DOMENICA XII DOPO PENTECOSTE (2018)

DOMENICA XII DOPO PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
LXIX:2-3
Deus, in adjutórium meum inténde: Dómine, ad adjuvándum me festína: confundántur et revereántur inimíci mei, qui quærunt ánimam meam.
[O Dio, vieni in mio aiuto: o Signore, affrettati ad aiutarmi: siano confusi e svergognati i miei nemici, che attentano alla mia vita.]
Ps LXIX:4
Avertántur retrórsum et erubéscant: qui cógitant mihi mala.
[Vadano delusi e scornati coloro che tramano contro di me.]

Deus, in adjutórium meum inténde: Dómine, ad adjuvándum me festína: confundántur et revereántur inimíci mei, qui quærunt ánimam meam. [O Dio, vieni in mio aiuto: o Signore, affrettati ad aiutarmi: siano confusi e svergognati i miei nemici, che attentano alla mia vita.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens et miséricors Deus, de cujus múnere venit, ut tibi a fidélibus tuis digne et laudabíliter serviátur: tríbue, quǽsumus, nobis; ut ad promissiónes tuas sine offensióne currámus.
[Onnipotente e misericordioso Iddio, poiché dalla tua grazia proviene che i tuoi fedeli Ti servano degnamente e lodevolmente, concedici, Te ne preghiamo, di correre, senza ostacoli, verso i beni da Te promessi.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios. 2 Cor III: 4-9.

“Fratres: Fidúciam talem habémus per Christum ad Deum: non quod sufficiéntes simus cogitáre áliquid a nobis, quasi ex nobis: sed sufficiéntia nostra ex Deo est: qui et idóneos nos fecit minístros novi testaménti: non líttera, sed spíritu: líttera enim occídit, spíritus autem vivíficat. Quod si ministrátio mortis, lítteris deformáta in lapídibus, fuit in glória; ita ut non possent inténdere fili Israël in fáciem Moysi, propter glóriam vultus ejus, quæ evacuátur: quómodo non magis ministrátio Spíritus erit in glória? Nam si ministrátio damnátionis glória est multo magis abúndat ministérium justítiæ in glória.

OMELIA I

 [Mons. Bonomelli: Omelie, Vol. III, Torino 1898; Omelia XXV]

“Tal fiducia noi abbiamo per Cristo presso Dio, non mai che noi fossimo atti a pensare alcun che da noi, come da noi; ma l’attitudine nostra è da Dio, il quale ci ha fatti ministri idonei del nuovo Testamento, non della lettera, ma sì dello spirito; perché la lettera uccide e lo spirito vivifica. Che se il ministero della morte, scolpito in lettere sopra le pietre, fu glorioso, a talché i figli d’Israele non potevano fissare il volto di Mosè per lo splendore passeggero del suo volto, quanto non sarà egli più glorioso il ministero dello spirito? E veramente se il ministero della condanna fu glorioso, quanto più sarà ricco di gloria il ministero della giustificazione? „ (II Corinti, III: 4-9). –

Questi sei versetti noi leggiamo nella Epistola della Messa odierna, e sono tolti dal capo terzo della seconda di S. Paolo ai Corinti. Questa seconda lettera di S. Paolo ai fedeli della Chiesa di Corinto si può considerare come una appendice ed una continuazione della prima, ed una parte non piccola di essa va in difesa personale della sua condotta e del suo apostolato, alternando destramente le lodi ed i rimproveri, i consigli ed i comandi. Dopo aver condonata la pena inflitta allo scandaloso da lui scomunicato nella prima lettera ed esortato i fedeli ad accoglierlo benignamente ed accennati gli incrementi della fede, S. Paolo parla di se stesso, afferma la propria fedeltà nel ministero apostolico, protestando di non lodare se stesso, perché i Corinti stessi con la loro fede erano la sua più bella giustificazione, la lettera più eloquente, che tutti potevano leggere a sua difesa. Qui comincia il brano sopra riportato, che dobbiamo meditare insieme e che non è privo di interesse. Vi piaccia seguirmi con la vostra solita attenzione. – Ve lo dissi più volte, commentando le lettere di S, Paolo, ch’egli dal dì della sua conversione fino alla sua morte, fu sempre fatto segno di feroci persecuzioni: queste gli venivano dai pagani e più ancora dagli Ebrei ostinati, che lo consideravano come un apostata e un traditore. E non era tutto: contro di lui erano pieni di diffidenza, di mal animo e peggio, non pochi Cristiani, passati dalla legge di Mosè a quella del Vangelo: essi dubitavano della purezza della sua dottrina, lo mettevano in mala voce, come un nemico di Mosè, un novatore, un falso apostolo, in opposizione con gli altri Apostoli, e ponevano grave inciampo alla sua predicazione. Questi sospetti ingiuriosissimi, queste accuse e calunnie, questa incessante guerra di coloro, ch’egli chiama falsi fratelli, affliggevano profondamente la sua grand’anima, e più volte amaramente se ne lagna, come in questa lettera. È un prezioso ammaestramento e conforto per quegli uomini, e non pochi, che dai tempi dell’Apostolo furono e sono nella Chiesa, hanno la coscienza di essere suoi figli e suoi ministri fedeli, e non possono cessare le male lingue dei malevoli e degli ignoranti, che li designano come erranti, come prevaricatori o di dubbia fede. Non sarebbe facile trovare un santo solo, massime dei più illustri e posti in alto per l’ufficio, o per l’ingegno, o per le opere, che non abbia sofferto contraddizioni ed anche vessazioni da Cristiani cattolici buoni e talvolta santi. Chi ignora ciò che Origene, S. Giovanni Grisostomo, S. Cirillo di Gerusalemme, S. Cesario, S. Ignazio di Lojola, S. Giuseppe di Calasanzio, S. Francesco di Sales, S. Alfonso de’ Liguori, patirono da persone pie e da Uomini santi! È Dio che lo permette per purificare i suoi servi, per tenerli nella umiltà, e certo non vi è dolore più acuto del sentirsi combattuti dai buoni e tenuti in conto di erranti. Quelli che si trovano in questo caso nella vita, dall’Apostolo Paolo, hanno un conforto ed un modello sicuro da imitare. Ora veniamo al commento della nostra Epistola.

