DOMENICA VII dopo PENTECOSTE (2018)

… véniunt ad vos in vestiméntis óvium, intrínsecus autem sunt lupi rapáces: a frúctibus eórum cognoscétis eos!!!

DOMENICA VII dopo PENTECOSTE (2018)

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XLVI:2.  Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis.[O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo.]

Ps XLVI:3 Quóniam Dóminus excélsus, terríbilis: Rex magnus super omnem terram. [Poiché il Signore è l’Altissimo, il Terribile, il sommo Re, potente su tutta la terra.] Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis. [O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo.]

Oratio

Orémus. Deus, cujus providéntia in sui dispositióne non fállitur: te súpplices exorámus; ut nóxia cuncta submóveas, et ómnia nobis profutúra concédas. [O Dio, la cui provvidenza non fallisce mai nelle sue disposizioni, Ti supplichiamo di allontanare da noi quanto ci nuoce, e di concederci quanto ci giova.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános. Rom VI :19-23

“Fratres: Humánum dico, propter infirmitátem carnis vestræ: sicut enim exhibuístis membra vestra servíre immundítiæ et iniquitáti ad iniquitátem, ita nunc exhibéte membra vestra servíre justítiæ in sanctificatiónem. Cum enim servi essétis peccáti, líberi fuístis justítiæ. Quem ergo fructum habuístis tunc in illis, in quibus nunc erubéscitis? Nam finis illórum mors est. Nunc vero liberáti a peccáto, servi autem facti Deo, habétis fructum vestrum in sanctificatiónem, finem vero vitam ætérnam. Stipéndia enim peccáti mors. Grátia autem Dei vita ætérna, in Christo Jesu, Dómino nostro”.

Omelia I

[Mons. Bonomelli, Omelie, vol. III, omelia XV.-Torino 1899]

Parlo da uomo, secondo la vostra naturale debolezza: siccome offriste le vostre membra a servire alla immondezza ed alla iniquità per la iniquità, così ora fate di offrirle alla giustizia per la santificazione. E invero, quando eravate servi del peccato, eravate franchi dalla giustizia. Ora qual frutto ricavaste da quelle opere, delle quali ora arrossite? Perché termine di quelle è la morte. Ma ora affrancati dal peccato e fatti servi di Dio, avete per vostro frutto la santificazione e per termine la vita eterna. Perché lo stipendio del peccato è morte; ma il dono di Dio è vita eterna in Cristo Gesù nostro Signore„ (Ai Rom. VI, 19-23).

