DOMENICA IX dopo PENTECOSTE (2018)

DOMENICA IX dopo PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps LIII:6-7.
Ecce, Deus adjuvat me, et Dóminus suscéptor est ánimæ meæ: avérte mala inimícis meis, et in veritáte tua dispérde illos, protéctor meus, Dómine. [Ecco, Iddio mi aiuta, e il Signore è il sostegno dell’ànima mia: ritorci il male contro i miei nemici, e disperdili nella tua verità, o Signore, mio protettore.]
Ps LIII:3
Deus, in nómine tuo salvum me fac: et in virtúte tua libera me.
[O Dio, salvami nel tuo nome: e líberami per la tua potenza.]
Ecce, Deus adjuvat me, et Dóminus suscéptor est ánimæ meæ: avérte mala inimícis meis, et in veritáte tua dispérde illos, protéctor meus, Dómine.
[Ecco, Iddio mi aiuta, e il Signore è il sostegno dell’ànima mia: ritorci il male contro i miei nemici, e disperdili nella tua verità, o Signore, mio protettore.]

Oratio
Orémus.
Páteant aures misericórdiæ tuæ, Dómine, précibus supplicántium: et, ut peténtibus desideráta concédas; fac eos quæ tibi sunt plácita, postuláre.
[Porgi pietoso orecchio, o Signore, alle preghiere di chi Ti supplica, e, al fine di poter concedere loro quanto desiderano, fa che Ti chiedano quanto Ti piace.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios.
1 Cor X:6-13
Fatres: Non simus concupiscéntes malórum, sicut et illi concupiérunt. Neque idolólatræ efficiámini, sicut quidam ex ipsis: quemádmodum scriptum est: Sedit pópulus manducáre et bíbere, et surrexérunt lúdere. Neque fornicémur, sicut quidam ex ipsis fornicáti sunt, et cecidérunt una die vigínti tria mília.
Neque tentémus Christum, sicut quidam eórum tentavérunt, et a serpéntibus periérunt. Neque murmuravéritis, sicut quidam eórum murmuravérunt, et periérunt ab exterminatóre. Hæc autem ómnia in figúra contingébant illis: scripta sunt autem ad correptiónem nostram, in quos fines sæculórum devenérunt. Itaque qui se exístimat stare, vídeat ne cadat. Tentátio vos non apprehéndat, nisi humána: fidélis autem Deus est, qui non patiétur vos tentári supra id, quod potéstis, sed fáciet étiam cum tentatióne provéntum, ut póssitis sustinére.

Omelia I

[Mons. Bonomelli, Omelie, vol. III, Omelia XIX – Torino, 1899]

“Non siamo desiderosi di cose malvagie come anche quelli ne desiderarono. Non diventate idolatri, come alcuni di loro, secondoché sta scritto: Il popolo si sedette e si pose a mangiare e bere, poi si levò per danzare. Non fornichiamo, come alcuni di loro fornicarono, e in un sol giorno ne caddero ventitré mila. Non tentiamo Cristo, come alcuni di loro tentarono e furono uccisi dai serpenti. Non mormorate come alcuni di loro mormorarono e furono distrutti dallo sterminatore. Ora tutte queste cose avvenivano a quelli in figura e sono scritte ad ammonimento di noi, nei quali si sono scontrati i termini dei secoli. Il perché chi pensa di restar ritto, badi che non cada. Non vi colga tentazione se non umana; Dio è fedele, ed egli non permetterà Che siate tentati sopra le forze vostre; ma colla tentazione darà l’uscita, affinché la possiate “ sostenere „ (I. ai Corinti, X, 6-13;)

