LE PIAGHE DELLA COMUNITA’ CRISTIANA: LE ERESIE (4 b)

LE PIAGHE DELLA COMUNITÀ’ CRISTIANA

Capitolo I

Le ERESIE,

ferite alla unità della fede

(4 b)

[“Somma del Cristianesimo”, a cura di R. Spiazzi, vol. II Ed. Paoline, Roma, 1958]

Art. 4. – LE ERESIE MODERNE. –B

 

Eresie sulla costituzione della Chiesa.

Movimenti materialmente ereticali, anche se non sfociati in scismi aperti e irreparabili, sono il Gallicanesimo, il Febronianesimo, ed il Giuseppinismo. Essi concordamente sottoponevano l’autorità del Papa al Concilio universale, negavano l’Infallibilità pontificia. Queste tendenze ereticali scompaiono definitivamente solo al concilio Vaticano, con esclusione del movimento apertamente scismatico ed ereticale dei Vecchi Cattolici, fondato da Dòllinger. Le teorie conciliari medievali e la difficoltà a distinguere tra il Papa come sommo Pontefice e il Papa come sovrano d’uno stato hanno causato questi errori. Ora queste teorie riconoscono contro il Protestantesimo, la costituzione divina della Chiesa; errano sul come intenderla.

Il Gallicanesimo ha questo nome perché assunse la sua forma classica in Francia. C’è un Gallicanesimo teologico che tende a deprimere il potere del Papa in favore dell’episcopato e del laicato: esiste un Gallicanesimo episcopaliano (Gersone), presbiteriano (Richer) e multitudinario (Marcantonio de Dominis). Il Gallicanesimo politico consiste in una scuola dottrinaria che deprime l’autorità della Chiesa in favore di quella dello stato. Secondo gli 83 articoli formulati nell’opera Les lìbertés de l’Eglise gallicaine di P. Pithou il re francese poteva impedire il ricorso dei Vescovi al Papa, negare il visto agli atti pontifici, non ammettere i decreti dei Concili. Il Gallicanesimo teologico ebbe come suoi teologi principali Richer, Pietro de Marca, H . Tournely; il centro principale fu la Sorbona. Richer, insegnante alla Sorbona, nel suo libro De ecclesiastica et politica potestate libellus nel 1611, affermava che il potere ecclesiastico è nella Chiesa intera; però si esercita soltanto attraverso un organo: la monarchia pontificia per l’esecutivo, per il potere legislativo l’organo è il sinodo che ha autorità sul Vescovo, e il Concilio che è superiore al Papa. Pietro de Marca nel De concordia Sacerdotii et Imperii asserisce che l’infallibilità pontificia compete al Papa soltanto quando segue il consenso di tutta la Chiesa. – H. Tournely (1658-1729), specialmente nella sua opera De “Ecclesia Christi” afferma che la costituzione della Chiesa è per istituzione divina monarchico-papale; però l’infallibilità è soltanto nella Chiesa universale dispersa o riunita. L’uso del potere pontificio deve essere regolato da canoni. Al Papa poi si deve obbedienza; però, non avendo infallibilità, i suoi giudizi non sono irreformabili senza il consenso dei Vescovi. Il Concilio è superiore al Papa. – Il Galliganesimo teologico e politico fu compendiato nei quattro articoli della Declaratio cleri gallicani composti da Bossuet e votati il 19 marzo 1682. Essi affermano: 1. l’assoluta indipendenza dei re e principi dall’autorità pontificia in cose temporali; 2. il Papa è inferiore al concilio; 3. il Papa non può esercitare il suo potere se non in conformità ai canoni della Chiesa universale e con le consuetudini della Chiesa gallicana; 4. al Papa spetta la preminenza in questione di fede; i suoi giudizi non sono però irreformabili senza il consenso di tutta la Chiesa. I quattro articoli furono condannati da Alessandro VIII nella bolla Inter multiplices del 4 agosto 1690. – Queste idee gallicane trovarono la loro ultima espressione nelle discussioni avvenute in Francia al tempo del concilio Vaticano, specialmente per opera del Vescovo Monsignor Maret che in un’opera Du concile general et de la paix relìgieuse affermava che l’Infallibilità pontificia aveva luogo soltanto col consenso dell’episcopato. – Anche in Germania si svilupparono idee erronee sulla costituzione della Chiesa, specialmente per mezzo di Nicolò de Hontheim (1701-1790), ausiliare del Vescovo di Treviri, chiamato Febronio dallo pseudonimo con il quale pubblicò nel 1763 la sua famosa opera De statu prœsenti Ecclesiaeœ et legitima potestate romani Pontifìcis. Influenzato da Van Espen, canonista dell’università di Lovanio e di idee gallicane, vuol ricondurre il Papa nei suoi poteri primitivi, che consistono nell’essere soltanto primus in ter pares ed esecutore dei canoni decisi dal concilio Universale del quale è delegato. Perché le leggi pontificie avessero valore dovevano essere approvate dai Vescovi i quali potevano deporre, con l’aiuto dell’autorità civile, il Papa stesso, se non rientrava nei suoi limiti originari. Il Primato pontificio è dato dal Cristo o dalla Chiesa? Febronio ha affermazioni contrastanti al riguardo; ad ogni modo dà alla Chiesa una certa costituzione democratica in quanto il potere della gerarchia deve essere esercitato sotto il controllo dei fedeli. L’opera ebbe successo e ebbe varie traduzioni e riduzioni; fu condannata dall’Indice nel 1764 e disapprovata pure dall’Assemblea del clero francese nel 1775. Febronio fece nel 1778 una ritrattazione che si presta ad ambiguità. – Il Febronianesimo fu ripreso specialmente dal canonista Eybel, nell’opera Che cosa è il Papa?, dove afferma che il Papa, il cui potere gli viene dalla Chiesa, ha soltanto gli stessi poteri e diritti dei Vescovi; al Papa poi si nega, se non in caso straordinario, di intervenire nelle altre diocesi. Pio VI nel 1786 nel breve Super solìditate condanna le idee fondamentali del Febronianesimo. – Queste idee ebbero un’attuazione politica da parte di Giuseppe II di Austria (donde Giuseppinismo) il quale si arrogò il governo temporale della Chiesa indipendentemente dai Vescovi. Proibì ogni comunicazione dei Vescovi col Papa e legiferò arbitrariamente in campo ecclesiastico, liturgico, matrimoniale, disciplinare da meritarsi l’appellativo di « re sacrestano ». I suoi consiglieri erano Rautenstrauch e Eybel. Un viaggio a Vienna di Pio VI non sortì effetto. Giuseppe II non fece che realizzare le idee del Febronianesimo e del Giansenismo. In fin di vita revocò molte disposizioni limitatrici dei diritti della Chiesa. – Anche il Giansenismo ebbe dottrine che negavano la costituzione della -Chiesa. Il sinodo giansenista di Pistoia asseriva che ogni potere era dato originariamente alla Chiesa della quale il Papa era soltanto l’esecutore; queste ed altre idee di ispirazione febroniana furono condannate nella bolla Auctorem fidei il 28 agosto 1794 da Pio VI. – Idee che corrispondono a quelle gallicane o febroniane come quelle conciliari per cui il concilio era superiore al Papa, furono varie volte condannate dalla Chiesa. [Oltre la terribile bolla “Exsecrabilis” di Pio II, Piccolomini –ndr. -] … Martino V condanna la procedura che appella al nuovo concilio; il concilio Lateranense V afferma la superiorità del Papa sui concili. Il concilio Vaticano il 18 luglio 1870 definiva solennemente la giurisdizione pontificia come ordinaria, immediata, suprema e completa su tutta la Chiesa (cfr. DENZ. 1831): inoltre definiva la infallibilità del Sommo Pontefice nel supremo esercizio della sua funzione di Dottore universale, infallibilità, « ex sese, non autem ex consensu ecclesiæ », per dottrine riguardanti la fede e la morale, (DENZ. 1839). Era la condanna definitiva di ogni idea di una Chiesa di costituzione conciliare, episcopaliana o democratica, come era nei sistemi dottrinali dei gallicani o febroniani. Tutti accettarono fuorché il teologo tedesco Dòllinger il quale, con la sua Chiesa dei cosidetti Vecchi Cattolici tedeschi entrava così nella eresia formale. Dòllinger infatti fu scomunicato dai Vescovi della Germania il 23 aprile 1871.

Il semirazionalismo e le reazioni del tradizionalismo e del fideismo.

