DOMENICA XIII DOPO PENTECOSTE (2018)

DOMENICA XIII dopo PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps LXXIII:20; 19; 23
Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te. [Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le ànime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]
Ps LXXIII:1
Ut quid, Deus, reppulísti in finem: irátus est furor tuus super oves páscuæ tuæ?
[Perché, o Signore, ci respingi ancora? Perché arde la tua ira contro il tuo gregge?]

Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te. [Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le ànime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, da nobis fídei, spei et caritátis augméntum: et, ut mereámur asséqui quod promíttis, fac nos amáre quod præcipis.
[Onnipotente e sempiterno Iddio, aumenta in noi la fede, la speranza e la carità: e, affinché meritiamo di raggiungere ciò che prometti, fa che amiamo ciò che comandi.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti S. Pauli Apóstoli ad Gálatas. [Gal. III:16-22]
“Fratres: Abrahæ dictæ sunt promissiónes, et sémini ejus. Non dicit: Et semínibus, quasi in multis; sed quasi in uno: Et sémini tuo, qui est Christus. Hoc autem dico: testaméntum confirmátum a Deo, quæ post quadringéntos et trigínta annos facta est lex, non írritum facit ad evacuándam promissiónem. Nam si ex lege heréditas, jam non ex promissióne. Abrahæ autem per repromissiónem donávit Deus. Quid igitur lex? Propter transgressiónes pósita est, donec veníret semen, cui promíserat, ordináta per Angelos in manu mediatóris. Mediátor autem uníus non est: Deus autem unus est. Lex ergo advérsus promíssa Dei? Absit. Si enim data esset lex, quæ posset vivificáre, vere ex lege esset justítia. Sed conclúsit Scriptúra ómnia sub peccáto, ut promíssio ex fide Jesu Christi darétur credéntibus”.

Omelia I

 [Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV Omelia I .- Torino 1899]

“Le promesse furono fatte ad Abramo ed alla sua prole; non dice: Ed alle proli, come parlando a molte, ma come ad una: e dalla sua prole, la quale è Cristo. Ora io dico così: La legge, venuta dopo quattrocento trent’anni, non poté annullare un patto prima fermato da Dio, sicché restasse senza effetto la promessa. Perché, se l’eredità è per legge, non è più per la promessa. Eppure Dio la conferì ad Abramo per promessa. Perché dunque fu data la legge? Fu essa aggiunta in grazia delle trasgressioni, promulgata per angeli, per mezzo di un mediatore, finché non fosse venuta la prole, alla quale era stata fatta la promessa. – Ora mediatore non è di uno; eppure Dio è uno. Sarà dunque la legge contraria alle promesse di Dio? No. Ma se fosse stata data una legge capace di dare la vita, se ne avrebbe di fatto la giustificazione. Ma la Scrittura ha racchiusa ogni cosa sotto peccato, affinché la promessa di fede fosse data per Gesù Cristo ai credenti „ (Ai Galati, capo III, 16-22).