Voi stessi vi sarete accorti, che la lezione della Epistola propria della Messa è quasi sempre tolta dalle lettere di S. Paolo. E perché ciò, o dilettissimi? Se non erro, le ragioni principali di quest’uso della sacra liturgia, devono essere le seguenti: le lettere dell’Apostolo, messe insieme, formano un volume pressoché eguale a quello dei quattro Evangeli uniti e di gran lunga superiore a quello che formerebbero le sette lettere, che ci rimangono di S. Giacomo, di S. Pietro, di san Giovanni e di Giuda Taddeo. Qual meraviglia, che formando le Epistole di S. Paolo una parte
sì considerevole del nuovo Testamento, forniscano anche in proporzione assai maggiore delle altre la materia di lettura nella santa Messa? Oltreché vuolsi avvertire che nelle Epistole di S. Paolo si condensa in modo ammirabile la dottrina dogmatica e particolarmente la morale di Cristo, e perciò queste si prestano a preferenza d’altre parti scritturali alla considerazione ed edificazione dei fedeli [Nei Vangeli occupano una parte considerevole i fatti della vita di Cristo, doveché nelle Epistole di S. Paolo di fatti non se ne fa menzione, che pochissime volte: in quella vece vi si espone la dottrina di Cristo si dogmatica come morale, onde per questa parte si può dire che nelle Epistole abbiamo una ricca miniera al pari e più degli Evangeli.] – Nei versetti precedenti S. Paolo ha detto, che gli conveniva lavorare e mortificare il suo corpo, se non voleva trovarsi tra i reprobi dopo di aver predicato agli altri. Giustifica poi questo suo timore per sè e per gli altri, di esser trovato reprobo, coll’esempio del popolo d’Israele, caduto quasi tutto miseramente nel deserto prima di entrare nella terra promessa; e qui, colto il destro, applica ai cristiani, moraleggiando, i fatti che avvennero agli Ebrei nel deserto. Vedete, dice l’Apostolo: dei seicentomila Ebrei, dai vent’anni in su, che uscirono dall’Egitto, due soli entrarono nella terra promessa: ciò potrebbe accadere anche a noi viaggianti verso la vera terra promessa, il cielo. “ Non siamo desiderosi di cose malvage, come anche quelli ne desiderarono. „ Continua il riscontro tra gli Ebrei e noi cristiani; gli Ebrei nel deserto, rammentando i cibi succulenti che si mangiavano in Egitto: Sedebamus super ollas carnium, e dimenticando l’orribile schiavitù, che vi soffrivano, si levarono a rumore contro Mosè e contro Dio, che li aveva condotti in quel luogo selvaggio, e desideravano le carni: il desiderare le carni per sè non sarebbe stato un gran delitto, ma lo era bene, e gravissimo, il lagnarsi di Dio, il ribellarsi a Mosè, il dimenticare i beneficii innumerevoli ricevuti e il rimpiangere la servitù, ond’erano stati liberati. Iddio punì quell’ingrato e maligno popolo, e gran numero di esso rimase in quel luogo percosso di morte, tantoché gli fu dato il nome di Sepolcri della concupiscenza; Sepulchrum concupiscentiæ (Num. c. XII, 33, 34). Badiamo, grida qui l’Apostolo, di non imitare codesti Ebrei, per non incorrere il loro castigo ed essere esclusi dal cielo. Il popolo, o fratelli miei, è sempre lo stesso, simile ad un fanciullo, mobile, facile ad essere sedotto, a dimenticare i benefizi. Vedete gli Ebrei: dovevano rammentare gli orrori della schiavitù in Egitto, le fatiche intollerabili, i bambini dal barbaro tiranno fatti gettare nel Nilo, i prodigi Operati da Mosè: nulla di tutto ciò. In un momento di malcontento, di dispetto, d’ira, pensa alle cipolle ed alle carni d’Egitto: si lamenta di Dio, grida contro Mosè, si solleva contro il liberatore e lo minaccia. E non è ciò che troppo spesso facciamo noi pure? Liberati dal peccato, col pensiero torniamo agli antichi piaceri, rimpiangiamo la servitù, le catene delle passioni portate sì a lungo e ci pare troppo aspra la via della virtù, troppo dura la vita cristiana? Stolti! desideriamo di ritornare in Egitto e volgiamo le spalle alla terra promessa, la vera terra promessa, a cui Dio ci chiama. Non desideriamo cose malvage; Non simus concupiscentes malorum! Il desiderio dei Giudei si riferiva soltanto alle carni, come apparisce dal sacro testo, ed era colpevole: l’Apostolo proclama che noi cristiani dobbiamo guardarci in genere da ogni desiderio di cose malvage: Non simus concupiscentes malorum. Gli uomini non vedono che le cose esterne, e questo pure in modo assai imperfetto; ma l’occhio di Dio penetra nelle pieghe del nostro cuore, nelle fibre del nostro spirito, e tutto vede, pesa e misura senza pericolo di errore. – Carissimi! quanti desideri spuntano, si agitano, si succedono in fondo al nostro cuore! Chi potrebbe mai contarli? S’incalzano come le onde del mare, e tutti vi lasciano la traccia del loro passaggio: non importa che si manifestino negli atti e gli uomini li vedano e li contino: li vede e li conta Iddio! Ora quali sono questi desideri, figli dei nostri pensieri e dei nostri amori? Sono tutti buoni, retti, onesti, o almeno indifferenti? Ohimè! se siamo sinceri, dovremo confessare che molti di questi desideri, che erompono dal fondo dell’anima nostra, sono viziosi, colpevoli e tali, che arrossiremmo, se fossero conosciuti, non che da altri, ma dai nostri amici! Perché aprire il cuore, vagheggiare e accarezzare questi desideri, che vorremmo nascondere agli uomini, ai nostri cari istessi e sono manifesti a Dio, e un giorno saranno manifestati all’universo intero? Vegliamo adunque su questi desideri, e quelli che sono buoni e santi coltiviamo, quelli che sono malvagi o pericolosi cacciamo prontamente perché imbrattano l’anima: “Non simus concupiscentes malorum”. S. Paolo prosegue ne’ suoi riscontri, e dice: “ Non siamo idolatri, come alcuni di loro (cioè degli Ebrei nel deserto). „ Mosè narra, che mentre egli era sul monte e riceveva la legge, il popolo si fabbricò un vitello d’oro (era un idolo degli Egiziani) e lo adorò, gli offerse sacrifici e probabilmente, secondo l’uso dei gentili, mangiò delle carni offerte all’idolo stesso e si pose a danzare. Non dimentichiamo che queste danze sacre dei gentili dinanzi ai loro idoli erano orge oscene e lascivie senza nome, e possiamo credere che tali fossero pur quelle degli Ebrei dinanzi al vitello d’oro. Ebbene, cosi ragiona S. Paolo: Stiamo in guardia noi pure Cristiani, e non sia mai che per noi si cada nella idolatria alla maniera degli Ebrei. Di quale idolatria discorre l’Apostolo? Chiaramente della idolatria nel senso rigoroso della parola, perché così vuole l’allusione alla idolatria ebraica; né deve far meraviglia, che S. Paolo creda necessario mettere in sull’avviso i fedeli contro il pericolo della idolatria. Non pochi dei fedeli, ai quali scriveva, erano stati gentili ed idolatri e la loro conversione era recente. Il pericolo di ricadere era assai grave, considerata la loro triste abitudine, e visto che l’idolatria allora regnava padrona assoluta dal trono alla capanna. La storia ci narra che non erano rari gli esempi di apostasie e di Cristiani, che dopo ricevuto il Battesimo, o per timore delle persecuzioni, o per interesse, o per altre cause ritornavano al culto