La cultura illuministica e razionalistica del XVIII e XIX secolo è caratterizzata dall’abbandono del concetto di soprannaturale. La religione è accettata soltanto entro i limiti della ragione che diventa la norma e la fonte unica, ed assoluta di ogni verità, anche di quella religiosa. L’influsso di Kant poi è determinante: chiuso l’intelletto nel mondo fenomenico, solo la ragione pratica nelle sue esigenze morali induce ad affermare verità di ordine morale e religioso. Hermes (1775-1831), teologo tedesco, professore a Mùnster e poi a Bonn, vuol fare per la teologia ciò che Kant ha fatto per la filosofia. Il suo sistema è esposto in varie opere, tra le quali: Einleitung in die christ-Katholische Theologie: I Teil: Philosophische Einleitung 1819; II Teli: Positive Einleitung (18Z9); Christ-Katholische Dogmatik, 3 voll.; opera postuma. Accoglie come metodo un assoluto criticismo che bandisca il dogmatismo, per vedere se si possa conoscere con certezza scientifica il fatto della Rivelazione e giustificare razionalmente la fede; questo metodo lo vede imposto dalla filosofia del tempo. Hermes accettava questa filosofia nelle sue esigenze critiche e nei suoi principi secondo i quali ogni verità doveva avere un fondamento razionale, come pure accettava la Rivelazione con i suoi misteri. Dal tentativo di dare una giustificazione razionale secondo le esigenze filosofiche del suo tempo, e dalla accettazione di verità soprarazionali, nasce in Hermes un sistema apologetico caratteristico che sovverte lo stesso concetto di fede. Hermes non è un razionalista perché accetta la rivelazione, è un semirazionalista perché vuol dare un esclusivo motivo razionale alla fede stessa. Non discute il contenuto; vuol dare a questa accettazione del contenuto una base inconcussa tale da costringere i non credenti ad accettarlo necessariamente, come una conclusione dimostrata dalla ragione, se non si vuol abdicare alla ragione stessa. – Hermes accetta la distinzione kantiana di ragione pura o teorica e ragion pratica. La prima tiene per vere verità metafisiche, di necessità intrinseca. Per le verità di ordine morale, religioso e storico interviene la ragion pratica la quale fa ammettere per vero ciò che è necessario alle obbligazioni morali, come condizione o conseguenza della loro validità. Se Dio non fosse giusto, per portare un esempio, non avrebbe senso il mio agire bene del quale Egli, se non fosse tale, potrebbe non tenerne nessun conto; ciò ripugna alla nostra obbligazione morale. Così a credere si è obbligati necessariamente da imperativi morali. Allora per Hermes « la fede è uno stato di certezza e di persuasione in rapporto alla verità della cosa conosciuta, stato al quale noi siamo condotti con l’assentimento necessario della ragion pratica » (HERMES, Philosophische Einleitung p. 261). Ogni dubbio allora è escluso. L’autorità divina con la sua illuminazione ed elevazione interiore dell’intelligenza non è l’unico morivo della fede. Il vero motivo critico che ha valore probativo è la necessità morale di accettare la Rivelazione, non l’autorità di Dio. La fede è la conclusione di un sillogismo fondato su rigorose esigenze morali; non è per Hermes una conoscenza che sia frutto della grazia. È una fede di ragione (Vernunft glaube), la quale non differisce dalla fede che si presta a qualsiasi avvenimento storico. La grazia è necessaria appena per la fede viva o del cuore (Herzensglaube). Inoltre Hermes pare esigere inizialmente un vero dubbio reale, obbligatorio, secondo il quale, per avere una fede giustificata, il credente dovrebbe fare inizialmente un atto di incredulità e ciò senza colpa. Alcuni interpreti però come Schròrs e K. Erchweiber, asseriscono che il dubbio di Hermes sia soltanto metodico. – Se l’atto di fede è una conclusione di ragione consegue che non è più né libero, né soprannaturale; infatti il suo motivo non è l’autorità elevante di Dio, e in ciò sta il carattere eterodosso della dottrina di Hermes: verrebbe a negare il soprannaturale. Alla base di queste conseguenze erronee sta la dottrina di Hermes sulla grazia alla quale negava ogni carattere di divinizzazione ed illuminazione intrinseca: la considerava soltanto una benevolenza di Dio. Hermes ha avuto il torto di aver indicato una via puramente filosofica per arrivare al Cristianesimo. – I libri contenenti la sua dottrina furono condannati nel breve di Gregorio XVI Duna acerbissimas del 26 settembre 1835; diciotto tesi di Hermes furono condannate dal Vescovo di Colonia. Il Concilio Vaticano, pur senza nominare Hermes e seguaci, ne condanna la dottrina quando definisce la soprannaturalità della fede; ripetendo le espressioni dell’antico Concilio di Orange afferma che questa, sotto qualsiasi forma, non può essere ottenuta « senza l’illuminazione e l’ispirazione dello Spirito Santo » (DENZ. 1791); definisce pure la libertà esplicitamente: «se alcuno dice che l’assenso di fede cristiana non è libero, ma è prodotto necessariamente da argomenti della ragione umana, o che la grazia di Dio è necessaria per la sola fede viva che opera per la carità, sia anatema » (DENZ. 1814). Non solo la fede del cuore, ma anche quella di ragione è così soprannaturale. Espressamente condannato è pure il dubbio reale di Hermes (KARL ERSCHWEIBER, Die zwei Wege der neuen TheoLogie, 1926; G. B . GUZZETTI, La perdita della fede nei cattolici, 1940; R. ATJBERT, Le Problème de l’acte de foi, p. 102 sgg). Anche A. Gùnther (1783-1863) esagera in moltissime opere, tra le quali specialmente Vorschule e Euristheus und Heracles, l’eccessivo potere della ragione riguardo alla Rivelazione e mette in pericolo la soprannaturalità dell’aspetto essenziale di mistero che ha il Cristianesimo. Egli è guidato dalla preoccupazione costante di inserirsi in dialogo con la filosofia del tempo strutturalmente razionalista, per la quale la ragione è la norma unica ed assoluta di verità. Accetta la Rivelazione, però nella intelligenza di essa si appoggia piuttosto sui dati della ragione nei quali ha assoluta fiducia; l’intelligenza, messa in possesso dei dati della fede, per Gùnther, può penetrarne con le proprie forze il senso e dimostrarne scientificamente la verità. La teologia è allora un prodotto della filosofia: è la filosofia applicata ai dati rivelati, senza bisogno alcuno di una elevazione. Mentre però le affermazioni di Hermes riguardavano piuttosto i diritti della ragione per giungere con le proprie forze alla fede, il razionalismo di Gùnter si applica piuttosto ai diritti della ragione nella intelligenza della fede già accettata: i misteri sono così dimostrabili (Cfr. GUZZETTI, op. c., p. 20).Egli infatti insegna che l’anima, dalla conoscenza di sé può salire filosoficamente fino ad affermare e intendere il mistero della Trinità; e tutto ciò che esiste nella libera volontà di Dio rimane così completamente svelato alla ragione naturale, onde l’uomo in se stesso, non soltanto trova la testimonianza di Dio che crea, ma di Dio che redime e beatifica l’uomo. Il credere non è un ricevere, ma un sapere dei misteri di Dio con deduzione necessaria dallo spirito; la Rivelazione per se stessa non è trascendente in senso assoluto allo spirito umano, « la trascendenza della Rivelazione sulle forze naturali dell’uomo si intende come relativa, cioè causata dal peccato, ma che per i progressi nella formazione della ragione teoretica e pratica si può superare » (Vorschule, II, 510 cit. da: I . BEUMER. Theologia als Glaubensverstànduis, p. 138).L’applicazione di. questo metodo razionalistico ai vari misteri porta ad errori preoccupanti in Gùnther; sulla dottrina trinitaria, attingendo dalla filosofia idealistica, insegna che una Persona fa essere Persone le altre due; non tiene un solo Dio per la singolarità della sostanza (egli pare ne ammette tre in Dio), ma soltanto per la eguaglianza della sostanza stessa e la relazione delle persone.La condanna di questa dottrina, già pronta per la definizione al Concilio Vaticano, non poté essere raggiunta per l’interruzione del concilio stesso, (Cfr. L. ORBAN, Theologia gunthenana et concilium Vaticanum, 2 voll.).Riguardo ancora alla dottrina di Dio, Gùnther viene a negare la libertà della creazione e della Redenzione. Dio si manifesta a se stesso nella Trinità; questa manifestazione a se stesso per la sua sostanza, deve essere la manifestazione di un ens realissimum, sommamente attivo. Questa manifestazione a se stesso nelle sue opere, come attivo, è il complemento della manifestazione che Dio fa di sé a se stesso nella Trinità. Il pensiero del non-io, del mondo appartiene quindi alla spiegazione della divina coscienza e deve esserle dato con la necessità con cui si spiega Dio come assoluto. Dio non poteva non creare, perché non poteva manifestarsi a sé come impotente, o solo come potenza potenziale [trattasi, evidentemente, di una variante della dottrina gnostica del panteismo … la solita coda ofitica … -ndr-]Influenzato dal kantismo [è a tutti noto lo gnosticismo massonico del “fratello di loggia” E. Kant – ndr. -] è poi il suo dualismo antropologico e gnoseologico. L’uomo è una natura spirituale, cioè persona libera: infatti pensando alle sue manifestazioni le riferisce a sé come causa. Ma l’uomo è pure una natura fisica (Leibseele): la natura fisica non esiste per sé come lo spirito, ma per gli altri; questa natura fisica è unica in tutti gli esseri nei quali essa è contenuta e nei quali tende sempre a prender coscienza di sé nei vari generi e specie degli individui in cui si trova: solo però negli individui forniti di sensi questa materia pensa l’universale; onde nasce la conoscenza concettuale. L’io e la personalità spirituale è inconoscibile; la conoscenza concettuale in senso kantiano non trascende mai il mondo dei fenomeni. Solo la conoscenza ideale lo trascende. Ogni uomo è composto così di uno spirito (Geist) e di una realtà fisica unica che non può mai trascendere se stessa. Questo dualismo nega l’unità umana ed ha i suoi riflessi nel problema morale, ma specialmente nel problema del Cristo e nella unione ipostatica. Queste idee furono condannate nel breve Eximiam tuam del 15 giugno 1857 (cfr. DENZ. 1655-1658). Il Concilio Vaticano ha condannato la razionalizzazione che Gùnther fa del mistero : « se qualcuno dicesse che nella rivelazione divina non si contengono veri e propri misteri, ma che tutti i dogmi di fede possano essere compresi e dimostrati da principi naturali a mezzo di una ragione dovutamente educata, sia anatema » (DENZ. 1816); inoltre riafferma la libertà della creazione (DENZ. 1805). Hermes ha fatto della fede un atto umano; Gùnther ha reso il mistero termine proporzionato all’intelligenza: si tratta sempre di una fiducia illimitata nella ragione e della implicita eliminazione del soprannaturale quando questo è reso accessibile alla ragione non elevata ed illuminata dalla grazia. Il carattere ereticale della dottrina dei due teologi tedeschi (personalmente avendo accettato la condanna non sono eretici) è messo in risalto dai diversi accenni ad essi che si fa negli atti che preparano la formulazione dei canoni del Concilio Vaticano il quale in due diverse definizioni ha avuto presente i loro errori.

Tradizionalismo e fideismo.

Nel secolo XIX, oltre a questi errori nati tutti da infelici tentativi di una conciliazione del Cristianesimo con le idee del tempo a danno del soprannaturale, nacquero pure dei movimenti erronei di pensiero dovuti ad una reazione contro un’eccessiva fiducia nella ragione. Nella rivoluzione francese la ragione ebbe perfino un culto come dea; successivi insuccessi patiti dall’uomo in una spiegazione di sé e organizzazione della propria vita come autosufficiente, generarono una sottovalutazione della ragione alla quale fu negata, a causa del peccato originale, ogni capacità naturale di conoscenza riguardo alla esistenza e natura di Dio. Tali movimenti sorsero specialmente in Francia: furono il Tradizionalismo e il Fideismo.