“Noi, così S. Paolo, non alteriamo la parola di Dio, come fanno molti, ma con schiettezza parliamo, in Cristo, come mandati da Dio ed alla sua presenza „ (C. II, 17)… ” e tale fiducia abbiamo per Cristo presso Dio, „ cioè abbiamo ferma ed intima convinzione e persuasione, per la grazia di Gesù Cristo, d’essere sinceri e fedeli annunziatori della divina parola, checché altri possa pensare e dire. E questa attitudine e fedeltà nell’esercizio dell’apostolico ministero, della quale la Chiesa fondata in Corinto è una prova, a chi si deve ascrivere? Di chi ne è il merito? È forse opera tua, frutto delle tue forze naturali, o grande Apostolo? No, no, risponde subito il Dottore delle genti, e con una frase ammirabile riconferma la dottrina cattolica intorno alla gratuità della grazia. Uditela: “Non mai che noi fossimo atti a pensare alcun che da noi, ma la nostra attitudine è da Dio. „ È dottrina di fede, o cari, che senza l’aiuto della grazia divina noi non possiamo fare nulla che meriti la vita eterna: svolgiamo alquanto più largamente questa verità. – Dio Creatore ci ha dato il corpo coi suoi sensi e l’anima con la sua intelligenza e volontà libera, e tutte le cose esterne necessarie od utili a conservare la vita e perfezionare l’essere nostra: tutti questi beni si dicono naturali e costituiscono quello che chiamiamo ordine naturale. Ora avevamo noi qualche diritto, qualche merito, perché Iddio ci creasse e ci elargisse i doni della natura? Nessun diritto, nessun merito, benché minimo: basti dire che non esistevamo nemmeno e perciò nulla potevamo fare. É con i doni della natura, con l’uso della nostra intelligenza, volontà e libertà, con le opere proprie delle sole nostre forze possiamo noi, o cari, meritare la grazia divina, anche nella minima misura? No, mai. La natura con le sue opere non può meritare se non ciò che è naturale, non mai ciò che è sovrannaturale. Ditemi: l’albero selvatico potrà esso mai produrre altri frutti che selvatici? No, per fermo. Volete che produca frutti domestici, copiosi, dolci a gustarsi? Innestatelo e li avrete. Il somigliante accade della nostra natura: abbandonata a sé non dà che frutti selvatici, agresti, acerbi: fate che abbia la grazia divina, che la illumina, la eleva, la trasforma: eccovi i frutti di vita eterna. Come senza la natura non potevamo fare cosa alcuna nell’ordine naturale, non pensare, non volere, non operare; cosi senza la grazia non possiamo né pensare, né volere, né operare in ordine alla vita eterna. L’occhio senza la luce può esso vedere cosa alcuna? Il campo senza il seme può produrre una sola spiga? Così noi senza la luce della grazia, senza il germe della grazia, siamo al tutto impotenti a conoscere, amare e possedere Iddio come si deve. Questa è necessaria a principio, è necessaria a mezzo, è necessaria in fine, necessaria sempre. Prima di fare una cosa bisogna conoscerla, bisogna pensarla; senza conoscerla, senza pensarla è impossibile il farla, voi lo comprendete: dunque prima di amare e servire Iddio e praticare la virtù, è necessario conoscere e pensare a Dio, conoscere e pensare la virtù, come è necessario il fondamento per fabbricare. Ebbene S. Paolo ci fa sapere che da noi, con le sole nostre forze non siamo capaci nemmeno d’un primo buon pensiero: Non quod sufficientes simus cogitare aliquid a nobis quasi a nobis; se lo siamo, lo siamo perché Dio con la sua grazia ce lo concede: Sed sufficientia nostra ex Deo est. Questa verità dovrebbe fiaccare il nostro orgoglio, farci sentire il nostro nulla e costringerci a gettarci nelle braccia della divina misericordia, unica nostra speranza. Vedo io in me alcun bene, qualche virtù? Devo dire: Non è cosa mia, è dono, tutto e puro dono di Dio. S’Egli ritira il suo dono, la sua grazia, tutto si dilegua, ed io cado nell’abisso, come il sasso che la mano dell’uomo lascia cadere nel precipizio. – Seguitiamo l’Apostolo. Tutto ciò che ho, la dignità di Apostolo e l’attitudine ad adempirne le parti tutte, non è cosa mia: è dono di Dio. scrive S. Paolo: dono di Dio, “il quale ci ha fatti ministri idonei del nuovo Testamento, non secondo la lettera, ma sì secondo lo spirito. „ Non vi è religione, né vera, né falsa, che non abbia il suo sacerdozio e i suoi ministri, come non vi è Stato, sia monarchico, sia repubblicano, che non abbia i suoi magistrati. Abbiamo il vecchio Testamento o il Mosaismo, e con esso abbiamo il suo sacerdozio e i suoi ministri: abbiamo il nuovo Testamento o il Cristianesimo, e con esso il nuovo sacerdozio e i nuovi ministri. È chiaro che il sacerdozio e i ministri della legge mosaica dovevano informarsi allo spirito di quella legge, come il sacerdozio ed i ministri della legge evangelica devono informarsi allo spirito di questa, precisamente come i magistrati civili si devono informare allo spirito della legge, della quale sono interpreti. S. Paolo dichiara, che Dio ha fatto di lui e dei suoi colleghi altrettanti ministri idonei del nuovo Testamento. – E qual è lo spirito del nuovo Testamento e per conseguenza dei suoi ministri? In che sta la differenza tra l’antico ed il nuovo Testamento, tra i ministri di quello e di questo? Eccovela scolpita in due parole con lo stile sì incisivo dell’Apostolo: “Non secondo la lettera, ma secondo lo spirito: „ Non littera, sed spiritu. L’antica legge mosaica è la lettera, la nuova cristiana è lo spirito. Non era possibile ritrarre più al vivo l’indole dei due Testamenti. – Spieghiamola alquanto. La legge antica o mosaica rimaneva al di fuori dell’uomo, riguardava più il corpo che lo spirito; purificazioni continue del corpo, dei vasi sacri, offerte materiali, continui ed innumerevoli sacrifici, oblazioni, riti senza fine e minutissimi e sotto pene gravissime, e andate dicendo: erano tutti atti esterni, era tutto culto e tutta religione esterna principalmente, che dell’interno quel popolo ben poco si curava, anche perché ben poco ne capiva. La legge, nuova o cristiana, va direttamente all’interno, riguarda principalmente lo spirito, esige la purezza del cuore, e senza rigettare, anzi imponendo anche il culto esterno, lo fa servire all’interno, vuole l’ossequio della mente e del cuore, inculca la rinnovazione dell’uomo interiore; insomma proclama, che Dio è spirito e che perciò Dio vuole adoratori in ispirito e verità. Ecco la differenza essenziale tra la legge mosaica e la cristiana. – Ma l’Apostolo chiarisce ancor meglio il suo pensiero con un’altra sentenza, soggiungendo: “Poiché la lettera uccide e lo spirito per contrario vivifica: „ Littera enim occidit, spiritus autem vivificat. Come mai si può dire che la lettera, cioè l’antica legge uccide, e lo spiritò, cioè la legge evangelica vivifica? Lo spiegano i Padri, e tra questi S. Agostino e S. Ambrogio. La legge antica o mosaica si contiene nei cinque libri di Mosè, e più particolarmente nel libro del Levitico, che determina le leggi e le cerimonie sacre. Pigliatelo in mano, percorretelo, e voi troverete che ogni trasgressione, ha la sua pena e grave, e assai volte la pena di morte. Chi bestemmia, sia messo a morte: a chi lavora in sabato, la morte: a chi dice ingiuria ai genitori, la morte: a chi commette adulterio, la morte: al falso profeta, la morte, e via via di questo tenore: era, possiamo dirlo, una legge scritta col sangue, e necessaria per raffrenare quel popolo riottoso e di dura cervice. – Pigliate in mano il Vangelo: esso intima ai peccatori ostinati le pene della vita futura, anche eterne, ma neppure una sola volta la pena di morte nella vita presente. Il Vangelo vuole la conversione del peccatore e non la morte, si impone con la persuasione, non con la forza, a dir breve, è legge d’amore e non di timore, di figli, non di schiavi. – In queste due sentenze dell’Apostolo, noi abbiamo messa in tutta la loro luce la natura della legge mosaica e della evangelica. Permettetemi una domanda, o dilettissimi. Certo la legge mosaica è cessata, è abrogata, ed a quella Gesù Cristo ha sostituita la sua, la evangelica: ma benché la legge mosaica, la legge della lettera, sia cessata ed abrogata, ditemi, è dessa cessata al tutto nella pratica tra i Cristiani? Duole