non muta nulla né al diritto né al privilegio. – Si chiama accomodatizio, non propriamente un significato scritturale, ma l’applicazione di un testo biblico ad un fatto o ad un caso simile. Il Salmista aveva detto, parlando dei cieli, che celebrano alla loro maniera la gloria del Creatore: La loro voce risonò sopra la terra; E le loro parole, fino ai confini del mondo. San Paolo applica queste parole, senza formola di citazione, ma con manifesta allusione al versetto del Salmista, alla predicazione degli Apostoli (Rom. IX, , 18 citando il Ps. XVIII). Certi interpreti si credono obbligati a conchiuderne che, essendo ancora vivo Paolo, il Vangelo era stato predicato in tutto il mondo (San Giovanni Grisostomo), o che almeno vi era conosciuto di fama (San Tommaso). I più ci vedono soltanto un’iperbole: un’iperbole che sarebbe troppo forte se le parole in questione fossero dell’Apostolo, ma che è invece naturalissima dal momento che si tratta di una semplice allusione. Poiché l’allusione non pretende di essere vera alla lettera, ma le basta un rapporto di proporzione o di analogia. – L’accomodazione più prolungata è quella che occupa un capo della seconda ai Corinzi (II Cor. III, 14-15). Essa si fonda sul racconto dell’Esodo, secondo il quale Mosè parlava a Dio a faccia scoperta, ma se la copriva con un velo per parlare al popolo. Paolo ne trae una doppia applicazione, metà per analogia e metà per contrasto. I predicatori ndel Vangelo — e anche, in una certa misura tutti i Cristiani, trattano con Dio faccia a faccia e sono a poco a poco trasformati nell’immagine di Dio; ma quando si rivolgono al popolo, non si coprono con un velo, simbolo di timore e di servilismo. Al contrario gli Ebrei contemporanei hanno il cuore coperto di un fitto velo, come Mosè al ritorno dalle sue conversazioni celesti; ma un giorno, quando si convertiranno al Signore, getteranno quel velo, come Mosè quando andava a parlare con Dio. – L’esempio seguente di accomodazione oratoria è ancora più notevole, perché modifica molto il testo che adopera e vi mescola un’apparenza di argomentazione. Paolo applica alla legge di grazia un passo in cui si tratta della Legge mosaica, e lo fa per dimostrare che il nuovo regime è superiore all’antico: La giustizia (che nasce) dalla fede, parla così: non dire nel tuo cuore: Chi salirà al cielo? È (per) far discendere il Cristo. Oppure: Chi discenderà negli abissi? È per risuscitare il Cristo dai morti. Essa dica dunque: La parola è vicino a te, nella tua bocca e nel tuo cuore. È la parola della fede che noi predichiamo. Perché se tu confessi con la bocca il Signore Gesù, e se tu credi nel tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, tu sarai salvo (Rom. X., 6-9). – A prima vista questo uso della Scrittura è tanto arbitrario, che sconcerta: non solo il testo è riassunto e citato a brani, ma è modificato a bello studio. Invece di: Chi passerà di là dai mari? Paolo mette: Chi discenderà negli abissi? per preparare la sua applicazione alla risurrezione del Cristo. Poi presenta tre interpretazioni del genere midrash, che non sembrano suggerite dal testo, e finalmente rivolge contro la Legge quello che la Scrittura aveva detto della stessa Legge. Queste difficoltà sono distrutte o almeno molto attenuate dalle seguenti osservazioni: Paolo non argomenta, ma non fa altro che esporre e illustrare il carattere della nuova legge; egli non cita neppure la Scrittura, ma si limita a mettere in bocca della Giustizia personificata quello che Mosè aveva detto della Legge. – Il testo del Deuteronomio era divenuto quasi proverbiale per far intendere che una cosa era possibile e facile. La conclusione di San Paolo — che la fede è più facile e più accessibile che la Legge — è incontestabile, e la sua maniera di spiegare la cosa è un’accomodazione oratoria delle più legittime. Essa viene a dire: Mosè ha detto della Legge, che per conoscerla non occorre né salire al cielo né passare i mari, e questo conviene, a più forte ragione, al Vangelo. Infatti non occorre salire al cielo per farne discendere il Cristo, poiché il Cristo si è già incarnato; non occorre discendere negli abissi per trarne fuori il Cristo, poiché il Cristo è risuscitato da morte; basta credere di cuore e confessare con la bocca che Egli è il Signore e che è risuscitato. – Saremmo pure inclinati a vedere un esempio di accomodazione oratoria nel passo in cui Agar e Sara figurano i due testamenti (Gal. IV. 21-31). È un tipo biblico oppure un simbolo? In altri termini, lo Spirito Santo