Il tradizionalismo fu rappresentato specialmente dal Bonald (1754-1840), da De Lamennais (1782-1854) e da Bonnety (1798-1879). Lamennais e Gerbet hanno una sfiducia assoluta nella ragione individuale: ogni scienza comincia con l’atto di fede nel senso comune, nella ragione espressa nella collettività. La verità è estrinseca alla ragione stessa: le viene dall’autorità della società, senza una elevazione intrinseca della intelligenza stessa. Si ammette una vera impotenza fisica a giungere alla conoscenza delle verità metafisiche, morali e religiose riguardanti l’esistenza e l’essenza di Dio senza la rivelazione ricevuta; come l’uomo riceve passivamente l’essere e la vita, così riceve le verità. L’ordine della fede riguarda le verità primordiali concernenti Dio, l’ordine dei concetti invece ha per oggetto la scienza. Queste dottrine furono condannate da Gregorio XVI nelle Encicliche Mirari e Singulari nos. L’errore di Bonnety fu condannato da un decreto dell’Indice del 15 giugno 1855 in cui si afferma la precedenza della ragione alla fede. Il tradizionalismo riprese, mitigato da parte di vari professori dell’università di Lovanio, tra i quali Ubaghs, Beelen, Laforet. – L’uomo attuale ha un indigenza assoluta riguardo alla conoscenza di Dio; pur avendone la capacità non ha la spontaneità; perché questa si sviluppi condizione indispensabile è l’essere istruiti dagli altri, per autorità. Anche questa tendenza fu condannata varie volte da Pio IX nel 1864 e nel 1866 in due interventi.

Il Fideismo invece è rappresentato da Bautain. Anche il tradizionalismo era un fideismo, perché ammetteva la fede come base della conoscenza; però nel tradizionalismo la fede la si ottiene solo attraverso la società che istruisce; per Bautain invece da una comunicazione diretta. Egli ha sfiducia nella ragione che non può dar certezza della esistenza di Dio e delle sue perfezioni; solo per la fede, solo per una rivelazione diretta, si conosce Dio come esistente. Anche riguardo alla giustificazione della fede si esclude qualsiasi apologetica e la necessità di una riflessione sul miracolo: c’è una comunicazione diretta con Dio. Questa diretta intuizione di Dio era affermata anche dall’ontologismo. – Bautain non fu affatto un ribelle ed un pertinace nelle sue idee che rifiutò nella sottoscrizione di un formulario nel 1860. Questi movimenti eterodossi del secolo XIX non creano eretici, perché  quasi tutti si sottomettono alla Chiesa. Le loro idee però sono eterodosse appunto perché unilaterali: non sanno conciliare Dio e l’uomo, fede e ragione. Consegue una certa autosufficienza e il Cristianesimo perde il carattere di grazia: alla fede si giunge con le proprie forze. Esagerando il ruolo di soprannaturale si nega la natura, rifiutando all’intelligenza la sua naturale apertura a Dio si rende Dio totalmente inconoscibile; ed allora anche lo stesso soprannaturale viene messo in pericolo, perché si presenta come l’assolutamente arbitrario. Il Concilio Vaticano afferma la possibilità della conoscenza mediata della esistenza di. Dio da parte della ragione, con la sua luce naturale: « la Chiesa tiene e insegna che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza con la luce naturale della ragione partendo dalle cose create » (DENZ. 1785). Viene ristabilito l’equilibrio rotto e l’armonia tra naturale e soprannaturale, tra ragione e fede che si integrano nella grazia. La ragione è un vero conoscere, però finito; la fede è il perfezionamento di questo conoscere il quale è così per dono di Dio reso capace di affermare con certezza ciò di cui non era capace.

Il modernismo.

[“sintesi di tutte le eresie”]

Il razionalismo di Hermes si applicava soltanto all’atto con il quale l’uomo raggiunge la fede o alla intelligenza della fede stessa: questi atti non erano soprannaturali, ma secondo la capacità naturale dell’uomo. In seguito il razionalismo divenne più radicale e fu applicato alla stessa rivelazione e alla figura del Cristo stesso, come del resto già aveva fatto Kant con la sua opera La religione entro i limiti della ragione. Vari autori che trattano della vita di Cristo come G. H . Paulus (1761-1851), D. F. Strauss (1808-1874), F. C. Baur (1792-1860) con.la scuola di Tubinga, e infine più recentemente A . Harnack (1851-1930), A. Loisy e Renan negano la divinità di Cristo in nome dell’esegesi storico-scientifica degli stessi Vangeli al cui studio storico-letterario e interpretativo si misero con accanimento e arbitrarietà. Come secoli addietro si era negata la Chiesa, con Hermes e Gùnther si era razionalizzato l’accesso alla fede, ora viene completamente negato il contenuto soprannaturale. La divinità del Cristo viene comunemente negata, pur trovandosi tra di loro in contraddizioni sull’interpretazione della figura di Gesù, che vien presentato come l’assertore e il simbolo della immanenza di Dio nel mondo (Baur), o come colui che nella intuizione della paternità Divina ebbe di Dio una idea liberatrice per la psicologia oppressa dal concetto di Dio giudice, (Harnack), oppure come il profeta escatologico, cioè annunziatore di una fine imminente del mondo ( A . Loisy). Viene negato il soprannaturale e quindi il miracolo in nome della ragione o della scienza, norme assolute di ogni verità. Inoltre il romanticismo del teologo protestante di F . Schleiermacher (1768-1834) ha influenzato moltissimo le generazioni seguenti per il concetto immanentistico di religione basata sul sentimento e sull’esperienza personale: religione è l’atto con cui l’uomo percepisce di essere in unione con l’infinito, onde nasce nell’animo un « sentimento di dipendenza ». Questa intuizione può assumere forme diverse (donde le varie religioni) e forme nuove che danno luogo alla rivelazione. (Cfr. Histoire de la Theologie protestante au xix siecle: L. PERRIRAZ, 3 coll.). A. Sabatier affermerà poi esplicitamente che tutte le religioni sono il risultato di questa esperienza originaria: la cristiana è la più perfetta. I dogmi poi non hanno valore oggettivo: sono la trascrizione inadeguata e relativa di una esperienza soggettiva (cfr. A . SABATIER, Esquisse d’une Philosophie de la religion). – Queste idee esegetiche e religiose hanno prodotto anche tra i Cattolici movimenti di pensiero in parte rimasti nell’ortodossia e in parte staccati: è l’eresia modernista i cui più espressivi e radicali rappresentanti sono tra gli altri, l’inglese G. Tyrrell (1861-1909), in Francia A . Loisy (1857-1940) con diramazioni anche in Italia, specialmente, per mezzo di E . Bonaiuti (Per la bibliografia si confronti l’opera fondamentale di I . RIVIÈRE, Le modernisme dans l’Eglise, Paris 1929; cfr. id. D.T.C, t. x c. 2009-2047; G. MARTINI, Cattolicesimo e storicismo, 1951. L . DA VEIGA COUTINHO, Tradition et Histoire dans la controverse moderniste, Roma). –

