DOMENICA XI, dopo PENTECOSTE (2018)

DOMENICA XI dopo PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps LXVII:6-7; 36
Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ.
[Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]
Ps LXVII:2
Exsúrgat Deus, et dissipéntur inimíci ejus: et fúgiant, qui odérunt eum, a fácie ejus.
[Sorga Iddio, e siano dispersi i suoi nemici: fuggano dal suo cospetto quanti lo odiano.]
Deus in loco sancto suo: Deus qui inhabitáre facit unánimes in domo: ipse dabit virtútem et fortitúdinem plebi suæ. [Dio abita nel luogo santo: Dio che fa abitare nella sua casa coloro che hanno lo stesso spirito: Egli darà al suo popolo virtú e potenza.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, qui, abundántia pietátis tuæ, et merita súpplicum excédis et vota: effúnde super nos misericórdiam tuam; ut dimíttas quæ consciéntia metuit, et adjícias quod orátio non præsúmit.
[O Dio onnipotente ed eterno che, per l’abbondanza della tua pietà, sopravanzi i meriti e i desideri di coloro che Ti invocano, effondi su di noi la tua misericordia, perdonando ciò che la coscienza teme e concedendo quanto la preghiera non osa sperare.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corínthios.
1 Cor XV:1-10
“Fratres: Notum vobis fácio Evangélium, quod prædicávi vobis, quod et accepístis, in quo et statis, per quod et salvámini: qua ratione prædicáverim vobis, si tenétis, nisi frustra credidístis. Trádidi enim vobis in primis, quod et accépi: quóniam Christus mortuus est pro peccátis nostris secúndum Scriptúras: et quia sepúltus est, et quia resurréxit tértia die secúndum Scriptúras: et quia visus est Cephæ, et post hoc úndecim. Deinde visus est plus quam quingéntis frátribus simul, ex quibus multi manent usque adhuc, quidam autem dormiérunt. Deinde visus est Jacóbo, deinde Apóstolis ómnibus: novíssime autem ómnium tamquam abortívo, visus est et mihi. Ego enim sum mínimus Apostolórum, qui non sum dignus vocári Apóstolus, quóniam persecútus sum Ecclésiam Dei. Grátia autem Dei sum id quod sum, et grátia ejus in me vácua non fuit.”

Omelia I

[Mons. Bonomelli, “Nuovo saggio di OMELIE per tutto l’anno”, Vol. III, om. XXIII. – Torino 1899 –imprim.]

“Ora vi rammento, o fratelli, il Vangelo che vi ho predicato e che voi avete anche accettato, e nel quale state saldi e per il quale anche vi salverete, se lo ritenete nel modo che vi ho predicato, purché non abbiate creduto indarno. Perché prima di tutto vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto; come cioè Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture, e come fu sepolto e risuscitò il terzo giorno, secondo le stesse Scritture: e come apparve a Cefa e poscia agli undici: quindi apparve a più di cinquecento fratelli, dei quali molti vivono tuttora e gli altri morirono. Poi apparve a Giacomo, poi agli Apostoli; finalmente all’ultimo di tutti, quasi ad aborto, apparve anche a me, che sono il minimo degli Apostoli, indegno d’essere chiamato Apostolo perché ho perseguitata la Chiesa di Dio. Ma per la grazia di Dio sono quel che sono, e la grazia di Dio in me non fu sterile: anzi ho lavorato più di essi tutti: non già io, ma la grazia di Dio con me „ (I. Cor. c. XV, vers. 1-10).