degli idoli. L’esortazione dunque di S. Paolo non era fuor di luogo, anzi molto opportuna e necessaria. Oggidì per noi non vi è più ombra di pericolo che si cada nella idolatria antica: quel periodo del massimo degradamento morale per i nostri popoli è passato e passato per sempre. Ma se è cessato il pericolo della idolatria propriamente detta, non è cessata, anzi dura più elle mai vigorosa e generale un’altra idolatria, l’amore sfrenato dei beni della terra, ai quali si sacrifica troppo spesso l’onore, il dovere, la coscienza, Dio stesso. Che faceva l’idolatra? Pigliava un tronco di legno, un pezzo di metallo, ne foggiava una statua e cadendo ginocchioni dinanzi ad essa, l’adorava, le offriva sacrifici, ed esclamava: Tu sei il mio Dio! — Che fa l’uomo schiavo dell’amore sfrenato dei beni di quaggiù? Accumula oro ed argento: vagheggia un posto d’onore: ficca cupido gli sguardi in volto seducente e prostrandosi vilmente dinanzi a loro, grida: Voi avete il mio cuore, tutto l’amor mio; io vivo per voi; voi siete il mio Dio; a voi tutto sacrifico. Non è questa brutta e schifosa idolatria? Una mente, un cuore, uno spirito, che adorano la materia e vituperosamente vi si tuffano? E ch’io non esageri punto, me ne assicura il grande Apostolo, il quale in altro luogo, parlando della cupidigia e della avarizia, la chiama “ servitù di idoli, cioè idolatria: „ Quod est idolorum servitus. Noi detestiamo l’idolatria, come un gran delitto e il sommo vituperio della natura umana, e lo è veramente: detestiamo pur anco ed abbominiamo quest’altra idolatria, per la quale diveniamo adoratori delle ricchezze, degli onori e dei piaceri: Neque idolatræ efficiamìni, sicut quidam ex ipsis. In alto le menti e i cuori! appuntiamo lo spirito nostro in Dio e in lui e con lui ci eleveremo: lui solo adoriamo: i beni della terra sono appena degni di stare sotto i nostri piedi, e vi stiano sempre. – Prosegue S. Paolo il suo riscontro tra noi e i figli d’Israele nel deserto e dice: “Né fornichiamo, come alcuni di quelli fornicarono. „ Mosè nel libro dei Numeri narra come moltissimi Ebrei si abbandonarono al turpe peccato con le figliuole dei Moabiti, e come per comando di Dio furono terribilmente puniti, rimanendone sul campo ben ventitré mila trucidati. Tanta strage ci riempie di stupore e di terrore; ma non dobbiamo mai dimenticare, che quel popolo di dura cervice e di cuore incirconciso, sì facile in trascorrere ad ogni eccesso, solamente con queste tremende lezioni poteva essere contenuto, quando pur queste bastavano. Quel formidabile castigo ci mostra come sia brutta e gravissima colpa la fornicazione. Lungi dunque da noi, sembra dire l’Apostolo, questo delitto, che trasse in capo ai figli d’Israele sì aspra vendetta: Neque fornicemur, sicut quidam ex ipsis fornicati sunt. Questa sozzura è dessa rara tra i Cristiani, figli della legge di grazia e d’amore? Dio immortale! essa, a vergogna del nome cristiano, è frequente e in certi luoghi, in certe città si considera come cosa da nulla e passa quasi in trionfo. Ah! cosa da nulla questo peccato, che la giustizia di Dio percosse si fieramente, e lavò col sangue di ventitré mila vittime? E bensì vero che si paurosi castighi, per bontà di Dio, ora non si rinnovellano; ma non crediate, che sì detestabile peccato rimanga sempre impunito anche quaggiù sulla terra, sotto la legge evangelica. Dio dispone le cose per guisa, che soventi volte gli schiavi di questo peccato si puniscano da se stessi con le opere delle loro mani. Le discordie, gli odi, gli scialacqui, lo sperpero dei più ricchi patrimoni, la miseria, il disonore, i duelli, i delitti di sangue, le più vergognose infermità dello spirito e del corpo, l’ebetismo e la morte precoce non sono frequentemente gli amari frutti di questo peccato? Se noi potessimo conoscere le vittime che questo peccato va facendo in mezzo a noi e contarle ad una ad una, inorridiremmo, e forse dovremmo confessare che il braccio di Dio anche al presente non è meno terribile di quello che fosse coi figliuoli d’Israele. – Allora era Dio, che direttamente percuoteva il popolo fornicatore, ora sono gli stessi fornicatori che si puniscono da se stessi, e trovano qui nel loro peccato un saggio di quella pena eterna che si tesoreggiano nella vita futura. S. Paolo continua: “ Non tentiamo Cristo, come alcuni di loro tentarono e perirono pei morsi dei serpenti. „ Il popolo ebreo (Num. c. XXI, vers: 5 seg.) nel deserto prese a lagnarsi di Dio e di Mosè, perché mancava l’acqua e si annoiava dello stesso cibo, e dovette prorompere in invettive e bestemmie: esso, dimentico dei tanti prodigi veduti e dei tanti benefici ricevuti, metteva a dura prova la bontà e la pazienza di Dio: Tentaverunt! E Dio lo flagellò, mandando in mezzo a quel popolo ingrato e ribelle gran moltitudine di serpenti; i loro morsi erano mortali e gran numero di Ebrei miseramente perì. Ciò che accadde a loro sia nostro ammaestramento: Non tentiamo Cristo, cioè non dubitiamo delle promesse divine, delle verità, che ci furono annunziate; non facciamo come gli Ebrei, che ad ogni istante domandavano miracoli: ci basta la parola di Gesù Cristo e sopra di essa riposiamo tranquillamente. Iddio regge le cose umane con la sua provvidenza, vale a dire con quelle leggi ordinarie, che Egli ha stabilite e sulle quali poggia tutto l’ordine naturale: il miracolo è una eccezione fatta a quelle leggi, è l’intervento diretto ed immediato di Dio e questo non si deve ammettere se non quando l’evidenza ci obbliga ad ammetterlo, perché le leggi naturali sono la regola, il miracolo è l’eccezione e l’eccezione si ammette solo quando è necessario ammetterla e la ragione naturale ci costringe ad ammetterla. Dio può fare la eccezione, ossia il miracolo; ma lo deve fare quando è necessario; ma quando è necessario? Egli ed Egli solo ne è il giudice assoluto e nessuno può imporglielo, perché nessuna creatura può dire al Creatore: Voi dovete far questo e questo, s’Egli non ha promesso di farlo e farlo in quel modo e in quel tempo. Volere adunque che Iddio faccia un miracolo, a nostro modo, e deroghi a nostro cenno alle sue leggi, è un tentare Dio, un imporgli la legge e mostrarci diffidenti delle sue promesse e del corso ordinario della sua provvidenza. Noi possiamo e dobbiamo pregarlo in ogni nostro bisogno con piena confidenza ed umiltà, rimettendoci con figliale abbandono alla sua paterna bontà quanto al modo, al tempo ed alla misura, con cui vorrà esaudirci. “ Né mormoriate, prosegue S. Paolo, come alcuni di loro mormorarono e furono annientati dallo sterminatore; „ è questo l’ultimo dei riscontri, che ci lasciò l’Apostolo fra la storia del popolo ebreo e ciò che può accadere al popolo cristiano. Molte volte Israele mormorò nel deserto contro Dio e Mosè, che a nome di Dio lo guidava: a quale di queste mormorazioni del popolo qui si alluda non è chiaro: certo è che tutte le volte fu più o meno punito, ondechè non irragionevolmente possiamo dire che qui il sacro testo tutte le comprenda. Le mormorazioni del popolo contro Mosè e perciò