Anzitutto, o carissimi, devo dirvi che questi sette versetti della Epistola odierna che vi ho recitati, sono difficili ad intendersi, e voi stessi, udendoli, ve ne sarete accorti. La difficoltà ed oscurità di queste sentenze si deve far dipendere da varie cause. Primieramente si tratta dei rapporti tra la legge antica mosaica e la legge evangelica, e si accenna alla efficacia di questa sopra quella, verità a quel tempo assai contrastata: in secondo luogo si fa un’allusione di volo ad alcuni oracoli dell’antico Testamento, per noi oscuri; se ne deducono conseguenze d’alta importanza, con una concisione tutta propria dell’Apostolo. Finalmente il modo di fraseggiare e di argomentare qui usato da S. Paolo, è così rapido e serrato, e il giro del periodo sì involuto e duro, che rende faticoso il seguirlo ed afferrarne il significato. Ma se voi avrete la bontà di tenermi dietro con tutta l’attenzione, nutro fiducia di farvi comprendere perfettamente la dottrina dell’Apostolo, e troverete ampia mercede della fatica durata. Dio con la sua grazia, faccia sì che la mia parola sia semplice e chiara, e la vostra mente aperta e docile a riceverla. – La lettera di S. Paolo ai Galati si può dividere in tre parti: nella prima difende se stesso contro coloro che lo accusavano di aver alterato o frainteso il Vangelo e prova la sua missione divina; nella seconda svolge l’insegnamento dogmatico intorno alla giustificazione; nella terza inculca alcune verità morali pratiche. Il tratto che vi devo spiegare appartiene alla parte dogmatica, che aveva una importanza grande e pratica allorché l’Apostolo scriveva la sua lettera. Un cenno storico necessario. Molti Ebrei della Galazia, convertiti prima da S. Paolo, sedotti da falsi maestri, erano entrati nella persuasione che, per salvarsi, fosse necessario unire alla fede cristiana l’osservanza della legge mosaica in ogni sua parte, e nominatamente il rito della circoncisione. L’Apostolo vuol dissipare questo errore gravissimo, che rendeva perpetuo il giudaismo e tra gli altri argomenti, S. Paolo, parlando ad Ebrei, ricorda che Abramo fu giustificato dinanzi a Dio con la fede che prestò alla parola di Lui, non con la legge mosaica che non esisteva e che venne assai più tardi. E come Abramo piacque a Dio, non per la osservanza della legge mosaica, ma sì per la fede, così anche i veri suoi figli si giustificarono con la fede. Qui cominciano le sentenze, che dobbiamo interpretare: “Le promesse furono fatte ad Abramo ed alla sua prole: non dice alle proli, come parlando a molte, ma come ad una: ed alla sua prole, che è Cristo. Ecco come ragiona S. Paolo: “La Scrittura c’insegna che Abramo piacque a Dio e si santificò allorché credette alla sua parola ed ubbidì ad essa, lasciando la patria sua: Dio allora gli fece una promessa solenne, assoluta, dicendogli: “Tutte le genti saranno benedette in te, cioè riceveranno come te e allo stesso modo la mia grazia. „ Ora allorché Abramo ricevette la grazia, non vi era né la legge di Mose, né la circoncisione: dunque si giustificò non in forza della legge mosaica e della circoncisione, ma per la fede che ebbe e per l’ubbidienza sua alla parola di Dio; ma Dio promise che allo stesso modo si sarebbero giustificate tutte le genti, o Gentili; “… dunque, o Galati, per piacere a Dio si esige la fede e l’obbedienza ai voleri divini, ma non l’osservanza della legge di Mosè”; e S. Paolo avverte che la promessa della giustificazione fu fatta non solo ad Abramo, ma anche alla sua “prole”, non proli, perché si indicava Cristo e tutti quelli che nella fede si sarebbero mostrati figli di Cristo. L’Apostolo prosegue argomentando così: “La legge venuta dopo 430 anni non poté annullare il patto già stabilito da Dio, sicché rimanesse la promessa senza effetto: „ che è quanto dire: la legge di Mosè, data da Dio sul Sinai, venne 430 anni dopo; ora, se fosse necessaria l’osservanza di questa legge per essere figli di Dio, Dio stesso avrebbe annullata la promessa od il patto stretto con Abramo in forza del quale i Gentili dovevano ricevere la benedizione alla maniera stessa di Abramo. Se la grazia divina venisse a noi dalla legge di Mosè, allora non verrebbe secondo la promessa fatta ad Abramo; eppure questa grazia fu promessa da Dio fuori e prima della legge, e la promessa di Dio sta e deve stare, come sta e deve stare un testamento a cui non è lecito né aggiungere, né levare una sillaba. È questo l’argomento, sottile sì, ma valido, dell’Apostolo. – Ora qualche osservazione acconcia ai nostri bisogni. In questi versetti si parla della giustificazione ottenuta da Abramo, e che doveva ottenersi dai suoi figli secondo lo spirito, mediante la fede in Cristo. Che cosa è questa giustificazione? È la grazia, è una forza stabile, che penetra tutta l’anima, la trasforma, la abbellisce e stampa in essa l’immagine di Dio e le dà il diritto di vederlo un giorno ed amarlo svelatamente ed essere felice della sua stessa felicità. Vedete un ferro: esso è di per sé freddo ed oscuro: fate che il fuoco, un fuoco potente lo investa; diventa non solo caldo, ma rovente e lucente senza cessare d’essere ferro: ciò stesso avviene dell’anima che riceve la grazia di Dio: non cessa d’essere anima, ma acquista doti e qualità ammirabili; diventa bella della bellezza di Dio, forte della sua forza stessa, e perciò i suoi atti acquistano un valore sovrumano. Quest’anima si dice giustificata, cioè fatta giusta e retta dinanzi a Dio, bella di quella bellezza ch’Egli vuole in lei, e perciò cara a Lui ed oggetto dell’amor suo: essa diviene partecipe della stessa divina natura, come il fiore è partecipe della bellezza del sole che lo colora ed abbellisce. Questa giustificazione o grazia divina non può essere il frutto delle opere nostre, né merito dei nostri sforzi, come non è merito del fiore l’essere abbellito dal sole: è dono, tutto e puro dono di Dio: tutto il nostro merito sta nel riceverlo, ancorché, ricevutolo, possiamo e dobbiamo accrescerlo con la nostra cooperazione. Questa grazia, che è il massimo dei doni di Dio, noi la riceviamo per i meriti di Gesù Cristo, nel quale e per il quale soltanto, come altrove scrive S. Paolo, siamo arricchiti d’ogni bene spirituale. – Seguitiamo l’Apostolo: “Voi direte, così egli fa parlare i Galati: Se la legge mosaica con tutte le sue prescrizioni e con la stessa circoncisione, non ci riconcilia con Dio e non ci santifica, che vale essa? Perché ci fu data? Qual pro di questa legge, che pure viene da Dio? Quid igitur lex?” — Risponde tosto l’Apostolo con la sua forma sì concisa: “Vi dico che la legge mosaica fu aggiunta alla promessa fatta ad Abramo, a causa delle trasgressioni del popolo d’Israele, il quale per la sua lunga dimora in Egitto, era caduto in tanta ignoranza ed in tanto pervertimento, che spesso faceva il male senza nemmeno conoscerlo: (Lex) posìta est propter transgressiones“. Spieghiamo un po’ meglio, se almeno ci vien fatto, la mente dell’Apostolo, che qui può parere oscura. – Abramo si giustificò innanzi a Dio, credendo alle sue parole e promesse ed ubbidendo ai suoi voleri; alla stessa maniera potevano e dovevano giustificarsi tutti i suoi discendenti: bastava che credessero alle divine promesse fatte ad Abramo e operassero conformemente ad esse, ma che avvenne? I suoi discendenti crebbero in gran numero, divennero un gran popolo in Egitto: a poco a poco dimenticarono le promesse avute per Abramo: caddero ripetutamente nell’idolatria e si resero colpevoli di gravissimi delitti. Che fece allora Iddio? Viste le male inclinazioni del popolo e le sue miserande cadute, nella sua misericordia gli diede la legge con tutto quel cumulo di minute prescrizioni ond’essa è ripiena: (Lex) propter transgressionea posita est. Questa legge di timore era un aiuto possente dato al popolo per tenerlo sulla via della verità e mantenere viva in lui la memoria delle promesse divine; questa legge, come poco appresso dice lo stesso Apostolo, era la guida, il pedagogo che doveva condurre Israele a Cristo e prepararlo al suo Vangelo (vers. 25). “La legge mosaica, soggiunge Paolo, fu promulgata dagli Angeli, per mezzo di un mediatore, che è Mosè. „ Da queste parole apprendiamo che la legge data sul Sinai, fu data per mezzo degli Angeli: Ordinata per angelos, e che dagli Angeli la ricevette Mosè, il quale fu poi il mediatore tra Dio e il popolo: In manu mediatoris. Forse alcuno tra voi dirà: Noi abbiamo sempre udito dire che Mosè  ricevette la legge da Dio stesso: come sta che qui S. Paolo ci insegna che Mosè la ricevette dagli Angeli? Nessuna difficoltà, o carissimi. Ciò che Iddio fa per mezzo degli Angeli o dei suoi ministri, dicesi fatto da Lui stesso, perché Egli ne è la causa principale. Non diciamo noi che Dio santifica il bambino nel Battesimo, scioglie dai peccati l’adulto, benché il Battesimo sia conferito dal ministro, e la penitenza amministrata dal Sacerdote ? Similmente le Scritture sante ci dicono che la legge fu data a Mosè, ora da Dio ed ora dagli Angeli, ed è l’una e l’altra cosa. E qui è superfluo il ciò che altre volte ebbi a dire, cioè Dio nelle opere tutte che compie fuori di sé, anche le più alte, suole usare come strumento le cause seconde, Angeli ed uomini, perché in tal guisa apparisce meglio la sua grandezza e la sua gloria, e perché eleva alla dignità di cause le creature, le nobilita e le rende più simili a sé. Impariamo dunque ad  venerare questi spiriti eccelsi, gli Angeli che stanno tra Dio e noi, e che sono i ministri ordinari dei suoi voleri sulla terra. E fino a quando doveva durare la legge di Mosè, data in aiuto delle promesse fatte prima ad Abramo? Finché fosse venuto il seme a cui aveva promesso — Donec veniret semen cui promiserat, „ E chi è questo seme? Non occorre il dirlo, è Cristo, nel quale avrebbe avuto compimento la benedizione promessa ad Abramo. Allorché il fanciullo diventa uomo, cessa l’opera del pedagogo: dunque alla venuta di Cristo doveva cessare la legge, e cessò. –  Continua S. Paolo e scrive: “Ora mediatore non vi fu per uno, eppure Dio è uno. „  È una sentenza che ha bisogno di essere chiarita, e così mi pare si possa chiarire: Dio è uno solo e Padre di tutti gli uomini, e tutti li vuol salvi, e la sua volontà è eterna ed immutabile: agli Ebrei diede la legge in aggiunta alla promessa per condurli a salute, e la diede per Mosè, come per un mediatore: a quelli che non sono Ebrei provvede Egli stesso, ponendo a loro capo Cristo stesso, e in Lui unificando i figli di Abramo ch’ebbero il mediatore in Mosè, ed i Gentili, che chiama a sé senza l’opera di Mosè. In altri termini: come gli uomini si salvavano senza la legge, prima di Mosè, per la fede in Cristo ventura, così ora si salvano senza la stessa legge, purché credano in Cristo già venuto: la legge di Mosè fu un aiuto temporaneo dato da Dio ai soli Ebrei. La conseguenza pratica di questo insegnamento dell’Apostolo nei versetti citati, si riduce in sostanza a stabilire questo punto fondamentale: la salute per tutti gli uomini, Giudei e non Giudei, prima e dopo Cristo, sta riposta unicamente in Cristo, Salvatore universale. Egli comparisce sulla terra nel mezzo dei tempi: una parte dell’umanità lo precede: l’altra viene dopo di Lui e continuerà, fino alla fine dei tempi: quella prima parte guarda a Cristo venturo con la fede nelle promesse divine, come Adamo, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, o con la fede aiutata dalla legge mosaica, come Mosè, Davide e tutti i profeti; la seconda parte guarda a Cristo venuto, e a Lui si unisce con la fede, che opera per la carità. Per tal modo Cristo è il gran centro di tutta l’umanità, e in Lui si appuntano tutti gli sguardi, tutti i desideri e tutti gli amori di quelli che cercano e vogliono la salvezza. Fratelli e figliuoli carissimi! Gesù Cristo è la luce delle nostre menti, è la forza delle nostre volontà, è la nostra vita. Tutti dunque uniamoci a Lui, perché solo per Lui abbiamo accesso a Dio, come scrive altrove San Paolo. Ma come  possiamo unirci a Lui, sì che la sua vita divina si spanda in noi? Eccovelo. L’anima nostra si svolge tutta negli atti di quelle due potenze che le sono proprie e caratteristiche: l’intelligenza e la volontà. L’intelligenza è ordinata al possesso della verità, come l’occhio è ordinato a ricevere la luce: e la volontà tende necessariamente ad amare, come i polmoni a respirare. Ora Gesù Cristo, autore e consumatore dalla fede, per mezzo della Chiesa, ci presenta le verità che sono la luce dalla nostra intelligenza, ci mostra se stesso, come oggetto degno di tutto il nostro amore. Ebbene:  appuntiamo la nostra intelligenza in queste verità che sgorgano da Cristo, come i raggi emanano dal sole; volgiamo il nostro cuore a Gesù, come il fiore volge il suo calice al sole che lo colora, e posiamolo in Lui, ed ecco compiuta la nostra unione con Gesù Cristo. Dietro alla mente ed al cuore, con la fede e con la carità intimamente uniti a Gesù Cristo, verranno le opere, verrà il corpo stesso, fedele esecutore di ciò che si conosce e si vuole od ama. Congiunti mente e cuore a Gesù Cristo nel tempo, lo saremo nella eternità. Ma è da passare alla spiegazione degli ultimi due versetti della nostra Epistola. “Sarà dunque la legge contraria alle promesse di Dio? No. „ — È una nuova difficoltà che l’Apostolo, secondo il suo stile sì conciso e vibrato, muove a se stesso. La legge di Mosè, come sopra si è stabilito, non dava la grazia e la santificazione per se stessa, ma questa veniva soltanto dalla fede salda alle promesse divine; ora l’essere aggiunta la legge di Mosè alle promesse divine, fa sì che sembri non bastevole la fede, e che la giustificazione derivi dalla legge stessa. In altra forma: l’aggiunta della legge mosaica alle promesse divine arguirebbe il difetto di queste e la necessità e sufficienza di quella. No, no, risponde Paolo, quasi inorridito: Absit. Se la legge mosaica avesse avuto virtù di santificarci per se stessa, allora sarebbe vero che è contraria alle promesse, perché la giustificazione ci verrebbe dalla legge e non dalle promesse divine e dalla fede alle medesime. Resta dunque verità indubitata, che la legge mosaica non può sostituire la fede nell’opera della nostra giustificazione, e che fu soltanto un aiuto temporaneo dato agli Ebrei, per renderla più sensibile e conservarla finché venne Cristo, che la rese inutile. – Siamo all’ultima sentenza dell’Apostolo: “Ma la Scrittura ha racchiusa ogni cosa sotto peccato, affinché la promessa di fede fosse data per Gesù Cristo ai credenti. „ Non ve lo dissimulo, o carissimi; anche quest’ultima sentenza è dura ad intendersi per la forma del dire e per la struttura del periodo: ma questo è il senso: No, la legge di Mosè non è contraria alle promesse di giustificare gli uomini con la fede in Gesù Cristo; anzi serve di mezzo a compirle. In qual modo? La legge mosaica data agli Ebrei tolse forse le trasgressioni ed arrestò le colpe loro? No; anzi crebbero a dismisura fino all’eccesso di mettere a morte il Figliuolo di Dio: la legge mosaica mise in piena luce la debolezza dell’uomo, e gli fece sentire dopo sì lunga prova la necessità dell’aiuto divino, e che solo per la fede in Gesù Cristo poteva giustificarsi. Questa dottrina dell’Apostolo mi richiama al pensiero ciò ch’egli stabilisce nei primi tre capi della sua lettera ai Romani, e particolarmente nel terzo (vers. 20). S. Paolo mostra con robusta eloquenza, che tanto i Gentili con la sola ragione e con la sola forza della natura, come gli Ebrei con la loro legge mosaica, non poterono piacere a Dio, e che tanto quelli che questi, dovevano confessare la loro impotenza assoluta nell’opera della propria giustificazione, ed erano forzati a riconoscerla soltanto da Gesù Cristo, e così nessuno possa gloriarsi dinanzi a Dio e tutti soggiacciamo al suo giudizio (Rom. III, 19). Tutti, Gentili ed Ebrei, sono peccatori: tutti egualmente, per piacere a Dio e salvarsi, hanno bisogno della fede in Gesù Cristo (Rom. III, 22, 23, 27, 29, 30). Deh! che questa fede, che riceveste nel santo Battesimo, che fu nutrita dalla parola di Dio e dai Sacramenti, che è la radice della nostra santificazione e che opera per la carità, sia sempre viva nei vostri cuori [Comprendo molto bene che il testo dell’Apostolo è oscuro e che anche dopo la mia spiegazione rimangano molti punti non abbastanza chiariti. Mi studierò di esporre in breve e più chiaramente il pensiero dell’Apostolo. S. Paolo vuol dimostrare che la legge mosaica per sé non salva e che salva la fede in Dio e in Gesù Cristo. Come lo mostra? Udite. Abramo si giustificò col credere a Dio e alle sue promesse: quelle promesse e quella fede furono anteriori alla legge di Mosè e alla circoncisione: dunque la legge di Mosè e la circoncisione, per sé, non sono necessarie, perché l’uomo si giustificò senza di esse con la fede allo promesse divine. Vanne la legge, venne la circoncisione. Perché? A che servono? Unicamente come aiuto e mezzo per avvivare la fede nelle divine promesse, attese le debolezze e la infedeltà d’Israele. La legge mosaica e la circoncisione non tolse dunque nulla alla efficacia della fede nelle divine promesse. Ora è venuto il termine delle divine promesse: Cristo. Via dunque la legge mosaica, via la circoncisione, ch’erano soltanto un aiuto per tenerci saldi alla fede nelle divine promesse: si leva l’impalcatura quando la fabbrica è compiuta. Così parmi spiegato meglio il testo apostolico].