L’errore modernista, a differenza di precedenti eresie che negavano un punto del dato dottrinale, riguarda la base di tutto il Cristianesimo, perché mette in discussione i suoi elementi fondamentali, come il concetto di religione e di rivelazione, onde l’enciclica Pascendi lo definirà come « la sintesi di tutte le eresie». Tyrrell stesso affermava: «non è, come i nostri avversari lo suppongono, sopra uno o due articoli del simbolo che noi differiamo; gli articoli noi li accettiamo tutti, ma ciò che è in gioco è la parola credo, è il senso della parola « vero » quando la si applica al dogma, è tutto il valore della rivelazione » (Lettera a Von Hugel citata da R. ATTBERT, Le problème de l’acte de foi, 2 ed. p. 369). – Il modernismo è nato da una pretesa inadeguatezza riscontrata tra i fatti storici e la scienza sacra che ne è sorta. Loisy afferma che i miracoli e le profezie e l’insieme dei fatti straordinari non costituiscono che un cumulo di probabilità, onde la necessità, per fondare assolutamente la fede, di trovare una base nella stessa conoscenza religiosa. Non è necessario che tra i fatti storici e la dottrina ci sia una omogeneità oggettiva: è sufficiente il rapporto di simbolo e di realtà: i fatti storici non fondano la dottrina, ma ne sono le espressioni simboliche, soggettive, mutevoli. Il fondamento di ogni religione non consiste in basi esegetiche o storiche, ma la vita e la esigenza dello spirito umano, conformandosi in ciò all’immantismo del tempo in campo religioso e filosofico. I modernisti italiani nella risposta all’enciclica Pascendi affermavano: « la critica recente delle varie teorie della conoscenza porta a concludere che tutto è soggettivistico e simbolistico nel campo della conoscenza: la legge della scienza come le teorie metafisiche. Ma ciò non toglie che ciascuna delle creazioni dello spirito umano nelle sue varie sfere di attività abbia un valore assoluto. Anche il campo della fede ha il suo valore vitale e nel suo genere è assoluto» (Il Programma dei modernisti, 1908, pag. 111). La religione non è fondata sulla rivelazione trascendente che viene al soggetto, ma emana dalla vita, come frutto immanente in essa [la solita solfa gnostico-immanentista –ndr.-]: « e perché la nostra vita è per ciascuno di noi qualcosa di assoluto, anzi l’unico assoluto, tutto ciò che da essa emana e ad essa ritorna, tutto ciò che ne alimenta e arricchisce l’esplicazione, ha ugualmente il valore assoluto» (id. p. 112). – Mentre la religione è il senso dell’assoluto immanente vitalmente nell’uomo, la rivelazione ne è la manifestazione, « è la coscienza acquisita dall’uomo della sua relazione a Dio », come dice l’enciclica Pascendi (cfr. DENZ. 2020), interpretando alla lettera ciò che dice Loisv: « ciò che si chiama rivelazione non ha potuto essere che la coscienza acquisita dall’uomo del suo rapporto con Dio » (LOISY, Autour d’un petit livre, p. 195). Si tratta di un senso dell’assoluto immanente nell’uomo e di una intuizione originaria dell’umanità che si va sempre più perfezionandosi, sotto l’influsso della vita, con la percezione di nuovi rapporti. Per Tyrrell la rivelazione è una esperienza, cioè un fenomeno profetico morale e interiore; « non può essere introdotta in noi dal di fuori, essa può essere occasionata, ma non può essere prodotta per l’istruzione. L’insegnamento esterno deve evocare in noi una rivelazione » (TYRRELL, Trough Scyìla and Charybdis, p. 306). Colui che rivela non dà contenuti oggettivi nuovi, ma con la manifestazione della sua particolare esperienza ne risveglia di simili negli altri uomini. I sacramenti della Chiesa sono nati dal bisogno vitale di dare alla religione un corpo sensibile, mentre invece i dogmi sono la trascrizione di questa esperienza mutevole sviluppata nel corso dei secoli e che ha il potere suggestivo di risvegliare e riprodurre la stessa esperienza negli altri. – Per i modernisti la fede non è l’assenso a verità storiche ed oggettive, ma il risultato di una esperienza dove l’uomo prende coscienza della ricchezza spirituale del Cristianesimo considerato come l’unico fattore capace di far sviluppare il senso religioso, che consiste in una innata comunicazione personale con l’Infinito [e qui siamo in pieno campo gnostico – ndr. -]. La fede è una percezione di Dio immanente nel cuore, non l’affermazione di Dio che oggettivamente parla nella storia e attraverso di essa alle coscienze. I dogmi non sono altro che la trascrizione simbolica e l’intelligenza fa di questo dato vitale originario nel cui potenziamento e sviluppo consiste tutta la rivelazione; non sono oggettivi, ma la reazione tutta umana ed emotiva a questa forza vitale religiosa; hanno un valore pratico ed utilitario per esprimere la fede dell’individuo e suscitarla negli altri. In conclusione i dogmi sono un saggio tentato dall’uomo per formulare un’esperienza che muta; e quindi mutano anch’essi. Il simbolo è « una realtà, una realtà sui generis a cui la fede conferisce un valore inestimabile fino a farlo diventare veicolo reale e occasione benefica di una elevazione dello spirito e di una più profonda elevatezza religiosa» (Il Programma dei modernisti, p. 112); possono essere falsi o veri; però devono avere un valore pratico, quello di alimentare la pietà. Hanno quindi un valore soggettivo; non sono irreformabili, sono mezzi per suscitare la fede, non sono l’espressione oggettiva ed intellettuale dell’affermazione della rivelazione oggettiva e storica: esprimono il soggetto non l’oggetto. Il modernismo riduce il soprannaturale al sentimento del soprannaturale, il quale sentimento è un aspetto della vita psichica dell’uomo; la rivelazione nasce dall’uomo, non è l’atto libero di Dio trascendente che si rivela all’uomo nella storia; i dogmi non sono l’espressione autentica di una rivelazione oggettiva, la quale può essere tale soltanto se, essendo assoluta, si esprime come tale. Per il modernismo invece la conoscenza umana è chiusa nel mondo dei fenomeni e del relativo, come affermava Kant. Loisy parlando dei dogmi che afferma relativi e mutabili dice: «non è con gli elementi del pensiero umano che si può costruire un edificio eterno. La verità solo è immutabile, ma non la sua immagine nel nostro spirito » (L’Evangile et l’Eglise, ed. 1, p. 166, ed. 2, p. 210). Agnosticismo e immanentismo sono le basi filosofiche del modernismo, onde il senso stesso della parola credo è pervertito: non è l’affermazione oggettiva soprannaturale di una realtà vera, ma l’espressione soggettiva e quindi mutevole di una realtà e verità inconoscibili in se stesse e non attingibili dall’uomo che rimane chiuso in se stesso. – Per questo il decreto Lamentabili del 3-4 luglio del 1907 e poi in maniera più solenne l’enciclica Pascendi (8 settembre 1907) condanna il modernismo come « sintesi di tutte le eresie ». Svalutata la Chiesa nel protestantesimo, negato il Cristo con Dio nel liberalismo protestante, negato il soprannaturale nel razionalismo e reso oggetto dell’intelligenza nel semirazionalismo di Hermes e di Gùnther, il modernismo ha ridotto la stessa affermazione fondamentale cristiana e la rivelazione ad essere un prodotto dello spirito nella sua facoltà di alienarsi.

ALBERTO BELLINI

[Grassetto e colore sono redazionali]

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L’eresia modernista, che è la sintesi di tutte le eresie considerate fin qui, ha trovato suo pieno compimento: prima nel conciliabolo cosiddetto Vaticano II, e poi nell’opera ferocemente anticattolica, destabilizzante e demolitrice dei falsi prelati e degli antipapi apostati succedutisi dopo il 26 ottobre del 1958, giorno del trionfo di satana in Vaticano, giorno in cui è stato estromesso, esiliato ed umiliato il Santo Padre Gregorio XVII (già Cardinal G. Siri), la Cattedra di Pietro usurpata da un massone 33°, servo dell’anti-Cristo, e tutta la Cristianità un tempo Cattolica passata, suo malgrado e senza colpo ferire, con uno scisma formale e materiale, nella setta del “Novus Ordo” « … e la Chiesa sarà eclissata » [Apparizione approvata a La Salette, 1846]

LE PIAGHE DELLA COMUNITA’ CRISTIANA: LE ERESIE (4 a)

LE PIAGHE DELLA COMUNITÀ’ CRISTIANA

Capitolo I

Le ERESIE,

ferite alla unità della fede

(4 a)

[“Somma del Cristianesimo”, a cura di R. Spiazzi, vol. II Ed. Paoline, Roma, 1958]

Art. 4. – LE ERESIE MODERNE. –A

La cultura moderna ai suoi inizi si presenta dominata dall’umanesimo: questo movimento di pensiero condusse ad un paganesimo pratico, però rifacendosi ad una scoperta dell’uomo nei suoi valori e non essendo sorto nell’ambito del pensiero cristiano, come reazione ad esso o accentuazione unilaterale di qualche suo aspetto, ma autonomo, non produsse nessuna eresia, pur avendo dell’uomo e del suo potere un concetto esageratamente ottimistico e quindi non cristiano. Però il metodo esegetico dei testi da essi introdotto avrà i suoi effetti sulla Riforma protestante, specialmente su Zuinglio che, rifiutando il Magistero ecclesiastico, ad essa appella, per l’interpretazione della Sacra Scrittura. Le eresie moderne invece si presentano con il Protestantesimo e Giansenismo come antiumanistiche, in quanto v’è negato all’uomo la partecipazione al divino e la cooperazione alla salvezza propria. Oltre la negazione dell’uomo si nega la Chiesa, svalutando la ecclesiasticità come opus operatum. Nel secolo XIX si indebolisce lo stesso soprannaturale in quanto con il semirazionalismo di Hermes e Gùnther il suo accesso e la sua penetrazione vien resa possibile alle forze naturali dell’uomo. La negazione esplicita del soprannaturale della rivelazione e della stessa divinità del Cristo si avrà col razionalismo esegetico e col modernismo.  – L’uomo tende a ridurre il rapporto religioso ad un fatto soggettivo di alienazione con lo scopo di eliminare anche Dio dopo aver rifiutato la Chiesa, la rivelazione e il Cristo.

Il Protestantesimo.