contro Dio, che mandava Mosè, per vero dire, sono piuttosto sommosse e ribellioni, e Dio ne fece aspra giustizia. L’autorità ha sempre la sua fonte in Dio, da cui solo deriva, sia nell’ordine naturale, sia nell’ordine sovrannaturale: gli uomini, che ne sono investiti, non sono che i mandati e i rappresentanti di Dio, e perciò il mormorare contro di essi, e più assai il ribellarsi, è un offendere Dio stesso ed uno sconvolgere l’ordine per Lui stabilito. Può bene accadere, che quelli, i quali sono investiti dell’autorità, volete civile, volete paterna, volete anche ecclesiastica, nelle varie sue gradazioni,, falliscano al loro dovere ed anche ne abusino malamente; noi possiamo richiamarcene alla autorità superiore, mostrare il torto che riceviamo e chiedere giustizia nei modi onesti e stabiliti, ma rivoltarci contro di loro non mai; l’interesse pubblico e l’ordine posto da Dio non lo consente. I ribelli a Mosè là nel deserto furono percossi da Dio; se al presente Dio non punisce i riottosi quaggiù in modo visibile, senza fallo non sfuggiranno alla sua giustizia nella vita futura. Rispettiamo dunque, o cari, ogni autorità, quale ch’essa sia, e quelli che ne sono investiti, e rispettiamoli in ragione della grandezza ed eccellenza dell’autorità stessa, perché questo è il volere di Dio e chi vien meno non sfuggirà al castigo di Colui che disse: Chi sprezza voi sprezza me. Seguitiamo il testo dell’Apostolo: “Ora tutte queste cose avvenivano a quelli, vale a dire agli Ebrei, in figura e sono scritte ad ammonimento di noi, nei quali i termini dei secoli si sono riscontrati, „ ossia di noi, che veniamo ultimi, nell’ultimo periodo dei secoli. Siamo dunque accertati per questa sentenza dell’Apostolo, che tutti i fatti accaduti agli Ebrei e qui commemorati, erano e sono una figura di ciò che accade nella Chiesa, e devono essere un ammaestramento per noi. Ve lo dissi altra volta, i fatti dell’antico Testamento sono anch’essi come altrettante parole, che ci ammaestrano intorno ai nostri doveri, a ciò che dobbiamo credere, fare od evitare, ed è questo quel senso delle Scritture, che dicesi mistico, o recondito. – Forseché tutti e ciascuno dei fatti registrati nell’antico Patto sono figure di dottrine e di fatti del nuovo Testamento? Ciò sarebbe eccessivo, e S. Paolo non disse semplicemente “ tutte le cose, „ ma si tutte queste cose, che vi ho accennato, erano figura di quello che sarebbe avvenuto nel nuovo patto. – L’Apostolo, dopo aver toccati questi quattro fatti dell’antico Patto e cavatane la pratica morale pei fedeli di Corinto, ai quali scrive, passa ad una osservazione od esortazione generale, scrivendo; “Chi crede di stare ritto in piedi, veda di non cadere. „ Avete visto, o cari, così egli, come i figli d’Israele, messi alla prova caddero; vedete ancor voi, che vi riputate saldi, di non cadere come quelli. La nostra volontà è debole, si muta ad ogni istante, e benché siamo certi che l’aiuto della grazia divina a chi lo vuole non fa mai difetto, non siamo mai certi di corrispondere alla stessa, e perciò la nostra perseveranza nel bene a Dio solo è nota. Diffidiamo dunque di noi stessi, temiamo della nostra debolezza, umiliamoci dinanzi a Dio, preghiamolo con gran fede: sono questi i mezzi per star fermi nella grazia ricevuta. Viviamo sulla terra, vero campo di incessanti battaglie: affrancarci da ogni tentazione, interna od esterna, non è possibile. Che fare? “ Nessuna tentazione vi colga, scrive S. Paolo, se non umana: „ Tentatio vos non apprehendat, nisi humana. Che cosa è dessa questa tentazione umana? Penso che mente dell’Apostolo sia di esortare i fedeli a fuggire tutte le tentazioni che si possono fuggire, rassegnandosi a quelle, che sono inevitabili e a queste virilmente resistendo. Vi sono tentazioni, che è in poter nostro prevenire e schivare, e queste, secondo le circostanze, con ogni cura preveniamo e schiviamo: vi sono altre tentazioni, che nostro malgrado ci si affacciano, ci stringono, ci travagliano in mille modi, e vengono dalla carne, dal mondo, dal demonio: queste si dicono umane da S. Paolo, cioè inerenti alla nostra condizione presente, che avvengono secondo l’andamento ordinario delle cose umane. Queste Iddio le permette per i suoi fini altissimi e per il nostro bene. E allorché queste tentazioni umane sopraggiungono e vi molestano, quale deve essere la vostra regola e la vostra condotta? Anzi tutto ricordatevi, che “ Dio è fedele: „ Fidelis Deus est: ciò che promette, fedelmente mantiene: ha promesso di aiutarvi; non ne dubitate, vi aiuterà secondo il bisogno. Non basta: imporreste voi al vostro servo, ai vostri figliuoli un peso troppo grave, sotto del quale rimarrebbero oppressi? No, di certo; se lo faceste, sareste ingiusti e crudeli: ora voi siete servi di Dio, anzi suoi figli bene amati: sarebbe bestemmia pure il pensare che Iddio, padrone giustissimo, anzi Padre amorosissimo, vi sottometta ad una prova o tentazione superiore alle vostre forze; statene sicuri: “ Dio non lascerà che siate tentati sopra ciò che potete. „ E verità insegnata in termini da S. Paolo, e quando pure non la trovassimo nei libri santi, la dovremmo tenere per la sola ragione, tanto essa è manifesta. Nessuno adunque dica giammai: “La tentazione era troppo forte; io era impotente a resistere. É una menzogna, un’ingiuria atroce a Dio, è un far ricadere sopra di Lui la causa del nostro peccato. Dio non comanda mai cose impossibili, o se le comanda, dà la forza perché siano possibili. E verità questa consolante per noi tutti, che ogni giorno ci troviamo alle prese col nemico e che ci toglie ogni scusa se soccombiamo. – Va innanzi S. Paolo ed alle due verità sì belle e sì consolanti espresse nelle due sentenze brevissime: “Dio è fedele, e non permetterà, che siate tentati sopra le vostre forze, „ ne fa seguire una terza, dicendo: Ma con la tentazione darà l’uscita a poterla sostenere: „ Sed faciet cum tentatione proventum, ut possìtis sustinere. Permettendo che la tentazione v’incolga, Dio vi darà la grazia di uscirne vittoriosi, e lungi dal riportarne danno alcuno, ne avrete vantaggi non lievi. Quali? Quelli che riporta il soldato valoroso, che torna vincitore dalle battaglie. Questo nelle battaglie si addestra sempre meglio a combattere il nemico ed a vincerlo, onde tra i soldati novelli il veterano a ragione si reputa più valente. Come gli atti ripetuti in un’arte qualunque ci danno l’abito della stessa e ce ne rendono più facile e più perfetto l’esercizio, cosi le tentazioni sviluppano meglio le forze spirituali, ci fanno più forti e più generosi, ci fanno correre più speditamente la via della virtù e della perfezione e per conseguenza ci rendono più agevole la resistenza alle tentazioni future: Ut possitis sustinere. Finalmente le tentazioni ci porgono occasione di procacciarci maggiori meriti pel cielo, giacché ogni tentazione superata è una vittoria riportata sul nemico, ed ogni vittoria ci dà il diritto ad una nuova corona, secondochè sta scritto: “ Colui che avrà debitamente combattuto riceverà la corona. „