Noi siamo siffatti, che sentiamo il bisogno vivissimo di mutare spesso le cose che ci stanno intorno e le impressioni che riceviamo, anche belle e gradite. Un cibo, una bevanda, ancorché squisita, se è sempre quella, ci viene a noia: una armonia, una vista, una scena, ancorché incantevole, dopo un certo tempo, non ci interessa gran fatto. Noi abbiamo bisogno di variare le nostre impressioni per gustarne la bellezza: siamo simili alle api, che vanno di fiore in fiore, succhiando da ciascuno il miele e assaporandone sempre nuove dolcezze. I Libri sacri, massime del nuovo Testamento, sono come un immenso panorama, nel quale le scene variano mirabilmente: sono come un vastissimo prato, coperto d’una infinita varietà di fiori, una splendida mensa imbandita d’ogni sorta di cibi. La Chiesa ci spiega dinanzi questo panorama, ci mostra questo prato, ci introduce a questa mensa, ma pone ogni cura di variare le viste ed i fiori, di mutare i cibi, onde con la novità rendere più gradevoli le nostre impressioni. Perciò ogni Domenica la Chiesa ci mette innanzi qualche tratto nuovo, volete nell’Epistola, volete nel Vangelo: ora è un fiore colto in una delle quattordici lettere di S. Paolo, od in una di quelle di S. Pietro, di S. Giovanni o di S. Giacomo; ora ci dà a gustare una scena narrata in uno dei quattro Evangeli, e ci nutre col cibo sostanzioso delle sentenze di Gesù Cristo, che vi sono largamente disseminate. Così la novità delle cose eccita la nostra curiosità e tien desta la nostra attenzione, e la nostra curiosità eccitata e la nostra attenzione più vivamente destata, trovano più gradito e più sostanzioso l’alimento della verità che ci è offerta. – La Chiesa in questa Domenica ci fa leggere e meditare i primi dieci versetti del capo XV della prima lettera ai Corinti, e servono di prefazione alla dottrina della risurrezione finale dei nostri corpi che l’Apostolo ampiamente vi svolge. Io vi invito a considerare con me questa breve lezione della Epistola, con cui S. Paolo si apre destramente la via a spiegare il dogma fondamentale della futura nostra risurrezione. – È manifesto da questo capo XV di S. Paolo che a Corinto, nella Chiesa fondata da lui stesso, vi erano alcuni che negavano la risurrezione dei corpi o almeno ne dubitavano (vers. 12, 35) e muovevano difficoltà, che turbavano la fede dei semplici. Forse era il mal seme già sparso dagli eretici Imeneo e Pileto, riprovati da S. Paolo (II. Timot. II, 17, 18), e che si propagava come gangrena, a detta dello stesso Apostolo. Volendo egli pertanto porre in sodo questo articolo capitale della nostra fede, comincia dal ricordare ai Corinti ciò che loro aveva insegnato, cioè che Cristo era veramente risorto dai morti, e ne cita i testimoni, per conchiudere poi a suo luogo, che se Cristo era veramente risorto, Egli il capo dell’umanità, tutti sarebbero risorti. Udiamolo: “Ora io vi rammento, o fratelli, il Vangelo che vi ho predicato, che voi ancora avete accettato, nel quale vi mantenete saldi. „ Il Vangelo che Paolo qui ricorda ai fedeli di Corinto, non è certamente il libro scritto, ma sì l’insegnamento evangelico, ossia la dottrina di Gesù Cristo: questa dottrina, egli Paolo, l’aveva annunziata, ed essi, i Corinti, l’avevano accolta: Accepìstis, non solo, ma in essa stavano saldi: In quo et statis. Doppio elogio che l’Apostolo fa ai suoi Corinti, quello d’aver ricevuto il Vangelo e di perseverare in esso in mezzo ai pericoli ed alle persecuzioni, che d’ogni parte li circondavano e molestavano. Figliuoli! quel Vangelo che i Corinti avevano ricevuto adulti, noi l’abbiamo ricevuto ancor bambini, prima ancora di conoscerne il tesoro: i Corinti vi si tennero fermi; imitiamoli, conservando gelosamente e a qualunque costo questa santa eredità lasciataci dai nostri avi: In quo et statis. Pur troppo alcuni dei nostri cari fratelli, massime istruiti, colpa dei tempi e della scaltrezza dei nemici e della debolezza umana, hanno perduta la fede succhiata col latte tra le braccia della madre: deh! Che nessuno di voi la perda, ma la serbi intatta e viva, perché ad essa è legata la nostra speranza e la eterna nostra salvezza. – Seguitiamo S. Paolo. “Per questo Vangelo voi sarete salvi; „ ma a qual patto? ” … Se lo tenete nel modo, con cui io ve l’ho predicato, „ risponde l’Apostolo. Non basta, o cari, avere la fede, ma bisogna averla e conservarla quale l’autore e consumatore della fede; ma Egli ce la dà per mezzo della sua Chiesa, che ne è la depositaria ed interprete infallibile. Noi dunque dobbiamo ricevere e conservare questa fede secondo l’insegnamento della Chiesa: aggiungervi o levarne una sola sillaba sarebbe delitto, sarebbe sacrilegio. Nessuno può mutare una parola d’una sentenza pronunciata da un tribunale che giudica secondo il codice e l’applica ai casi particolari e, se la mutasse, sarebbe punito: similmente noi dobbiamo ricevere le sentenze della Chiesa, unica interprete infallibile del Vangelo. Teniamo dunque il Vangelo come ce lo porge la Chiesa, e allora non avremo creduto indarno: Nisì frustra credidistìs, giacché pretendere di piegare la fede, allargarla, restringerla, modificarla secondoché pare alla nostra corta intelligenza, è un sottoporre Dio a noi stessi, è un farci giudici della sua parola, è un distruggere la natura stessa della fede, e questa è inutile: Frustra credidistìs. In tal caso non crederemmo a Dio, ma a noi medesimi, e la fede sarebbe non l’opera di Dio, ma sì l’opera nostra. Che cosa anzi tutto avete voi insegnato, o grande Apostolo, ai vostri Corinti? Qual fu il punto capitale del vostro Evangelo? Eccovelo: “Prima di tutto vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto. „ La verità, sì la naturale, come la sovrannaturale, quella propria della ragione, come quella della fede, non è opera o fattura dell’uomo; se lo fosse, sarebbe in potere dell’uomo annientarla o mutarla: essa viene da Dio, da Dio solo, e l’uomo non può esserne che il mezzo o lo strumento di comunicazione, non mai la sorgente. Bene a ragione pertanto S. Paolo dice: Quelle verità, che io vi ho insegnate, non sono mie, non le traggo da me stesso, ma le ho ricevute anch’io, come voi le ricevete da me: Tradidi vobis in primis quod et accepi. E da chi le ha ricevute S. Paolo? Lo dice e lo ripete altrove; non dagli uomini, né per gli uomini, ma da Gesù Cristo. — E che cosa ricevette da Gesù Cristo? “… Che Gesù Cristo è morto per i nostri peccati, secondo le Scritture. „ Non basta: “Fu sepolto e risuscitò il terzo giorno, secondo le stesse Scritture. ,, In queste poche parole, come vedete, si contiene il compendio di tutta la Fede cristiana, la morte di Gesù Cristo per i nostri peccati, la sua sepoltura, la sua risurrezione, in breve, il secondo mistero della fede, che ci insegna il Catechismo. È da notarsi quella espressione ripetuta due volte: “Secondo le Scritture: „ Secundum Scripturas, che la Chiesa volle conservata nel Simbolo che si canta nella Messa. E perché questa espressione è con insistenza speciale inculcata? Le Scritture, delle quali parla in questo luogo l’Apostolo, non possono essere i libri del nuovo