Il protestantesimo si presenta come affermazione della trascendenza di Dio e della sovranità assoluta e totale della grazia che tutto opera nella salvezza dell’uomo. È eresia non per l’affermazione di questi principi che sono la base del Cristianesimo, ma perché li considera unilateralmente. – La trascendenza assoluta di Dio non impedisce che la sua azione diventi immanente nell’uomo, partecipata intrinsecamente come grazia; invece il protestantesimo, in base alla assoluta trascendenza di Dio, afferma una radicale opposizione tra Dio e l’uomo che dall’azione di Dio non viene intrinsecamente mutato. Inoltre il principio che la grazia è sovrana e tutto opera diventa nella dottrina luterano-calvinistica il principio della esclusiva azione della grazia la quale esclude quindi ogni cooperazione dell’uomo. – Anche qui unilateralità: non sa conciliare l’onnipotenza della grazia con la sua capacità di suscitare con essa altre attività libere e cooperatrici rese tali non per virtù propria di queste attività, ma per il dono di Dio. – L’eresia protestante consiste allora nel negare un rinnovamento ontologico nell’essere dell’uomo; nell’escludere ogni cooperazione dell’uomo e della sua libertà all’azione di Dio operante nella grazia; nel rifiutare ogni ecclesiasticità come strumentalità e realtà in se stessa costituita da Dio santa, perché mezzo con il quale la sua salvezza si perpetua, si manifesta ed opera nel mondo e sugli uomini. Innanzitutto il protestantesimo è eresia perché rifiuta ogni significato ontologico alla giustificazione che Dio opera per l’uomo. Infatti per la Riforma la grazia è benevolenza, giudizio misericordioso, favore che Dio usa verso l’uomo; è un atto trascendente e sovrano di Dio per il quale l’uomo rimanendo nel suo essere e nel suo operare, quello che era prima, cioè peccato e impotenza, dalla bontà di Dio viene considerato e reputato giusto. Infatti Lutero afferma: « sei giusto per la misericordia e la compassionevolezza di Dio. Ciò non è habitus o qualità tutte del mio cuore, ma qualche cosa di estrinseco, cioè la misericordia divina, perché sappiamo rimesso il nostro peccato e perché viviamo nelle sue misericordie numerose e grandi » (W. A. 40, I I , 353,3 : cfr. W. ELERT, Morphologie des Luthertums vol. I , p. 69, n. 1). Anche per Calvino « l’uomo non è oggettivamente giusto » (Inst. Christ.), come egli stesso asserisce in polemica contro i Cattolici. La giustificazione così viene descritta da Melantone nella sua Apologia: « essere giustificato significa assolvere il reo come avviene nei Tribunali (forensi consuetudine) e dichiarare uno giusto, per una giustizia estrinseca, cioè quella del Cristo, la quale giustizia estrinseca viene a noi comunicata per mezzo della fede » (Ap. 4, 305 da : Die Bekenntnisschriften der Evangelisch-lutherischen Kirche, p. 219). Sul presupposto di una trascendenza divina esageratamente intesa si esclude ogni partecipazione, interiorizzazione dell’azione di Dio nell’uomo nel quale nulla viene posto di realmente e oggettivamente nuovo come termine dell’azione divina. Viene rifiutata un’azione la quale sia veramente e ontologicamente rinnovatrice e santificatrice e la giustificazione non fa giusti, ma dichiara soltanto giusti. Il Protestantesimo non comprende come la parola creatrice di Dio la quale, dato un essere e un significato intrinseco alle cose che Egli ha creato dal nulla, può anche nella sua azione ricreatrice e giustificativa porre nell’uomo una realtà e una capacità santa. L’uomo è allora veramente giusto in se stesso, non per capacità propria, ma per dono di Dio. Lutero invece asseriva che l’uomo è simul justus et peccator: peccatore e non giusto in se stesso, giusto nel giudizio benevolo e gratuito di Dio. Invece la giustizia non viene soltanto imputata all’uomo, ma partecipata; e la redenzione oggettivamente compiuta nel Cristo, si soggettivizza in ogni uomo, con la cooperazione dello stesso uomo elevato dalla grazia. – Anche quando Lutero e Calvino affermano che la giustificazione è in se stessa santificatrice, escludono ogni valore ontologico e intrinseco a questa rinnovazione dell’uomo; infatti queste azioni sante non sono in quanto tali operate dall’uomo. Dio soltanto opera la santificazione con l’esclusione di ogni cooperazione umana: le opere compiute dall’uomo hanno solo il valore di segno di una attività santificatrice operata fuori dell’uomo. – Il Protestantesimo quindi diventa eresia perché rifiuta che la grazia possa essere intrinsecamente presente nell’uomo in modo che l’uomo sia reso giusto in se stesso. Il Concilio di Trento dichiara eretico colui che afferma che la grazia è soltanto un favore di Dio: infatti la carità e la grazia «ineriscono» all’uomo. Nella Rivelazione la grazia è presentata come una vita comunicata e partecipata all’uomo che di essa vive e in essa è intrinsecamente rinnovato. È la nozione troppo pessimistica nell’uomo che nella dottrina della Riforma diventa eretica. Infatti il peccato originale, identificato con la concupiscenza, è considerato una « corruzione della natura » (W. A. 8,105); è poi talmente radicale nell’uomo da rendere intrinsecamente cattivi tutti gli atti naturali: « Dio creò retto l’uomo, ma quando ha peccato, la volontà tutta fu corrotta e tutte le capacità naturali, e credo che siano corrotti anche i sensi naturali e che il corpo è viziato negli stessi sensi, nel sangue e nei nervi » (W. A. 40,2,323). Tutte le azioni dell’uomo sono allora peccato, anche le azioni naturalmente buone, e « le virtù dei pagani non sono altro che menzogna » (W. A. 2,458,613). Viene negato ogni valore etico alla natura in sé e quindi vien rifiutata ogni morale naturale; come del resto vien rifiutata ogni filosofia, poiché le cose hanno il valore che dà loro la Parola di Dio. – Questa radicale corruzione della creatura e l’esclusione di ogni rinnovamento intrinseco dell’uomo nella grazia porta al rifiuto di ogni libero arbitrio e di ogni cooperazione dell’uomo alla grazia. Lutero e la Riforma non escludono la libertà psicologica dell’uomo che può volere e non volere; escludono che questa libertà si applichi alla operazione della propria salvezza. La libertà dell’uomo è « res de solo titulo, figmentum penitus » cioè è « soltanto un vocabolo, una pura finzione ». – Non hanno più senso allora tutti gli inviti che Dio nella Sacra Scrittura fa all’uomo perché costui operi la propria salvezza, né ha senso l’ordine naturale dell’uomo come realtà elevata e perfezionata dalla grazia. Per il Concilio di Trento, nel settimo e venticinquesimo canone sulla giustificazione, le opere morali dell’uomo prima e dopo della giustificazione sono azioni buone e non peccato, come invece afferma Lutero: sono azioni di una natura incorrotta e quindi buona, anche se, in seguito alla privazione del soprannaturale, con più difficoltà l’uomo esplica la sua stessa naturalità. – Il Protestantesimo rifiuta così ogni cooperazione dell’uomo alla grazia e conseguentemente il valore delle opere buone e del merito. Negata ogni partecipazione intrinseca della grazia a una rinnovazione reale dell’uomo e non sapendo conciliare la cooperazione dell’uomo con la onnipotente, sovrana grazia che opera tutto nell’ordine della salvezza, Lutero e Calvino rifiutano ogni cooperazione attiva dell’uomo: « noi siamo giustificati per la sola fede senza le opere » (W. A. 30,2,659). Non viene negata la necessità delle buone opere, viene negato il loro ruolo attivo e cooperante. Calvino asserisce: « noi non siamo giustificati senza le opere, quantunque non sia per le opere » (Inst. Christ., III, 161) e Lutero nel suo scritto «della libertà cristiana» dice: «le opere buone e giuste non fanno mai un uomo buono e giusto, ma un uomo buono e giusto fa delle buone opere » (W. A. 7,32); onde la fede non giustifica per le opere, non però senza le opere: queste seguono soltanto come segno, ad onore di Dio, per obbedienza, senza però nessun valore e senza nessun influsso. – Qualora ciò avvenisse, per Calvino l’onore di Dio verrebbe diviso e Dio non sarebbe più il gran sovrano, poiché la sua gloria sarebbe divisa; per Lutero invece Dio non sarebbe più la causalità che tutto produce e opera. Il Protestantesimo non è eresia perché afferma che nella salvezza nulla viene operato fuori di Dio, ma perché nega che questa azione elevante di Dio sia talmente onnipotente da suscitare l’attività dell’uomo e porlo per grazia cooperatore nella propria santificazione. – Il Cattolicesimo non asserisce che la cooperazione dell’uomo si aggiunge a quella di Dio, come se questa non fosse efficace, ma afferma che la cooperazione umana nasce da questa grazia originaria, come suo frutto. Grazia e cooperazione sono inseparabili, anche nello stesso atto della giustificazione. L’uomo riceve il dono di operare con libertà la propria salvezza che è così tutta di Dio e tutta dell’uomo che agisce in subordinazione a Dio; il concilio di Trento, in armonia con la dottrina della Chiesa afferma che gli uomini adulti « resi capaci e aiutati dalla grazia divina si muovono liberamente verso Dio » (DENZ. 798), « assentendo e cooperando liberamente alla stessa grazia » (DENZ. 797). Il primato della grazia viene così salvato perché essa rimane unica causa della cooperazione dell’uomo la quale senza il dono di Dio non avrebbe luogo.- Il Protestantesimo è eresia perché è unilaterale: nella sua affermazione fondamentale della salvezza per la sola grazia non ha saputo vedere come esso non nuoceva alla cooperazione dell’uomo la quale nasceva dalla grazia stessa. Onde l’uomo veniva reso passivo, senza la libertà elevata a volere un oggetto più grande di sé, la vita di Dio, senza essere immesso in una realtà nuova, soprannaturale: la grazia santificante. Per il Protestantesimo l’uomo è soltanto un mendicante; per il Cattolicesimo l’uomo è reso da Dio cooperatore e degno di merito e tutto ciò per azione della grazia. Nella grandezza del dono sorge nell’uomo il potere di meritare come si esprime il concilio di Orange del 529: « la ricompensa è dovuta alle buone opere, se si fanno, non per qualsiasi merito che abbia preceduto la grazia, ma la grazia, che non è dovuta, precede perché esse siano compiute » (DENZ. 191). Negato all’uomo il dono della libera cooperazione, la salvezza dell’uomo è una decisione che si compie fuori dell’uomo, onde si cade nell’eresia predestinazionistica, affermata da Lutero nel suo De servo arbitrio e da Calvino: è la conseguenza della dottrina riformata della grazia che esclude ogni cooperazione umana. Nata con la pretesa di magnificare la grazia onnipotente la Riforma la svaluta: mentre per i cattolici essa è talmente attiva e sovrana da rendere altri attivi e sovrani in essa, per il Protestantesimo è resa impotente a rendere gli uomini potenti ed attivi. E questa potenza e attività non nuoce a quella di Dio, ma è effetto della Grazia talmente ricca e potente da rendere anche altri potenti ed attivi. – Il Protestantesimo nega pure ogni ecclesiasticità: non ha saputo vedere nella funzione gerarchica, nel Papato, nel Sacerdozio, nel Magistero ecclesiastico dei servizi e ministeri santi per istituzione divina, per mezzo dei quali soltanto l’uomo entra nella salvezza e nella comunità di Dio: essi sono soltanto delle creazioni umane, non istituzioni divine. Lutero e Calvino non sono stati fedeli alla dottrina della incarnazione che pure accettavano: se l’umanità in Gesù è veramente l’umanità di Dio e strumentalità di grazia e di salvezza, non nuoce alla trascendenza e alla libertà sua se Dio perpetua visibilmente la comunicazione dei frutti della salvezza attraverso altre umanità, quella della Chiesa visibile e dei suoi mezzi. Erede di movimenti di sfiducia nella Chiesa visibile, movimenti nati dal grande scisma occidentale e da assertori di uno spiritualismo disincarnato come Wyclif e Huss, l’eresia protestante rifiuta il visibile nella Chiesa. Anche coloro che come Calvino e Bucer accettano delle istituzioni ecclesiastiche come istituzioni divine, si nega da alcuni l’episcopato, da tutti il Papato, il Magistero ecclesiastico e la Tradizione come fonte della Parola di Dio. Il primato della Parola di Dio accentuato dai Protestanti diventa eresia quando questa Parola di Dio è ridotta alla sola Sacra Scrittura, e l’interpretazione della Parola di Dio non è autenticata in un magistero: allora vien meno la stessa rivelazione la quale, per non essere lasciata alle supposizioni e alle arbitrarietà soggettive; deve aver la possibilità di prodursi in modo sensibile, cioè adatto all’uomo; Dio non rivelerebbe se non fosse dato all’uomo il mezzo d’interpretare la sua parola: ogni messaggio per essere tale deve aver la capacità di farsi intendere dal destinatario in modo proporzionato alla sua natura. Negando il Magistero ecclesiastico il Protestantesimo diventa eresia, perché nega un elemento essenziale alla stessa Parola di Dio. Questa non viene resa schiava o subordinata nel magistero: soltanto requisisce per volontà sua il mezzo di farsi intendere dall’uomo in modo adatto all’uomo stesso.  Anche la stessa funzione sacramentale è intesa ereticamente dalla Riforma, almeno da diversi dei suoi movimenti, precisamente da quelli che riducono i sacramenti ad essere solo segni della fede o della grazia a donare la quale non cooperano affatto. Dell’Eucaristia o vien negata la presenza reale (Zuinglio e Calvino) o la transustanziazione (Lutero) o la sua funzione sacrificale nella Messa. – Come conseguenza del pessimismo sull’uomo e della negazione di ogni partecipazione intrinseca della grazia vien negato ogni culto ai santi. Essendo così unilaterale nell’intendere la grazia ed eliminando la ecclesiasticità o il primato il Protestantesimo non è una riforma della Chiesa, ma una rottura da essa e una separazione dalla sua dottrina. Per questo la condanna di Lutero nella bolla pontificia Exurge, Domine del 15 giugno 1520 e la condanna di tutte le dottrine della Riforma nel Concilio di Trento (1545-1563) non è altro che la conseguenza ultima di un movimento che già si era staccato dalla Chiesa stessa rifiutandone la fede in tutti i suoi aspetti. – Tolta l’interpretazione della Sacra Scrittura alla Chiesa si sviluppa in certi ambienti periferici alla stessa Riforma una tendenza razionalistica secondo la quale è la ragione che ha la signoria della Sacra Scrittura. Questo metodo ed interpretazione vengono specialmente applicati al dogma della Santissima Trinità. Si parte dalle affermazioni trinitarie considerate però da una intelligenza che è in rivolta contro di esse; onde queste affermazioni della Rivelazione vengono ridotte ad una pura funzione manifestativa di una unicità che nega ogni vera e reale Trinità. È l’eresia antitrinitaria: Fu negata dalla stessa Riforma e Calvino condannerà perfino alla morte il suo maggior rappresentante M. Serverò; però fu certamente la tendenza protestante a considerare la Trinità solamente in rapporti a noi, a far affermare ai nuovi eretici che essa non ha alcun valore oggettivo ed assoluto nella divinità in sé, ma solo nel suo manifestarsi a noi. – Gli Antitrinitari si dividono in due correnti: quella più mistica rappresentata da M. Serveto e quella razionalistica da Lelio Socino. M. Serveto (1509-1533) nato a Villanuova in Aragona scrisse nel 1531 un trattato De Trinitatis erroribus libri VII, come pure un’opera Christianismi restitutio. Contro di lui scriverà nel 1543 Calvino una Defensio orthodoxiae fidei de sancta Trinitate contra prodigiosos errores M. Serveti Hispani. Serveto ha affermato l’unicità di Dio considerato neo-platonicamente e panteisticamente come “essentia essentians” che si è rivelata in tre modi: come Parola o Verbo, come Cristo e come Spirito. Antitrinitari sono pure B. Ochino nei suoi Dialoghi, senese, e G. Blandrata che chiama la Trinità « Deum conflatum ». Ochino è alla testa dell’unitarismo che ebbe in Biddle (1601-1662) uno dei suoi maggiori rappresentanti.