Graduale
Ps LXXIII:20; 19; 22.

Réspice, Dómine, in testaméntum tuum: et ánimas páuperum tuórum ne obliviscáris in finem.
[Signore, abbi riguardo al tuo patto: e non dimenticare per sempre le ànime dei tuoi poveri.,+

Exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam: memor esto oppróbrii servórum tuórum. Allelúja, allelúja
[
V. Sorgi, o Signore, e difendi la tua causa e ricordati dell’oltraggio a Te fatto. Allelúia, allelúia].

Alleluja

Ps LXXXIX:1
Dómine, refúgium factus es nobis a generatióne et progénie. Allelúja. [O Signore, [Tu fosti il nostro rifugio in ogni età. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XVII:11-19

In illo témpore: Dum iret Jesus in Jerúsalem, transíbat per médiam Samaríam et Galilaeam. Et cum ingrederétur quoddam castéllum, occurrérunt ei decem viri leprósi, qui stetérunt a longe; et levavérunt vocem dicéntes: Jesu præcéptor, miserére nostri.
Quos ut vidit, dixit: Ite, osténdite vos sacerdótibus. Et factum est, dum irent, mundáti sunt. Unus autem ex illis, ut vidit quia mundátus est, regréssus est, cum magna voce magníficans Deum, et cecidit in fáciem ante pedes ejus, grátias agens: et hic erat Samaritánus. Respóndens autem Jesus, dixit: Nonne decem mundáti sunt? et novem ubi sunt? Non est invéntus, qui redíret et daret glóriam Deo, nisi hic alienígena. Et ait illi: Surge, vade; quia fides tua te salvum fecit.” 

OMELIA II

 [Mons. Bonomelli: ut supra; vol. IV, Omelia II.- Torino 1899]

“Avvenne che, nel muovere alla volta di Gerusalemme, Gesù passava attraverso la Samaria e la Galilea; ed essendo entrato in un certo villaggio, gli si fecero incontro dieci lebbrosi, i quali si fermarono da lontano e levarono la voce, dicendo: “O Gesù maestro, abbi pietà di noi”. E vedutili, disse loro: “Andate e mostratevi ai sacerdoti”. E avvenne, che nell’andare, furono mondati. Ed uno di quelli, vedutosi mondato, torna indietro, glorificando Dio a gran voce. E gittossi con la faccia per terra, ai piedi di Lui, ringraziandolo, e questi era samaritano. Allora Gesù, rispondendo, disse: Non furono forse dieci i mondati? E dove sono gli altri nove? Non si è trovato chi tornasse a dar gloria a Dio se non questo straniero? Egli disse: Levati su e vattene: che la tua fede ti ha salvato!” (S. Luca, XVII, 11-19).