Testamento, che allora non esistevano che in minima proporzione, nè v’era ragione di citarli. Resta dunque che si alluda a quelli dell’antico Testamento, e v’era ben ragione di accennarvi. In quasi tutti i libri dell’antico Testamento si parla di Gesù Cristo, della sua venuta, della sua origine, della sua vita, della sua passione, morte e risurrezione, tantoché non è esagerazione il dire che tutta la vita di Cristo, prima che nei Vangeli, è scritta nei Profeti. È questo un vero miracolo, una prova della divinità di Gesù Cristo, e perciò S. Paolo, inteso sempre a raffermare nella fede i suoi neofiti, ricordando la vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo, ricorda eziandio che questa vita, morte e risurrezione di Gesù Cristo, era già stata predetta e descritta nei Libri santi, e così delle prove della divinità di Gesù forma un solo fascio, che vince ogni opposizione e schiaccia qualunque mente riottosa. Vedete, sembra dire l’Apostolo, il cumulo di miracoli operati da Cristo che tutti si incentrano nella risurrezione, sono più che bastevoli a mostrare chi Egli sia: eppure vi è un altro cumulo di miracoli, che si legano ai primi, ed è che questi miracoli furono tutti predetti, e se volete persuadervene pigliate in mano i libri del vecchio Testamento e ve li troverete descritti prima che avvenissero: Secundum Scripturas. – Scopo dell’Apostolo, come dicemmo, è di mostrare il dogma della risurrezione universale: per mostrare questo dogma, egli appella alla risurrezione di Cristo, predetta dai Profeti. Ma questa risurrezione di Cristo è avvenuta? È certa? Si può provare? La risurrezione di Gesù Cristo è un miracolo, il sommo dei miracoli operati da Cristo, ed è insieme un fatto; un fatto che si può e si deve provare a punta di ragione. Ora i fatti come si provano? Indubbiamente coi testimoni; non c’è altra via. Come provate voi che Cristoforo Colombo abbia scoperto l’America e che Goffredo di Buglione abbia preso Gerusalemme? Con le testimonianze di quelli che videro od udirono quei fatti. Similmente nel caso nostro: se Cristo è veramente risorto noi lo sapremo da coloro che lo videro ed udirono risorto. Fuori dunque i testimoni degni di fede della risurrezione di Cristo. Paolo li accenna per sommi capi, e le sue parole sono come l’eco ed il sunto delle narrazioni evangeliche. “Gesù Cristo, dice S. Paolo, apparve a Cefa, cioè Pietro: „ Visus est Cephæ? È cosa che non deve passare inosservata: l’Apostolo, enumerando le principali apparizioni di Cristo, mette in primo luogo quella fatta a Pietro, avvenuta certamente il giorno stesso della risurrezione, come apparisce dal Vangelo di S. Luca (XXIV, 34), ancorché l’Evangelista non la descriva particolarmente (Senza dubbio la prima apparizione di Cristo risorto e dai Vangelisti narrata, fu fatta alle donne e alla Maddalena, andata al sepolcro in sul far del giorno, ma l’Apostolo la passa sotto silenzio e si restringe a quelle che ebbero gli Apostoli e discepoli, e la ragione è manifesta). E perché porre in primo luogo l’apparizione di Pietro: Visus est Cephæ? La ragione vuolsi cercare, penso io, nella dignità di Pietro: egli era il capo degli Apostoli, la pietra fondamentale della Chiesa, il Vicario di Gesù Cristo, da Lui stesso ripetutamente designato come tale: la sua testimonianza era la maggiore, e perciò doveva andare innanzi a quella degli Apostoli tutti: è questo un indizio non dubbio del primato di S. Pietro, che l’Apostolo S. Paolo ci dà in questo luogo, e del quale si deve tener conto. Dopo l’apparizione di Pietro viene quella degli Apostoli uniti: Et post hoc undecim. Gesù apparve il giorno della risurrezione, a notte chiusa, ai dieci Apostoli raccolti in Gerusalemme: erano dieci, perché, oltre Giuda, il traditore, mancava Tommaso, come narra S. Luca (XXIV). Otto giorni appresso, ancora secondo il Vangelo di S. Luca, Gesù apparve nuovamente agli Apostoli, ed a questa seconda apparizione di Gesù era presente S. Tommaso, ed a questa indubbiamente accenna S. Paolo, allorché dice: ” E poscia agli undici: „ Et post hoc undecim. Credo poi che l’Apostolo, accennando a questa seconda e più completa apparizione fatta a tutti gli Apostoli, in modo indiretto sì, ma certo, alludesse anche alla prima fatta ai dieci e registrata nello stesso Vangelo di S. Luca che, secondo alcuni, è quello che S. Paolo chiama Vangelo suo: Secundum Evangelium meum. Prosegue S. Paolo la sua enumerazione, e dice: ” Quindi apparve a più di cinquecento fratelli insieme: „ Deinde visus plus quam quingentis fratribus simul. La parola, insieme, usata da S. Paolo, non permette di considerare questi cinquecento e più testimoni come la somma totale di quelli ai quali Gesù risuscitato apparve; qui evidentemente parlasi di una apparizione speciale, a cui erano presenti più di cinquecento persone. Non può essere quella della Ascensione, perché S. Luca (Atti Apost. c. I, vers. 15) afferma che questa avvenne sul monte degli Olivi, presso Gerusalemme e sembra che tutti quelli i quali ne furono testimoni, si raccogliessero poi nel cenacolo, ed erano in numero di circa cento venti. Quale è dunque questa apparizione fatta a più di cinquecento persone insieme, molte delle quali, allorché S. Paolo scriveva la sua lettera, erano morte, ma alcune vivevano ancora? Dai Vangeli non apparisce né quando, né dove, né come avvenisse la grandiosa apparizione, ma secondo ogni verosimiglianza avvenne nella Galilea, dove Gesù Cristo stesso aveva comandato si radunassero e dove si sarebbe loro mostrato. ” Dite ai fratelli miei, che vadano in Galilea; là mi vedranno „ (Matt. XXVI, 10). – Checché sia del luogo e del tempo di questa apparizione, è indubitato che oltre a cinquecento persone ne furono testimoni, che è ciò che più importa. S. Paolo continua la enumerazione: “Dopo apparve a Giacomo, poi a tutti gli Apostoli .„ – Ignoriamo i particolari della apparizione fatta a Giacomo che si crede sia il Minore e poi Vescovo di Gerusalemme. L’apparizione poi che dicesi fatta agli Apostoli tutti, si può considerare come il compendio o riassunto di tutte le altre narrate o indicate nei Vangeli. – “Finalmente, all’ultimo di tutti, come ad aborto, conchiude S. Paolo, apparve anche a me. „ Io pure, esclama il grande Apostolo, ho veduto Cristo risorto, là sulla via di Damasco; io, ultimo degli Apostoli, io aborto di Apostolo, perché chiamato a tanta dignità dopo gli altri e in modo affatto diverso dagli altri, io pure l’ho veduto Gesù risorto, io pure ne sono testimonio. — Qui la mente dell’Apostolo, com’era naturale, vola sulle memorie e sulle vicende del passato: ricorda ciò che fu e quel che è di presente, raffronta l’alta dignità di Apostolo, della quale è rivestito, e la sua vita e condotta prima della miracolosa sua vocazione, sente la propria indegnità e l’immenso beneficio della grazia ricevuta, e nell’impeto, non so ben dire della sua riconoscenza o del suo dolore, e più probabilmente dell’una e dell’altro, esce in questo grido sublime: “Perché io sono il minimo degli Apostoli, indegno d’essere chiamato Apostolo! „ E perché, o vaso di elezione, vi chiamate