L’omelia, che tengo, come sapete, si riduce costantemente ad un commento del Vangelo o della Epistola della Domenica corrente. Questo metodo ha il vantaggio di seguire l’esempio dei Padri, di rispondere alla lettera ed spirito della prescrizione tridentina, di esporre l’insegnamento divino della Scrittura, ma non va immune da alcune difficoltà, delle quali la principale è questa: il testo del Vangelo o della Epistola, che si legge nella santa Messa, è tolto qua e là da uno dei quattro Vangeli e dalle Lettere apostoliche. Naturalmente staccato dagli antecedenti e dai conseguenti, raro è che presenti un tutto insieme, che stia da sé e si possa comprendere separatamente dal contesto, e ciò specialmente quanto alla Epistola. Se voi vedete un ramo tagliato dal suo albero, per giudicarne siete obbligati di guardare all’albero, dal quale fu tagliato. Così avviene a me nella spiegazione in particolar modo della Epistola; per conoscere debitamente il senso della parte, che riferisco, sono obbligato a vedere ciò che precede il testo, affine di seguire il filo del ragionamento e trovare il nesso che congiunge le parti. – Scopo dell’apostolo Paolo in questo capo sesto della lettera ai Romani è di mostrare che il battezzato ha l’obbligo di vivere una vita nuova, la vita di Cristo, rimovendo la vita dell’uomo vecchio, la vita del peccando. Svolgendo questa verità, S. Paolo si avvia ad una applicazione pratica bellissima, e dice che tutto quello che in noi servì di strumento alle passioni ed al peccato prima del Battesimo, deve servire a strumento di virtù dopo il Battesimo: come prima eravamo servi del peccato, cosi dopo dobbiamo essere servi della giustizia. E qui comincia il testo dell’Apostolo, che avete udito e che deve formare il soggetto della presente omelia. – “Parlo secondo uomo per la vostra naturale debolezza: perché siccome offriste le vostre membra a servire alla immondezza ed alla iniquità, così or fate di offrirle alla giustizia per la santificazione. „ Vi ho detto, che voi col Battesimo siete diventati servi della giustizia: Servi facti estis justitiæ. Questa parola “servi”, soggiunge l’Apostolo quasi scusandosi, vi torna grave e quasi vi offende, perché l’essere servi importa l’aver perduto ciò che l’uomo ha di più alto e di più caro, la libertà; ma ho dovuto usare questa parola, non avendone altra a mano e che risponda alla cosa. Sono costretto a parlare così per la povertà del nostro linguaggio e per farmi intendere come meglio posso, e voi o Romani, non offendetevi della parola “servi” “Humanum dico, propter infìrmitatem carnis vestræ”. – Fors’anche questa frase Humanum dico, può significare: vi dico cosa piana affatto, naturale, facile ad intendersi. E qual è? Finché voi vivete nel peccato, seguendo le vostre passioni, voi foste servi delle stesse e portaste il loro giogo vergognoso. Le vostre membra furono strumento al peccato, gli occhi, le orecchie, la lingua, le mani, i piedi, tutto il vostro corpo, che altro fecero se non servire in mille modi al peccato? Voi, che disprezzate il servo e non volete essere servi di chicchessia, pure serviste ad ogni turpitudine, “Immunditiæ”, ad ogni iniquità in guisa di precipitare da iniquità in iniquità: Iniquitate in iniquitatem, ora non dovete aver vergogna d’essere servi della giustizia, della virtù, affine di santificarvi. Udite il commento che questa sentenza ci lasciò un Padre della Chiesa: “Con queste parole San Paolo vuole che i suoi lettori arrossiscano di se stessi, affinché facciano per la virtù quello che prima fecero pel vizio, quasi dicesse: prima i vostri piedi correvano al delitto, ora corrano alla virtù; prima le vostre mani si allungavano per rapire l’altrui, ora si stendano per largheggiare del vostro; prima i vostri occhi si volgevano intorno per bramare d’avere l’altrui, ora si volgano intorno per soccorrere i poverelli, e quel servizio che ciascun membro del vostro corpo prestò ai vizi, ora lo renda alle virtù, e se un tempo corse dietro a sozzi piaceri, ora batta le vie della castità e della santità. „ Vi torna amara questa parola” servi della giustizia, „ – “Servi facti estis justitiæ”; non la vorreste udire, perché vi sembra un oltraggio alla vostra dignità; ma ricordatevi di quel tempo, nel quale “eravate servi del peccato, ed eravate franchi, cioè liberi del giogo della giustizia: “Cum servi essetis peccati, lìberi fuistis justitiæ”. – Qui è necessario spiegare più largamente il pensiero dell’Apostolo. Vi è il bene, vi è il male; vi è la virtù, vi è il vizio; vi è la legge di Dio, vi è la legge del mondo e della carne: noi siamo posti tra la legge di Dio e la legge del mondo, tra il vizio e la virtù, tra il bene ed il male: dobbiamo necessariamente appigliarci all’uno od all’altro; lo starcene indifferente è impossibile e vorrebbe dire, se pure fosse possibile, che ci gettiamo dalla parte del male, del vizio e del mondo, perché chi non è con Cristo è contro di Lui. È dunque condizione assoluta dell’uomo il servire al bene od al male, al vizio od alla virtù, a Dio o al mondo; è la sua stessa natura, che l’obbliga a mettersi dall’una o dall’altra parte, a scegliere d’essere servo di Dio o del mondo, del peccato o della giustizia. Per quanto gli spiaccia questa parola servire, non è in poter suo sottrarsi a questa legge sovrana. Ora fino al giorno nel quale avete creduto a Cristo e avete ricevuto il battesimo, a chi avete voi servito? domanda l’Apostolo. Al peccato: Cum servi essetis peccato. Servendo al peccato, per fermo non servivate alla giustizia, eravate sciolti e franchi dal suo giogo: ora vi sembra, così argomenta l’Apostolo, che sia più degno dell’uomo servire al peccato od alla giustizia? Poiché vi è pur forza piegare il collo sotto il gioco dell’uno o dell’altra, chi non vede che è meglio servire alla giustizia che al peccato? – Strana e quasi incredibile contraddizione quella dell’uomo! Egli ha una tendenza innata, che gli fa considerare come nemico chiunque metta un limite alla sua indipendenza, e come un diritto sacro inalienabile quello di usare come meglio gli piace della sua libertà. Egli non vede che i suoi diritti e la sua libertà; di doveri e di dipendere non ama che gli si parli e volentieri li dimentica. Che cosa è la libertà debitamente intesa? È il potere di usare delle proprie forze, di fare o non fare certi atti, di non essere impedito nell’esercizio delle sue facoltà e de suoi diritti. Ora si può essa comprendere questa libertà dell’uomo senza il dovere di rispettare i diritti altrui, ossia la libertà altrui? Evidentemente, no. Intorno ad ogni uomo vi sono altri uomini, che hanno diritti eguali ai suoi, e vi sono libertà che limitano la sua, giacché dove comincia la libertà degli altri cessa la nostra. Al di sopra di lui vi è l’autorità civile e politica con le sue leggi: vi è la Chiesa con le sue leggi, e al di sopra della civile autorità e della Chiesa vi è Dio, il Padrone assoluto di tutti. In faccia ai diritti dei suoi simili, in faccia alle autorità umane, alla Chiesa, a Dio, che a tutti sovrasta, qual è il dovere d’ogni uomo? Che uso deve egli fare della sua libertà? L’uso ch’egli deve fare della sua libertà è quello di sottoporla a chi ha diritto d’averla a sè sottoposta. Allora essa è al suo posto, usa debitamente delle sue forze e con l’adempimento esatto dei suoi doveri si mostra rispettosa pei diritti altrui ed è vera libertà. – Come sarei felice se potessi farvi comprende che la libertà vera sta riposta, non già nel fare ciò che a noi piace, sia bene, sia male, ma solamente nell’adempire i nostri doveri e fare il bene, che solo veramente ci giova! L’occhio