nell’ispirare l’autore sacro che ha scritto la storia di Abramo, voleva insegnarci il carattere differente delle due alleanze, oppure permetterci soltanto di servircene per meglio comprenderlo! Tale è la questione. San Paolo non parla di tipo, ma di allegoria; e se la maggior parte degli esegeti antichi stanno per il significato spirituale, si sa che essi danno a questo termine un significato molto elastico. – I rabbini solevano appoggiare sopra un testo della Bibbia qualunque opinione tradizionale così storica come giuridica, e questo appunto era l’oggetto dell’esegesi. Si distinguevano sei specie di prove, e le loro suddivisioni le facevano arrivare a tredici: l’a fortiori, l’analogia, la conseguenza, otto specie di analisi, il contesto e i luoghi paralleli. Parecchie di tali prove mancano di rigore; in materia positiva, l’a fortiori non è decisivo; l’analogia non è che una ragione di convenienza; il senso conseguente non è sempre un senso scritturale. Il più curioso si è che i rabbini non si lasciavano ingannare dai loro metodi di cui vedevano benissimo i lati deboli. Quando Rabbi Simeone sosteneva che se le donne Ammonite e Moabite erano ammesse nella Sinagoga da cui erano esclusi per sempre gli uomini del loro paese, le Egiziane a più forte ragione si potevano ammettere, si affrettava a invocare la halacha (tradizione), per tagliar corto con l’obbiezione che viene suggerita dall’argomento a fortiori. Avendo la tradizione, agli occhi dei rabbini, un valore indipendente dal testo biblico con cui si cercava di puntellarla, la prova scritturale diventava una semplice formalità. Si poteva, occorrendo, farne a meno e accontentarsi del remez (allusione); ma sempre ci voleva qualche cosa. L’abuso del remez doveva fare dell’esegesi ebraica un giochetto arbitrario e puerile. – Dinanzi a una citazione biblica di San Paolo, bisogna dunque domandarsi prima di tutto se vi è allusione o accomodazione o applicazione letterale o vera argomentazione, e in quest’ultimo caso, se l’argomento è scritturale o teologico oppure oratorio. La formola come sta scritto non indica sempre un’argomentazione propriamente detta, e lo stesso certamente si deve dire per la formola poiché sta scritto o per la particella “dunque” messa in principio di una conclusione che segue immediatamente una citazione scritturale. Resta allora da esaminare qual è il punto preciso che San Paolo vuole stabilire e sotto quale aspetto particolare egli considera il suo testo, perché spesso non tutto è da provare in una affermazione complessa, e frequentemente vi sono, in un testo portato come prova, mille circostanze indifferenti al punto che si vuole mettere in luce. – L’agiografo, anche quando si appoggia alla Scrittura, può argomentare come oratore più che come teologo, e la sua prova può non essere strettamente scritturale; o piuttosto non sarebbe tale se, a differenza del teologo o del predicatore ordinario, la conclusione dell’autore ispirato non avesse un valore assoluto indipendentemente dalle sue argomentazioni. Mosè aveva detto: « Non mettere la fusoliera al bue che trebbia il grano (I. Cor. IX cit. da Deut. XXV, 11-14) », e Paolo ne deduce che l’operaio apostolico può vivere del Vangelo. Questo è un argomento a fortiori che si è trovato presso i rabbini, ma la conclusione non è, strettamente parlando, un senso scritturale; sarebbe quello che i teologi chiamano un senso conseguente. Eccetto che si voglia adottare la teoria dei sensi multipli di Sant’Agostino, per costituire un senso scritturale non basta che una cosa ci sia suggerita dalla lettura della Bibbia né che la si possa trarre per mezzo della deduzione teologica od oratoria. La prova oratoria non sempre si risolve in un rigoroso sillogismo; l’analogia, la comparazione, la similitudine, tutto ciò che fa entrare più profondamente il pensiero nella mente dell’uditore, ve lo fissa e ve lo scolpisce, gli serve di schiarimento o d’illustrazione, si può chiamare prova oratoria, ma non è un argomento alla maniera di Aristotele. Ma perché si dovrà vietare allo scrittore sacro l’uso di procedimenti letterari che sono di diritto comune? Nessuno può liberarsi completamente dai metodi del suo tempo e della scuola dove si è formato. Se dal linguaggio e dalla forma del pensiero dei profeti è facile riconoscere la differenza delle loro condizioni sociali e della loro coltura intellettuale, perché si vorrebbe che San Paolo sia esente dalla stessa legge? L’interesse della verità non esigeva punto che egli disapprendesse tutto ciò che aveva imparato.