minimo degli Apostoli, indegno d’essere Apostolo? Non avete voi lavorato come e più degli altri Apostoli? Non siete voi l’Apostolo dei Gentili? Non siete voi stato chiamato da Cristo stesso, e in un baleno da Lui trasformato meravigliosamente? Non avete portate le vostre catene dinanzi ai tribunali della terra per amore di Cristo, per Lui vergheggiato, per Lui lapidato? Migliaia e migliaia di Gentili guadagnati a Cristo, non formano la corona e la gloria del vostro apostolato? Sì, tutto questo è vero, lo so, risponde l’incomparabile Apostolo; ma io ricordo d’aver perseguitato la Chiesa di Dio: Persecutus sum Ecclesiam Dei; il sangue di Stefano mi sta sempre dinanzi agli occhi: sono Apostolo di Cristo, ma prima fui suo persecutore e feroce persecutore: Persecutus sum supra modum, come scrive altrove: unico tra gli Apostoli fui persecutore della Chiesa prima d’essere Apostolo: ciò mi umilia, mi confonde, mi copre di vergogna, e mi fa sentire d’essere non solo l’ultimo degli Apostoli, ma indegno d’essere Apostolo. Questi due versetti, nella loro semplicità ed inarrivabile eloquenza, ci rivelano tutta la grand’anima dell’Apostolo, ce ne fanno vedere il fondo, e per poco ci strappano le lacrime. Ma torniamo all’argomento che l’Apostolo sta svolgendo. Vuol provare, come dicemmo, la risurrezione futura dei nostri corpi; per provarla appella alla risurrezione gloriosa del corpo di Gesù Cristo, nostro capo e modello: e per provare il fatto della risurrezione di Gesù Cristo appella all’autorità dei testimoni, Pietro, Giacomo, gli undici Apostoli, tutti gli Apostoli, cinquecento persone che lo videro, e infine produce la propria testimonianza. Qual serie, quale schiera di testimoni pel numero, per le qualità morali, per la costanza, per la varietà ed unanimità, per le conseguenze pari a questa! Un fatto qualunque attestato da due, tre, quattro persone oneste ed intelligenti e degne di fede genera in noi la certezza del fatto istesso, per guisa che non ci resta ombra di dubbio, e sulla loro testimonianza i tribunali pronunciano sentenze della più alta importanza, e tutti le trovano ragionevoli e giuste: il fatto della risurrezione di Gesù Cristo è affermato da tutti gli Apostoli e i discepoli: è affermato da oltre cinquecento persone che protestano d’averlo veduto e toccato, d’aver mangiato con Lui e ricevuti i suoi comandi; è affermato dovunque, costantemente, sempre allo stesso modo, ed a costo di esili, di carceri, di supplizi e della morte più atroce: chi mai potrebbe dubitarne? Se fosse possibile dubitare di tale e tanta testimonianza, sulla terra non vi sarebbe più un solo fatto che si potesse dir certo; sarebbe forza dubitare d’ogni cosa. Voi vedete pertanto che il gran fatto della risurrezione di Gesù Cristo, base della nostra fede, riposa sul più incrollabile fondamento che si possa desiderare, agli occhi stessi della ragione umana. Paolo aveva proclamato d’essere il minimo degli Apostoli, d’essere indegno di sì alta prerogativa: era il grido sincero della sua coscienza, era l’omaggio dovuto alla verità; ma l’umiltà è inseparabile dalla verità, anzi essa è verità, null’altro che verità. Io, per me, dice Paolo, non sono stato che un miserabile persecutore della Chiesa, e lo sarei tuttora; “… ma per la grazia di Dio sono quel che sono; „ sono cioè Apostolo di Gesù Cristo: Gratìa Dei sum id quod sum. E perché, o grande Apostolo, per la grazia di Dio siete quel che siete? Perché, risponde, la grazia di Dio in me non fu sterile. ., Non fu come un raggio di sole, che cade sopra un occhio chiuso, come un seme sparso sulla pietra, come un ramo innestato sopra un tronco disseccato. A questa grazia, con la quale Iddio mi chiamò senza alcun mio merito, anzi ad onta dei miei demeriti, io risposi, e risposi perché mi diede la grazia di rispondere e feci ogni suo volere. In altri termini, se sono uscito dalla cecità ebraica ed ho abbracciato il Vangelo di Gesù Cristo, e fattone Apostolo, lo devo anzi tutto alla grazia di Dio; ma non solo alla grazia di Dio, sebbene anche alla mia cooperazione. È questa la dottrina cattolica intorno ai rapporti della grazia divina e del nostro libero arbitrio, esposta da S. Paolo con una chiarezza e precisione, che non lascia nulla da desiderare. Dio previene con la sua grazia, illuminando la mente e movendo la volontà, e l’uomo lasciandosi illuminare e muovere e cooperando alla grazia con l’unire all’azione di questa la propria azione. Che cosa sono le opere buone e sante del Cristiano? Sono il risultato dell’azione divina, mercé della grazia e dell’azione umana, mercé del concorso della volontà nostra, insieme unite ed armonizzanti. – Badiamo, o cari, che la grazia di Dio non fa mai difetto, come nel seme non fa difetto il principio vitale; ma che questo rimane sterile se la terra che lo riceve, non è preparata e non risponde. Che non rimanga giammai sterile questo germe della grazia che Dio ci largisce, onde possiamo dire con S. Paolo: Gratia ejus in me vacua non fuit! L’Apostolo conchiude il suo dire che la grazia di Dio in lui non solo non fu sterile ma fu ricca di opere, a talché, soggiunge: “Ho faticato più di tutti gli Apostoli: „ Abundantius illìs omnibus laboravi. Santa franchezza e mirabile audacia questa del nostro Paolo! Protesta d’essere l’ultimo degli Apostoli, indegno di chiamarsi Apostolo, non Apostolo, ma aborto di Apostolo, e poi non esita a dichiarare di aver fatto più di tutti gli altri Apostoli. Parrebbe una contraddizione manifesta, ed è una lampante verità: egli è veramente l’uno e l’altro, secondochè consideriamo in lui ciò che era da sé prima dell’opera della grazia, e ciò che fu poi dopo l’opera trasformatrice della grazia. E poiché gli parve che l’aver detto: “Ho faticato più degli altri Apostoli, „ potesse sonare millanteria, quasi fosse opera tutta sua, spiega stupendamente l’espressione, soggiungendo: “Non io, ma sì la grazia di Dio con me: „ Non ego autem. sed gratia Dei mecum. Le opere del mio apostolato sono grandi, maggiori di quelle dei miei fratelli, che mi precedettero; voi le vedete e le vede il mondo tutto; ma esse non sono esclusivamente mie; sono mie e della grazia di Dio, che mi prevenne, mi avvalorò e le condusse a termine. È la stessa verità sopra accennata è  qui ribadita con una frase brevissima e insieme chiarissima: “La grazia di Dio con me. „ – Tenete saldi, o dilettissimi, questi due gran capi di dottrina cattolica, qui stabiliti dall’Apostolo, vale a dire, la necessità della grazia di Dio e la cooperazione della libera nostra volontà per fare il bene ed operare la nostra salvezza eterna; questi due elementi, queste due forze insieme unite portano le anime nostre alle altezze dei cieli e le depongono in seno a Dio; separate, le lasciano povere e nude su questa misera terra, anzi le lasciano cadere negli abissi di eterna dannazione. Il far sì che siano o congiunte o separate dipende da noi, onde se bene si guarda, la salute eterna o l’eterna perdizione è nelle nostre mani, perché è sempre in nostro potere usare o non usare della grazia divina a tutti e sempre più che bastevolmente offerta.