per vedere deve dipendere dalla luce, i polmoni per respirare devono dipendere dall’aria, il sangue per fare il suo giro deve dipendere dal cuore e così via via dite di tutte le membra del corpo, ciascuna delle quali più o meno dipende dalle altre. Oltre che direste voi se col pretesto di voler piena libertà l’occhio respingesse la luce, i polmoni non volessero aver che fare coll’aria, il sangue rigettasse ogni dipendenza dal cuore ed ogni membro rifiutasse sottostare all’altro e volesse fare da sé? Avremmo il disordine più perfetto e la morte. È la dovuta dipendenza quella che crea e mantiene la libertà di ciascun membro del nostro corpo: così la legittima dipendenza, o in altre parole l’adempimento perfetto dei nostri doveri verso i nostri simili, verso tutte le autorità e sovra tutto verso Dio quello che ci dà ed assicura la nostra vera libertà, e in questo senso Cristo disse, che chi commette il peccato è schiavo del peccato, e quegli è libero chi è liberato da lui. Dunque, o cari, non confondiamo le cose, non diamo il santo nome di libertà alla schiavitù, né col brutto nome nome di schiavitù vogliamo designare la vera libertà. Schiavo è colui che ubbidisce alle passioni, che serve al peccato; libero invece è quegli che frena le passioni, caccia da sé il peccato e serve alla giustizia ed alla virtù, perché l’uomo di sua natura è fatto per servire alla virtù e non per servire al peccato. – Vi è un figliuolo: egli rifiuta di ubbidire ai suoi genitori ed ubbidisce ad un servo, al quale deve comandare, vantandosi d’essere libero di così fare. Direte voi che questo figliuolo è veramente libero? Voi direte che è libero il figliuolo che ubbidisce ai suoi genitori e comanda al suo servo, perché così vuole la giustizia e l’ordine. Similmente noi diremo che chi respinge il giogo del peccato e serve a Dio, suo Padre, e a cui servire è regnare, è veramente libero. Deh! Carissimi cessiamo dal chiamare luce le tenebre e le tenebre luce, libertà la schiavitù e la schiavitù libertà. Siamo servi della giustizia, servi di Dio, e saremo liberi dal peccato e franchi dal mondo. Forse non mai nel corso dei secoli si parlò tanto di libertà come ai nostri tempi e forse non mai se n’ebbe un’idea sì confusa e sì falsa. Quanti al giorno d’oggi credono ci sia libertà vera fare ciò che piace, sia bene sia male! Quanti che vogliono per sé la libertà più sconfinata, non badando che questa importa la violazione dell’altrui libertà! Siffatta libertà metterebbe il mondo sossopra e produrrebbe la più brutta schiavitù. Ricordatelo bene: la libertà vera secondo la ragione e secondo il Vangelo, è rispettare e osservare le leggi di Dio, della Chiesa e di tutte le autorità anche civili: libertà vera è adempiere ciascuno i propri doveri, rispettando i diritti degli altri. Voi, ne sono certo, vi atterrete a questa legge, e così sarete veramente liberi. – Seguitando ora il nostro commento, vedete come l’Apostolo rincalzi a meraviglia la verità sopra accennata, vale a dire che dobbiamo essere servi della giustizia, e non del peccato. “Qual frutto aveste allora da quelle opere delle quali ora arrossite? „ Un tempo, così S. Paolo, prima di ricevere il battesimo, eravate servi del peccato, facevate le opere del peccato: ora, illuminati dalla verità, considerando quelle opere, non è vero che vi sentite salire sul volto la fiamma della vergogna? Non è vero che sentite tutta la vergogna di quel vituperoso servaggio? Ecco una prova indubitata che il servire al peccato non è libertà, ma servitù indegna, perché se fosse libertà non ne avremmo vergogna, anzi ne andremmo alteri. – Non solo il servire al peccato ci fa vergognare, continua l’Apostolo, ma vi è ben peggio: “Termine, ossia frutto delle opere del peccato è la morte, „ Finis illorurn mors est. Quale morte? La morte eterna! Bando adunque al servaggio del peccato, che dopo averci coperto di vergogna, spesso agli occhi del mondo, sempre a quelli della coscienza e di Dio, ci getta in braccio alla morte eterna. Bando al servaggio del peccato, che ci disonora ed uccide l’anima! – Che faremo dunque? “Sciolti o affrancati dal peccato e divenuti servi di Dio, avete per frutto la santificazione e per termine la vita eterna. „ In questo versetto S. Paolo ha condensato i doveri tutti dell’uomo nel tempo ed il suo destino nella eternità: romperla con le passioni e con il loro frutto, il peccato, santificarsi con l’esercizio della virtù e così toccare la meta ultima, il conseguimento della vita eterna: Finem vero vitam æternam. – Il versetto che segue, ultimo del capo e ultimo della nostra lezione è, possiam dire, la ripetizione di quello che abbiamo spiegato: “Perché lo stipendio del peccato è la morte; ma il dono di Dio è la vita eterna, in Cristo Gesù, nostro Signore.„ L a parola stipendio qui adoperata, è tolta dall’uso militare e per sé significa il soldo che si dava qual mercede al soldato. Sì, sembra gridare l’Apostolo: se voi servirete alle passioni, al peccato, e come soldati militerete sotto la sua bandiera, avrete anche dal peccato la mercede dovuta alla vostra miserabile milizia: il vostro stipendio sarà la morte eterna. Volgerete voi le spalle al peccato?” Correrete sotto la bandiera della giustizia e combatterete animosamente per essa? Il vostro stipendio, !a vostra mercede sarà il dono di Dio, che è la vita eterna: autem Dei, vita æterna, e questa la dovrete ai meriti di Gesù Cristo. – Questa sentenza di S. Paolo ci presenta una difficoltà, ed è questa: S. Paolo ci insegna ripetutamente in altri luoghi, che la vita eterna è corona dovuta a chi combatte e vince: è mercede dovuta a chi lavora e dovuta rigorosamente per giustizia: Gesù Cristo stesso ci dice di rallegrarci, perché grande ed abbondante è la mercede, che ci è riserbata in cielo; ora come sta che qui S. Paolo la chiama dono o grazia di Dio? Gratia autem Dei, vita æterna? Se è grazia, non è mercede: se è mercede non può essere grazia. Forsechè l’Apostolo bruttamente contraddice a se stesso? L’Apostolo certamente non può contraddire a se stesso, e la risposta non è difficile. La vita eterna è mercede di giustizia dovuta alle opere nostre: Dio non può negarla a chi opera rettamente. Ma come, con qual mezzo facciamo noi le opere meritevoli della vita eterna? Col mezzo della grazia che Dio ci ha data. E la grazia, la prima grazia, è essa nostra, o dono di Dio? La grazia, la prima grazia non è opera nostra, non la possiamo in alcun modo meritare, ed è dono della bontà divina. La vita eterna pertanto considerata nella sua radice, che è la grazia, è dono di Dio affatto gratuito: considerata nelle opere, frutto della grazia e della nostra corrispondenza alla medesima, è mercede: corona a noi dovuta. Volete comprendere questa verità con una similitudine comunissima, che tolgo dal Vangelo e precisamente dalla parabola dei talenti? Udite. Un ricco signore vi dà una grossa somma da trafficare a vostro talento. Che diritto avete voi a quella somma? Nessuno: essa è dono, ch’egli vi fa per sola sua bontà. Voi trafficate e fate con quella somma, mercé della vostra industria un grosso guadagno. Quel guadagno è frutto delle vostre fatiche e insieme del dono ricevuto da quel generoso signore, ed io potrei dire il vostro guadagno è dono del signore ed anche che è mercede delle vostre fatiche, perché l’una e l’altra cosa è egualmente vera: così è vero il dire, che il cielo è grazia e dono di Dio, ed è vero altresì, che è mercede e ricompensa delle nostre fatiche, perché per guadagnarlo è necessaria la grazia di Dio e necessaria l’opera nostra, e se l’uno o l’altra fa difetto, è impossibile ottenerlo.