Il miracolo della resurrezione di Lazzaro, sì strepitoso, sì evidente, operato da Gesù sulle porte di Gerusalemme, aveva messo sossopra il Sinedrio. I capi dei farisei e del popolo, radunati a concilio sotto la presidenza di Caifa, avevano deliberato di metterlo a morte. Gesù allora (Giov. XI, 54) lasciò Gerusalemme e Betania e si ritrasse ad Efrem, cittadella sui confini della Giudea. Poco appresso lasciò anche Efrem, prese la via della Samaria, risalì fino in Galilea e di là discese nella valle del Giordano e ripigliò il cammino verso Gerico e Gerusalemme, poco prima dell’ultima Pasqua. Fu in questo viaggio, che precedette di pochi giorni la sua morte, che avvenne il fatto, o meglio, il miracolo, che vi ho narrato. Esso non presenta difficoltà alcuna: ma si presta ad applicazioni morali non prive di pratico interesse, meritevoli della vostra pia attenzione. – Narra un viaggiatore moderno di aver trovato, sulla via che da Giaffa mette a Gerusalemme, una turba di pezzenti. Essi, scrive il viaggiatore, erano senza capelli, senza naso, senz’occhi, e tendevano verso di lui le braccia senza mani: non parlavano, ma mugolavano nella gola parole impossibili ad intendersi. Erano lebbrosi che vivevano rilegati fuori dell’abitato, in certi casolari abbandonati; nessuno toccava né loro, né i loro abiti od utensili. I tocchi dalla lebbra, oggi assai rari anche in Oriente, erano numerosi al tempo di Cristo. Questa terribile malattia, comune allora in Oriente, passò in Occidente al tempo delle Crociate e vi si diffuse in modo che si eressero molti ospitali per i lebbrosi. Oggidì in Occidente è quasi scomparsa, ma non sono rari i casi in Oriente, massime in Palestina e se ne hanno in altre parti del mondo. Era ed è una conseguenza del difetto d’ogni pulizia. Mosè aveva stabilito le regole più minute e più severe da osservarsi quanto ai lebbrosi od anche solo sospetti d’essere colti dal fiero morbo. Il sacerdote, ch’era anche medico, doveva esaminare l’infermo sospetto di lebbra: trovatolo caso dubbio, lo separava finché cessasse il dubbio. Se non era lebbra, lo lasciava libero; se la lebbra si manifestava, lo separava totalmente dalla società: se guariva, ciò che accadeva raramente, il lebbroso doveva presentarsi al sacerdote, il quale, accertata la guarigione, nella sua qualità anche di medico, gli permetteva di ritornare in mezzo alla società. Mosè si può considerare come il primo legislatore, che contro il propagarsi delle malattie contagiose (e contagiosa in sommo grado era la lebbra) stabilì la più assoluta separazione. Mandate innanzi queste semplici osservazioni, veniamo al fatto narrato dal Vangelo. Avvenne che nel muovere alla volta di Gerusalemme, Gesù passava attraverso la Samaria e la Galilea. „ La Samaria divide la Giudea dalla Galilea, tantoché non si poteva passare dall’una all’altra provincia senza attraversare la Samaria, o fare un lungo giro ad oriente, di là del Giordano. – ” Essendo entrato, in un certo villaggio, gli si fecero incontro dieci lebbrosi. „ Noi ignoriamo il nome di questo villaggio che il Vangelo non ha nominato; ma secondo ogni verosimiglianza è il villaggio che oggi si chiama Diennin (V. P. Didon, Vita di Gesù Cristo, vol. 1, pag. 140), a metà strada tra Nazaret e Sichem. Presso il villaggio gli si fecero incontro dieci lebbrosi. Non deve far meraviglia trovarne dieci insieme, sia perché, come dissi, allora in Palestina erano più frequenti che al presente i casi di lebbra, sia perché, cacciati dai luoghi abitati ed andando qua e là a guisa di vagabondi, era naturale che gl’infelici si cercassero a vicenda, per temperare nella convivenza, che sola era loro possibile, lo strazio dei loro dolori e l’affanno e la desolazione dell’isolamento inesorabile a cui erano condannati. Il trovarsi tra loro un Samaritano prova che si erano mossi insieme, dandosi quasi la posta, da vari paesi. Quei miseri avevano certo dovuto udire più volte pronunziare il nome di Gesù, come quello di un gran profeta, d’un gran maestro, anzi del Messia aspettato. La fama dei miracoli operati da lui, certamente era giunta ai loro orecchi, e con essa era nata nel loro cuore la speranza d’essere per Lui risanati. Per chi è percosso da grave infermità è tanto naturale aprir l’animo ala speranza della guarigione, anche quando sembra impossibile! Pensate se non lo dovessero aprire questi sventurati, che di Gesù, della sua bontà e della sua potenza avevano udite tante meraviglie! Io credo che qualche persona, impietosita di quegli infelici e bramosa di vedere un miracolo, corresse a loro, e stando da lungi, li chiamasse e gridasse loro che Gesù di Nazaret, l’operatore di tanti miracoli, si avvicinava al villaggio; ch’Egli poteva guarirli; che non dovevano lasciar sfuggire sì bella occasione; che corressero a Lui, che lo pregassero, che lo supplicassero a risanarli: era sì buono, che li avrebbe esauditi, come altri ne aveva esauditi! Immaginate voi se quei poveretti avevano bisogno d’altri conforti. Essi, unitisi insieme, e forse sorreggendosi pietosamente gli uni gli altri, si collocarono sulla via per dove passava Gesù, e appena lo videro o l’udirono avvicinarsi, rispettando la legge, che li obbligava a starsene lontani: “Levaverunt vocem suam — si misero a gridare come più e meglio potevano. „ E che dicevano essi quei tapini? Qual era il grido, lamentevole, quale la preghiera ardente, che rivolgevano a Gesù, agitando le braccia? Uditela: “O Gesù maestro, abbi pietà di noi” – = — Jesu præceptor, miserere nostri. „ Lo chiamano col suo nome proprio e sì dolce, e vi aggiungono il titolo d’onore: “Maestro – Rabbi, „ che gli si dava dal popolo e che a Lui sì bene conveniva. Il loro grido, la loro preghiera è sì bella, sì semplice e sì eloquente, che altra più naturale e più efficace non si può immaginare. È questa la preghiera che il bisogno e la stessa natura mettono sulle labbra dell’uomo, ed è quella che dovrebbe risonare sulle nostre ogni qualvolta ci prostriamo dinanzi a Dio: Signore, abbiate pietà di me: Miserere mei, Deus. E la confessione della nostra miseria, è l’espressione della nostra fiducia in Dio: è il grido dell’umiltà e della speranza, le due ali con le quali voliamo a Dio. Allorché, o carissimi, siamo afflitti, desolati e gemiamo sotto il peso dei nostri dolori, e talvolta non sappiamo come pregare, prostriamoci dinanzi a Dio e ripetiamo spesso questa sì breve e sì santa preghiera: “Signore, abbiate pietà di me. „ I poveri lebbrosi non gridano a Gesù: Liberaci, o Maestro, da questa lebbra, mondaci da queste schianze e fetide piaghe onde siamo coperti: essi le mostrano e a chi ha cuore, basta mostrare i bisogni per essere esauditi. Io credo che, come al solito, gran folla di popolo accompagnasse Gesù, desiderosa di vedere il miracolo. Gli occhi di tutta quella moltitudine si fissavano avidamente ora sopra il divino Maestro, ed ora sui dieci sventurati; il silenzio doveva essere profondo, vivissima l’aspettazione. Gesù fermò gli occhi pieni d’amore e di tenerezza sopra di essi, mostrando che sentiva al vivo i loro dolori, e poi con voce amorevole e che mostrava i loro voti dover essere fatti paghi, disse: “Andate, mostratevi ai sacerdoti — Ite, ostendite vos sacerdotibus. „ Perché mai Gesù Cristo non volle mondare immediatamente, lì sul luogo, quei dieci lebbrosi, come fece quasi costantemente ogni volta che fu richiesto di qualche miracolo? Perché volle che questi lebbrosi se ne andassero e si mostrassero ai sacerdoti? Non è mestieri il far osservare che Gesù poteva operare i miracoli come meglio stimava, e nessuno aveva il diritto di imporgli il modo di operarli: ma non è temerità investigare con umiltà e riverenza, perché ha voluto tenere questo modo insolito con i dieci lebbrosi, e noi lo facciamo seguendo l’insegnamento dei Padri e degli interpreti più autorevoli. – Secondo la legge di Mosè (Levit., c. XXIV) era uffizio dei sacerdoti, come poc’anzi accennai, il verificare l’esistenza della lebbra e la sua guarigione; e Gesù, per rispetto alla legge, e fors’anco per disarmare con quell’atto di deferenza i sacerdoti, che sapeva essergli nemicissimi, Gesù mandò quei lebbrosi ai sacerdoti per mettere alla prova la loro fede ed ubbidienza, e in tal guisa far loro quasi meritare il miracolo. Finalmente, penso io, voleva che gli stessi sacerdoti, suoi nemici, fossero testimoni del miracolo, e così aprissero gli occhi alla verità. Certamente è poi da credere, che Gesù pronunziò queste parole : “Andate e mostratevi ai sacerdoti, „ in modo che i lebbrosi compresero benissimo che la guarigione era sicura, e non per virtù dei sacerdoti, ma di Lui che li mandava ai sacerdoti. Onde lieti partirono per recarsi dai sacerdoti, e … “avvenne che nell’andare furono mondati. „ Senza dubbio dal contesto del Vangelo è chiaro: la loro guarigione avvenne in un istante, benché dei particolari intorno al modo non vi sia un solo cenno: Et factum est, dum irent mundati sunt. – Voi vedete che la certezza del miracolo non potrebb’essere maggiore. Si tratta d’una malattia visibile a tutti e notissima, e la cui guarigione era assai rara: e quando pure lunga cura, ed era progressiva, non mai repentina; qui il risanamento avvenne sulla via, ad un tratto, in tutti i dieci egualmente, in quella che ubbidiscono al comando di Cristo: non si applica nessun rimedio, non precede la minima cura. Il fatto si compie all’aperto, sulla via pubblica e, credo, sotto gli occhi di molti che li dovevano seguire, se non altro, per una certa curiosità. Si tratta non di un solo lebbroso mondato, ma di dieci; d’uno o di due forse si poteva dubitare che fossero allucinati, o come che sia ingannati o ingannatori: ma dieci allucinati, tutti ingannati o ingannatori, e ingannatori senza motivo, contro ogni interesse proprio, calpestando la propria coscienza, esponendosi ai più gravi pericoli, questo, o cari, è troppo, è impossibile. La guarigione pertanto dei dieci lebbrosi, quale ci è narrata dal Vangelo, considerata in ogni sua parte, col solo lume del senso comune, apparisce un fatto indubitato, e per conseguenza un’opera evidentemente sovrumana, in una parola, un vero miracolo. – E qui mi parrebbe di lasciare imperfetto e manchevole il commento di questo miracolo evangelico, se lasciassi da banda un’altra osservazione od applicazione che vedo toccata da tutti gli interpreti cattolici, e che torna sempre opportunissima. La lebbra, onde quei meschini erano coperti e orribilmente malconci e disfatti, era figura del peccato: il guasto che la lebbra faceva dei corpi, coprendoli di macchie schifose e piaghe puzzolenti e gangrenose e dimorandoli vivi, lo fa il peccato dell’anima nostra. A guisa di immonda lebbra la copre, altera in essa o bruttamente svisa la bella immagine di Dio e la rende deforme ed abominevole ai suoi occhi. Chi la monderà da tanta bruttura? Chi farà cadere quelle pustole fetenti, che tutta la insozzano? Chi chiuderà le sue piaghe, che menano un lezzo intollerabile? Chi ristorerà in essa la immagine di Dio e farà rifiorire l’antica sua bellezza? Dio solo, o carissimi, può ciò fare, perché come Egli solo col Battesimo ha creato queste capolavoro di bellezza, che è l’anima adorna della sua grazia, così Egli solo può rifarlo, rifondendo la stessa grazia: lo può e lo vuole col più acceso desiderio. Dio può mondarla dalla lebbra del peccato e rivestirla della sua prima bellezza, infondendo in essa la sua grazia direttamente, senza bisogno di qualsiasi mezzo o strumento; chi potrebbe dubitarne? Ma Dio vuol fare tutto questo, associando a sé l’uomo, dirò meglio, il sacerdote, e usando di lui, come di strumento, in maniera che  senza il suo concorso, Egli ordinariamente non fa nulla. Dio vuole sciogliere il peccatore dalla lebbra del suo peccato e rifarlo suo figliuolo per adozione mercè l’opera del Sacerdote. Udite ciò che Cristo dice ai dieci lebbrosi, che con le lacrime agli occhi gli chiedono la guarigione: ” Andate, mostratevi ai sacerdoti. „ Così Egli dice a noi tutti peccatori, che gli chiediamo la guarigione dell’anima nostra, il perdono dei nostri peccati: ” Sì, io vi monderò della vostra lebbra; io vi perdonerò le vostre colpe e vi rivestirò dell’ammanto prezioso della grazia; ma andate, e mostratevi ai Sacerdoti — Ite, ostendite vos sacerdotibus. „ Chi mai potrebbe lagnarsi di questa condizione impostaci per avere il perdono delle nostre colpe? Non è Egli il padrone assoluto, al cui impero nessuno può sottrarsi? Non poteva Egli imporci condizioni assai più dure e gravose? E non dovremmo noi anche in tal caso essergli grati della misericordia usata? E chi ne può dubitare? Infine ci dice: “ Andate, mostratevi ai Sacerdoti, „ cioè aprite loro il vostro cuore, i penetrali della vostra coscienza: anch’essi, questi Sacerdoti, per ottenere il perdono delle loro colpe, sono sottoposti alla stessa legge, e devono, come voi, manifestare la propria coscienza ai fratelli loro, ed avendo essi pure bisogno di carità, la useranno tutta con voi. Non temete di palesar loro le vostre debolezze e le vostre colpe; esse rimarranno sepolte per sempre nel loro cuore. E non sarà piccolo il vantaggio che voi ritrarrete, manifestando le vostre coscienze ai Sacerdoti: voi sarete obbligati a studiare e conoscere meglio voi stessi, le vostre passioni, le vostre tendenze: il rossore che proverete scorrendo le vostre colpe sarà parte di quella penitenza che dovreste fare, e sarà un valido ritegno al trascorrere delle passioni, e umiliando l’orgoglio troppo naturale del vostro cuore, vi renderà più saldi e più generosi nelle lotte quotidiane che dovrete sostenere. Non vi incresca adunque di ubbidire, come i dieci lebbrosi, al comando, non degli uomini, ma di Gesù Cristo, di andare e mostrarvi ai Sacerdoti con la Confessione, e così essere mondati dalla lebbra del peccato. – Voi dovete sapere che il Vangelo nella narrazione dei fatti è oltre ogni dire conciso: accenna appena le cose più necessarie, e le altre le lascia sottintendere ai lettori. Senza fallo, allorché Gesù Cristo disse ai dieci lebbrosi: “Andate, mostratevi ai sacerdoti, „ ancorché nol dicesse, lasciò loro intendere che certamente sarebbero stati mondati, e perciò la loro fede fu piena, la loro obbedienza fu pronta e cieca, e se ne andarono. Mentre se ne andavano, ad un trattò si videro cadere le squame della lebbra, chiudere le piaghe aperte e rifiorire la carne e perfettamente risanati. Stupiti si guardavano a vicenda, e quasi non sapevano credere ai propri occhi. Potete immaginare la gioia di questi poveri lebbrosi, che testé si vedevano cacciati dalla convivenza sociale, condannati ad una morte inesorabile ed atrocissima, ed ora si vedono ritornati in vita e liberi di rientrare in seno alle loro famiglie. La guarigione dovette avvenire in un istante, come dicevo, e per loro non poteva esservi ombra di dubbio che l’autore del miracolo era Gesù Cristo. L’istantanea e prodigiosa guarigione dalla lebbra di quei tapinelli, è figura di quell’altra istantanea e che Gesù Cristo opera in noi mercé della sacramentale Confessione. Allorché noi, guidati dalla fede, ubbidiamo al comando di Gesù Cristo, e confessiamo schiettamente le nostre colpe al suo ministro: allorché egli alza la sua mano e pronunzia le sante parole: “Io ti assolvo, „ la lebbra del peccato sparisce dall’anima nostra, ed essa è rivestita della bellezza divina, ond’era stata nel santo Battesimo arricchita. Ah! se in quell’istante i nostri occhi potessero vedere ciò che avviene nell’anima nostra e la sua meravigliosa trasformazione, la nostra gioia per fermo non sarebbe inferiore a quella onde furono ricolmi i dieci lebbrosi. –  Ritorniamo alla narrazione evangelica. Visto il miracolo che fecero, che dissero i dieci lebbrosi? Noi immaginiamo che tutti e dieci, senza esitare un solo istante, dovessero rifare la via e a gran corsa ritornare a Gesù, che non doveva essere lontano, e ringraziarlo e benedirlo, e narrare a tutti ciò ch’Egli aveva operato in loro; ma non fu così. Nove proseguirono il loro cammino, come se nulla fosse, e certo si recarono dai sacerdoti, affinché, accertata la guarigione, secondo la legge di Mosè, e fatta l’offerta, fosse loro dato di ritornare nelle loro famiglie (Gesù Cristo comandò ai lebbrosi di mostrarsi ai sacerdoti, non solo, credo io, perché la legge lo voleva e per far palese com’Egli la rispettava, ma perché essi stessi potessero e dovessero vedere con i loro occhi il miracolo per Lui operato e ne fossero testimoni.), il decimo per contrario, appena si vide mondato, ritornò sui suoi passi, corse da Gesù, si buttò ai piedi di Lui, con la faccia sul suolo: Cecidit in faciem suam ante pedes ejus, ringraziandolo senza fine: Gratias agens. E chi era egli questo lebbroso, che solo dei dieci ritornava a Gesù per attestargli la sua gratitudine? Il Vangelo non lo tacque: “Egli era samaritano — Et hic erat samaritanus.” I Giudei, come altra volta ebbi occasione di osservare, odiavano, abbominavano i Samaritani, e li tenevano in conto non solo di erranti e pagani, ma peggio ancora, se era possibile. Eppure Gesù non fece differenza alcuna nel miracolo operato; Egli guarì il Samaritano come gli altri nove che erano giudei, combattendo e distruggendo in tal guisa il pregiudizio nazionale, e mostrando come il Vangelo avrebbe stabilito il regno della carità universale. Poco prima il Salvatore (capo X, 33), ad un dottore della legge, alla presenza delle turbe giudaiche, nella persona di un Samaritano, aveva proposto il modello della carità fraterna; qui, in un Samaritano vero e reale, ci mette innanzi il tipo della gratitudine. Si direbbe che Gesù Cristo disponeva a bello studio le cose in modo da umiliare l’orgoglio degli Ebrei e distruggere il loro inveterato pregiudizio contro dei Samaritani. Credo anche non inutile avvertire un’altra cosa, che mostra il perché il buon Samaritano solo se ne tornò a Gesù, ed è questa: Egli troppo bene sapeva che se si fosse presentato ai sacerdoti, l’avrebbero dispettosamente respinto e rifiutato la sua offerta, appunto perché samaritano; e sapeva d’altra parte che quel Gesù che l’aveva mondato con tanta prontezza e bontà, l’avrebbe anche amorevolmente accolto, e che in fine valeva meglio ringraziare chi l’aveva con sì strepitoso miracolo risanato, che presentarsi al tempio e ai sacerdoti, che nulla avevano fatto, né potevano fare… Il buon Samaritano stava ai piedi di Gesù, e, come meglio poteva, con gli atti e con le parole, e, credo, anche con le lacrime, mostrava la sua gratitudine e benediceva il divino Maestro. Questi lo accoglieva con ogni amorevolezza, lo guardava con occhio pieno d’amore, e taceva; gli Apostoli e le turbe meravigliati gli facevano corona, aspettando pure che Gesù parlasse, e finalmente parlò e disse: “Non furono forse dieci i mondati? E gli altri nove dove sono? „ Voi lo comprendete, o dilettissimi: in queste domande di Gesù si sente un cotale accento di dolore, di mestizia, di nobile e tranquillo lamento, che va dritto al cuore, e che un lungo discorso difficilmente potrebbe esprimere. “Io so bene d’averne risanati dieci: ora come avviene che ne vedo un solo? Gli altri nove dove sono essi? „ Le parole di Cristo non erano rivolte né al Samaritano, né agli Apostoli, ma sono una forma di soliloquio, che fa seco stesso. Dopo un breve silenzio molto significante Gesù riprese, ed in modo solenne, girati intorno gli sguardi, disse: “Dunque non si è trovato chi tornasse a dar gloria a Dio, se non questo straniero! „ Di dieci lebbrosi un solo sentì il dovere di ringraziare chi li aveva sì prodigiosamente risanati, e, per di più, quest’uno non era un figlio di Abramo, ammaestrato dalla legge e dai profeti, ma uno straniero, un Samaritano! Non vi sfugga una osservazione, che mi sembra assai grave: in questo luogo Gesù, in modo abbastanza chiaro, afferma, sé essere Dio, perché dice: “Non si è trovato chi tornasse a dar gloria a Dio che questo straniero; „ ora lo straniero ch’era tornato a dar gloria o ringraziare, com’era suo dovere, dava gloria a Gesù Cristo, e Lui ringraziava: Gesù Cristo adunque parlava da Dio. – Una delle offese più cocenti, una delle ferite più dolorose che un’anima nobile e delicata possa ricevere, è senza dubbio l’ingratitudine delle persone beneficate, massime se queste hanno con essa vincoli speciali di parentela od amicizia, e se i benefizi sono grandi e segnalati. Avea ragione S. Bernardo di scrivere, che l’ingratitudine sopra ogni altra cosa spiace a Dio, particolarmente nei suoi cari figliuoli; che l’ingratitudine chiude la porta alla grazia, e che, quasi vento infuocato, dissecca la fonte della pietà, la rugiada della misèricorda, i ruscelli della grazia (Serm. 51). Non è vero, o cari, che allorché voi avete coscienza di aver colmato di benefizi un amico, di aver teneramente amato i vostri figli e sudato per essi, e li trovate sconoscenti, o anche solo indifferenti, vi sentite trafitti nella parte più intima del cuore ed esclamate: Oh gli ingrati! — Ebbene: da ciò misurate l’offesa che noi facciamo a Dio allorché sì malamente usiamo dei suoi benefizi. Questi, pel numero, per la qualità, per la durata, per la grandezza, per l’amore di chi li concede, non potrebbero essere maggiori. La vita che abbiamo, tutto ciò che alla vita è congiunto, la sua conservazione ad ogni istante, tutti i mezzi per conservarla e perfezionarla: la fede, la grazia, i sacramenti, la vita futura che ci promette ed offre, sono tali e tanti benefizi, che superano al tutto ogni umano comprendimento. Eppure a tanti benefizi, a tanto amore come abbiamo noi corrisposto? Me ne appello a voi. Noi ci lagniamo sì spesso di trovare uomini ingrati, e i nostri benefici sono quasi sempre un nonnulla: con quanta maggior ragione Dio può lagnarsi di noi, che tante volte lasciamo passare, non dico le ore e i giorni, ma le settimane, i mesi e gli anni senza dirgli: “O Signore, vi ringrazio della vita che mi avete accordato; della fede che mi avete dato, dei tanti benefizi che mi avete concessi! Questa gratitudine la dovremmo in ispecial maniera mostrare a Dio quando ci monda dalla lebbra dei nostri peccati nel Sacramento della Penitenza. In questo bagno salutifero Gesù Cristo ci monda dalla lebbra del peccato e ci adorna del manto glorioso della sua grazia; sarebbe mai, o dilettissimi, che a somiglianza dei nove lebbrosi, uscendo da questo lavacro purificatore, non ci recassimo ai piedi dell’altare, dove Gesù dimora nell’augusto Sacramento, e prostrandoci alla sua presenza col buon Samaritano, non lo ringraziassimo e levassimo a cielo la sua bontà e misericordia? Ah! se non lo facessimo, saremmo pure ingrati, e Gesù a ragione; potrebbe dire: E questo lebbroso, ch’io ho mondato nel mio sangue, non è venuto a ringraziarmi? Tanti pagani e Gentili ringraziano i loro idoli di quei benefizi che credono d’aver ricevuto da loro; tanti musulmani pubblicamente s’inginocchiano per benedire quel Dio, ch’ essi sì imperfettamente conoscono; tanti eretici e scismatici, che vivono nei loro errori, sollevano a me le loro mani e mi ringraziano a gran voce dei doni loro concessi; e i figli della Chiesa, i miei figli, prosciolti per me dai loro peccati, risanati dalla lebbra che li divora, non si curano tampoco di ringraziarmi. Ogni giorno al mattino ed alla sera, porgiamo a Dio il tributo della nostra riconoscenza, ringraziandolo degli innumerevoli benefizi onde ci è largo, e più particolarmente ogni volta che nel Sacramento della Penitenza ci mondiamo dalla lebbra del peccato, ricordandoci che il mezzo più efficace di ottenere grazie da Dio è quello di mostrarci grati di quelle ricevute. “Allora Gesù Cristo, così S. Luca chiude il suo racconto, disse al Samaritano: Levati e vattene, che la tua fede ti ha salvato. „ Tu hai creduto alle mie parole: tu, ubbidiente, andavi per mostrarti ai sacerdoti, secondo il mio comando: premio della tua fede e della tua ubbidienza è stata la guarigione; più grato de’ tuoi compagni, venisti a ringraziarmi; or levati e vattene. ,, Gesù qui, come in tanti altri luoghi del Vangelo, attribuisce la guarigione del lebbroso alla fede: certo la causa principale di quella guarigione era la bontà e la onnipotenza di Gesù Cristo; ma da queste parole apparisce che vi ebbe anche parte la fede del lebbroso stesso, tantoché è da dire, che se il lebbroso non avesse avuto questa fede, non sarebbe stato nemmeno risanato. Quantunque le parole di Cristo: ” La tua fede ti ha salvato, „ direttamente si riferiscano alla guarigione del corpo, è comune sentenza degli interpreti, che si riferiscano anche alla guarigione dell’anima, sia perché non è esclusa, sia perché era costume di Gesù Cristo risanare coi corpi anche le anime, sia finalmente perché la condotta del povero samaritano, i suoi ringraziamenti, la sua gratitudine sì altamente lodata dal Salvatore, non ci lasciano dubbio della sua pronta e sincera conversione. L’esempio di questo avventurato samaritano ci stia sempre dinanzi alla mente: egli ottenne insieme la salute del corpo e quella dell’anima: la ottenne dalla bontà del divino Maestro, ma non senza la propria cooperazione, per testimonianza di Cristo: ” La tua fede ti ha salvato. „ Noi pure otterremo la salvezza dell’anima nostra, ma a patto di prestare fedelmente la nostra cooperazione, radice della quale è la fede viva: Fides tua te salvum fecit.