Graduale
Ps XXVII:7 – :1
In Deo sperávit cor meum, et adjútus sum: et reflóruit caro mea, et ex voluntáte mea confitébor illi.
[Il mio cuore confidò in Dio e fui soccorso: e anche il mio corpo lo loda, cosí come ne esulta l’ànima mia.]
V. Ad te, Dómine, clamávi: Deus meus, ne síleas, ne discédas a me. Allelúja, allelúja [A Te, o Signore, io grido: Dio mio, non rimanere muto: non allontanarti da me.]

Alleluja

Allelúia, allelúia
Ps LXXX:2-3
Exsultáte Deo, adjutóri nostro, jubiláte Deo Jacob: súmite psalmum jucúndum cum cíthara. Allelúja.

[Esultate in Dio, nostro aiuto, innalzate lodi al Dio di Giacobbe: intonate il salmo festoso con la cetra. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum s. Marcum.
R. Gloria tibi, Domine!
Marc VII:31-37
In illo témpore: Exiens Jesus de fínibus Tyri, venit per Sidónem ad mare Galilaeæ, inter médios fines Decapóleos. Et addúcunt ei surdum et mutum, et deprecabántur eum, ut impónat illi manum. Et apprehéndens eum de turba seórsum, misit dígitos suos in aurículas ejus: et éxspuens, tétigit linguam ejus: et suspíciens in cœlum, ingémuit, et ait illi: Ephphetha, quod est adaperíre.
Et statim apértæ sunt aures ejus, et solútum est vínculum linguæ ejus, et loquebátur recte. Et præcépit illis, ne cui dícerent. Quanto autem eis præcipiébat, tanto magis plus prædicábant: et eo ámplius admirabántur, dicéntes: Bene ómnia fecit: et surdos fecit audíre et mutos loqui.

Omelia II

[Mons. G. Bonomelli, ut supra, om. XXIV]

“Gesù, partitosi” di nuovo dai confini di Tiro, venne per Sidone, presso al mare di Galilea, per mezzo i confini della Decapoli. – Gli condussero innanzi un sordo è mutolo, e lo pregavano, perché gli volesse porre la mano sul capo. Ed egli, trattolo in disparte dalla folla, pose le sue dita nelle orecchie di quello, ed avendo sputato, gli toccò la lingua. Poi, levati gli occhi al cielo, trasse un gran sospiro, e dissegli: Effeta, cioè apriti. E incontanente le sue orecchie furono aperte e si sciolse il nodo della lingua e speditamente parlava. E comandò loro che non lo dicessero a persona; ma più Egli lo divietava loro e più quelli lo predicavano. E n’erano sopramodo stupiti, dicendo: Egli ha fatto bene ogni cosa, e fa udire i sordi e parlare i muti „ (S. Marco, VII, 31-87). –