Graduale Ps XXXIII:12; XXXIII:6

Veníte, fílii, audíte me: timórem Dómini docébo vos. – V. Accédite ad eum, et illuminámini: et fácies vestræ non confundéntur. [Venite, o figli, e ascoltatemi: vi insegnerò il timore di Dio. V. Accostatevi a Lui e sarete illuminati: e le vostre facce non saranno confuse.]

Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps XLVI:2 Omnes gentes, pláudite mánibus: jubiláte Deo in voce exsultatiónis. Allelúja. [O popoli tutti, applaudite: lodate Iddio con voce di giubilo. Allelúia.]

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt VII:15-21 “In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Atténdite a falsis prophétis, qui véniunt ad vos in vestiméntis óvium, intrínsecus autem sunt lupi rapáces: a frúctibus eórum cognoscétis eos. Numquid cólligunt de spinis uvas, aut de tríbulis ficus? Sic omnis arbor bona fructus bonos facit: mala autem arbor malos fructus facit. Non potest arbor bona malos fructus fácere: neque arbor mala bonos fructus fácere. Omnis arbor, quæ non facit fructum bonum, excidétur et in ignem mittétur. Igitur ex frúctibus eórum cognoscétis eos. Non omnis, qui dicit mihi, Dómine, Dómine, intrábit in regnum coelórum: sed qui facit voluntátem Patris mei, qui in cœlis est, ipse intrábit in regnum cœlórum.”

Omelia II

[Mons. G. Bonomelli, ut supra, Omelia n. XVI]

 “Guardatevi dai falsi profeti, i quali vengono a voi in sembianze di pecore, ma dentro son lupi rapaci. Voi li riconoscerete dai loro frutti. Si colgono forse uve dalle spine o fichi dai triboli? Così ogni albero buono fa frutti buoni, ma l’albero tristo fa frutti tristi. Non l’albero buono fa frutti tristi, né l’albero tristo fa frutti buoni. Ogni  albero che non fa buon frutto è tagliato e gettato nel fuoco. Voi dunque li riconoscerete dai loro frutti. Non chiunque dirà: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, quegli entrerà nel regno dei cieli „ (S. Matteo, VII, 15-21).