il dirlo, ma bisogna confessarlo; essa è ancor viva in molti senzaché se ne accorgano. Tali sono coloro, che recitano molte e lunghe orazioni con le labbra, e non si curano di accompagnarle con la mente e col cuore: tali sono coloro che osservano le astinenze dalle carni nei giorni stabiliti, che ascoltano la S. Messa la festa, che digiunano anche, ed hanno il cuore e la mente pieni di immondezze, opprimono i poveri, bestemmiano, rubano a man salva, odiano i fratelli, ne lacerano la fama e si reputano buoni Cristiani: tali sono coloro che vanno ai Sacramenti, anche frequentemente, e non fanno sforzo alcuno per reprimere le passioni e praticare la virtù, e credono d’aver fatto ogni loro dovere: quelli che abbondano in pratiche religiose, tridui, ottave, novene, benedizioni, prediche, pellegrinaggi e andate discorrendo, e si rifiutano al più lieve sacrificio per vincere se stessi, per combattere l’amor proprio, per esercitare la carità, regina di tutte le virtù. La religione di costoro è la religione degli Ebrei, degli scribi, dei farisei, tante volte e con frasi sì roventi folgorata da Cristo: è religione tutta esterna, religione del corpo, non dello spirito, che riempie di superbia chi la pratica, tutte foglie e frasche inutili. Carissimi! guardiamoci da siffatta religione, e studiamoci di unire alle pratiche esterne, che sono la lettera, la fede, la speranza, la carità, che sono lo spirito, e allora vivremo. – Ripigliamo il nostro commento. In questi versetti S. Paolo istituisce un parallelo o confronto tra l’antica legge mosaica e la nuova legge cristiana, fra il sacerdozio di quella e il sacerdozio di questa, affine di mostrare la eccellenza del secondo sul primo, e prosegue: “se il ministero della morte, cioè la legge mosaica, sì terribile contro i suoi trasgressori, che spesso colpiva di morte; legge scritta materialmente sopra tavole di pietra, fu gloriosa, massime nel suo promulgatore Mosè , il quale scendendo dal Sinai ne riportò raggiante il volto, sicché il popolo d’Israele non poteva sostenerne la vista, legge ch’era pure destinata a scomparire: se quella legge, se quel ministero, dico, fu glorioso, quanto più gloriosa sarà la legge nuova, il nuovo ministero, che è tutto spirituale e che deve durare fino al termine dei secoli? E non è ancor pago l’Apostolo d’avere magnificato il ministero evangelico sopra il mosaico con sì gagliarde espressioni: egli, nel versetto che segue ed ultimo della nostra lezione, ritorna sulla stessa verità, e con altre parole la ribadisce, scrivendo: E veramente, se il ministero della condanna, cioè se la legge mosaica sì facile alla condanna, alle pene corporee, alla stessa morte, fu nondimeno grande e glorioso, quanto sarà più glorioso il ministero della nuova legge, che cancella i peccati, che giustifica i peccatori, che rigenera le anime e trasforma i figli degli uomini in figli di Dio ed eredi della sua gloria? In altri termini: il ministero dell’antica legge ebbe gran gloria, specialmente nella persona di Mosè, che vide Dio, udì la sua parola e ne riportò sfolgorante il volto: ebbe gran gloria, benché fosse sì severo contro i trasgressori, dovesse finire ed avesse in mira più che la purificazione delle anime, quella dei corpi: sé tale fu quel ministero, quanto più glorioso deve essere questo della nuova legge, istituito da Gesù Cristo stesso, che non infligge pene materiali ai trasgressori, sì benigno, sì paterno, che durerà fino al termine dei secoli, e che è ordinato a santificare direttamente le anime? Ebbene: questo è il ministero mio, il ministero, che ho ricevuto, non dagli uomini, ma da Gesù Cristo stesso, e che io ho esercitato in mezzo a voi e continuerò ad esercitare finché abbia filo di vita, come implicitamente, ma chiaramente, innanzi S. Paolo protesta. In sostanza, in queste sentenze e nelle seguenti, S. Paolo è tutto inteso a mettere in rilievo la sua dignità e il suo ufficio di apostolo della nuova legge sulla dignità ed ufficio dei ministri della legge antica. – A noi forse può sembrare alquanto strana questa condotta dell’Apostolo, e non ne comprendiamo tutta l’importanza e la necessità. Ma se ci trasportiamo ai suoi tempi; se consideriamo le lotte ch’egli doveva sostenere coi cristiani giudaizzanti, che volevano legare la legge evangelica alla mosaica e restringere il benefìcio della redenzione operata da Cristo ai soli figli d’Israele e chiudere le porte ai Gentili, noi comprenderemo la ragione di queste sì frequenti e sì gagliarde difese, che l’Apostolo fa del suo ministero. Si trattava non della sua persona, ma della verità, dell’avvenire della Chiesa, che si voleva sottomessa alla Sinagoga, e l’Apostolo, che vedeva tutto il pericolo, leva la sua voce, non risparmia questi apostoli, che, ignoranti o perversi, col nome di Mosè in bocca, ponevano inciampo gravissimo alla fede e turbavano e confondevano le menti dei deboli. – Miei cari, una riflessione opportuna ai nostri tempi, ed ho finito. La Chiesa di Gesù Cristo, dai tempi di san Paolo a noi, ebbe sempre le sue prove e le sue lotte, e le avrà finché sarà sulla terra. Queste lotte variano secondo i tempi, i luoghi, le persone e le circostanze: ora sono intense e feroci, ora più lievi e più blande, ma non cessano mai, ed è nella natura delle cose che durano, e Gesù Cristo apertamente le predisse. L’ombra segue sempre il corpo, e le infermità più o meno sono compagne dei sani e robusti; così l’errore cammina sempre a fianco della verità, la insidia e la combatte, e gli apostoli di quello non danno mai tregua agli apostoli di questa. Vogliamo o non vogliamo, noi tutti siamo trascinati in questa lotta, che sì fieramente si combatte tra i seguaci dell’errore e quelli della verità, tra gli apostoli del mondo e quelli di Gesù Cristo. Che fare, o dilettissimi? Noi, per uscirne vincitori, dobbiamo tener sempre fisso l’occhio sulle guide sicure che ci dà la Chiesa, porgere l’orecchio docile alla loro parola e chiuderlo alla parola di quelli che si vantano maestri, sì, ma non ci sono dati dalla Chiesa. – I fedeli, al tempo di S. Paolo, come rimasero fedeli alla verità ed al Vangelo di Gesù Cristo? Ascoltando e seguendo il grande Apostolo, che aveva ricevuto direttamente da Cristo la sua missione, e volgendo le spalle a quelli che pur venivano da Gerusalemme e si gloriavano d’essere maestri di verità. Forse saranno stati dotti e valenti, più dotti e più valenti, se volete, di S. Paolo, nelle lettere e nelle scienze umane, la cui parola, egli stesso lo confessa, era incolta e spregevole; ma non dimentichiamolo mai, o carissimi, perché il bisogno è grande anche al giorno d’oggi, la verità della fede non è congiunta per volere di Cristo alla scienza, all’ingegno, ai doni naturali, ma è affidata a quelli che tengono la missione da Cristo stesso, ai Vescovi in comunione col Vescovo dei vescovi, il Romano Pontefice. Se volete conservare con sicurezza il tesoro della fede in mezzo a questo turbine di opinioni e di dottrine che mutano sì spesso, non ascoltate quelli che dicono: “Noi siamo con Paolo, e noi con Apollo, e noi con Pietro, e noi con Cristo, come si diceva ai tempi di Paolo stesso; ma ascoltate veramente Paolo e Apollo e Pietro, quelli cioè che nella Chiesa hanno l’ufficio di ammaestrarvi e guidarvi, e questi vi condurranno a Cristo, che è la verità stessa. Forse non mai, come al presente, fu sì necessaria l’ubbidienza ai pastori della Chiesa, che stanno uniti col Pastore supremo, perché forse non mai come al presente, si cercò di sostituire alla sacra gerarchia l’opinione pubblica, all’autorità che viene da Dio, l’ingegno e l’autorità umana, all’insegnamento dei pastori legittimi quello dei dottori privati! [Volentieri avrei aggiunto alla parola dei vescovi quella dei giornalisti, divenuti oggimai i maestri e le guide del popolo. Il giornalismo è una necessità nelle condizioni attuali: ma è un pericolo, e parlo del giornalismo che si dice cattolico. Talvolta senza che altri se ne avvedano il giornalismo cattolico (cioè quei preti o laici, che lo dirigono) si sostituisce al Vescovo ed esercita una influenza pericolosa, sconvolgendo il principio gerarchico.]