Lelio Socino (1525-1562) nega la Trinità perché non in accordo con la ragione; la Trinità nella Sacra Scrittura deve essere intesa come una molteplicità di manifestazione.

Baianismo e Giansenismo.

– M. Baio.

Nei secoli XVI e XVII sorsero due eresie sviluppatesi nella difficoltà d’intendere l’azione della grazia nella libertà dell’uomo e di armonizzare la natura con il soprannaturale. Michele de Bay, alla latina detto Baius, nacque a Melin, oggi Meslin l’Evéque nel 1531; fu associato come professore di teologia all’Università di Lovanio; nel 1563 fece parte di una delegazione al concilio di Trento. Mori nel 1589. I suoi errori furono condannati da Pio v nel 1567 con la bolla Ex omnibus afflictionibus, compendiati in 79 proposizioni tolte dai suoi numerosi opuscoli. Baio si sottomise totalmente alla condanna. – Baio esprime un ottimismo esagerato sulla natura e la dignità dell’uomo prima del peccato originale, di modo che il peccato ha prodotto in esso un disordine totale e completo da rendere le azioni umane tutte peccaminose. Innanzitutto prima del peccato originale il soprannaturale e la vita eterna come conoscenza e possesso di Dio erano il termine e il riposo naturale delle tendenze spirituali dell’uomo: «come la natura dell’occhio è di vedere, così la natura della ragione e della volontà in Adamo fu di conoscere Dio, affidarsi a Dio, temere Dio » (citato da F. X. JANSEN, Baius et le Bajanisme, p. 36). Data la volontà e l’intelligenza in quanto tali è data la loro gravitazione naturale a Dio contemplato e posseduto: Baio confonde lo stato di Adamo innocente con lo stato naturale e normale dell’uomo e non sa che la vita in Dio non era termine naturale di Adamo, ma dono di Dio ad una natura resa capace di raggiungere un fine superiore e impossibile alle proprie tendenze. – Il peccato originale per Baio non soltanto ha privato l’uomo della elevazione e capacità soprannaturale, ma, dato il rapporto di necessità esistente in antecedenza tra l’uomo e Dio come vita eterna, ha reso le stesse facoltà naturali dell’uomo fuori dell’ordine e della legge propria; le sue azioni non giungono al fine a cui in quanto tali dovrebbero giungere nella legge del loro dinamismo; e quindi sono tutte peccaminose. Tutto l’uomo in quanto tale è senza senso, perché chiuso in se stesso e nel proprio egoismo in rottura radicale con Dio e quindi immorale in tutte le sue opere. Per Baio il peccato originale non è la privazione del soprannaturale, privazione che lascia l’uomo ancora nella bontà della sua natura e delle sue azioni; ma un atto dell’uomo, una concupiscenza, una perversione positiva dello spirito umano che viene corrotto e reso incapace di esplicare e tradurre in atto la propria dinamicità. La concupiscenza, il disordine e la disarmonia essenziale dell’uomo rimangono anche dopo il Battesimo, il quale toglie il reato e non imputa la colpa, ma non dà nessuna realtà nuova all’uomo. Questa concupiscenza congenita nell’uomo è sempre peccato, anche se non è voluta positivamente dall’uomo. Baio infatti confonde volontarietà con spontaneità: onde per commettere il peccato non si richiede che l’azione sia in potere dell’uomo nel suo essere adempiuta, ma che proceda dalla spontaneità della natura: non importa se è intrinsecamente determinata, come un istinto; purché non sia soggetta a costrizione estrinseca. L’uomo è una realtà dinamica protesa nell’agire e nell’operare; ma siccome è ora nella natura dell’uomo essere fuori del fine, cioè fuori della capacità di raggiungere Dio, tutte le azioni dell’uomo, come espressioni di questo dinamismo vano, frustrato nel suo scopo, cioè di questa concupiscenza, sono peccato. Sono peccati tutte le azioni dell’uomo dopo l’uso di ragione (cfr. la proposizione condannata 49: DENZ. 1049): Infatti «tutto ciò che opera il peccatore o il servo del peccato, è peccato» (pr. 35: DENZ. 1035) e «tutte le opere degli infedeli sono peccati e le virtù dei filosofi sono vizi » (pr. 25: DENZ. 1025). Le singole azioni dell’uomo, siano essi liberi o no, come atti ed espressioni di una natura radicalmente male orientata, sono azioni cattive e peccaminose. Per Baio peccato e natura si identificano. Nella sua attività l’uomo non può far altro che peccare (cfr. pr. 28): questa è la sua unica scelta e libertà; e la tragicità dell’uomo è di dovere essere condannato per azioni che non può evitare. La Sorbona ha condannato di Baio una proposizione: «L’uomo pecca e merita la condanna in ciò che fa necessariamente ». La tendenza di Baio è di accentuare la diversità tra la vita naturale e quella etico-religiosa. Negata l’autonomia della natura e asserita come necessaria l’esigenza che questa ha del soprannaturale considerato come il fine nel quale il suo tendere ha senso, tutto ciò che è natura è incompletezza essenziale; la natura in se stessa non ha quindi alcun valore etico-religioso. Il rapporto al fine, il quale per Baio non può essere che quello soprannaturale, costituisce l’oggetto morale come tale; dove esso fa difetto non ci può essere che immoralità e peccato; non si ammette una bontà naturale. – Baio non conosce la divinizzazione dell’uomo e la grazia elevante che ponga nell’uomo giustificato una realtà nuova e deifica; la giustificazione allora non è un’azione rinnovatrice ed elevante dell’uomo, ma soltanto consiste e nella osservanza perfetta dei comandamenti ottenuta per dono di Dio e realizzata dalla natura non perfezionata, e ancora nella remissione dei peccati che sono la conseguenza di una osservanza imperfetta. La giustificazione non è una grazia elevante, ma aiuto medicinale alla natura perché osservi la legge. – La giustizia non è una forma deifica, ma la semplice rettitudine della volontà e l’osservanza della legge; che le opere siano meritorie non deriva dalla grazia, ma dalla proporzione che esse hanno di natura loro con la ricompensa. La carità può trovarsi nell’uomo con il peccato. La grazia quindi non è il perfezionamento dell’uomo, ma il dono che permette alle facoltà dell’uomo di raggiungere il fine alle quali esse naturalmente gravitano. Il perdono di Dio rimane estrinseco all’uomo, viene soltanto imputato; l’effetto interiore non è una forma nuova perfettiva dell’uomo, ma il semplice raggiungimento di un fine proporzionato. Baio non ha saputo vedere l’uomo nella sua realtà naturale elevato ad una grandezza e ad un fine soprannaturale, in un innestarsi armonico di due ordini in cui la grazia è puro dono, e quindi in nessun modo dovuto. La natura senza la grazia, per Baio, è esclusiva concupiscenza; onde negazione di qualsiasi valore e bontà naturale dell’uomo fuori della grazia, con la conseguente separazione del divino dall’umano visto solo negativamente e non come la base sulla quale si inserisce il divino come perfettivo. Baio è antiumanista: fuori della grazia non c’è bontà. Se l’uomo è solo peccato fuori della grazia, questa allora è l’esclusiva agente e non può essere che necessitante, perché non è data al volere libero dell’uomo e la cui volontà non vi può cooperare attivamente. Per Baio la volontà libera naturale non ha altra scelta che il peccato e quindi non può avere come sua scelta l’accoglienza della grazia, la quale non può essere che necessitante. Rifiutata la libertà, quando si osserva che la grazia non ha effetti in tutti gli uomini, questi limiti alla sua estensione non possono essere che voluti da Dio; ed allora vien negata la volontà salvifica universale di Dio. Sono queste le conclusioni che Giansenio dedurrà fino alle ultime conseguenze. Solo una grazia sufficiente cioè la grazia considerata con la libertà vera e reale dell’uomo ad essa può spiegare che la grazia è veramente tale anche se non è efficace.