In questi sette versetti, che parola per parola ho reso nella nostra lingua, voi avete il tratto dell’Evangelo, che or ora si è letto nella S. Messa, e che si trovano precisamente nel capo VII di S. Matteo. Queste sì belle e sì pratiche sentenze fanno parte di quel maraviglioso discorso, detto del monte, nel quale Gesù Cristo compendiò la sostanza tutta del suo insegnamento morale. Nei quattordici versetti che precedono la nostra lezione Gesù Cristo ci vieta di giudicare i nostri fratelli e vuole che prima di correggere gli altri, badiamo ad emendare noi stessi: poi ricorda di non dare le cose sante agli indegni, inculca la preghiera e ne mostra la efficacia, e dopo aver detto che la via della salute è stretta, e larga quella della perdizione, ci mette in guardia contro i corruttori della verità, contro i maestri d’errore, che si atteggiano ad annunziatori della dottrina evangelica. Voi vedete, o cari, che se questo ammonimento era necessario al tempo di Gesù Cristo, oggi è senza confronto più necessario, perché i seminatori di scandali e di perverse dottrine di dieci tanti sono cresciuti. Un padre amoroso, che ha dato ai suoi cari figliuoli un grande tesoro; che da una parte vede la loro inesperienza, e dall’altra conosce le arti e le insidie dei tristi, che faranno ogni prova per ispogliarli, con grande insistenza raccomanda loro di stare in sull’avviso e di custodire con ogni diligenza il tesoro ricevuto. Qual cosa di questa più naturale? È ciò che fa Gesù Cristo nel Vangelo: dopo aver annunziato le più sublimi verità morali agli Apostoli ed alle turbe che l’ascoltavano, troppo bene conoscendo i pericoli che li circondavano, disse: “Guardatevi dai falsi profeti „ Attendite a falsìs prophetis. Voi sapete che la parola profeta ha vari significati nei Libri santi: ora significa uomo che annunzia cose future, ora uomo pio e virtuoso, ora uomo operatore di miracoli, ora semplicemente maestro delle cose sacre; questa parola nel testo che ci sta innanzi, è presa in quest’ultimo senso, come è chiaro. Ma come vi sono maestri buoni e maestri cattivi, uomini veramente pii e uomini ipocriti, così vi sono profeti veri e profeti falsi, maestri di verità e maestri di errori, e se dobbiamo ascoltare quelli, a questi dobbiamo chiudere le orecchie e, fuggirli, onde Gesù Cristo ci grida: “Guardatevi dai falsi profeti. „ Chi sono questi falsi profeti o maestri designati da Gesù Cristo? Erano gli scribi, i farisei, che facevano opera di allontanare da Lui la gente, che mettevano in mala voce la sua dottrina: erano gli eretici, gli scismatici, e tutti quelli che prevedeva sarebbero sorti nel corso dei secoli ed avrebbero tentato di rapire e corrompere il deposito della fede. Miei cari! ponetevi bene nell’animo queste verità: finché dura il presente stato di prova (e durerà fino alla fine dei tempi), durerà altresì la lotta tra il bene ed il male, tra il vizio e la virtù, tra la dottrina di Gesù Cristo e le massime false del mondo. Come l’ombra segue sempre il corpo e la malattia cammina a fianco della sanità, pronta ad assalirla, così accanto alla verità sta sempre l’errore, e mescolati con i maestri del Vangelo, si vedono sempre i suoi corruttori. Vi fu mai tempo, o paese sì privilegiato, che ne fossero al tutto immuni? No: con il buon grano più o meno crescono le male erbe, con il frumento si vede la paglia e con i maestri della verità sono frammisti i maestri dell’errore, i falsi profeti. Ed oggidì, che vediamo noi? Forse non mai nei passati tempi si videro tanti maestri d’errori, tanti e sì scaltri seduttori, quanti ne vediamo nel nostro. Essi spargono il veleno delle loro massime nei libri, nelle figure, a voce, in iscritto, in pubblico, in privato, nelle scuole, nelle adunanze e nelle conversazioni, in tutti i modi, liberamente!… Oh quanti maestri d’errore sono sparsi dovunque! Quanto veleno di dottrine false e di corruzione si versa dovunque, a piene mani, impunemente con rovina estrema di innumerevoli anime! La terra tutta ne è inondata. Che possiamo far noi, ministri della Chiesa? Noi non possiamo far altro che ripetere a voi tutti il grido doloroso di Gesù Cristo: “Guardatevi, guardatevi dai falsi profeti; „ ma specialmente poi da quelli “che vengono in sembianze di pecore e dentro sono lupi rapaci. „ – I maestri dell’errore si possono partire in due classi: quelli che scopertamente insegnano l’errore e si studiano di corrompere i costumi, e quelli che lo fanno copertamente. Ciascun vede che, se sono pericolosi e da fuggirsi i primi, lo sono maggiormente i secondi, perché con questi siamo meno cauti e più facilmente possiamo essere vittime delle loro insidie. Tali sono, o cari, certi libri, che nascondono il veleno di dottrine irreligiose e corruttrici; certi romanzi, che accendono il fuoco di laide passioni senza averne l’apparenza; tali sono certi maestri, che si danno l’aria di rispettare la religione, perché non ne parlano mai, perché si atteggiano ad indifferenti, perché lasciano altrui la piena libertà di praticarla, come se questa indifferenza non fosse per se stessa un’offesa alla Religione. E non offende gravemente i genitori quel figlio, che tratta con essi come con gli estranei, che non adempie con essi i suoi più sacri doveri? “Guardatevi dai falsi profeti, dice Cristo, e specialmente da quelli che si coprono della pelle di pecora e sono lupi rapaci. „ Guardatevi! E che dobbiamo fare per adempire questo precetto imposto da Cristo e che ha la sua radice nella natura stessa, giacché la stessa natura ci obbliga a scansare ogni pericolo di male che ci minacci, e pericolo di male gravissimo è senza dubbio il vivere in mezzo ai falsi profeti? Dobbiamo uscire da questo mondo? Dobbiamo separarci da ogni convivenza sociale? Rinunciare ai nostri uffici? Ridurci nella solitudine d’un chiostro? No, non si esige tanto. Varie sono le condizioni nelle quali ciascuno di noi si può trovare e vari i pericoli, che possiamo correre in questo mondo pieno di scandali e di errori. Faccia ciascuno del suo meglio per sfuggire a questi scandali, per cessare questi errori, e quando non è in poter suo cessare i pericoli e chiudere le orecchie ai falsi profeti, quali che essi siano, preghi fervidamente Iddio, confidi in Lui, ed Egli non permetterà mai che sia messo a prova superiore alle sue forze. “Guardatevi dai falsi profeti! „ Sì, o Signore, noi ce ne guarderemo, come voi comandate e come richiede la carità che dobbiamo a noi stessi. Ma come conoscerli con sicurezza, se Voi stesso dite che si possono nascondere sotto la pelle di pecora? Qual segno ci date per distinguerli? Udite la risposta del divino Maestro : “Voi li riconoscerete dai loro frutti. Forse si colgono le uve dalle spine, o i fichi dai triboli? Così ogni albero buono porta buoni frutti, ma l’albero tristo dà tristi frutti. „ Il segno per distinguere i maestri di verità dai maestri d’errore, per sentenza di Cristo, è guardare ai frutti, alle opere: se queste son buone, buono è il maestro; se cattive, cattivo è il maestro e non ascoltatelo. Questa regola dataci da Gesù Cristo non è immune da alcune difficoltà, che è prezzo dell’opera esaminare e sciogliere. Gesù Cristo, al principio di questo capitolo dice: ” Non vogliate giudicare affinché non siate giudicati, „ ed è sentenza ripetuta dall’Apostolo Paolo e scaturisce dal sentimento della nostra debolezza ed ignoranza e più ancora dalla legge della carità, la quale non vuole che apriamo l’animo nostro ad alcun sospetto sinistro che offenda il prossimo; come va dunque che in questo luogo, Gesù comanda di scrutare bene la condotta di chi annunzia la parola di Dio, e vedere se le loro opere siano conformi alla loro dottrina? Non è questo un dubitare della loro condotta? Non è questo un costituirci loro giudici contro la sentenza di Gesù Cristo stesso, che proclamò: “Non vogliate giudicare affinché non siate giudicati? „ Per fermo Gesù Cristo non può in questo luogo comandare ciò che vieta più sopra in questo stesso capo. Noi non dobbiamo mai giudicare il prossimo e nemmeno dubitare della sua onestà e bontà, quando non abbiamo motivo ragionevole di ciò fare, come senza motivo ragionevole non possiamo né correggerlo, né fuggire la sua compagnia; ma allorché si tratta di conoscere se questi è maestro di verità o maestro d’errore, e per conseguenza si tratta di cosa gravissima, che interessa la mia salute eterna, non solo posso, ma devo esaminare ed investigare accuratamente e giudicare se mi sia lecito od illecito