Credo…

Offertorium
Orémus
Ps XXXIII:15-16
In te sperávi, Dómine; dixi: Tu es Deus meus, in mánibus tuis témpora mea.
[O Signore, in Te confido; dico: Tu sei il mio Dio, nelle tue mani sono le mie sorti.]

Secreta
Popitiáre, Dómine, pópulo tuo, propitiáre munéribus: ut, hac oblatióne placátus, et indulgéntiam nobis tríbuas et postuláta concedas. [Sii propizio, o Signore, al tuo popolo, sii propizio alle sue offerte, affinché, placato mediante queste oblazioni, ci conceda il tuo perdono e quanto Ti domandiamo.]

Communio
Sap XVI:20
Panem de coelo dedísti nobis, Dómine, habéntem omne delectaméntum et omnem sapórem suavitátis.
[Ci hai elargito il pane dal cielo, o Signore, che ha ogni delizia e ogni sapore di dolcezza.]

Postcommunio
Orémus.
Sumptis, Dómine, coeléstibus sacraméntis: ad redemptiónis ætérnæ, quǽsumus, proficiámus augméntum.
[Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, ricevuti i celesti sacramenti, progrediamo nell’opera della nostra salvezza eterna.]

LO SCUDO DELLA FEDE (XXIV)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXIV

LA VITA E LA MORTE.

La lunga vita dei patriarchi. — Perché Dio ci lascia morire? — E dacchè Dio ci lascia morire, è poi gran male il suicidio? — E il duello? — Che dire del martirio e delle penitenze di certi santi? — La penitenza non è un attentato alla vita? – La cremazione.

— Ora vorrei sapere se sia vero che Adamo, il primo uomo, visse novecento e trent’anni, e tutti i primi uomini vissero come lui per lunghe età?

Verissimo, la Scrittura ne fa fede.

— Ma quegli anni non erano forse di gran lunga più brevi dei nostri?

Fin dai tempi di S. Agostino, taluni sorpresi di tanta longevità pretesero di ridurre egli anni allo spazio di trentasei giorni. Ma ciò erroneamente, perché l’autore del Genesi parlando altrove dell’anno enumera il primo, il secondo, il settimo, il decimo mese, ciò che mostra che intendeva parlare di uno spazio presso a poco uguale al nostro, ossia come pare probabilissimo di uno spazio di dodici mesi lunari, corrispondenti a 354 giorni.

— Ma una tale longevità non è fisicamente impossibile?

Nelle presenti condizioni di natura l’uomo certamente non può giungere ad una età antica quanto quella dei patriarchi benché anche oggi vi siano casi di vite lunghe fino a 190 anni e anche di più. Ma probabilmente prima del diluvio, le condizioni climateriche erano differenti da quelle d’oggidì, la qual circostanza, se non fu l’unica cagione, ebbe forse una grande efficacia sulla lunga vita dei primi uomini.

— Ho inteso. Ma perché Iddio dopo d’averci data la vita ci lascia morire? Io dico: « O la vita è un male, e allora perché Dio ce l’ha data? o è un bene, e allora perché ce la toglie? »

Tu dici così, perchè così hai letto in un cattivo romanzo. Ma non ti avvedi che questo specioso dilemma è tutto basato sul falso? Che la vita sia un bene e non un male non ci vuole un gran comprendonio a capirlo. – Dio, ch’è buono, non dà certamente agli uomini una cosa cattiva. Con tutto ciò la vita non è certamente il bene fine, ma il bene mezzo di un altro bene infinitamente maggiore, la beatitudine eterna, alla quale Dio, perché padrone di fare quel che vuole, ha stabilito che si arrivi passando per la morte. E avendo stabilito così ci fa forse Egli qualche torto, o si regola forse contrariamente alla sua bontà? Che anzi non ci dà prova maggiore di bontà in tal guisa, he lasciandoci vivere sempre in questo mondo? Supponi che tuo padre ti avesse dato dieci lire, dicendoti: Se te ne servirai a bene e le farai fruttare, dopo quel certo tempo che piacerà a me ti ripiglierò quelle dieci lire per dartene centomila: dimmi tuo padre avrebbe fatto male a darti quelle dieci lire? e in seguito ti farebbe un torto a togliertele per dartene centomila? – Capisci adunque quanto sia falso il dire quel che dice quel romanziere: « O la vita è un male, eccetera, eccetera ».