Graduale
Ps XXXIII:2-3.
Benedícam Dóminum in omni témpore: semper laus ejus in ore meo.
[Benedirò il Signore in ogni tempo: la sua lode sarà sempre sulle mie labbra.]
V. In Dómino laudábitur ánima mea: áudiant mansuéti, et læténtur.
[La mia ànima sarà esaltata nel Signore: lo ascoltino i mansueti e siano rallegrati.]

Alleluja

Allelúja, allelúja
Ps LXXXVII:2
Dómine, Deus salútis meæ, in die clamávi et nocte coram te. Allelúja.
[O Signore Iddio, mia salvezza: ho gridato a Te giorno e notte. Allelúia.]

Evangelium

.Sequéntia sancti Evangélii secúndum S. Lucam.
Luc X:23-37
“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Beáti óculi, qui vident quæ vos videtis. Dico enim vobis, quod multi prophétæ et reges voluérunt vidére quæ vos videtis, et non vidérunt: et audire quæ audítis, et non audiérunt. Et ecce, quidam legisperítus surréxit, tentans illum, et dicens: Magister, quid faciéndo vitam ætérnam possidébo?
At ille dixit ad eum: In lege quid scriptum est? quómodo legis? Ille respóndens, dixit: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo, et ex tota ánima tua, et ex ómnibus víribus tuis; et ex omni mente tua: et próximum tuum sicut teípsum. Dixítque illi: Recte respondísti: hoc fac, et vives. Ille autem volens justificáre seípsum, dixit ad Jesum: Et quis est meus próximus? Suscípiens autem Jesus, dixit: Homo quidam descendébat ab Jerúsalem in Jéricho, et íncidit in latrónes, qui étiam despoliavérunt eum: et plagis impósitis abiérunt, semivívo relícto. Accidit autem, ut sacerdos quidam descénderet eádem via: et viso illo præterívit. Simíliter et levíta, cum esset secus locum et vidéret eum, pertránsiit. Samaritánus autem quidam iter fáciens, venit secus eum: et videns eum, misericórdia motus est. Et apprópians, alligávit vulnera ejus, infúndens óleum et vinum: et impónens illum in juméntum suum, duxit in stábulum, et curam ejus egit. Et áltera die prótulit duos denários et dedit stabulário, et ait: Curam illíus habe: et quodcúmque supererogáveris, ego cum redíero, reddam tibi. Quis horum trium vidétur tibi próximus fuísse illi, qui íncidit in latrónes? At ille dixit: Qui fecit misericórdiam in illum. Et ait illi Jesus: Vade, et tu fac simíliter.”

OMELIA II

[Mons. Bonomelli, ut supra, om. XXVI]

“Gesù disse ai suoi Apostoli: Beati, gli occhi, che vedono le cose che voi vedete. Perché vi dico che molti profeti e re desiderarono di vedere le cose che voi vedete, e non le videro, ed udire le cose che voi udite, e non le udirono. Allora sorse un cotal dottore della legge e tentandolo, disse: Maestro, qual cosa farò io per avere la vita eterna? Ed Egli disse: Che sta scritto nella legge? come vi leggi? E quegli rispondendo disse: Amerai il Signore, Iddio tuo, con tutto il tuo cuore, con tutta l’anima tua, con tutte le tue forze, con tutta la tua ménte, e il prossimo tuo come te stesso. E Gesù gli disse: “Bene hai risposto; fa questo e vivrai”. Ma quel tale, volendosi giustificare, disse a Gesù: “E chi è mai il mio prossimo?” Allora Gesù, replicando, disse: Un certo uomo discendeva da Gerusalemme in Gerico, diede nei ladri, che lo spogliarono ed anche feritolo, se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Ora avvenne per caso, che un certo sacerdote scendesse per quella via, e vedutolo, passò oltre. Similmente fece un levita; venuto presso a quel luogo, e vedutolo, anch’esso passò oltre. Ma un Samaritano, viaggiando, venne presso di quello, e vedutolo, n’ebbe pietà; ed accostatosi, fasciò le sue ferite, versandovi dell’olio e del vino e messolo sul suo giumento, lo menò all’albergo e si prese cura di lui. E il dì appresso, sborsati due denari, li diede all’oste e gli disse: Abbi cura di lui, e quanto avrai speso di più, ritornando, te lo darò. Di questi tre, chi ti pare essere stato prossimo a colui che cadde nei ladri? E quegli disse: Colui che gli usò misericordia. E Gesù a lui: Va, e tu pure fa allo stesso modo „ (S. Luca, X, 23-37).