porgergli orecchio. La carità che devo avere con altri e verso di me giustifica pienamente il mio giudizio, e sarei imprudente e colpevole se non lo facessi. Se in questi casi io non avessi il diritto di mettere alla prova dei fatti la dottrina che mi si annunzia, io sarei obbligato di credere a chiunque mi si presenti e mi dichiari che mi annunzia la verità, e diventerei necessariamente la vittima di qualunque apostolo di errore. A che mi varrebbe la ragione datami da Dio se non l’adoperassi per conoscere la verità ed abbracciarla, per conoscere l’errore e respingerlo? Dunque io non offendo la carità, anzi rendo omaggio alla carità quando, per amore della verità, sottopongo alla prova della ragione i titoli che un uomo mi mette innanzi per ottenere il mio assenso. – Ben è vero poi, o cari, che questo giudizio nostro vuol essere fatto con prudenza, con discernimento, chiedendo lume a chi per senno ed autorità spetta darcelo e può guidarci al conoscimento della verità. Dove l’autorità legittima ha pronunciato il suo giudizio, noi possiamo e dobbiamo ad esso acquetarci; ma prima del suo giudizio è forza seguire quello della nostra ragione e porre ogni studio affinché esso sia retto. Un’altra difficoltà, e certo non spregevole, ci si fa innanzi a proposito di questa regola dataci da Gesù Cristo, per discernere i maestri di verità dai maestri d’errore: “Voi li riconoscerete dai loro frutti, „ cioè la loro vita, le loro opere saranno la prova della dottrina che insegnano. “Forseché, direte, i ministri della Religione sono impeccabili? Gesù Cristo non disse forse, accennando ai maestri d’Israele: Fate quel che vi dicono, non ciò che essi fanno? Con queste parole ci fece intendere, che talvolta gli uomini possono tenere una condotta che contraddice alla verità, che insegnano. E noi stessi non vediamo talora la vita e le opere dei sacri ministri condannate dalla dottrina che predicano? E non conosciamo persone, che vivono onestamente ed hanno voltate le spalle al Vangelo di Gesù Cristo e lo combattono? Come dunque il Salvatore può dirci: Volete conoscere la verità d’una dottrina? Guardate alle opere di coloro che la promulgano: se le loro opere sono buone, buona è la dottrina; se cattive, cattiva altresì è la dottrina, “perché l’albero buono dà buoni frutti, e l’albero cattivo fa cattivi frutti. „ Guai a noi se le opere dei sacri ministri fossero sempre il criterio sicuro ed infallibile della verità della dottrina per loro insegnata! Come dunque è da intendere questa regola evangelica proposta da Gesù Cristo istesso? Questa regola non si vuole applicare costantemente a tutti ed a ciascun maestro: se così fosse, sarebbe fallace ed erronea, perché  è manifesto che un cattivo ministro può annunziare le più sante verità, come Caifa fu profeta, eppure consigliò di uccidere Cristo, anzi pronunciò solennemente contro di Lui la sentenza di morte, e un ministro dell’errore può avere una condotta morale buona, un miscredente può esercitare alcune virtù talvolta meglio di certi credenti. Gesù Cristo adunque ci dà questa regola per discernere i veri dai falsi profeti, non in modo assoluto, ma generale, utile e buona nel maggior numero dei casi. Così noi pure diciamo: Non fidatevi degli adulatori ; né delle persone che parlano molto: vi tradiranno. Noi non intendiamo di dire che gli adulatori e le persone che parlano molto, tradiscano sempre e tutti, ma vogliamo dire soltanto che spesso tradiranno e non conviene fidarci di loro. Similmente Cristo volle dire: Guardatevi dai falsi profeti: voi li riconoscerete generalmente dalle opere loro, perché per lo più chi opera male insegna anche male, e il frutto mostra la qualità dell’albero. Considerando attentamente le parole di Cristo, penso che si possano intendere in un altro senso anche più chiaro e più conforme al contesto evangelico. Volete voi conoscere la bontà d’una dottrina qualunque? Guardate, non alla condotta di chi l’annunzia, ma alle conseguenze ed alle applicazioni pratiche della dottrina stessa. Vi sono certe dottrine che per se stesse producono frutti di sì rea e sì maligna natura, da farvene conoscere prontamente la falsità senza bisogno di lungo studio e di profondo esame. Per ragion d’esempio vi dicono: — Bisogna seguire gli istinti tutti della natura per essere felici: dopo la vita, presente non c’è più nulla, perché tutto finisce nel cimitero: tutte le religioni sono egualmente buone: ciascuno ha diritto di pensare e fare come gli piace, ed il proprio vantaggio è l’unica norma che devesi seguire: per salvarsi basta la sola fede senza le opere: l’uomo non ha libertà e tutto ciò che fa, lo fa necessariamente. — Voi comprendete tosto col solo lume della ragione, che codeste dottrine messe in pratica devono produrre i frutti più tristi per se stesse: non avete bisogno d’altre prove per giudicare falsi profeti quelli che le spacciano, e fuggirli a tutto potere. Come l’albero cattivo non può dare che frutti cattivi, così codesti maestri e codeste dottrine non possono dare che opere cattive. Carissimi! che giova dissimularlo? Al giorno d’oggi troppo spesso ci avviene di leggere sui libri e sui pubblici diari, o di udire nelle conversazioni, nei ritrovi, o dalle cattedre del pubblico insegnamento dottrine, che applicate distruggerebbero ogni idea di morale, di giustizia, di vizio o di virtù, di bene o di male, di vero o di falso, e rovescerebbero dalla base non solo ogni religione, ma l’ordine stesso domestico e sociale. Ebbene: voi, al solo leggere od udire siffatte dottrine, sapete qual giudizio sia da farne. I frutti che esse producono nell’individuo e nella società sarebbero malefici e fatali: dunque via queste dottrine e lungi da coloro che le diffondono: essi sono falsi profeti; le opere loro abbastanza li manifestano: Ex fructibus eorum cognoscetis eos. Cattivi i frutti, dunque cattivi anche gli alberi: Mala arbor malos fructus facit. Che farà Iddio di questi alberi cattivi, che non danno che frutti cattivi? Ciò che fa il contadino degli alberi che non danno frutti, o li danno bacati, acerbi, disgustosi, cattivi: li taglia, li sbarbica dal suolo, che inutilmente ingombrano, e li getta sul fuoco. Così Iddio: Egli, alla morte, getterà questi miserabili seminatori di dottrine perverse, pascolo alle fiamme eterne: Omnis arbor, quæ non facit fructum bonum: excìdetur et in ignem mittetur. Chiosando questa sentenza terribile, Gesù Cristo pronuncia un’altra sentenza gravissima, con la quale si chiude la nostra omelia: “Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio, che è ne’ cieli, quegli entrerà nel regno de’ cieli. „ Egli ha parlato di albero buono e di albero cattivo, di frutti buoni e di frutti cattivi, e che da questi si conosce la natura e la qualità dell’albero: ha detto che l’albero senza frutti buoni sarà inesorabilmente gettato pasto alle fiamme: ora Gesù Cristo insiste sulla necessità dei frutti, ossia delle opere buone, e queste si riducono a fare il volere divino, in altri termini, all’osservanza della legge divina. Allora, come anche al presente, vi erano molti, i quali praticamente mostravano di ridurre la religione alla fede, poco o nulla curando le opere, come se queste non fossero necessarie non meno della fede. Invocar Dio, recarsi al tempio, adempire le pratiche materiali della religione, offrire sacrifici, fare lunghe orazioni, prostrarsi dinanzi alla sua maestà e gridare : Signore, Signore; ecco la loro religione. Quanto poi alla mondezza del cuore, all’umiltà dello spirito, all’osservanza della giustizia, alla mortificazione delle passioni, all’amore del prossimo, in una parola, alle opere nelle quali si attua la vera Religione, non se ne davano pensiero: onoravano Dio, così Cristo nel Vangelo, con le labbra, ma il loro cuore era lontano da Dio. Ah! tutti costoro, grida il divino Maestro, non entreranno nel regno dei cieli. – Dilettissimi! io non vorrei che anche tra voi si trovasse qualcuno, al quale si potesse rivolgere il rimprovero e la minaccia di Cristo. Buone e sante cose sono frequentare la Chiesa, pregare, far pellegrinaggi ed osservare altre pratiche religiose; ma badate bene di non ingannarvi: queste sole non bastano: si domandano le opere della carità, la purezza del cuore, la vittoria delle nostre passioni, in una parola, la vita cristiana. Senza di questa, tutto il resto è apparenza, è pula che si porta via il vento, è fogliame lussureggiante, che non salverà l’albero, che se ne ammanta, dalla condanna al fuoco eterno.