Graduale  Ps VIII:2
Dómine, Dóminus noster, quam admirábile est nomen tuum in universa terra!
[Signore, Signore nostro, quanto ammirabile è il tuo nome su tutta la terra!]
V. Quóniam eleváta est magnificéntia tua super cœlos. Allelúja, allelúja
[Poiché la tua magnificenza sorpassa i cieli. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps LVIII:2
Alleluja, Alleluja

Eripe me de inimícis meis, Deus meus: et ab insurgéntibus in me líbera me. Allelúja.  [Allontànami dai miei nemici, o mio Dio: e líberami da coloro che insorgono contro di me. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XIX:41-47
“In illo témpore: Cum appropinquáret Jesus Jerúsalem, videns civitátem, flevit super illam, dicens: Quia si cognovísses et tu, et quidem in hac die tua, quæ ad pacem tibi, nunc autem abscóndita sunt ab óculis tuis. Quia vénient dies in te: et circúmdabunt te inimíci tui vallo, et circúmdabunt te: et coangustábunt te úndique: et ad terram prostérnent te, et fílios tuos, qui in te sunt, et non relínquent in te lápidem super lápidem: eo quod non cognóveris tempus visitatiónis tuæ.
Et ingréssus in templum, coepit ejícere vendéntes in illo et eméntes, dicens illis: Scriptum est: Quia domus mea domus oratiónis est. Vos autem fecístis illam speluncam latrónum. Et erat docens cotídie in templo”.