Tra le parabole, che si leggono nel Vangelo, questa senza fallo è una delle più belle e più care, fu e rimarrà sempre come un modello inarrivabile per la naturalezza ed efficacia e per l’altissima dottrina, che vi si racchiude. Prima di chiosarla è mestieri vedere il nesso cogli antecedenti per comprendere il perché della domanda fatta a Gesù dal dottore della legge; domanda che provocò la parabola del Samaritano. – Gesù aveva mandato i settantadue discepoli a predicare a coppie nelle città e nei villaggi dov’Egli era per andare. Compiuta la loro missione, essi ritornarono esultanti a Gesù, narrando ciò che avevano fatto. Gesù pure ne fece gran festa, ne ringraziò con grande ardore il Padre, e disse ai discepoli, che dovevano godere più assai perché i loro nomi erano scritti in cielo, vale a dire erano sicuri, corrispondendo d’avere la vita eterna. Poi, rivoltosi ancora ad essi, pronunciò le parole, con le quali comincia l’odierna lezione e che sono per ispiegarvi. – Gesù, rivolto ai suoi discepoli, disse: Beati gli occhi, che vedono le cose che voi vedete. Perché vi dico, che molti profeti e re desiderarono di vedere le cose che voi vedete, e non le videro, ed udire le cose che voi udite, e non le udirono. „ – Tutto l’antico Testamento era una preparazione al nuovo; tutti i riti, tutti i sacrifici, tutti i simboli, tutti i vaticini dell’antico Testamento, come raggi nel centro, si appuntavano nel nuovo, e più propriamente in Gesù Cristo, che ne è l’autore e consumatore. Il Messia, cioè Gesù Cristo, è il fine della legge antica, scrive S. Paolo: Finis legis Christus. Egli è il termine fisso dell’eterno consiglio, Egli è il punto, nel quale tutto si incentra, Egli il sospiro, l’aspettazione, il desiderio dei secoli. Chi può dire con quali affocate brame i patriarchi, i profeti, i santi dell’antico Patto sospirarono la sua venuta! Abramo, Giacobbe, Mose, Davide, Elia, Isaia, Geremia, Daniele e tutti i santi e profeti lo invocarono e desiderarono di vederlo, e intravedendolo attraverso i secoli, lo salutarono da lungi, dice S. Paolo: Salutantes a longe. Àbramo, dice Cristo, vide la mia venuta, e ne gioì: Abraham exultavit, ut videret diem meum; vidit, et gavisus est. Ebbene, esclama Cristo, stendendo le braccia ai suoi cari Apostoli e mirandoli con occhi pieni d’amore; ciò che quei grandi desiderarono di vedere e non videro, di udire e non udirono, voi lo vedete, voi l’udite. Qual grazia, qual gloria è la vostra, e perciò come grande è il dovere della vostra gratitudine! Dilettissimi! Se grande, ineffabile fu la grazia concessa agli Apostoli di vedere e di udire il Piglio di Dio nell’assunta natura, non è minore la nostra, che viviamo tanti secoli dopo di loro. Noi pure, come gli Apostoli, udiamo lo stesso Gesù, leggendo nei Vangeli le sue parole e la sua dottrina; noi possediamo lo stesso Gesù, lo tocchiamo, lo riceviamo dentro di noi stessi nel mistero d’amore, la S. Eucaristia. Tra noi e loro non vi è differenza alcuna sostanziale, perché noi pure al pari di essi possediamo Gesù; essi nella sua forma umana visibile, noi sotto le ombre eucaristiche, sotto le specie del Sacramento; se v’è differenza è quella del modo, non della sostanza, ondechè a noi pure sono rivolte quelle parole di Gesù Cristo: “Beati gli occhi che vedono le cose che voi vedete. Perché vi dico che molti profeti e molti re desiderarono di vedere le cose che voi vedete, e non le videro, di udire le cose che voi udite, e non le udirono. „ Queste parole Gesù disse agli Apostoli, ma insieme con essi, v’era molta gente, e in mezzo ad essa, come quasi sempre, scribi e farisei. Costoro lo seguivano, come sappiamo dal Vangelo, non per udire la parola di vita e di verità che usciva dalle sue labbra, ma per coglierlo in fallo, accusarlo e perderlo. Vedete cecità e malignità di quella gente, che istruita nella legge e nei profeti, doveva essere la prima a riconoscere la sua divina missione, e invece non pure non lo seguiva, ma faceva ogni opera affine di allontanare da Lui il povero popolo. A tanta cecità di mente, a tanto pervertimento di volontà può trascinare la superbia! Che avvenne? In mezzo a quella folla era un dottore della legge, o scriba; costui, argomentandosi di poter pure trarre di bocca a Gesù qualche risposta meno misurata e che gli fornisse appiglio a qualche accusa, gli mosse una domanda. Aveva poco prima udito da Cristo, che i suoi discepoli dovevano essere lieti, perché i loro nomi erano scritti in cielo, sui libri della vita eterna; afferrata questa idea della vita eterna, il legista disse a Gesù: “Maestro, che farò io per avere la vita eterna, della quale or ora hai parlato? „ Per fermo il legista lo sapeva bene: Osserva i comandamenti della legge divina; ma nella sua malizia sperava che Gesù avrebbe aggiunta qualche altra cosa ed avrebbe porto occasione ad accuse. Pensate quanto Gesù doveva soffrire, vedendosi costantemente circondato da questa gente che l’odiava, che gli tendeva lacci e ordiva sempre nuove insidie a suo danno! Eppure Egli taceva, lo soffriva e si studiava di far penetrare la luce della verità in quelle menti ed in quei cuori pervertiti. Gesù prontamente rispose: “Tu sei dottore della legge e la devi ben conoscere, dimmi dunque: “Che cosa sta scritto nella legge? Come vi leggi? „ E il legista: ”    Amerai il Signore Iddio tuo, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso. La risposta non poteva essere più netta e precisa: essa è il succo di tutto l’insegnamento divino. Gesù rispose al legista: “Bene hai risposto: fa’ questo e vivrai, „ cioè anche il nome tuo sarà scritto nella vita eterna. – Non è d’uopo ripetere qui ciò che dissi più volte altrove, cioè che l’amore di Dio, quando sia vero amore, porta necessariamente al perfetto adempimento di tutta la legge, della volontà divina, ond’è verissimo, che chi ama, ha osservata tutta la legge ed è sicuro della propria salvezza. Questa risposta di Gesù troncava ogni questione e poneva il legista nella impossibilità di proseguire le sue domande suggestive ed insidiose, e lo svergognava dinanzi alle turbe. Ma egli non si diede per vinto, e volendo coprire il suo mal animo e la sua disfatta, s’appigliò a quell’ultima parola: “Ama il tuo prossimo come te stesso; „ atteggiandosi a discepolo, che ha bisogno d’essere chiarito dal maestro sopra qualche punto più difficile, disse: “Chi è poi il mio prossimo?„ Il legista doveva conoscere almeno in confuso l’insegnamento di Cristo per ciò che spettava l’amore del prossimo, e come la sua Dottrina, su questo punto del prossimo, fosse diversa dalle grettezze giudaiche (Si sa che i Giudei insegnavano che il prossimo erano gli stessi Giudei: quanto agli altri popoli, agli stranieri, le loro idee non erano bene determinate; in sostanza essi consideravano tutti gli stranieri come nemici, e pare che reputassero lecito odiarli. ” Odio habebis inimicum tuum. „) ed abbracciasse tutti gli uomini e perciò non gli parve fuori di proposito il tentarlo su questo argomento, dicendogli: ” Chi è poi il prossimo mio? „ Cristo risponde con la parabola,, onde la risposta alla domanda è lasciata al legista stesso ed alla moltitudine, e non poteva essere dubbia, tanta è la evidenza della verità. ” Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e diede nei ladri, i quali lo spogliarono, e per di più, feritolo, se n’andarono, lasciandolo mezzo morto. „ Gerusalemme è posta sopra una catena di colline di più che discreta altezza, a 700 metri circa sul livello del mare. Di là scendeva una gran via verso la valle del Giordano che passava per la città di Gerico e metteva ai paesi oltre il Giordano stesso: il tratto di via fra Gerusalemme e Gerico, di 20 kilometri circa, era infestato da ladroni, e v’era un luogo, tra gli altri famoso per latrocini ed assassinii, chiamato Adommim, che vuol dire: Luogo di sangue, come attesta S. Girolamo. È noto che la Giudea è un paese assai montuoso, quasi tutto a colli, oggidì pressoché nudi e rocciosi. Vi sono frequentissime le spaccature e le caverne, e in esse trovavano facile nascondiglio, i ladroni e gli assassini. Gesù dunque immagina che un uomo parta da Gerusalemme e percorra la via di Gerico. Badate che scopo di Gesù è di mostrare, rispondendo al legista, che qualunque uomo sia Giudeo, sia Gentile, ci è prossimo; e per questo Egli non dice: Un Giudeo, ma un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico. Che avvenne? Giunto ad un certo luogo, una banda di ladroni sbucò dai suoi nascondigli, si gettò sul mal capitato viandante, lo spogliò d’ogni cosa: non furono paghi quegli scellerati ladroni: lo crivellarono di ferite, e così com’era, coperto di sangue e mezzo morto, lo lasciarono in mezzo alla via e sparvero. Il misero giaceva sulla via, impotente a muoversi, a chiedere soccorso, aspettando la morte inevitabile. Poco appresso si ode un rumore di passi che lentamente si avvicinano. Chi è? È un sacerdote che, avvolto nella sua ampia e maestosa veste, s’avanza. Egli si avvicina, china l’occhio sul misero, disteso sulla via, lo guarda e poi senza fermare il passo, freddo ed imperturbabile, prosegue il suo cammino. Non una parola, non uno sguardo di pietà per quello sventurato. Era da poco passato il sacerdote, ed ecco per la stessa via, giungere un altro viandante: egli è un levita (Il sacerdote compiva i riti sacri per ufficio suo; il levita èra il suo aiutante, presso a poco quello che sono oggidì i diaconi, i suddiaconi e gli altri ordini minori, che servono ai sacerdoti): anch’egli, come il sacerdote a passo grave e lento s’appressa, volge lo sguardo al giacente, ma non si china a sollevarlo, non si ferma, non gli muove una domanda, e con aria non curante, continua il suo viaggio. Chi non sente ribollire il sangue e fremere indignata l’anima al vedere l’indifferenza, dirò meglio, la crudeltà, di questo sacerdote e di questo levita? Evidentemente Gesù volle proporre in questi due, il tipo della indifferenza e della durezza di cuore, per due ragioni principalmente: in primo luogo, il ministero sacro imponeva al sacerdote ed al lievita, un obbligo maggiore di esercitare la carità, e quella indifferenza crudele diventa più detestabile; in secondo luogo, Gesù volle mettere a nudo la falsa religione dei sacerdoti e leviti d’allora: tutti intenti alle pratiche