È questa la lezione evangelica, che la Chiesa ci mette innanzi a meditare in questa Domenica undecima dopo la Pentecoste. In essa non troviamo una sola sentenza che si riferisca alle verità di fede da credersi, o a quelle del costume da praticarsi, ma si narra soltanto un miracolo operato da Gesù Cristo nella persona d’un sordo e mutolo. Ma poiché S. Girolamo ci insegna, che nelle S. Scritture non vi è punto, non àpice, che non racchiuda verità preziosa, non è a dubitare che eziandio in questo fatto si contengano documenti d’alta sapienza, utilissimi a conoscersi. La Scrittura santa, scrisse S. Ireneo, “… è simile ad una miniera ricca d’oro; per trovare il prezioso metallo fa d’uopo scavare, penetrare nelle viscere della terra, scrutarne ogni parte e, trovatolo, sceverarlo dalla mondiglia. E ciò che faremo noi pure stamattina, studiando il fatto evangelico, che avete udito. – “Gesù, partitosi di nuovo dai confini di Tiro, per Sidone, venne presso al mare di Galilea, per mezzo i confini della Decapoli. „ Rare volte nei Vangeli troviamo determinati e nominati sì particolarmente i luoghi, che Gesù onorò della sua presenza, come in questo tratto. È dunque da fermarvisi un poco per conoscere il teatro che Gesù Cristo scelse per spiegarvi le opere della sua potenza. La Palestina si stende dai piedi del Libano fin presso ai confini dell’Egitto, chiusa ad oriente dai monti di Moàb, dal Giordano e dai laghi di Genesaret o Tiberiade e mar Morto, e ad occidente dal Mediterraneo. La sua larghezza da Oriente ad Occidente varia da 40 a 70 chilometri, la sua lunghezza da tramontana a mezzogiorno, può toccare i duecento, onde la sua estensione totale è assai minore della nostra Lombardia; sono sedici mila chilometri quadrati! La Galilea, serrata tra il Libano, il suo lago ed il mare, è separata dalla Giudea, perché tramezzo sta la Samaria. Regione incantevole un tempo per i suoi colli, per le sue valli, per i suoi monti, per l’ubertà meravigliosa della sua terra, coperta di messi, di vigne, di olivi, di oleandri, vero sorriso del cielo, ed oggi povera e convertita quasi in deserto. Fu là, su quelle rive ridenti del suo lago, su quei colli amenissimi, che Gesù cominciò a predicare il regno dei cieli ai poverelli, che fece udire le più sublimi verità che siano mai cadute da labbro umano. Dopo aver moltiplicato i cinque pani, voi lo sapete, le turbe nel loro entusiasmo lo volevano far re: Gesù si sottrasse, e sembra che all’intento di quitare ogni tumulto popolare e tagliar corto a qualunque tentativo di questa natura, per qualche tempo si ritraesse da quei luoghi. Egli, come narrano gli Evangelisti, si ridusse presso il mare, nelle vicinanze di Tiro e Sidone, dove guarì la figlia della povera Cananea. Di là, riprese la via che metteva ancora al lago di Galilea, attraversando la Decapoli, ossia le dieci città, dove erano misti Ebrei e Gentili. E fu appunto in questo viaggio, che Gesù operò il miracolo del sordomuto che ci narra il Vangelo, benché taccia il luogo preciso dove avvenne. – Gesù si studiava di evitare la folla, ma il suo nome era sulle bocche di tutti: la curiosità naturale, la brama di vedere miracoli, di udire quella parola ammaliatrice, traevano sui suoi passi le moltitudini: ciechi, zoppi, infermi d’ogni maniera si mettevano dinanzi a Lui affinché li risanasse. Tra gli altri, scrive il nostro Evangelista, “gli menarono innanzi un sordo e muto e lo pregavano, affinché gli ponesse la mano sul capo. „ Questo fatto è narrato dal solo S. Marco. È noto che la mutolezza di origine è conseguenza della sordità, perché chi non ode non può apprendere la favella, e perciò il malanno della sordità trae seco l’altro malanno della mutolezza. Non si dice nel Vangelo se l’infelice era tale dalla nascita o lo divenisse appresso, limitandosi ad affermare, “che era sordo e mutolo; „ ma sembra che fossa diventato sordo appresso, perché la sua mutolezza non era assoluta. E in vero, il testo greco dice che parlava male, a stento, balbettando, e perciò in qualche modo si poteva chiamare muto. Questo sordo e muto fu tratto innanzi a Gesù Cristo da alcune caritatevoli persone, le quali pregarono il divino Maestro a risanarlo. – E qui permettetemi due osservazioni semplicissime, che il fatto mi suggerisce. La prima è questa; senza dubbio Gesù Cristo conosceva la sventura del povero sordomuto e ne voleva la guarigione: perché dunque non la operò senza esserne pregato? Perché la differì sino a che ne fu pregato? Appunto per esserne pregato! Sono pochi, pochissimi i miracoli operati da Cristo, senza esserne pregato e talora istantemente. E perché? Perché vuole che ne riconosciamo il bisogno, che ci umiliamo, confessando la nostra impotenza e la sua onnipotenza, e perché in qualche modo con la nostra preghiera concorriamo ad ottenere il miracolo istesso. Si direbbe che Dio non vuol far nulla senza di noi, dove noi possiamo concorrere. La seconda osservazione è questa: i nostri fratelli protestanti negano che gli Angeli ed i Santi in cielo possano pregare ed intercedere per noi: dicono che noi, rivolgendoci ai Santi, agli Angeli, alla Vergine affinché preghino Iddio per noi, facciamo ingiuria a Dio stesso, quasi ché Egli sia men buono di loro ed abbia bisogno di mediatori. Voi qui vedete alcuni pietosi che menano a Gesù Cristo il sordo e mutolo e lo pregano di guarirlo: Deprecabantur eum; e Gesù non si offese, non respinse come ingiuriosa la loro preghiera, anzi la gradì, e la gradì per modo che fece paghi i loro desideri, e la esaudì con il miracolo. Se qui in terra gli uomini, sì imperfetti e spesso peccatori, possono pregare per i loro fratelli bisognosi, perché i Santi, gli Angeli, la Vergine benedetta, non lo potranno pregare in cielo? Perché Iddio rigetterà in cielo ciò che gli è accettevole in terra? È dunque chiaro che la invocazione dei Santi è lecita, utile e cara a Dio. Quei buoni popolani che condussero a Gesù il sordo e muto, lo pregarono di sanarlo; ma in qual modo? Con gl’imporgli la mano sul capo: Ut imponet illì manum. È cosa singolare l’udire quella buona gente, chiedere un miracolo a Gesù e determinarne per poco il modo, mercé l’imposizione delle mani. Perché l’imposizione delle mani? Era questo un rito in uso presso gli Ebrei e consacrato poi nella Chiesa: esso soleva accompagnare la preghiera che si faceva sopra una persona, quasi simbolo della grazia divina che discende dall’alto. Giacobbe morente benedice i figli di Giuseppe e pone le sue mani tremanti sul loro capo (Gen. XLVIII, 14-17): il capo della sinagoga, Giairo, prega Gesù di salvargli la figlia agonizzante, e Gli dice: “Vieni, metti la tua mano sul suo capo e sarà salva „ (Marco, V, 23). Gesù benedice i fanciulli e pone le sue mani sul loro capo (Marco, X, 16). Che più? Gesù Cristo stabilì che lo Spirito Santo fosse dato nel Sacramento della Conferma zione, e il Sacerdozio conferito nel Sacramento dell’Ordine con la imposizione delle mani. Questo rito dunque è antico e venerando e da Gesù Cristo usato non solo, ma da Lui elevato alla dignità di Sacramento. – Le mani che si posano sul capo, la parte più nobile e più elevata dell’uomo, congiunte alla invocazione divina, ci adombrano il misterioso commercio della terra con il cielo, dell’uomo con Dio, e sembrano stabilire tra l’uno e l’altro l’invisibile corrente della grazia. Ecco perché coloro che menarono a Gesù il sordomuto, lo pregarono che volesse mettere sopra di lui la mano: era un dirgli: “Prega per lui e guariscilo.” Gesù non fu mai pregato indarno. Pigliate in mano il Vangelo, scorretelo pagina per pagina, versetto per versetto, e troverete che Gesù Cristo alcuna volta operò miracoli non pregato, ma non troverete giammai che, pregato, rimandasse inesaudito chicchessia: la bontà del suo cuore non glielo permetteva, quantunque per lo più non si trattasse di beni e favori spirituali, ma di grazie temporali: ed una prova l’abbiamo nel fatto evangelico odierno. Appena Gesù si vide innanzi quel misero ed ebbe udita la preghiera di quelli che glielo presentarono, fu tocco di compassione, e presolo in disparte dalla turba, pose le sue dita nelle orecchie di lui, ed avendo sputato, gli toccò la lingua, e poi levati in alto gli occhi e dato un gran sospiro, gli disse: ” Effeta, cioè apriti. „ . – Non occorre il dirlo, o carissimi! Gesù, il Figlio di Dio, onnipotente, poteva operare qualunque miracolo nei modi e luoghi e tempi che voleva; poteva operare qualunque miracolo con l’atto solo del suo volere, senza lasciarne apparire esternamente nemmeno un segno, un indizio tuttoché minimo; ma è chiaro dal Vangelo ch’Egli accompagnò sempre i suoi miracoli con qualche atto esterno, o con la parola, o con la preghiera, o con l’impero, o con qualche altro segno che varia secondo le circostanze. Caccia i demoni e rabbonaccia il lago con una parola d’assoluto imperio: guarisce infermi, monda lebbrosi, restituisce la vista ai ciechi con queste semplici parole: Sii sano, sii mondato! vedi: risana un paralitico, dicendo: Piglia il tuo letticciuolo e vattene; risuscita Lazzaro con quelle tre parole: ” Lazzaro, vien fuori. „ È cosa evidente che Gesù opera i suoi miracoli, accompagnandoli con alcune parole o con qualche atto o toccamento, non perché di queste cose abbisognasse (che sarebbe cosa ridicola), ma per mostrare nella coincidenza delle sue parole, dei suoi atti e de’ suoi toccamenti, coll’effetto miracoloso, che questo era veramente suo. Se i miracoli suoi non fossero stati congiunti con la manifestazione del suo volere, che solo ne era la causa, chi mai avrebbe potuto dire e credere con sicurezza che erano opera sua? Queste parole e questi atti accompagnanti i miracoli di Gesù Cristo sono vari, ma in generale rispondono alla natura dei miracoli