Omelia II

(Mons. Bonomelli, ut supra, om. XX)

“E come Gesù si appressava alla città, vedendola, pianse sopra di lei, e disse: Oh! se tu, almeno in questo tuo giorno, avessi conosciute le cose, che si appartengono alla tua pace; ma ora sono nascoste agli occhi tuoi. Che ti sopravverranno giorni, nei quali ti cingeranno di trincee e ti circonderanno “ e ti stringeranno d’ogni intorno. E atterreranno te e i tuoi figliuoli dentro di te e non lasceranno in te pietra sopra pietra, perché non hai conosciuto il giorno propizio della tua visitazione. Ed entrato nel tempio, prese a scacciarne coloro che vi vendevano e comperavano, dicendo loro: Sta scritto: La mia casa è casa di orazione; “ ma voi ne avete fatto una spelonca di ladri. Ed ogni giorno egli insegnava nel tempio „ (S. Luca, XIX, 41-47).

Udendo questa breve narrazione evangelica, voi tutti senza dubbio vi sarete accorti, che contiene due parti distinte: nella prima si dice che Gesù, alla vista di Gerusalemme pianse, e si riferiscono le parole, piene di dolore e di amore, che piangendo pronunciò sopra di essa; nella seconda parte si narra come entrò nel tempio e di là cacciò i profanatori. Noi verremo considerando i due fatti narratici dal Vangelo e ci studieremo di cavarne alcune pratiche conseguenze a nostra edificazione. Il miracolo della risurrezione di Lazzaro, operato sulle porte di Gerusalemme, alla presenza di tanti testimoni, per le circostanze particolari e gravissime che l’accompagnarono, aveva gagliardamente scosso l’opinione pubblica, e rinfocolato l’odio feroce dei nemici di Gesù Cristo. Essi avevano tenuto consiglio e deliberato di togliergli prontamente la vita, e così spegnere con Lui la nuova religione. Gesù sapeva ogni cosa e, non essendo giunta l’ora per Lui stabilita di darsi in mano dei suoi nemici, si ritrasse più lontano, presso al deserto, in una cittadella che si chiamava Efraim, e che ora non sappiamo dove precisamente fosse. Dopo alcuni giorni, venuto il tempo per Lui determinato, mosse alla volta di Gerusalemme insieme coi discepoli e giunse a Betania, a tre chilometri da Gerusalemme e, come è bene a credere, scese a casa di Lazzaro e delle sorelle. Era imminente la Pasqua, quella Pasqua, in cui Gesù doveva immolare se stesso: sei giorni prima della Pasqua, Egli da Betania andò verso Gerusalemme, dove era già gran moltitudine di devoti pellegrini [Gli scrittori, e tra questi il Bonghi (pag. 342, Vita di Gesù), fanno salire a tre milioni i pellegrini che per la Pasqua si adunavano a Gerusalemme, gran parte dei quali si attendava in campagna, come si usava e si usa in Oriente.] che vi accorrevano d’ogni parte. Montando l’umile cavalcatura, procuratagli dai discepoli, salì il colle degli Olivi, che è a meno di un chilometro dalla città. – La salita del colle degli Olivi da Betania, ossia da oriente è dolce e si può fare comodamente: ma la discesa del versante verso occidente, cioè a cavaliere della città, è ripida assai e non si può fare che girando e rigirando il colle. Dalla cresta del colle, qua e là sparso di olivi anche al presente e seminato di case, di alcune moschee e di alcuni grandi edifici religiosi cattolici e scismatici russi, si gode la più magnifica vista di Gerusalemme. Sul colle di Sion, che sorge di fronte, maestosa e severa giganteggia la torre di Davide, più basso si vedono le cupole del santo sepolcro, più basso ancora la moschea di Omar, la reggia di Erode o torre Antonia. Gesù dovette giungere sulla cima del colle e si addita ancora il luogo, dove si fermò e dove si vede una cappella col titolo: Dominus flevit: Gesù pianse. Di là volse lo sguardo sulla città che stava ai suoi piedi: un velo profondo di mestizia coperse il suo volto, e mentre la folla che lo seguitava, faceva rimbombare il colle e la valle sottoposta delle sue grida festose: “Osanna al Figliuolo di Davide; benedetto Colui, che viene nel nome del Signore, „ Egli, l’amabile Salvatore, pianse: Videns civitatem flevit super illam. Notate che il fatto del pianto di Gesù sopra Gerusalemme è riferito dal solo S. Luca, ed è riferito in modo che apparisce chiaramente, averlo Egli versato mentre il popolo lo acclamava e lo copriva di applausi. Mirabile questo contrasto delle lacrime di Gesù e del trionfo con cui è accolto; la folla è giubilante e Gesù ha il cuore colmo di mestizia e piange di dolore, dacché è fuor di dubbio dalle parole che seguono, ch’Egli pianse non di gioia, ma sì di dolore e di dolore acutissimo. Gesù pianse sopra Gerusalemme: Flevit super illam! Pianse cioè sopra la durezza, la cecità, la ingratitudine e la perfidia di quella rea città, che aveva chiusi gli occhi ai suoi miracoli e gli orecchi alle parole di verità, che le aveva rivolte; pianse sopra il delitto spaventoso che fra pochi giorni avrebbe consumato nella sua persona stessa, e forse da quel luogo poteva scorgere il sito, dove l’avrebbe confitto alla croce; e pianse sopra tutto, pensando alla tremendissima vendetta, che la giustizia del Padre avrebbe fatto di quella sventurata città. Quelle erano lacrime di dolore e di amore, egualmente intensi, l’uno causa dell’altro. – L’amore ardentissimo di Gesù per quella infelice città era la cagione dell’atrocissimo suo dolore e del pianto amaro che ne era il segno esterno visibile. Gesù era Dio e uomo; come Dio, Creatore, conservatore e Redentore di tutti gli uomini, tutti li amava e quanto! Come uomo anche li amava: erano tutti fratelli suoi secondo la carne, tutti fatti ad immagine di Dio; come uomo poi, doveva amare d’un amore peculiare la sua nazione, il centro della sua nazione, Gerusalemme, e ne aveva dato prove non dubbie, scegliendola a teatro dei suoi miracoli e della sua predicazione. I diritti e i doveri di natura sono sacri, perché vengono immediatamente da Dio e precedono quelli stessi della grazia. A quel modo che  Gesù, Dio-Uomo, doveva amare la madre sua, Giuseppe e i suoi congiunti più di tutti i suoi connazionali, così doveva amare Israele e Gerusalemme più d’ogni altra nazione e città. Era la sua patria, e l’obbligo di amare la patria, dice S. Tommaso, non è che una estensione di quello che abbiamo di amare i genitori e la famiglia. Il Figliuolo di Dio avendo voluto farsi uomo e scegliersi una madre ed i consanguinei, volle anche e dovette volere una patria, e come dubitare che adempisse verso di essa ed in modo perfettissimo tutti i doveri di buon figliuolo? L’amore verso la patria, cioè verso quel paese che ci vide nascere, che chiude in seno le spoglie mortali dei nostri cari, e forse un giorno le nostre; dove sorge la chiesa, nella quale fummo battezzati, che compendia in sé tutte le nostre più dolci e sante memorie; l’amore della patria sgorga dalla natura, viene da Dio, autore della natura ed è un dovere sacro, che dobbiamo religiosamente adempire. Bene sciagurato è colui che non ama la patria sua: egli fa oltraggio alla natura e a Dio stesso. Vero è che anche questo amore della patria, come quello dei genitori ed ogni altro amore, deve essere sempre conforme alle leggi eterne ed inviolabili della giustizia, perché sia vero ed onesto amore. Gesù amava teneramente la patria sua e più Gerusalemme, perché maggiori erano i titoli ch’essa aveva all’amor suo, e quel piangere, quel singhiozzare ch’Egli fece alla vista di essa, vi dicono qual fosse l’amor suo, come sentisse al vivo gli orribili castighi che le sovrastano, e più ancora le colpe enormi che quei castighi avrebbero provocato. – Quali fossero i motivi che fecero piangere e singhiozzare Gesù alla vista di Gerusalemme, era facile rilevarli; la natura delle cose e l’insieme delle circostanze li mostravano ad evidenza: ma a quelle lacrime ed a quei singhiozzi, Egli aggiunse le parole, e spiegò chiaramente l’animo suo. Uditelo: “ O se tu almeno, in questo tuo giorno, avessi conosciute le cose che appartengono alla tua pace! ma ora sono nascoste agli occhi tuoi! „ Questo grido erompe dal cuore di Gesù profondamente afflitto, e più che afflitto, trangosciato; l’espressione rotta, che lascia intendere più assai che non dica, ne è prova manifesta.  Essa, tradotta in linguaggio più chiaro, suona cosi: Se tu pure, o Gerusalemme, conoscessi come conosco Io, almeno oggi, ciò che devi fare per aver pace, la vera pace, tu saresti salva: ma, ohimè! tu ostinata e cieca non lo conosci e sei perduta —. E quali erano le cose che Gerusalemme doveva conoscere per avere salvezza e che nella sua pertinacia non conosceva? Non occorre il dirle. Essa non aveva conosciuto Lui, Messia e Salvatore promesso: l’aveva ostinatamente respinto e fra cinque giorni lo avrebbe appeso alla croce: Egli tutto aveva fatto per salvarla, miracoli, promesse, minacce, inviti pieni di carità, ma tutto indarno: ora la misura è piena, alla carità sottentra la giustizia e il ripudio della misera città è ormai consumato: Gerusalemme, quella Gerusalemme, che gli sta dinanzi, che ha tanto amato, in cui si concentrano tutte le glorie della sua nazione, della sua patria, è irrevocabilmente perduta, e Gesù, oppresso dal dolore, piange e singhiozza! È una delle scene più tenere del Vangelo e che rivela mirabilmente il cuore di Gesù. – I Padri in Gerusalemme ravvisano la figura di ogni anima cristiana, che è sorda agli stimoli della grazia e alla voce di Dio, che la chiama a penitenza. Quante anime, o carissimi, sulle quali Gesù piange amaramente! Egli le ha fatte sue col santo Battesimo, le ha ricolmate di grazie: ha fatto conoscere loro le eterne verità, le ha nutrite di se stesso, le ha amate come frutto della sua conquista, prezzo del suo sangue, figlie al suo cuore carissime. Ed esse che han fatto? Si sono allontanate da Lui, gli hanno voltate le spalle villanamente: con la più nera ingratitudine non hanno corrisposto ai suoi favori, al suo amore: hanno accumulate iniquità sopra iniquità: hanno fatto lega coi nemici di Lui, hanno respinta la sua dottrina, bestemmiato il suo Nome, insozzato quel cuore, che a Lui solo era consacrato e ciò per mesi, per anni e per lustri. Povere anime! Gesù le guarda con occhio d’amore e di inesprimibile mestizia: le vede danzare sull’orlo dell’abisso e piange