materiali della religione, alle cerimonie, alle abluzioni, ai sacrifici, alle lunghe orazioni, dimenticavano il fondo della religione vera, che è la carità. Gesù qui con la parabola rafferma quella dottrina che tante volte ha inculcato, vale a dire, che bisogna badare all’interno, al cuore, alle opere, e non alle apparenze. La parte che in questa parabola rappresentano il sacerdote ed il levita, fa ribrezzo ed essi non ricevettero mai rampogna più sanguinosa di questa e più meritata, e si comprende come il ceto sacerdotale giudaico e i farisei, ch’erano pressoché tutti dello stesso taglio, dovessero sentirsi trafitti, ne fremessero ed in cuor loro giurassero di farne aspra vendetta. E si comprende anche come gli ebbero a gettare in faccia l’accusa di Samaritano, dicendogli: “Non diciamo noi bene che tu sei Samaritano, cioè scismatico eretico, nemico della legge mosaica? Il povero spogliato e ferito era ancor là sulla strada immerso nel suo sangue e invano chiedente aiuto. Ed ecco sopravvenire un terzo viandante, laico; esso cavalcava un giumento: era un Samaritano. Voi lo sapete, i Samaritani vivevano nell’errore, e lo disse Cristo in termini alla Samaritana (Capo IV di S. Giov.). Per schiatta, per lingua e per religione differenti dai Giudei, erano in odio a questi più che gli stessi Gentili, ed una delle maggiori ingiurie, che i Giudei potessero gettare in faccia ad un uomo, era il dirgli: Tu sei Samaritano. I Samaritani per i Giudei erano eretici, scismatici e tutto quel peggio che si possa immaginare. Il Samaritano, dice Cristo, giunse sul luogo, vide quel meschinello, che ingombrava la via e gemeva pietosamente; fermò tosto il suo giumento e gettategli le briglie sul collo, scese di sella e corse sopra il misero: lo sollevò da terra, scoperse le ferite sanguinolenti, le lavò, vi sparse sopra vino ed olio, le fasciò, e poi, levatolo di peso, lo pose sul proprio giumento, e camminando esso a piedi e conducendo l’umile sua cavalcatura, giunse al primo albergo, prese cura di lui e lo fece adagiare in letto. Il giorno dopo, messi fuori due denari, circa cinque lire delle nostre, le diede all’oste, e gli disse: ” Abbi cura di lui, e quanto di più avrai speso, ritornando, te lo darò. „ Molte cose sono qui da osservarsi, che il Vangelo lascia intendere e che noi dobbiamo accuratamente considerare. Gesù volle raffigurare nel Samaritano la carità per svergognare maggiormente i sacerdoti e leviti ebrei, che non ne avevano; mettendo loro innanzi l’esempio d’un eretico e d’un laico e umiliando così il loro orgoglio. Il Samaritano non guarda, né cerca se il ferito sia Samaritano, o Giudeo, o Gentile, se sia buono o cattivo, ricco o povero, se gli sarà grato o ingrato; vede un uomo che soffre, che muore; non bada ad altro, lo aiuta come meglio può, e per lui non risparmia nulla e mette mano alla borsa. La nostra carità, osservando pur sempre l’ordine voluto dalla natura e dai vincoli del sangue e dell’amicizia, non deve escludere alcuno, ma tutti abbracciare, perché tutti sono creati da Dio ed immagini sue. Il Samaritano era nell’errore, era fuori della vera religione. Gesù Cristo, facendone un modello di carità, volle forse sancire l’errore? Volle forse stabilire l’indifferenza in materia di religione e quasi riconoscere quella massima assurda ed empia, che oggi si professa da taluni, cioè che tutte le religioni son buone: che non importa tener questa più che quella, purché siamo onesti e facciamo carità, amandoci scambievolmente? Sarebbe orribile bestemmia pure il pensarlo! Se tutte le religioni sono egualmente buone, perché mai Gesù Cristo venne sulla terra ad insegnarci la sua? Perché mai mandò gli Apostoli a predicare dovunque il Vangelo? Perché non lasciò ciascun popolo nella sua religione, i Giudei nel giudaismo, i pagani nel paganesimo? Perché mai proclamò altamente che chi non avesse creduto alla sua dottrina, sarebbe condannato? Gesù Cristo dunque con la parabola del Samaritano non intese, né poté intendere di insegnare che tutte le religioni sono eguali e ch’Egli considera come suoi seguaci e suoi figli tutti quelli che esercitano la carità, quale che sia la religione che professano. Lodò la carità del Samaritano, la propose come esempio. in quel senso stesso in cui lodò il fattore ladro ed eccitò ad imitare la prudenza dei figli delle tenebre. Lodò l’opera del Samaritano e volle darcelo come modello da imitare, non nella dottrina che teneva, ma nella carità, che adempiva: di quella tacque, questa encomiò; e di quella tacque, perché i suoi uditori la tenevano per falsa e non v’era bisogno di istruirli, e di questa fece l’elogio, perché o la ignoravano, o, conoscendola, malamente la osservavano. Questa parabola di Gesù non solo ci insegna che la vera carità è quella che si mostra nelle opere, ma stabilisce eziandio ch’essa, pur serbando sempre l’ordine voluto dalla natura e dalla fede, considera come fratelli tutti gli uomini, anche d’altre nazioni e d’altra religione. L’uomo, sia turco, sia tartaro, sia civile, sia barbaro, sia credente, sia miscredente, è sempre uomo, è sempre creatura di Dio e fratello nostro, e per esso ancora è morto nostro Signore. È dunque nostro dovere amarlo ed aiutarlo secondo le nostre forze. –  Un giorno ad un Vescovo si presentava un povero, chiedendogli la elemosina: il Vescovo gli pose in mano cinque lire. Il povero, tenendo sulla palma della mano le cinque lire e fissando gli occhi in volto al Vescovo, gli disse: “Monsignore, sappia ch’io sono israelita. E che perciò, rispose il Vescovo. – Eccovi altre cinque lire, „ e le lasciò cadere sulla palma della mano, che l’israelita teneva aperta —. Ecco un Vescovo che conosceva il Vangelo di Gesù Cristo. – Direte: E pur sempre vero da questa parabola, che le persone che possedevano la vera religione e più degli altri la dovevano osservare, come erano i sacerdoti ed i leviti, non la osservavano; e il Samaritano, che era un eretico e scismatico, notoriamente in una falsa religione, ne osservava e perfettamente il precetto fondamentale, che è la carità. Come dunque si spiega questa contraddizione manifesta di avere da una parte la vera Religione senza le opere della vera Religione, e dall’altra la falsa religione e con essa le opere proprie della vera Religione? A che serve dunque avere una religione, sia vera, sia falsa? Non neghiamo che molti vivono nella vera Religione e la professano con le parole e la rinnegano con le opere, come già diceva san Paolo: Fide fatentur se nosse Deum, factis autem negant. E che perciò? Un architetto conosce benissimo l’architettura, e costruisce assai male una casa: diremo noi che è inutile l’architettura e la rigetteremo ? Un avvocato conosce profondamente la legge, ma ne usa a danno altrui ed a proprio disonore: diremo noi che la scienza della legge è inutile, anzi cattiva? Non mai. Conoscere la verità, conoscere i doveri verso Dio, verso gli altri, verso se stesso è cosa buona e necessaria, giacché se non li conosciamo è impossibile osservarli: la Religione ce li fa conoscere prontamente e con sicurezza; è dunque buona, santa e necessaria cosa. Se molti non osservano la Religione, ciò prova soltanto che l’uomo può abusare della sua libertà, e conoscendo il dovere, lo può calpestare; prova che la volontà può andare a ritroso della intelligenza, che si può vedere la via retta e mettersi per la via che mena al precipizio. Se valesse l’argomento di coloro che dicono: Molti professano la Religione e fanno opere cattive, come se non la professassero, si potrebbe con egual diritto rispondere: Tutti hanno la ragione, che insegna ad adempire i doveri naturali, e molti non si curano di osservarli: molti sono forniti d’alta scienza e sono cattivi, corrotti e corrompitori, mentre altri che ignorano l’alfabeto, sono eccellenti cittadini e uomini virtuosi: dunque, via la ragione, abbasso la scienza! Voi vedete che questo sarebbe un fare oltraggio alla ragione ed allo stesso comune buon senso. Dunque concludiamo: è vero, molti che professano la vera Religione, operano male; e ciò forma la loro condanna: operano male, perché non la osservano: essa è sempre buona e santa, ed essi sono malvagi. Il sole cessa forse d’essere un immenso beneficio per tutti, perché alcuni sotto la piena sua luce si gettano sbadatamente o volontariamente in un precipizio? Ma intanto sta il fatto, che alcuni, i quali vivono nell’eresia, nello scisma e forse anche nella miscredenza, praticano la virtù come e meglio dei Cattolici, come insegna Cristo stesso nella parabola odierna. E noi siamo lungi dal negarlo, anzi lo riconosciamo volentieri. E ciò che prova? Prova ciò che la Chiesa ha sempre insegnato ed insegna, cioè che l’uomo con le sole forze della natura può fare alcune opere buone naturali e meritare una ricompensa naturale. L’uomo, anche senza la fede cristiana e fuori della Religione Cattolica, può conoscere molte verità, che perfettamente si insegnano dalla Chiesa Cattolica: conoscendole, può metterle in pratica, ed eccovi alcune opere buone, eccovi le virtù degli eretici, degli scismatici, degli increduli. Il perché tutte quelle virtù che esercitano coloro che sono fuori della Chiesa Cattolica, intanto le esercitano in quanto che senza volerlo e quasi senza porvi mente, hanno comune con la Chiesa Cattolica il conoscimento di quelle virtù stesse, ossia in quanto che intorno a quelle, senza saperlo, sono Cattolici. Piaccia a Dio, che costoro, amando i frutti, amino altresì la pianta, cioè praticando alcune virtù, entrino in quella Chiesa che ne è la madre. Gesù, recitata la parabola, volto al legista: “Or dimmi: quale di questi tre, il sacerdote, il levita ed il Samaritano, si è mostrato prossimo al capitato tra i ladri? „ La risposta non poteva essere dubbia; ma Gesù la voleva strappare di bocca a quel medesimo che l’aveva tentato. Il legista rispose: “Colui che gli usò misericordia. „ Non pronunciò la parola Samaritano, perché quella parola forse lo confondeva, lo umiliava e quasi gli bruciava la lingua; ma in sostanza lo confessò, e non poteva non confessarlo. Ebbene, soggiunse Gesù: “Va, e fa’ tu pure il somigliante. „ Tu, figlio d’Israele, maestro della legge, imita questo povero Samaritano che, ignorando la legge scritta da Mosè, conobbe ed osservò quella che Dio scrisse nel cuore dell’uomo.