— So però essere verissimo, che Dio vuole che noi ci conserviamo la vita. Come dunque mediare questa sua volontà colla morte, di cui ci lascia essere vittime?

Questa conciliazione è la più facile che vi sia. Dio vuole certamente che noi ci conserviamo la vita, e vuole cioè che per parte nostra non ci togliamo sì gran dono, che desso ci ha fatto, avendocelo dato perché lo impieghiamo ad operare il bene per tutto quel tempo che Egli vuole lasciarci quaggiù. Ma passato questo tempo Egli vuole altresì, che noi ci rassegniamo alla morte, dalla quale ci lascia colpire per farci entrare nella eternità.

— Dacché adunque Iddio ha stabilito che noi tutti dobbiamo morire, non sarà proprio mai lecito che l’uomo si dia da se stesso la morte? Ho inteso dire varie volte che taluno nel togliersi la vita ha fatto un’ottima cosa, degnissima di lode!

Così pur troppo la pensa il mondo; ma si sa lo spirito mondano è diametralmente opposto allo spirito cristiano. Epperò non mai e poi mai sarà lecito il suicidio, ma sempre deve riguardarsi come un gravissimo delitto. In tutte le creature vi è una forza naturale, istintiva ed indistruttibile, che le spinge a far di tutto per conservare la propria esistenza. Epperò questa forza bisogna riconoscere che Dio stesso l’ha posta nelle sue creature come una legge di natura, cui anche l’uomo deve sottostare. Oltreché con la legge di natura Iddio ha pur proibito il suicidio nella legge positiva; giacché in quel « 5° Non ammazzare » è chiaro che Dio proibisce all’uomo non solo di ammazzare gli altri, ma ancora se stesso. Chiunque pertanto si dà la morte, viola gravissimamente un doppio precetto del Signore, senza nulla dire dell’ingiustizia, che commette verso della famiglia e della società.

— Come? Che chi si uccida violi la legge di natura e positiva lo intendo; ma non capisco come si renda pure ingiusto verso la famiglia e la società.

Rifletti che ogni uomo fa parte di una famiglia e di una società. E tanto all’una come all’altra egli è legato con dei diritti e dei doveri, che non deve disconoscere e rinnegare. Se pertanto egli si dà la morte, che cosa fa? Calpesta questi diritti e questi doveri, spezza violentemente i vincoli di sposo, di padre, di figlio, getta il disonore sulla famiglia, cui appartiene, priva la medesima e la società della propria esistenza e della propria opera.

— Tutto ciò è giusto; ma quando la vita, a cagione dei dispiaceri, dei dolori, dei contrasti, delle infermità, del disonore e di altre simili miserie diventa insopportabile non è meglio allora farla finita?

Primieramente ti osservo che la vita a cagione delle sue tribolazioni diventa insopportabile a coloro soltanto, che mancano di sentimenti cristiani. Chi nutre nel suo cuore tali sentimenti, anche in mezzo ai più acerbi dolori, non ostante che possa provare dei fremiti di natura contrari alla rassegnazione, non di meno o poco o tanto sa farsi violenza e sopportare la vita anche più dura. – In secondo luogo ti dirò che se fosse lecito di fronte alle tribolazioni della vita darsi la morte, in tutto il mondo si presenterebbe del continuo lo spettacolo del suicidio, perché vi è forse qualcuno, che durante la vita possa sfuggire del tutto i dolori fisici o morali? – Da ultimo ti assicuro che per quanto siano gravi le tribolazioni della vita non possono mai superare il bene della esistenza. Colui pertanto, che dinanzi ai dispiaceri, ai disgusti, al disonore e simili si dà la morte, è un vile miserabile, degno del massimo biasimo.

— Un vile miserabile? E non vi sono stati vari uomini grandi, che si suicidarono?

Se essi apparvero o furono tali per le grandi opere, che compirono durante la vita, senza dubbio lasciarono di essere tali allora che in tal guisa se la tolsero, perché la vera grandezza d’animo, come riconobbero gli stessi pagani, sta nel saper sopportare generosamente i disagi d’ogni genere, cui si va incontro quaggiù. – Se poi vi sono dei romanzieri, che esaltano il suicidio di questi così detti grandi,, gli è perché ancor essi hanno perduto il senso morale e tentano di farlo perdere eziandio agli altri.

— Eppure quanti ai giorni nostri, eziandio tra la gioventù, per un contrasto qualsiasi, si tolgono la vita!

Sì, ciò è verissimo pur troppo, ed è la dolorosa conseguenza dell’ambiente ateo, che si è andato formando in questi ultimi tempi. Si è posta da banda la fede, si sono scossi i principi della moralità negando la coscienza e insegnando il turpe materialismo, si è predicato quale unico scopo della vita il piacere, e poi sui giornali, sui romanzi, sui teatri, talora nelle stesse scuole, si è preso a fare l’apologia del suicidio: quindi nessuna meraviglia che questa piaga funesta si sia andata e vadasi allargando sempre più.

— Che si dovrebbe fare per rimediare a tanto male?

Si capisce: bisognerebbe combatterne e rimuoverne le cause. Bisognerebbe anzitutto ravvivare quanto più è possibile la fede e la pratica della religione; bisognerebbe poi proibire la pubblicazione di romanzi, di scritti, di articoli, di racconti, ove il suicidio è messo in mostra e quasi esaltato; bisognerebbe risvegliare il buon senso morale, sì che si abbia a riconoscere il gran delitto che il suicidio è, e l’infamia con cui merita di essere colpito; bisognerebbe che gli stessi poteri umani, come colpiscono di disonore i ladri e gli assassini, così facessero del suicida, che del ladro e dell’assassino è peggiore assai.

— Ella dice bene. Ma dacché siamo entrati in questo argomento, desidererei ora sapere qualche cosa di ciò che mi pare assai affine al suicidio, vale a dire del duello.

Tu hai ben ragione di dire che il duello è affine al suicidio, perché nel duello, che è un combattimento convenuto fra due, col pretesto di avere una riparazione d’onore, l’uomo senza alcuna vera necessità si espone al pericolo di essere ferito od ucciso contro la stessa legge di natura e quella positiva, di cui ti ho già parlato, e che ci impone di conservare la vita e ben anche l’integrità delle nostre membra.

— Dunque il duello è anch’esso un male grave?

È un male gravissimo, e tanto più ai giorni nostri. Che a questa rea pratica si abbandonassero quei barbari rozzi ed ignoranti, di cui parla Cicerone, i quali rimettevano la sentenza delle loro liti non già al tribunale, ma al ferro; che vi si abbandonassero gli stessi uomini civili nel medio evo, in cui tanti pregiudizi ed errori ottenebravano le menti, è cosa abbastanza spiegabile; ma che con la tanta luce e civiltà, di cui si vantano i tempi nostri, vi siano ancora di coloro così barbari e così sciocchi ad un tempo da mettere il loro onore sulla punta d’una spada o sopra una palla di rivoltella è del tutto inesplicabile e sommamente condannevole.

— Ma quando alla fin fine non vi è altro mezzo per avere soddisfazione d’un oltraggio ricevuto, mi pare che il duello non sia poi il gran male, che ella dice.

Come? Non vi è altro mezzo per avere soddisfazione d’un oltraggio ricevuto? Non vi sono forse i tribunali a cui ricorrere? Non vi sono dei giudici, delle leggi? E soprattutto poi per un cristiano non vi è il dovere di perdonare? – Ma via, mettiamo pure come tu di’, che alle volte cioè non vi sia altro mezzo per avere soddisfazione di un oltraggio ricevuto; forse che il duello serva a dare questa soddisfazione? Ecco: tu hai offeso me ed io ti sfido a duello. Tu accetti. Nel giorno, nell’ora e nel luogo convenuto, con le armi in mano e con i nostri padrini, o testimoni, ci troviamo a batterci. Tu sei coraggioso, forte e destro nel maneggiare la spada. Io invece sono timido, fiacco e poco esperto nella scherma. Al primo scontro tu mi ferisci, e se il duello è stato convenuto a primo sangue, i padrini c’intimano l’alt, se no, ripetiamo gli scontri, in seguito ai quali io da te sbudellato casco per terra e me ne vo all’altro mondo. Che riparazione d’onore ho avuto io? E dopo che tu m’avrai ferito od ammazzato, cessa forse d’esser vero che tu mi abbia offeso? – Ma supponiamo pure che per caso o per valentia o destrezza maggiore, sia io il primo a ferir te, e che compiuto così il duello a primo sangue noi ci riconciliamo tra le congratulazioni dei nostri padrini, o che pure trattandosi di duello a ultimo sangue, io riesca a far te freddo cadavere, resta forse così dimostrato che io sono stato da te offeso e che io ho avuto riparazione dell’offesa, che mi hai recato? Niente affatto: resta dimostrato che io nel battermi con te ho dispiegato una valentia, una destrezza, una forza superiore alla tua, e null’altro. Di maniera che il mio onore rimane offeso come prima, e non è stato per nulla riparato. E così non serve assolutamente né a dare soddisfazione d’un oltraggio ricevuto, né a decidere una lite, né a indicare dove stia il torto e dove la ragione, a meno che si voglia credere questa grande bestialità, che la ragione sempre da parte del più forte e che il torto spetta sempre al più debole. Vedi adunque come il duello oltre ad una barbarie, ad una violazione della legge naturale e positiva, sia ancora una stoltezza inesplicabile.