sopra di esse, come sopra di Gerusalemme, e ripete lo stesso pietoso lamento: “O se tu ancora, almeno in questo tuo giorno, avessi conosciute le cose che fanno alla tua pace! Ma ora sono nascoste ai tuoi occhi! „ Deh! che il pianto ed il grido di dolore che esce dal cuor di Gesù sopra queste anime ingrate e cieche, non rimangano sterili! Deh! che nessuna di queste anime infelici rinnovi in se stessa la storia sì terribile di Gerusalemme! Dopo aver pianto sulla ostinazione di Gerusalemme e sfogato il suo dolore sui mali morali della sciagurata città, il suo sguardo si spinge nell’avvenire, a Lui manifesto come il presente; vede la catastrofe spaventosa, che fra quarant’anni la farà scomparire per sempre dalla terra, disperdendo ai quattro venti tutti i suoi figli: vede gli orrori inenarrabili di quell’assedio, di quegli assalti, di quell’eccidio senza nome, e li tratteggia in due versetti in guisa da sembrare storia anziché profezia. Ecco le sue parole: “ Ti sopravverranno giorni, nei quali i tuoi nemici ti cingeranno di trincee e ti stringeranno d’ogni intorno, e atterreranno te e i tuoi figliuoli dentro di te, né lasceranno in te pietra sopra pietra, perché non hai conosciuto il giorno propizio della tua visitazione. „ E prezzo dell’opera, o cari, considerare questa profezia sì memoranda in ogni sua parte. – E primieramente noi sappiamo che non sempre i mali della vita presente sono castighi dei peccati. Noi vediamo frequenti volte, uomini giusti e santi oppressi da mali e dolori d’ogni genere: vedete Gesù Cristo, la Vergine, gli Apostoli, i martiri, i santi tutti, di tutti i tempi: che non soffersero nei beni materiali, nel corpo, nell’onore, nell’anima! Vedete i loro nemici e crudeli persecutori, ricchi, spesso onorati, umanamente felici. È questo il pauroso problema e direi quasi lo scandalo di molti che vedono la virtù calpestata ed il vizio trionfante! Guardiamoci dunque, o cari, dal dire: questi sono percossi da ogni sorta di mali: dunque sono grandi peccatori e li meritano. Per contrario questi altri sono colmi d’ogni prosperità: dunque sono virtuosi e Dio li benedice. È una regola sommamente fallace, e Gesù Cristo più volte nel Vangelo, ci avverte che se vogliamo essere suoi discepoli, dobbiamo aspettarci d’essere trattati come fu trattato Egli stesso. Quantunque le sventure e i mali temporali non si debbano sempre considerare come una punizione da Dio inflitta pei peccati, vi sono casi nei quali ciò si può dire con fondamento, in quanto che vi sono argomenti che lo dimostrano. Nel caso nostro la cosa è indubitata. L’immenso disastro, che cadde sopra Gerusalemme e l’intera nazione ebraica, vuolsi ritenere come una giustissima vendetta dei suoi delitti, perché Gesù Cristo stesso lo disse in termini. Tutti questi mali verranno sopra di te, cosi Gesù Cristo: “Perché non hai conosciuto il tempo propizio della tua visitazione: „ Eo quod non cognovéris tempus visitationis tuæ. – Questo vaticinio di Cristo fu pronunciato circa quarant’anni prima che si compisse, e registrato nel Vangelo di S. Matteo circa otto anni, nel Vangelo di S. Marco, circa quindici anni, in questo di S. Luca circa vent’anni dopo l’Ascensione di Cristo: ciò è indubitato dalla storia, come è indubitato che i Cristiani lo conoscevano e ne fecero tesoro, fuggendo tutti dalla città, secondo il comando di Cristo, che aveva detto: “ Allorché vedrete la desolazione nel luogo santo e gli eserciti nemici appressarsi alla città, fuggite ai monti, e chi legge, se ne rammenti: “Fugite ad montes… Qui legit intelligat,,. È questa, diceva, una delle profezie più splendide e più certe che abbiamo nel Vangelo, perché fatta prima e fatta e registrata in modo chiarissimo; perché è tal complesso di fatti sì particolareggiati e dipendenti dalla volontà libera degli uomini, che solo la mente di Dio poteva conoscere, e perché in ogni sua parte si adempì esattamente. Dell’avveramento perfetto di questa profezia di Gesù Cristo abbiamo tra le altre la testimonianza superiore ad ogni eccezione di Giuseppe Flavio. Egli prese parte a principio ai combattimenti tra Romani ed Ebrei, pugnando valorosamente per questi. Poi, fatto prigioniero, rimase nel campo romano, adoperandosi come meglio poteva a favore de’ suoi connazionali. A lui siamo debitori dei più interessanti particolari di quella lotta spaventevole, che finì con lo sterminio di Gerusalemme e con la dispersione del popolo superstite. I Romani, condotti da Tito, figlio di Vespasiano, in soli tre giorni cinsero la vasta città di un muro di otto chilometri: Circumdabunt te inimici tui vallo et coangustabunt te undique; la profezia di Cristo è d’una precisione meravigliosa. I cittadini, chiusi in grandissimo numero, perché vi erano accorsi da ogni parte come nell’ultimo loro propugnacolo, vi si difesero disperatamente. Sospesi i combattimenti esterni coi nemici, cominciavano gli interni tra loro, fino nel tempio: la fame li struggeva non meno del ferro e una madre uccise il suo bambolo per sfamarsi delle sue carni. Molti non potendo più reggere agli orrori della fame e delle stragi cittadine, fuggivano nel campo romano: ma nei soldati romani era nata l’idea che gli Ebrei, fuggendo dalla città, trafugassero i loro tesori, inghiottendosi l’oro; per impossessarsene, squartavano quei miseri e nelle fumanti viscere cercavano l’oro agognato, e non trovandolo, per rabbia li crocifiggevano, e ben presto si vide la città tutto intorno, coronata da una selva di crocifissi. – Dopo un lungo e ferocissimo assedio, la città fu presa d’assalto: gli Ebrei furibondi si ridussero nel tempio e vi si difendevano col coraggio della disperazione. Vi fu appiccato il fuoco da un soldato romano e quella meraviglia di tempio in pochi istanti fu avvolto tra le fiamme. Alla vista dell’incendio, quegli sventuratissimi Ebrei superstiti nel tempio, volsero le armi gli uni contro gli altri, trucidandosi a vicenda e
lanciandosi tra le fiamme. Perirono in quella guerra senza esempio, più d’un milione di Ebrei e parecchie centinaia di migliaia furono condotti via schiavi e venduti a pochi soldi l’uno. Cosi ebbe compimento la profezia di Cristo, il tempio fu arso e distrutto, la città smantellata e l’intera nazione dispersa ai quattro venti, per non aver conosciuto il tempo della sua visitazione: Eo quod non cognoveris tempus visitationis tuæ. Dio è buono e misericordioso, ma è altresì giusto: quel popolo, che respinse il vero Messia e lo mise barbaramente a morte, prestò fede ai falsi Messia, che gli promettevano la vittoria sui Romani e la libertà, e lo spinsero alla rivolta e alla guerra, e cosi si trasse egli stesso in capo la vendetta divina. – Ma ora torniamo al nostro Vangelo. “Gesù, entrato nel tempio, prese a scacciarne coloro che vi comperavano e vendevano, dicendo loro: Sta scritto: La casa mia è casa d’orazione, e voi l’avete tramutata in una spelonca di ladri. Gesù accompagnato dalla folla plaudente, giunse presso il tempio, ma non vi entrò e se ne tornò a Betania, credo senz’altro nella casa ospitale di Lazzaro e delle sorelle. Il dì seguente ritornò in Gerusalemme (era il nostro lunedì santo) e andò di filato al tempio. Trovò gli atrii ed i portici ingombri di venditori e compratori di cose spettanti al culto ed ai sacrifici che si dovevano offrire: v’erano anche cambiatori di monete, che vi facevano grossi guadagni. Gesù scacciò bruscamente tutti costoro come profanatori del tempio. Due volte Gesù scacciò da quei luoghi i profanatori; la prima volta allorché al cominciamento della sua vita pubblica si recò a Gerusalemme per celebrare la prima Pasqua, ed è narrata da S. Giovanni (c. II, 14-17): la seconda al
chiudersi della sua vita pubblica, tre di prima della sua passione, ed è questa narrata dagli altri tre Evangelisti; cosi il Salvatore comincia e chiude la sua predicazione  in Gerusalemme con lo stesso atto di zelo per l’onore della casa di Dio, volendo significare, che unico e supremo fine della sua missione era la gloria del Padre suo. – Cacciando tutta quella gente, che aveva mutato l’atrio ed i portici del tempio in un mercato, pronunciò queste parole d’Isaia: La casa mia è casa d’orazione. Quale lezione per noi, o dilettissimi! Se l’atrio ed i portici del tempio antico, quasi appendici del medesimo, son detti “casa di orazione, „ che dire dei nostri templi, dei quali l’antico non era che una povera figura? La chiesa nostra è dunque per eccellenza casa di orazione: Domus orationis! Non è dunque luogo di conversazione, punto di geniali convegni, dove si venga per vedere od essere veduti, per fare sfoggio di mode e di lusso, per soddisfare la propria o l’altrui curiosità. La chiesa è il luogo di preghiera: Domus orationis. Andiamovi adunque per pregare, ringraziare ed adorare Iddio; per udire la sua parola; per ricevere i Sacramenti e con essi e per essi la grazia; in breve, andiamovi e dimoriamovi come si conviene andare e dimorare nella casa di Dio, o casa di orazione. “ E Gesù stava ogni giorno ammaestrando nel tempio, „ è l’ultimo versetto della nostra lezione evangelica. Il lunedì, dopo il suo ingresso trionfale, il martedì ed il mercoledì precedenti la sua passione, che cominciò il giovedì sera, Gesù li passò nel tempio, predicando: la sera ritornava a Betania per rivenire nel mattino al tempio e continuare l’opera sua. Quando si pensa che Gesù sapeva tutto con tutta la certezza, che gli veniva dalla sua scienza divina; che contava le ore di vita che gli rimanevano e vedeva tutta l’orrida tragedia che si doveva consumare nella sua Persona; che vedeva lì nel tempio, intorno a sè, gli implacabili suoi nemici, che avevano già stabilita la sua morte; quando si pensa a tutto questo e si vede Gesù, che dimentico affatto di se stesso, continua la sua santa missione fino all’ultimo momento, ammaestra il popolo, conforta i suoi cari, e studia tutte le vie per far penetrare la verità nella mente e nel cuore de’ suoi nemici, noi siamo costretti ad ammirare il suo coraggio eroico, il suo zelo instancabile, la sua infinita carità e ad esclamare: O Gesù! voi siete il Cristo, il Figlio di Dio, il Salvatore del mondo!