CREDO…

Offertorium
Orémus
Exod XXXII:11;13;14
Precátus est Moyses in conspéctu Dómini, Dei sui, et dixit: Quare, Dómine, irascéris in pópulo tuo? Parce iræ ánimæ tuæ: meménto Abraham, Isaac et Jacob, quibus jurásti dare terram fluéntem lac et mel.
Et placátus factus est Dóminus de malignitáte, quam dixit fácere pópulo suo. [Mosè pregò in presenza del Signore Dio suo, e disse: Perché, o Signore, sei adirato col tuo popolo? Calma la tua ira, ricordati di Abramo, Isacco e Giacobbe, ai quali hai giurato di dare la terra ove scorre latte e miele. E, placato, il Signore si astenne dai castighi che aveva minacciato al popolo suo.]

Secreta
Hóstias, quǽsumus, Dómine, propítius inténde, quas sacris altáribus exhibémus: ut, nobis indulgéntiam largiéndo, tuo nómini dent honórem. [O Signore, Te ne preghiamo, guarda propizio alle oblazioni che Ti presentiamo sul sacro altare, affinché a noi ottengano il tuo perdono, e al tuo nome diano gloria.]

Communio
Ps CIII:13; CIII:14-15
De fructu óperum tuórum, Dómine, satiábitur terra: ut edúcas panem de terra, et vinum lætíficet cor hóminis: ut exhílaret fáciem in oleo, et panis cor hóminis confírmet.
[Mediante la tua potenza, impingua, o Signore, la terra, affinché produca il pane, e il vino che rallegra il cuore dell’uomo: cosí che abbia olio con che ungersi la faccia e pane che sostenti il suo vigore.]

 Postcommunio

Orémus.
Vivíficet nos, quǽsumus, Dómine, hujus participátio sancta mystérii: et páriter nobis expiatiónem tríbuat et múnimen.
[O Signore, Te ne preghiamo, fa che la santa partecipazione di questo mistero ci vivifichi, e al tempo stesso ci perdoni e protegga.]

LO SCUDO DELLA FEDE (XXIII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XXIII.

L’ANIMA UMANA.

L’anima umana esiste. — Il pensiero non è una funzione del cervello. Ciascun’anima è creata da Dio. — Differenza dell’anima umana da quella delle bestie. — Immortalità dell’anima e vita avvenire. — Morti noi, morto tutto?

— È proprio vero che Iddio abbia dato all’uomo anche l’anima?

Non se ne può dubitare; è verità di fede. L’uomo è composto di un corpo mortale e di un’anima immortale; è così ha voluto Iddio che fosse mettendo l’uomo al mondo. Di modo che come il solo corpo non forma l’uomo, così neppure l’anima separata dal corpo basta a costituire l’uomo perfetto, ma perciò ci vuole l’unione dell’anima col suo corpo.

— Ma se l’anima non si vede!

Tu fai come i materialisti, i quali, perché anatomizzando il corpo non riescono a ferire l’anima coi loro bisturini, negano senza più la sua esistenza. Ma, caro mio, se noi la vedessimo non sarebbe più anima, vale a dire spirito. Del resto se non possiamo vederla cogli occhi materiali, forse che non dobbiamo vederla con quelli della ragione?

— Come dunque la ragione prova l’esistenza dell’anima umana?

Con moltissime prove che potrai apprendere facendo studi filosofici; io mi accontento di recartene due sole. Sta ben attento. – 1a Prova: È dimostrato nella scienza fisiologica che nel corpo umano nello spazio di sette anni incirca tutto si muti e si trasformi. Eppure per quanto si muti la carne, si muti il sangue, si mutino le ossa, ciascuno di noi sa certissimamente di essere sempre lo stesso individuo che sente, che pensa e vuole. Dunque in mezzo al continuo mutamento e rimutamento della materia bisogna ammettere nell’uomo qualche principio, che non si muta mai nella sua sostanza, e che perciò è al tutto differentissimo dal corpo umano; e questo principio è per l’appunto l’anima. – 2a Prova: Noi facciamo dei pensieri. Ma i pensieri nostri non sono materiali, non si possono né vedere, né misurare, né pesare né scomporre, eccetera. Dunque il pensiero essendo immateriale non è prodotto in noi dal corpo materiale. Bisogna perciò che sia prodotto da un’altra sostanza totalmente diversa, la quale è l’anima.