Giansenio e Giansenismo.

Giansenio, nato nel 1585 in Olanda: dal 1634 vescovo di Ypres, lasciò alla sua morte, avvenuta nel 1638, un’opera l’Augustinus che fu pubblicata postuma nel 1640, a Lovanio. L’opera già condannata nel 1641 dalla Inquisizione, e nel 1642 da Urbano VIII, in quanto ripeteva gli errori di Baio, nel 1649 fu denunciata alla Sorbona compendiata in sette proposizioni. Innocenzo X il 31 maggio 1653, nella bolla Cum occasione ne condannò cinque proposizioni; condanna che fu poi confermata da Alessandro VII nel 1656 con la bolla Ad Sanctam Beati Petri Sedem contro coloro che sfuggivano la condanna asserendo che le proposizioni erano eretiche, però esse non erano espressioni nel senso inteso da Giansenio. Alessandro VII ha definito che le cinque proposizioni erano condannate in tal senso e in una nuova costituzione « Regiminis Apostolici » del 15 febbraio 1665 impose un formulario che doveva essere sottoscritto dai Giansenisti. Clemente XI, nel 1705, nella costituzione Vineam Domini esigeva non solamente il rispettoso ossequio alla condanna, ma l’adesione interna; nel 1713 colla Bolla Unigenitus fu definitivamente rifiutata ogni forma giansenistica, con la condanna di 101 proposizioni di Quesnel. – I sostenitori del Giansenismo furono Saint-Cyran che mori nel 1643; suo successore fu A. Arnauld resosi famoso con il suo libro La fréquente Communion a ricevere la quale esigeva condizioni estremamente difficili. Arnauld mori nel 1694. Il terzo uomo del Giansenismo fu Quesnel con le sue Riflessioni sul nuovo testamento. Il movimento trovò appoggi specialmente nel Monastero di Port-Royal che, sotto la guida di Madre Angelica, ne divenne la cittadella spirituale. Il Giansenismo, dopo l’ultimo tentativo di appellare, donde il partito degli appellanti, ad un Concilio, dopo la bolla Unigenitus si esauri lentamente, prima di tutto per la morte di Quesnel che avvenne il 2 dicembre 1719 da impenitente e poi con l’accettazione della bolla stessa da parte di Noailles, Arcivescovo di Parigi, favorevole alle dottrine giansenistiche. Non tutti i Giansenisti aderiscono alle cinque proposizioni condannate. Molte volte si tratta di un Giansenismo inteso in senso più largo, consistente piuttosto in un comportamento che in una dottrina, nell’accettazione di un certo rigorismo e nell’accentuazione della necessità dell’amore di Dio per dare un qualsiasi valore alle buone opere. Ciò avviene in special modo nel Giansenismo italiano, dove assume anche un aspetto riformistico. L’espressione massima del movimento in Italia la si ha nel sinodo di Pistoia nel 1786, condannato il 28 Agosto del 1794 da Pio vi con la bolla Auctorem fidei. L’anima di questo sinodo fu il Vescovo di Pistoia Scipione de Ricci. Specialmente in quest’ultimo il Giansenismo fa sentire il suo influsso anche sulla dottrina ecclesiologica. La tendenza ad un esagerato spiritualismo fa affermare che la Chiesa non è di questo mondo ed è pienamente spirituale, onde viene condannata ogni sua azione temporale, che viene concessa esclusivamente ai principi. Però il Giansenismo è principalmente una eresia che concerne la grazia. – II Giansenismo si presenta come un tentativo d’imporre alla Chiesa, sotto il patronato di Sant’Agostino, una concezione tetra e severa del Cristianesimo, tendendo a scoraggiare lo sforzo umano, ingigantendo arbitrariamente le conseguenze incresciose del peccato originale e annientando la natura dinanzi alla grazia. Esso è frutto della dottrina di Baio, alla difesa del quale egli avrebbe voluto dedicare il suo Augustìnus; ne dipende specialmente riguardo alla concezione di un Dio severo e terribile, giudice del peccato inevitabile e tuttavia punibile, di una grazia assolutamente dispotica e non concessa a tutti gli uomini. Tutta la dottrina giansenistica fa perno suìl’Augustinus di Giansenio. Innanzitutto il Giansenismo vuol presentarsi come un Agostinismo riguardo alla dottrina del peccato e della grazia, del rapporto tra grazia e libertà e della predestinazione. Pur ammettendo molte espressioni verbali simili e impronte materialmente identiche, Giansenio ha travisato Sant’Agostino perché ha staccato frasi che si inserivano in un particolare contrasto polemico o rispondevano a domande o situazioni particolari e, non tenendo conto di altre espressioni agostiniane che potevano integrarle e farle intendere giustamente, le ha innestate in un sistema più vasto e universale, per rispondere a problemi alla cui soluzione esse non erano create, perché destinate a preoccupazioni particolari e storicamente diverse degli interlocutori agostiniani. – La dottrina giansenistica, come quella di Baio, è ottimistica e semi-pelagiana sullo stato dell’uomo prima della caduta. La grazia, chiamata grazia di Dio (grada Dei) per distinguerla da quella concessa all’uomo decaduto (gratia Christi), è postulata necessariamente dalle esigenze essenziali dell’uomo e in certo qual modo dovuta come sua perfezione. La 35a proposizione condannata di Quesnel dice: « la grazia di Adamo è conseguenza della creazione ed era dovuta alla natura sana ed integra » (DENZ. 1385). Il semipelagianesimo sta in ciò che la grazia, dono iniziale di Dio e soltanto condizione necessaria all’azione dell’uomo (adjutorium sine quo non), era tradotta in atto dalla volontà libera, senza che fosse indispensabile il concorso della grazia stessa per elevare e applicare la libertà ad operare il dono di Dio. – All’ottimismo sulla situazione iniziale dell’uomo prima del peccato originale subentra un pessimismo esagerato sullo stato dell’uomo attuale. Il peccato originale non è la perdita del soprannaturale, ma è atto peccaminoso trasmesso ad ogni uomo, è una corruzione profonda prodotta nell’animo e in tutte le facoltà, trasmessa come abitudine collettiva attraverso la nascita, in modo che tutti gli atti umani sono sviati da una concupiscenza congenita, e quindi sono peccaminosi: « la volontà non prevenuta dalla grazia non ha luce che per traviarsi, ardore che per precipitare, forze che per ferirsi, essa è incapace di ogni male e impotente ad ogni bene» (Quesnel citato da H. BONDET, Gratia Christi, p. 317). La grazia del Cristo perdona la colpa nel battesimo, ma lascia l’atto del peccato, cioè la concupiscenza. L’uomo è nella necessità di peccare, tutti i suoi atti sono di questa concupiscenza congenita e quindi meritano dannazione. La grazia è richiesta per ogni atto buono, di modo che viene svalutata ogni morale naturale. Consegue un pessimismo assoluto sulla natura, sulle opere degli uomini e sulla civiltà: tutto è corrotto dalla concupiscenza, quindi è condannabile: « tutto ciò che non è dalla fede cristiana soprannaturale che opera per carità è peccato» (proposizione condannata da Alessandro VIII nel 1690: DENZ. 1301). È per questo che Giansenio afferma che i bambini morti senza Battesimo vanno all’inferno: anche loro hanno peccato. Se la concupiscenza congenita nella natura fa peccare necessariamente, l’uomo è ancora libero? A questa domanda Giansenio risponde affermativamente, ma ha della libertà un concetto assolutamente errato. Giansenio non ammette, nello stato attuale dominato necessariamente dalla concupiscenza necessitante, una indifferenza attiva per la volontà la quale non è padrona del suo agire o non agire, dell’agire bene o male: essa non ha che una scelta: l’agire peccaminosamente e essere travolto dalla concupiscenza irresistibile. Giansenio confonde la libertà con la volontarietà e la spontaneità, cioè il fare con amore e senza costrizione esterna ciò che non si può in alcun modo non fare. – Lo stato dell’uomo quindi è quello di subire con spontaneità e con diletto, e quindi nel senso di Giansenio, liberamente, l’impulso necessitante della concupiscenza o di una forza superiore a questa, la grazia vittoriosa, senza che il volere una o l’altra sia in suo potere: esse le si impongono con necessità, come si impone a lui la conclusione di un teorema matematico. Ed allora per Giansenio la grazia è una delectatio victrix cioè è una concupiscenza santa con la quale Dio agisce finalisticamente sulla volontà in modo che sia più forte di quella carnale e la superi. Questa grazia è necessitante, è irresistibile e quindi ha sempre effetto ed è sempre vittoriosa: « in stato di natura decaduta alla grazia interiore mai si resiste » (È la seconda delle famose cinque proposizioni condannate dell’Augustinus: DENZ. 1093). Nella grazia la libertà dell’uomo è l’amare spontaneamente ciò che l’uomo non opera e non ha in suo potere, ma gli è dato come voluto. Questa azione voluta non gli è data come potuta (in Giansenio non c’è potere separabile dal volere) e quindi la libertà non è veramente libertà. – Il pessimismo sull’uomo, di cui afferma la radicale corruzione di ogni sua tendenza nella concupiscenza peccaminosa, ha veramente impedito a Giansenio di vedere l’aspetto ontologico della grazia. Nella dottrina cattolica essa è perfettiva ed elevante, di modo che raggiungere il fine consegue ad un dinamismo soprannaturale che la grazia