Credo …

Offertorium
Orémus
Ps XVIII:9;10;11;12
Justítiæ Dómini rectæ, lætificántes corda, et judícia ejus dulcióra super mel et favum: nam et servus tuus custódit ea.
[La legge del Signore è retta e rallegra i cuori, i suoi giudizii sono piú dolci del miele e del favo: e il servo li custodisce.]

Secreta
Concéde nobis, quǽsumus, Dómine, hæc digne frequentáre mystéria: quia, quóties hujus hóstiæ commemorátio celebrátur, opus nostræ redemptiónis exercétur. [Concedici, o Signore, Te ne preghiamo, di frequentare degnamente questi misteri, perché quante volte si celebra la commemorazione di questo sacrificio, altrettante si compie l’opera della nostra redenzione.]

Communio

Joann VI:57
Qui mandúcat meam carnem et bibit meum sánguinem, in me manet et ego in eo, dicit Dóminus.
[Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me, ed io in lui, dice il Signore.]

Postcommunio
Orémus.
Tui nobis, quǽsumus, Dómine, commúnio sacraménti, et purificatiónem cónferat, et tríbuat unitátem.
[O Signore, Te ne preghiamo, la partecipazione del tuo sacramento serva a purificarci e a creare in noi un’unione perfetta.]

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.