— Anche senza essere filosofo ho inteso queste prove. Ma com’è che in certe scuole si insegna che il pensiero è una funzione del cervello ?

Se così fosse, ne verrebbe che l’uomo con un cervello più o meno grosso farebbe dei pensieri più o meno grossi, che i pensieri avrebbero estensione, forma, peso, eccetera; che perdendo una parte di cervello perderebbe anche in proporzione la facoltà di pensare. E invece, come più volte fu dimostrato dall’esperienza, anche perdendosi una parte notabile di cervello, sono rimaste intatte le facoltà mentali.

— Eppure non si dice che chi non è più capace di pensare bene e ragionare ha perduto il cervello, o ha il cervello ammalato?

Così si dice per modo di dire e perché davvero l’anima si risente di ciò che avviene nel corpo, come l’occhio si risente dello indebolirsi o scomparir della luce; ma di quella guisa istessa che l’occhio non è la luce, così l’anima non è il corpo, e il pensiero non è il cervello o il prodotto di qualsiasi altro elemento del corpo.

— Anche questo l’ho inteso. Ma presentemente in ciascun uomo di qual maniera è prodotta l’anima? Sono forse i genitori, che la generano come il corpo?

No, certamente, il dire ciò, come osserva S. Tommaso, sarebbe un’eresia. La dottrina comune, chiara e più certa, dalla quale non dobbiamo allontanarci è quella, che insegna Dio creare immediatamente ciascun’anima, e in quel modo e tempo, che Egli solo sa, infonderla nel corpo.

— Va benissimo. Mi sembra però che si faccia troppo gran conto dell’anima. Alla fin fine non l’hanno altresì gli animali?

E tu vuoi mettere l’anima degli animali a pari con quella dell’uomo? Non sai che tra l’anima umana e quella degli animali v’è una differenza enorme? L’anima nostra è ragionevole, intelligente, ha coscienza di sé, è capace del bene e del male, è libera, quindi è responsabile dei propri atti e deve riceverne il premio od il castigo; l’anima delle bestie al contrario non è nulla di tutto ciò.

— Ma alle volte certi animali non sembrano dal loro modo di agire che abbiano la ragione?

Potrà sembrare, ma non è. Ohi ha la ragione può passare dal noto all’ignoto e progredire scientificamente e civilmente. M a l’esperienza dimostra chiaro che nessuna bestia può fare ciò, perché nessuna mai l’ha fatto.

— E allora da che cosa procede l’addomesticamento di certi animali e l’imparare che essi fanno certe azioni di saltare, di cantare, di giuocare e simili?

Ciò proviene dall’istinto ossia da una forza interna, per cui l’animale mosso dallo stimolo di una sensazione grata o molesta, sensazione che per la memoria si riproduce, è indotto a fare certe cose senza precedente cognizione di motivo o di fine.

— Questo l’ho inteso; ma ciò che non so e non capisco ancora si è se tanto l’anima dell’uomo come quella della bestia siano immortali.

Senti: riguardo all’anima della bestia pare certo ch’essa non sia immortale. Siccome però di che natura propriamente essa sia non si sa dire con precisione, e vi hanno in proposito varie opinioni, così a seconda di queste opinioni si spiega pure diversamente come essa non sia immortale. Taluno dice che forse Dio stesso la distrugge; altri dicono che non potendo sussistere di per se stessa se non in unione col corpo della bestia, si dilegua da se stessa quando per la morte si discioglie il corpo dell’animale. E non mancano neppure di coloro che pensano che anche l’anima degli animali per la loro morte non cessi neppure essa di vivere, benché riconoscano la impossibilità di stabilire in che modo essa viva. Insomma qui si è di fronte ad uno di quei tanti misteri di natura, per spiegare i quali si fanno supposizioni e supposizioni senza che però si possa su di essi pronunciare una parola definitiva.

— Ed in quanto all’immortalità dell’anima umana si tratterebbe anche solo di supposizioni?

No, affatto. Prima di tutto si tratta qui di una verità di fede, anzi di una verità fondamentale della fede cattolica. Le Sante Scritture ce ne parlano ripetutamente e ci dicono chiaro che « Dio ha creato l’uomo immortale ». Oltre a ciò ragione ci dimostra apertamente che l’anima umana è veramente immortale; e te ne addurrò alcune prove, le quali serviranno nel tempo stesso a dimostrarti l’esistenza di una vita futura.

— Ed io le ascolterò attentamente.

L’anima umana è semplice e spirituale, il che vuol dire che non è composta di parti, perché si sente tutta intera in tutto il corpo e in ciascuna delle sue parti; ma ciò che non è composto di parti non si può sciogliere, cioè non si può distruggere. – L’anima umana sente una tendenza irrefrenabile alla felicità, e questa tendenza è certamente Dio che l’ha posta nell’anima dell’uomo. Ma qui, durante questa mortal vita, la vera e completa felicità non si trova. Bisogna dunque che ci sia un’altra vita dopo questa, dove questa tendenza possa essere pienamente soddisfatta; del resto Iddio sarebbe stato ingiusto e crudele nel mettere in noi una fame ed una sete, che non potessero mai essere soddisfatte. L’anima umana è fatta per l a verità; la verità è il suo cibo; ma la verità è indistruttibile ed immortale, epperciò deve essere anche tale l’anima che se ne ciba. Se l’anima umana non fosse immortale, se non ci fosse per essa un’altra vita dopo questa, in cui la virtù sia premiata ed il vizio sia punito, Iddio apparirebbe Egli ancora giusto com’è, dal momento che vi sono in questa vita certi viziosi che fino all’ultimo trionfano nel loro male, e in quella vece dei buoni che fino all’ultimo giacciono oppressi? Se l’anima umana non fosse immortale, non sarebbe tolto ogni freno al vizio? e la virtù non resterebbe priva di qualsiasi stimolo? Che anzi questi stessi nomi di virtù e di vizio non sarebbero nomi vani? Se l’anima umana non fosse immortale si spiegherebbe ancora quella brama, che vi ha in noi di vivere sempre, e quel rispetto che vi è presso tutti i popoli per i trapassati, precisamente perché tutti i popoli hanno sempre creduto che con la morte nostra non tutto muoia?

— Basta, basta. Da queste belle prove sono più che convinto dell’immortalità dell’anima e di una vita avvenire. Dunque la sbagliano di grosso coloro che van dicendo : « Morti noi, morto tutto? » .

Costoro, parlando così, rigettano la loro natura e la loro dignità, si fanno pari alle bestie, ai cani, ai gatti, agli asini e forse inferiori alle medesime. Costoro contraddicono all’unanime consentimento di tutti gli uomini, agli Egiziani, ai Persiani, ai Siri, ai Caldei, ai Greci, ai Romani, ai Galli, ai Brettoni, agli stessi selvaggi dell’Ottentozia e della Patagonia. Costoro vengono ad assegnare la stessa sorte ad un S. Pietro e ad un Nerone, a una S. Teresa e ad una scellerata Elisabetta regina d’Inghilterra, a un S. Vincenzo de’ Paoli e ad un Voltaire. Costoro insomma rovesciano la ragione, deridono tutto il genere umano, manomettono il buon senso e opprimono la voce della coscienza. — Ed io non li seguirò giammai nei loro traviamenti.