Credo …

Offertorium

Orémus Dan III:40

“Sicut in holocáustis aríetum et taurórum, et sicut in mílibus agnórum pínguium: sic fiat sacrifícium nostrum in conspéctu tuo hódie, ut pláceat tibi: quia non est confúsio confidéntibus in te, Dómine”. [Il nostro sacrificio, o Signore, Ti torni oggi gradito come l’olocausto di arieti, di tori e di migliaia di pingui agnelli; perché non vi è confusione per quelli che confidano in Te.]

Secreta

Deus, qui legálium differéntiam hostiárum unius sacrifícii perfectione sanxísti: accipe sacrifícium a devótis tibi fámulis, et pari benedictióne, sicut múnera Abel, sanctífica; ut, quod sínguli obtulérunt ad majestátis tuæ honórem, cunctis profíciat ad salútem. [O Dio, che hai perfezionato i molti sacrifici dell’antica legge con l’istituzione del solo sacrificio, gradisci l’offerta dei tuoi servi devoti e benedicila non meno che i doni di Abele; affinché, ciò che i singoli offrono in tuo onore, a tutti giovi a salvezza.]

Communio Ps XXX:3. Inclína aurem tuam, accélera, ut erípias me. [Porgi a me il tuo orecchio, e affrettati a liberarmi.]

Postcommunio

Orémus. Tua nos, Dómine, medicinális operátio, et a nostris perversitátibus cleménter expédiat, et ad ea, quæ sunt recta, perdúcat. [O Signore, l’opera medicinale (del tuo sacramento), ci liberi misericordiosamente dalle nostre perversità e ci conduca a tutto ciò che è retto.]

 

LO SCUDO DELLA FEDE (XVIII)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XVIII.

LA SANTISSIMA TRINITÀ.

È il più. profondo dei misteri. — In che consista. — La divina fecondità. — Le divine processioni. — Tre persone e un solo Dio. — Ciò è mistero, ma non assurdo.

— La fede cattolica insegna che Dio è uno e trino ad un tempo. Di questo mistero della Trinità non capisco proprio niente.

Sì, caro mio, la fede cattolica, in conformità a quello che Iddio ha lasciato scorgere ai profeti dell’antica legge e a quello che ha pienamente rivelato Gesù Cristo, ci insegna il mistero della santissima Trinità. Ed io ti avverto subito che questo mistero, il quale si può chiamare il fondamento di nostra santa Religione, è il più profondo dei misteri, che con la sola ragione non si può dimostrare, che anzi la mente umana non avrebbe mai potuto concepire, se Iddio non ce lo avesse rivelato. Basti il dire che S. Agostino col suo ingegno penetrante ed acutissimo lo fece oggetto di lunghissimi studi, senza speranza tuttavia di riuscire neppure a squarciare il gran velo che lo avvolge. – Io credo che tu sappia bene quel che si narra di lui in proposito. Un dì passeggiando sulla riva del mare, vide un fanciullo che, fatto un piccolo incavo nella sabbia, vi trasportava a cucchiaiate l’acqua e gli domandò che cosa voleva fare. Il fanciullo gli rispose che intendeva di mettere in quell’incavo tutta l’acqua del mare. S. Agostino sorrise e disse tosto al fanciullo che ciò era impossibile. Ma il fanciullo che era un Angelo del cielo, si fe’ tosto a soggiungergli: che era più facile far stare tutta l’acqua del mare in quell’incavo, che capire, come egli pretendeva, il mistero della Santissima Trinità.

— Dunque di questo mistero colla nostra ragione non possiamo farci alcuna idea?

Io non ho detto questo, e questo non è. Conla nostra ragione non possiamo né dimostrare, né conoscere questo mistero; tuttavia dopo che ci è stato rivelato e noi l’abbiamo appreso per fede, possiamo con la ragione, e specialmente per modo di analogia, formarcene un’idea come fecero appunto i più grandi geni del Cristianesimo.

— Allora amerei che mi dicesse anzitutto in che cosa propriamente consiste questo mistero.

Te lo dirò, ma tu acuisci la tua intelligenza. Ecco: il mistero della Santissima Trinità consiste in ciò che in un solo Dio vi sono tre Persone: Padre, Figliuolo e Spirito Santo, che ogni Persona è vero Dio, e non sono tuttavia tre dèi, che ogni Persona è realmente distinta dalle altre due, che queste tre Persone hanno relazioni tra di loro, un nome particolare, ed anche un ordine, per cui una è la prima, l’altra la seconda, l’altra la terza, che intanto sono tutte e tre uguali in perfezione e tutte e tre eterne.

— Ma per quale ragione tutte queste tre Persone divine si chiamano coi nomi di Padre Figlio e Spirito Santo?

Noi diamo il nome di padre a chi genera dei figli comunicando loro la sua stessa natura; diamo il nome di figlio a chi ha ricevuto con la esistenza la stessa natura o sostanza del padre, da cui si distingue; e diamo il nome di spirito o di alito, a ciò che emana da una persona o più persone, ed è da essa distinto. Or bene la prima Persona della Santissima Trinità si chiama Padre, perché esistendo da se stesso da tutta l’eternità, non essendo stato né creato, né generato da alcuno, genera da tutta l’eternità la seconda Persona, alla quale perciò diamo il nome di Figliuolo. E la terza Persona poi si chiama Spirito Santo perché da tutta l’eternità è prodotto dal Padre e dal Figliuolo, ossia emana, procede da essi, e da essi si distingue. Come vedi adunque le Persone della Santissima Trinità sono chiamate con i nomi di Padre, Figlio e Spirito Santo per l’analogia o somiglianza, che la nostra mente scorge tra i vicendevoli rapporti esistenti fra di esse, e il significato che questi tre vocaboli hanno nell’uso nostro comune di parlare.