ha creato e sostiene nella volontà dell’uomo elevato. Se la grazia è elevante e perfettiva significa che nell’uomo deve esservi un dinamismo fondamentalmente buono il quale deve essere elevato a raggiungere attivamente un fine superiore alle proprie capacità ed esigenze naturali; questo dinamismo soprannaturale per essere veramente umano deve essere in potere dell’uomo, cioè totalmente libero, se non è libera la grazia, non è interiore. Giansenio la chiama tale, ma quando afferma che la grazia è necessitante e proporzionalmente inversa alla concupiscenza e rifiuta che essa elevi soprannaturalmente, inserendosi perfettiva sulla base di un substrato naturale e di un dinamico tendere che viene rispettato e portato a capacità e a fini superiori alle proprie fondamentali esigenze, allora essa non è più veramente interiore. – Giansenio ha visto nella grazia solo l’aspetto finalistico, non quello ontologico di elevazione. La grazia per essere elevante e perfettiva dell’uomo deve donare un vero, reale e perfetto potere soprannaturale il cui tradursi in atto dipende veramente anche dall’uomo; se non si realizza è nella esclusiva responsabilità dell’uomo. Qualora ciò succeda la grazia in se stessa non è meno la vera, reale e perfetta grazia. Questa grazia che per la mancata libertà dell’uomo non giunge ad effetto è chiamata dalla dottrina teologica grazia sufficiente. E questa è negata da Giansenio per il quale la grazia ha sempre necessariamente ed irresistibilmente un effetto; se questo non ha luogo la grazia non è vera grazia. La grazia è sempre efficace, sempre vittoriosa (delectatio victrix). Infatti, affermando come cattivo ogni volere dell’uomo, l’unico volere è quello di Dio e questo, se è un volere, deve essere un volere, un effetto. Per Giansenio negare la grazia sufficiente equivale a rifiutare ogni cooperazione attivamente positiva dell’uomo ed affermare quindi che la salvezza può essere operata esclusivamente da Dio, perché l’uomo ha il suo potere soltanto teso verso il male. La grazia vera non è ora quella di Dio per Adamo (gratia Dei), che dava il potere; ma la gratia Christi sempre efficace, perché dà il volere senza il potere attivo dell’uomo. Giansenio dice che affermare la grazia sufficiente è un non senso, oppure è eresia, perché dottrina semipelagiana: la quarta proposizione condannata dice: « i semi-pelagiani ammettevano la necessità della grazia interiore proveniente per ciascun atto in particolare, perfino per l’inizio della fede: erano eretici per il fatto che essi volevano che questa grazia fosse tale che la volontà potesse resistere o obbedirgli » (DENZ. 1095). Per Giansenio non si dà grazia se non irresistibile, necessitante, di infallibile effetto, vittoriosa. Per il Cattolicesimo l’affermazione della grazia sufficiente equivale quindi alla affermazione che Dio dà la sua grazia anche a coloro per i quali essa non è stata efficace, ai quali tuttavia è dato un vero potere; la loro libertà è stata veramente elevata a poter realmente volere la salvezza; il mancato raggiungimento è colpa esclusiva dell’uomo. Sant’Agostino portato dai Giansenisti a loro testimonianza afferma invece: «consentire all’appello di Dio o dissentirgli ecco ciò che è proprio della volontà » (De Spiritu et littera, 34, n. 60). Anche quando la grazia è detta muovere irresistibilmente (insuperabiliter), questo effetto irresistibile non s’impone all’uomo, ma è realizzato nella libertà rispettata e potenziata dell’uomo. Il Giasenismo ha saputo e voluto soltanto considerare della grazia l’aspetto della sua irresistibilità, negando che ciò è avvenuto soltanto con la liberazione e la elevazione della libertà umana a volere attivamente essa pure. In questa esclusività sta la sua eresia, perché praticamente ha negato la libertà. I Giansenisti hanno quindi negato la grazia liberatrice ed elevante, la grazia che libera ed eleva la libera volontà dell’uomo a volere atti salutari e a raggiungere la sua vocazione soprannaturale per cui l’uomo è chiamato ad essere e ad operare azioni maggiori di se stesso e della sua capacità ed esigenza. Quando si afferma che la grazia non può essere se non vittoriosa nell’uomo e non può non avere il suo effetto ne consegue che tutti coloro i quali non si salvano, non si salvano perché non ricevono la grazia. Viene quindi dal Giansenismo negata l’universalità della redenzione, con conseguenze predestinazionistiche. La quinta proposizione condannata dell’Augustinus afferma : « è semipelagiano dire che Gesù Cristo è morto o ha sparso il suo sangue per tutti gli uomini » (DENZ. 1096). Se i dannati sono in questo stato è perché il Cristo non ha voluto esser loro redentore. « I pagani, i giudei, gli eretici ed altri di questo genere non ricevono da Cristo nessun influsso: e da ciò deduci rettamente che in essi la volontà è nuda e inerme senza qualsiasi grazia efficiente » (proposizione condannata da Alessandro VIII nel 1690: DENZ. 1295). Tristissima è questa visione giansenistica di una gran parte dell’umanità in marcia verso la dannazione, soltanto perché per istinto nella loro concupiscenza operano il male che non possono evitare e alla cui eliminazione non è dato alcun aiuto da parte di Dio! – La morale giansenistica è per conseguenza eccessivamente rigorista. Qualsiasi amore delle creature è sempre concupiscenza e quindi peccaminoso. Scopo della religione è liberare l’uomo da qualsiasi amore terreno. Non è permesso quindi gioire delle creature; queste si devono rifiutare sempre perché suscitano concupiscenza. Per la moralità dell’atto è sempre richiesto amore perfetto e diretto di Dio. Per la frequenza dei sacramenti Arnauld nel suo libro De la frequente Communion richiede condizioni impossibili e considera la comunione, più che alimento della debolezza, come una ricompensa ad una virtù che però è difficilissima. – Il Giansenismo è così un pessimismo: l’uomo è necessariamente proteso al male e tutte le sue azioni compiute fuori della grazia sono cattive; l’umanità nella sua maggioranza è in una marcia fatale verso la dannazione; il mondo e le creature non sono lo specchio, ma soltanto occasione di male e quindi sono sempre da rifiutarsi; la concupiscenza è solo la tentazione che l’uomo porta come conseguenza del peccato; invece di essere considerata nel piano attuale come strumento di prova e di merito e di essere considerata male soltanto quando è voluta, per il Giansenismo è sempre male. – Giansenio mette sempre in opposizione l’umano con il divino e lo spirituale ed il bene è assolutamente identificato col soprannaturale. Non c’è un atto buono naturale, c’è solo concupiscenza. Per ogni atto buono si esige la carità: « tutto ciò che non è dalla fede soprannaturale che opera per l’amore è peccato » (proposizione condannata da Alessandro VIII nel 1690 : DENZ. 1301). Il binomio cupiditas-caritas è esclusivo, non c’è il posto per la natura e per tutto ciò che, pur essendo naturale, è in se stesso buono e base su cui lo stesso soprannaturale s’inserisce come perfettivo. Perde senso il mondo, la cultura ed il profano sui quali non c’è che una parola di condanna. Saint-Cyran, entrando un giorno in una scuola, apertamente afferma che Virgilio era dannato. Nel rapporto uomo-Dio l’uomo non viene elevato, ma soltanto umiliato nella sua volontà e dimenticato nella sua attività. Il Giansenismo risulta così un antiumanesimo, dimenticando che è falsa la pretesa di dare lode a Dio, di dar risalto alla sua Onnipotenza e tener l’uomo nell’umiltà quando si dimentica o si vilipendia le opere nelle quali Dio è potente come suscitatore di potenza. – Il Giansenismo ha affermato che tutto viene dalla grazia; ha però dimenticato, e in questo sta la sua eresia, che dalla grazia viene anche la grandezza dell’uomo, la positività del mondo e l’esser l’uomo reso capace di operare attivamente la propria salvezza. La condanna esiste soltanto quando l’uomo al quale data per grazia la possibilità e realtà del rispondere attivamente, rifiuta l’amore. Il Dio del Giansenismo è soltanto l’Onnipotenza terribile, quello del vero Cristianesimo è l’amore; è la libertà usata male che lo rende terribile. Contemporaneamente si sviluppò in Italia, specialmente a Roma, per opera di un prete spagnolo, Michele Molinos, un’espressione ereticale, chiamata Quietismo. Fu divulgata specialmente nello scritto la Guida spirituale di Molinos, pubblicato a Roma nel 1675. Si affermava che la perfezione cristiana consisteva in uno stato perenne di contemplazione e di amore dove l’anima subisce soltanto l’azione di Dio ed è dispensata dall’azione e da tutti gli atti espliciti di virtù e dalla resistenza alle tentazioni che si dovevano accettare passivamente. Innocenzo XI con la costituzione Cœlestis Pastor del 1687 condannò 68 proposizioni di Molinos (DENZ. 1221-1288). In Francia rappresentante di questa tendenza fu Giovanna Bouvier Gujon; anche lo stesso Fénélon ne fu leggermente indiziato con il suo libro Esplications des maximes des Saints condannato da Innocenzo XII nel 1699.

(Continua …)