stessi, alle circostanze di tempo, di luogo e di persone, al fine che si proponeva e andate dicendo. Ciò posto, veniamo al modo affatto particolare, che Gesù Cristo tenne nella guarigione del nostro sordomuto. Anzitutto lo piglia in disparte dalla folla : Àpprehendens eum de turba seorum. Non lo trasse in disparte in guisa da essere solo a solo col sordomuto, e nascosto agli occhi della moltitudine, come io penso; ma lo volle separato dalla moltitudine in maniera che la moltitudine lo vedesse meglio e fosse spettatrice sicura del miracolo e del modo con cui operava il miracolo; giacché scopo precipuo dei miracoli di Gesù Cristo, come sapete, era quello di mostrare e confermare la sua divina missione e, per conseguenza, la dottrina che insegnava: ora per raggiungere questo scopo era necessario che i suoi miracoli fossero indubitati, operati alla piena luce del giorno, non nascostamente, a talché potessero convincere i più restii e gli stessi suoi nemici. Poiché Gesù ebbe tratto in disparte il sordomuto e messolo, a così dire, sotto gli occhi di tutti, gli pose le dita nelle orecchie, e umettato della sua saliva o l’indice od il pollice, con esso toccò la lingua di lui. Perché tutto questo? Ve l’ho or ora detto, non già che questi atti fossero necessari ad operare il miracolo, o che in essi si racchiudesse materialmente il segreto e la efficacia della guarigione, ma solo per mostrare ch’era Egli colui che risanava quelle parti o membra inferme, applicando ad esse la sua occulta virtù onnipotente, adombrata da quei due toccamenti misteriosi. Né tutto questo bastò a Gesù: dal profondo del suo petto, dall’intimo dell’anima, trasse un sospiro angoscioso ed in pari tempo levò gli occhi al cielo: Suspìciens in cœlum, ingemuit: due atti distintissimi e compiuti nello stesso momento: con quel sospiro o gemito Gesù mostrò come vedeva e sentiva tutte le miserie dell’umana famiglia, della quale il povero sordomuto era una prova parlante, e che la virtù risanatrice non veniva dalla terra, dagli uomini, ma dal cielo e da Dio stesso. Senza dubbio gli atti esterni sono, per chi bene li considera, parole che manifestano ciò che passa nell’animo, e parole eloquenti; ma se a questi atti si aggiunge la parola esterna che li spiega, il loro significato riceve maggior luce e si toglie ogni dubbiezza; è per questo che Gesù Cristo, istituendo i Sacramenti, che sono riti esterni significanti ciò che internamente operano, volle si aggiungessero le parole, che li spiegano con tutta chiarezza. Così, mentre col versare l’acqua sul capo del bambino si esprime l’interna purificazione e mondezza dell’anima, e con l’ungere la sua fronte col crisma si significa l’interna unzione della grazia, con le parole che accompagnano quei riti sacri, si spiega nettamente ciò che essi operano. Ecco il perché Gesù Cristo, al toccamento delle orecchie e della lingua del sordomuto, al sollevare degli occhi in cielo ed al gremito che trasse affannosamente dal cuore, aggiunse la parola: Effeta, apriti, che tutto comprendeva e spiegava … È troppo facile immaginare qual doveva essere in quell’istante solenne l’atteggiamento e l’aspettazione di quella folla che gli stava intorno. Tutti gli occhi erano fissi in Gesù e nel sordomuto; i lontani si levavano in punta di piedi per vedere; tutte le orecchie erano tese ad udire le parole di Gesù e del sordomuto, se per avventura ne pronunciava: il silenzio era profondo ed assoluto, e il ronzio d’un insetto sarebbesi certamente udito. Appena pronunciata quella parola imperiosa: ” Apriti, „ le orecchie furono aperte, si sciolse il legame della lingua e speditamente parlava (2). La doppia infermità della sordità e della mutolezza era certa, notissima; Gesù non vi adopra intorno alcun rimedio naturale, se rimedio non si vogliono dire il toccare le orecchie e la lingua, il guardare il cielo e il dare un sospiro e il pronunciare quella parola: ” Apriti . „ E fosse pure che vi avesse usato intorno qualche rimedio naturale, questo non poteva certamente produrre immediatamente il suo effetto: la guarigione fu istantanea, testimonio l’intero popolo: essa non può attribuirsi a cause umane, ma al solo comando di Cristo; che è quanto dire, è un miracolo manifesto. Alcune riflessioni non inutili, o carissimi: come sulla terra vi sono uomini, grazie a Dio, non molti, che sono infermi delle orecchie e della lingua del corpo, così vi sono uomini, e pur troppo senza numero, infermi delle orecchie e della lingua dell’animo. Sono coloro, che non ascoltano mai la parola di Dio, o se l’ascoltano talvolta, non ne penetrano il senso; sono coloro che non sciolgono mai la lingua alla preghiera, che non ringraziano mai il buon Dio dei benefici ricevuti, che pronti a parlare di tutto e a difendere lo loro massime, le loro idee, i loro diritti, sono muti allorché si tratta di confessare o difendere la fede, che professano e le ragioni della giustizia e della verità. Ah! questi uomini, questi sordi, questi mutoli hanno bisogno che Gesù Cristo apra loro le orecchie, sciolga la lingua del loro spirito con un gemito del suo cuore e con quella parola potente: “Apriti”. Ben è vero, che nel santo Battesimo, nei riti che lo precedono, a noi pure il sacro ministro toccò le nostre orecchie e con la sua saliva toccò la nostra lingua e pronunciò la mistica parola: “ Effeta, apriti, „ come Cristo fece col sordomuto del Vangelo; ma è pur vero che molti di noi, fatti adulti, volontariamente chiusero quelle orecchie che erano state aperte, legarono quella lingua ch’era stata sciolta, e divennero ancora sordi e muti. Che fare, o dilettissimi? Gesù è pronto a rinnovare in ciascuno di noi quel miracolo che operò nel sordomuto, di cui parla il Vangelo: lasciamo che lo operi, anzi preghiamolo che si degni operarlo in noi con quel suo gemito e con quella sua parola onnipossente: Apriti! Apriamo sempre le orecchie ad udire la parola di verità, e la lingua sia sempre pronta e sciolta a celebrare le lodi di Dio! Operato il miracolo e manifestatosi da sé stesso agli astanti nella favella libera e spedita del poverello già sordo e mutolo, “… Gesù comandò che non lo dicessero ad alcuno: ma più Egli lo vietava loro e più essi lo predicavano. „ – In questo stesso Vangelo di S. Marco (V, 19), si narra come Gesù liberò un infelice dalla signoria del demonio, che lo tiranneggiava e orribilmente malmenava, e poi gli disse: “Va, di’ ai tuoi quel che ti ha fatto il Signore. „ Come si compongono questi due comandi di Gesù Cristo? Con l’uno divieta che si divulghi il miracolo del sordomuto, e con l’altro impone che si manifesti la liberazione miracolosa dell’ossesso? E non era bene che il miracolo del sordomuto fosse conosciuto e così fosse conosciuta la missione divina di Gesù Cristo? Non era questo il fine, per cui operava i miracoli? Nell’interesse della salvezza delle anime e della gloria del Padre suo, Gesù doveva desiderarne la divulgazione massima: perché dichiara di non volerla? – Non fa mestieri il dirlo: in Gesù Cristo non vi fu mai, né poteva esservi ombra di contraddizione: questa diversità di condotta nei due fatti forse si deve spiegare da diverse condizioni di luogo, di tempo, di circostanze nelle quali Gesù si trovò e che noi non conosciamo e il Vangelo non volle dire (Apparisce dal “Vangelo che alcuna volta Gesù Cristo ebbe cura di non irritare maggiormente i suoi nemici, scribi e farisei; forse in quel momento fa prudenza per lui imporre silenzio alle turbe per mostrare ad essi che non cercava le lodi degli uomini e che, se queste gli venivano, erano uno spontaneo tributo di ammirazione e gratitudine); forse anche, come avvertono alcuni interpreti, qui è da ricordare in Gesù la sua doppia natura, divina ed umana: come uomo, Egli diceva: La gloria mia è nulla, ed amava il nascondimento, e perciò vietava o mostrava di desiderare che il miracolo si tenesse occulto; come Figliuol di Dio, voleva e doveva volere che fosse conosciuto e predicato dovunque. Qui parlò come uomo, dandoci esempio di modestia. Ma certo il suo divieto di parlarne non fu un comando esplicito, perché se fosse stato tale, ne avrebbe voluto la osservanza o, violato, ne avrebbe mosso rimprovero o lamento. Del resto, come esigere il silenzio sovra un miracolo ed esigerlo da una moltitudine che non capiva in sé per la meraviglia, e piena di un santo entusiasmo? Come impedire la manifestazione strepitosa della gratitudine? Era questa da parte del popolo e del sordomuto e suoi congiunti ed amici l’adempimento d’un dovere. – Il Vangelo si chiude con queste parole: “E ne erano sopra modo stupiti, e dicevano: Ogni cosa ha fatto bene, e fa udire i sordi e favellare i muti. „ Doveva, essere questo naturalmente il grido di quella moltitudine, grido nel quale si confondevano e compendiavano le voci e gli applausi che salivano al cielo. Carissimi! ogni giorno, ogni istante della nostra vita, riceviamo benefici da Dio e quali e quanti! Possiamo dire che la nostra esistenza è un continuo beneficio di Dio sì nell’ordine naturale come nel soprannaturale: questi benefici sono senza confronto maggiori di quello che ricevette il sordomuto e che le turbe ammirarono. I benefici nostri, per essere continui, passano quasi inosservati e spesso ci dimentichiamo di renderne grazie al benigno Datore: Assiduitate vilescunt. Ah! non sia così, o dilettissimi. Se non ad ogni momento, almeno a quando a quando fra il giorno, al meno all’aprirsi ed al chiudersi del giorno, ci esca dal cuore il grido di lode, di ammirazione, di ringraziamento, di gratitudine, che la guarigione miracolosa del sordomuto strappò a quella folla: Egli, il nostro Dio, il nostro Creatore e Salvatore ha fatto bene ogni cosa: a Lui onore e gloria ora e sempre per tutti i secoli. Amen.