— Il suo ragionamento è giustissimo. Non comprendo però perché sia lecita la guerra, alla fin fine non è che un grande duello fra due popoli, e che non sia lecito battersi in due soli.

Vedi, caro mio: la guerra per un popolo, che sia stato offeso ne’ suoi diritti, non avendo esso più altro mezzo per difenderli, è necessaria ed anche giusta. Certamente, se i popoli non avessero in generale apostatato da Dio, potrebbero anche dirimere i loro contrasti e le loro liti ricorrendo all’arbitrato del Vicario di Gesù Cristo, del Papa, come molte volte in passato si fece. Ma pur troppo oggidì si è arrivati al punto di escludere proprio lui solo, il Papa, dai Congressi ed arbitrati di pace. Ad ogni modo torno a dirti che la guerra per parte di quel popolo, che giustamente crede violati i suoi diritti, diventa necessaria per la difesa e conservazione dei medesimi. Ma il duello non potrà mai e poi mai riguardarsi come necessario, essendovi altri mezzi per decidere sulla ragione e sul torto dei due litiganti, e quindi non potrà mai contestarsi come cosa giusta.

— Eppure oggidì chi sfidato a duello non accetta, è reputato vile, e se si tratta di un militare ho inteso dire che viene punito.

Così è purtroppo. Ma il vero vile è colui, che si fa schiavo di un uso il più barbaro, il più irragionevole e colpevole che vi sia ancora, e non sa levarsi su al di sopra di queste stupide idee del mondo. E se nell’esercito si punisce chi sfida a duello e chi sfidato non lo accetta, si cade nella più strana e deplorevole contraddizione.

— Ciò è verissimo.

E dopo tutto comprendi come la Chiesa abbia stabilito, nell’ordine suo, pene gravissime contro i duellanti e tante volte abbia levato la voce contro il loro delitto.

— Comprendo tutto. Mi viene però in mente una difficoltà. Se non è lecito esporsi in duello al pericolo di restar anche solo ferito, e se tanto meno è lecito di togliersi col suicidio la vita, che cosa si dovrà dire anzitutto di certi martiri, che da per se stessi si sono gettati nel rogo o tra le fiere per essere privati della vita?

Si deve dire, epperciò riconoscere, che questi martiri, non fecero ciò coll’intendimento di darsi la morte contro il volere di Dio, ma in quella vece per una specialissima ispirazione, per un movimento straordinario della grazia divina, che li spinse a compiere nel loro martirio un atto di vero eroismo; giacché da tutte le circostanze, che accompagnano il loro martirio, risulta chiaro, che nel gettarsi essi medesimi in braccio alla morte mirarono a sottrarsi al vituperio e al pericolo di peccare.

— Ho inteso. E di quegli altri santi poi si accorciarono la vita coi digiuni, con le penitenze, con le flagellazioni e simili, che si deve pensare?

Anzi tutto a questo riguardo bisognerebbe poter dimostrare davvero il fatto, che certi si siano accorciata la vita con le austerità da te indicate; giacché le statistiche dimostrano che gli uomini dediti alle austerità ordinariamente menano una vita più lunga degli altri. In secondo luogo se realmente nella Chiesa vi furono taluni santi, che sembrino avere spinto le loro penitenze oltre i confini della moderazione, sta anche a loro discolpa una ispirazione peculiare, che essi certamente ebbero da Dio, il quale, padrone com’è della vita d’ogni uomo, voleva santificarli per quelle vie straordinarie allo scopo, che gli altri apprendessero da loro la necessità di fare almeno le modiche penitenze, che insegna il catechismo, e la mortificazione della carne a vantaggio spirito.

— La penitenza adunque e la mortificazione, che predica la Chiesa, non è un attentato alla vita?

Se fosse come tu dici, o dirò meglio come avrai inteso a dire, la penitenza e la mortificazione cristiana sarebbe contraria alla legge morale. Epperò Gesù Cristo, che tanto l’ha raccomandata affine di raffrenare i sensi, avrebbe fatto contro alla sua stessa divina legge. E tutti i santi che la praticarono, avrebbero sbagliato e sbaglieremmo anche noi nell’onorarli.

— Ma insomma come conciliare il dovere di conservare la propria esistenza e di non recare offesa neppure alle nostre membra con la penitenza e con la mortificazione?

Ciò non è così difficile come tu pensi. A tal fine non bisogna dimenticare che nel composto umano l’anima è superiore al corpo, il quale è fatto per quella e non quella per questo. In secondo luogo bisogna osservare che non solo la fede, ma pure l’esperienza dimostra che tra l’anima e il corpo vi è antagonismo, giacché i sensi vorrebbero spesso soddisfazioni, che la retta ragione condanna, e le chiedono talvolta così imperiosamente, che senza una grande virtù non è cosa facile renderli rassegnati al diniego. In terzo luogo fa d’uopo ricordare che gli istinti dell’appetito sensitivo col diniegare loro fermamente e di spesso ciò che domandano, e col frenarli ed affliggerli ben anche con la mortificazione e penitenza, a lungo andare si domano, la natia lor violenza a poco a poco si spunta, come avviene del cavallo indomito, che col morso e con altre pene umilianti ed afflittive alla fine si riduce ad obbedire al cenno del cavaliere. Epperò la penitenza e la mortificazione fanno sì che la nostra esistenza diventi quale deve essere, dignitosa e virile, ricca di onestà e di virtù. – E così sta, che per una parte noi siamo in dovere secondo il formale precetto di Dio di conservare la vita e le forze per l’adempimento dei nostri obblighi, e che per l’altra, senza punto ledere le nostre forze, almeno gravemente sì da renderci inetti al disbrigo dei nostri impegni, dobbiamo valerci dei digiuni, delle astensioni da certi cibi, delle mortificazioni dei nostri sensi e di quelle pratiche, che pigliano il nome di penitenza, per condurre una vita conforme alla nostra dignità umana e alla nostra grandezza cristiana. – Dunque sai ciò che piuttosto attenta alla nostra vita ed alle nostre forze? Sono certi vizi nefandi, sono le golosità, l’intemperanza nel mangiare e nel bere, la crapula, l’ubriachezza, certe scommesse insensate che taluni fanno a chi più mangia e più beve, certe mode di vestire che stringono troppo il corpo e lo comprimono, ed altre simili cose. Ed è contro di ciò, che devesi giustamente inveire ma non contro la penitenza e la mortificazione cristiana.

. — Anche questo l’ho inteso. Avrei ora un’ultima domanda a farle. Perché la Chiesa di fronte alla morte non vuole saperne di cremazione?

La Chiesa non vuole la cremazione e severamente la proibisce, non già perché essa sia veramente contraria al dogma o alla morale cristiana, ma perché ella vede che con il pretesto della cremazione si vorrebbero aboliti i cimiteri, dall’esistenza dei quali tanto bene ne deriva al popolo cristiano; perché ella vuole maggiormente rispettato il corpo umano, differendone quanto più le è possibile la dissoluzione e impedendo atti irriverenti verso di esso; perché ella desidera che più a lungo ci rimanga impressa nella mente anche l’immagine materiale dei trapassati e più a lungo ci ricordiamo di pregare per essi, ciò che più difficilmente avverrebbe, quando non ci trovassimo dinanzi che ad un pugno di cenere.

— Tutto ciò va bene; ma non è forse vero che l’abbruciare i cadaveri sarebbe più igienico che il sotterrarli!

Così si dice, ma così non è affatto. Le più accurate indagini hanno dimostrato che l’inumazione, anche igienicamente considerata, deve preferirsi alla cremazione. Senti che cosa dice in proposito Paolo Mantegazza, non sospetto certo di tenerezza per la Chiesa: « Queste povere carni umane non hanno alcun che di specifico, che le renda più pericolose nella loro-putrefazione che i frusti dei cavoli, e le ossa delle nostre bistecche, e i nostri mazzi di fiori, e lasciatemelo pur dire, i nostri escrementi. Ma, calcolate di grazia tutto il nostro pandemonio escrementizio e domestico, che ogni uomo produce intorno a sé, e facilmente troverete che ogni uomo vivo, in un solo anno produce cento volte almeno di più di materia putrescente che un uomo morto… ». E tutta questa materia non è sepolta sotto terra come il calunniato cadavere umano, ma è gettata sui nostri orti e sulle nostre campagne! » – Davvero, caro mio, che per una parte c’è veramente da ridere al considerare le contraddizioni, in cui cadono taluni per far valere le loro opinioni. I rosticcieri moderni se la pigliarono così calda contro i cimiteri, come luoghi d’infezione! (Nota bene però, che a Parigi ve ne sono ben dodici nell’interno della città, senza timore d’infezione alcuna), e li vogliono lontani dalle Chiese parrocchiali e dalle abitazioni, e poi proprio nel mezzo delle città e dei paesi lasciano i gazometri, le fogne, gli stallaggi, le fabbriche di colla, le conce di pelli, le fosse per la macerazione del lino e della canapa, e cento altre cose simili, che appestano l’aria davvero, e sono causa non di rado di febbri maligne.

— Già è veramente così.

Lascia adunque la cremazione alla massoneria, che l’ha inventata, e tienti alla legge della Chiesa, che vuole all’ombra della Croce le nostre tombe confortate dal pianto cristiano e dalle preghiere.