3. In quel tempo Saulo si faceva notare per il rigore del suo fariseismo: « Io ero, dice, pieno di zelo per (la Legge di) Dio (Act. XXII, 3) … Io vissi da fariseo, secondo la setta più rigida della nostra religione (Act. XXVI) ». Quando i suoi avversari si faranno scudo della loro fedeltà scrupolosa alla Legge, egli risponderà: « Io pure ero fariseo, persecutore della Chiesa per zelo, irreprensibile dal lato della giustizia legale (Fl. III, 6) ». La vita del fariseo, racchiusa come in una fitta rete dalle seicento tredici prescrizioni del codice mosaico rinforzate da tradizioni senza numero, era una servitù intollerabile. Le purificazioni rituali prescritte dopo le impurità contratte col solo contatto di oggetti impuri, riempivano parecchi trattati del L’ultimo libro della Mishna (Seder Teharoth), di ben dodici trattati, è tutto consacrato a tali minuziose prescrizioni; impossibile uscire di casa, mangiare, fare un’azione qualunque, senza esporsi a mille infrazioni, e la paura di cadervi paralizzava la mente e toglieva il senso superiore della moralità naturale. Tutta la religione degenerava in un meschino formalismo: l’uomo era tentato di credersi l’artefice della propria giustizia e, dovendo tutto a se stesso, diventava creditore di Dio. A che pro il pentimento, la preghiera umile e ardente, i sospiri verso il cielo, del peccatore e del pubblicano? Egli, non era forse il giusto che digiunava due volte la settimana, il lunedì e il giovedì, secondo il costume della sua setta, che pagava esattamente la decima della menta, dell’anice e del cumino, che non dimenticava mai nessun rito tradizionale! Il fariseismo nutriva l’amor proprio, la superbia e la presunzione, e fomentava anche l’ipocrisia. L’ideale del fariseo era elevato, ma egli per arrivarci aveva soltanto la sua superbia; mancando questa, l’unico mezzo che gli restava era di dissimulare le sue mancanze o di farle passare per virtù dinanzi al volgo (‘am haarez), oggetto del suo timore e del suo disprezzo. A quali stratagemmi e a quali cavilli ricorre per temperare il rigore del digiuno, per moderare l’incomodo del sabato! Infatti il trattato Erubin permette di stabilire un domicilio fittizio al termine del riposo sabbatico, per prolungare di altrettanto il viaggio permesso, e di unire, in modo fittizio, parecchi domicili per portare alimenti dall’uno all’altro, senza infrangere la legge del riposo. Il fariseo cercava di riscattare le sue concessioni e le sue miserie con un’intolleranza feroce: Paolo, scoraggiato di trovarsi così lontano dal suo ideale di perfezione legale, si fece persecutore per zelo e per rimorso. Egli custodiva gli abiti dei lapidatori di Stefano, forse perché non era in grado di essere il giudice o il carnefice del martire; ma nel suo foro interno sanzionava e approvava tutto. La passione lo agitava con troppa violenza, per poter ascoltare le parole del santo diacono; ma ancorché le avesse ascoltate, quel discorso interrotto bruscamente dalla morte non lo avrebbe commosso. Nelle sue lettere non troviamo nessuna allusione a quell’avvenimento: egli si ricorda soltanto di aver perseguitato la Chiesa del Cristo. I suoi quattro accenni a quel deplorevole passato sono della massima importanza per giudicare del suo stato psicologico nel momento della sua conversione: « Io perseguitalo senza misura e devastavo la Chiesa di Dio, sorpassando per (l’esaltazione del) mio giudaismo la maggior parte dei miei contemporanei (Gal. I, 13-14). Io sono l’ultimo degli Apostoli e non sono degno del nome di apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa del Cristo (I Cor. XV, 2). Fui in altri tempi un bestemmiatore e un persecutore, un insultatore; ma ho ottenuto misericordia perché agivo per ignoranza nell’infedeltà (I Tim., 13). Fariseo secondo la Legge, persecutore della Chiesa per zelo, irreprensibile dal lato della giustizia che viene dalla Legge (28) ». Nel discorso che rivolge agli abitanti di Gerusalemme dopo la sua cattura (29), e in quello che pronunziò dinanzi al procuratore Festo assistito dal re Agrippa (30), ricorda benissimo la parte da lui presa nel martirio di Stefano, ma senza lasciar capire che provasse allora altro sentimento che il piacere di un desiderio soddisfatto. Del resto tutti i particolari sembrano confondersi nella sua memoria come la visione molesta di un incubo terrificante.