 Credo …

Offertorium
Orémus
Ps XXIX:2-3
Exaltábo te, Dómine, quóniam suscepísti me, nec delectásti inimícos meos super me: Dómine, clamávi ad te, et sanásti me.
[O Signore, Ti esalterò perché mi hai accolto e non hai permesso che i miei nemici ridessero di me: Ti ho invocato, o Signore, e Tu mi hai guarito.]

Secreta
Réspice, Dómine, quǽsumus, nostram propítius servitútem: ut, quod offérimus, sit tibi munus accéptum, et sit nostræ fragilitátis subsidium. [O Signore, Te ne preghiamo, guarda benigno al nostro servizio, affinché ciò che offriamo a Te sia gradito, e a noi sia di aiuto nella nostra fragilità.]

Communio
Prov III:9-10
Hónora Dóminum de tua substántia, et de prímitus frugum tuárum: et implebúntur hórrea tua saturitáte, et vino torculária redundábunt.
[Onora il Signore con i tuoi beni e con l’offerta delle primizie dei tuoi frutti, allora i tuoi granai si riempiranno abbondantemente e gli strettoi ridonderanno di vino.]

Postcommunio
Orémus.
Sentiámus, quǽsumus, Dómine, tui perceptióne sacraménti, subsídium mentis et córporis: ut, in utróque salváti, cæléstis remédii plenitúdine gloriémur.
[Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, mediante la partecipazione al tuo sacramento, noi sperimentiamo l’aiuto per l’ànima e per il corpo, affinché, salvi nell’una e nell’altro, ci gloriamo della pienezza del celeste rimedio.]

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.