— E come mai Iddio Padre genera un Figliuolo?

Vedi; ogni essere vivente su questa terra sia pure dotato di un sol fil di vita, possiede la fecondità, quella forza per cui riproduce degli altri esseri della sua stessa natura e della sua stessa specie. E così l’uccello riproduce l’uccello, il pesce il pesce, l’insetto l’insetto, la pianta la pianta, e l’uccello aquila riproduce uccelli aquile, il pesce spada pesci spada, l’insetto zanzara insetti zanzare, la pianta pesco piante peschi; insomma ogni generante riproduce esseri a sé uguali, non superiori, non inferiori, ma della stessa natura e specie, per guisa che il generato è come la continuazione del generatore e forma con esso una sola cosa. Ora questa fecondità, questa forza meravigliosa di riprodursi, che vi ha in tutti gli esseri viventi, da chi viene? Se tu dici dalla natura, ed io ti domanderò da chi l’ha ricevuta la natura e tu dovrai finire per rispondermi che l’ha ricevuta da Dio. Se Dio adunque è in fondo in fondo la causa della fecondità, che esiste in tutti gli essere viventi, e se l’effetto è necessariamente precontenuto, e con la massima perfezione, nella sua causa, bisogna conchiudere che anche Iddio è fecondo, che anch’Egli deve essere Padre, dal quale secondo la frase di S. Paolo, proviene ogni paternità in cielo e in terra (V. Lettera agli Efesini, capo III, versetto 15).

— Ma se Dio è fecondo, se Egli deve essere padre, perché non genera molti figliuoli, ma un solo?

La tua domanda è giustissima. Ed io ti rispondo che Dio Padre non può generare che un unico Figlio, perché essendo Egli essere infinito, nell’atto di generare spiega tutta quanta la sua attività infinita, e spiegando tutta la sua attività infinita deve naturalmente produrre la sua immagine perfetta, che non può essere che una sola, ed è l’unico Figliuolo di Dio.

— Dunque che il Padre generi il Figliuolo è una necessità?

Senza dubbio. Il Padre, sebbene con infinito gaudio della sua volontà generi il Figlio, tuttavia non può far a meno di generarlo, come pure è una necessità che Padre e Figlio producano lo Spirito Santo.

— E come avviene ciò?

Non so se arriverai bene a capirlo. Te lo dirò nondimeno nei termini più chiari e precisi. Il Padre conoscendo perfettamente sé medesimo deve formare nello stesso tempo una immagine perfettissima di sé, e questa immagine siccome origina dalla intelligenza ossia dalla conoscenza, che il Padre ha di se stesso, perciò si chiama il Verbo, ossia la sua parola, il suo pensiero. Questo Verbo, che è generato per tal guisa dalla intelligenza del Padre è il Figliuolo. Siccome poi il Padre, vedendo il suo Figliuolo, in tutto perfettissimo al pari di lui, con la sua volontà sentesi indotto ad amarlo, e il Figliuolo vedendo il suo Padre sentesi indotto ad amare Lui, amandosi vicendevolmente spirano l’uno verso l’altro un soffio di amore, che è infinito al pari delle due Persone, da cui procede. E questo amore distinto dalle due Persone,  che lo producono, forma la terza Persona, ossia lo Spirito Santo. Per tal modo si compiono nell’Essere divino due processioni interne: l’una, quella con cui il Figlio è generato dal Padre, per modo d’intelletto, l’altra, quella per cui lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio per modo di amore. Perciò il Padre si chiama anche Genitore, il Figliuolo Unigenito, lo Spirito Santo Procedente, come si canta nella seconda strofa del Tantum ergo.

— E questi nomi di Padre, Figliuolo e Spirito Santo li ha inventati la Chiesa?

No, essi ci furono appresi dallo stesso Gesù Cristo, quando prima di ascendere al cielo comandò agli Apostoli di battezzare tutti gli uomini « nel nome del Padre, del Figliuolo e dello Spirito Santo (Vedi Vangelo di S. Matteo, capo XXVIII, versetto 19).

— Ma se queste tre Persone sono distinte fra di loro, non si può forse dividere la loro natura in tre parti e riguardarle come tre divinità?

No, ciò non è possibile. Tutte e tre le Persone divine, benché distinte fra di loro, vale a dire non confuse l’ima con l’altra, ma aventi ciascuna una personalità ben determinata, hanno tutte e tre una stessa indivisibile essenza e natura, cioè un’essenza e natura che non si può dividere in parte, perché semplicissima, cioè non composta di parti. Perciò essendo noi ammaestrati dalla fede che vi sono tre Persone divine, cioè tre soggetti, a cui questa essenza e natura appartiene come propria, ne viene di conseguenza, che essa è tutta nel Padre, tutta nel Figlio, tutta nello Spirito Santo. E quindi il Padre è vero Dio, il Figliuolo è vero Dio, cioè lo stesso Dio che il Padre, lo Spirito Santo è vero Dio e precisamente lo stesso Dio che il Padre ed il Figliuolo, ragione per cui la essenza e natura divina non si può dividere, né le tre Persone divine possono formare tre divinità. Se vuoi farti una qualche idea di ciò guarda il sole. Da esso viene la luce e il calore. E sebbene il sole, la luce e il calore siano tre cose distinte, tuttavia non formano che una cosa sola.

— Dunque le tre Persone divine sono tutte e tre uguali nelle loro perfezioni?

Certissimamente: hanno la stessa sapienza, la stessa bontà, vivono con la stessa vita, conoscono con l’istesso intelletto, vogliono con la stessa volontà, operano con la stessa onnipotenza, e non vi ha in nessuna di esse il menomo grado di superiorità od inferiorità alle altre. E la ragione di ciò è sempre la stessa, che cioè hanno la medesima natura e sostanza divina, e benché tre Persone distinte non sono che un solo Dio.

— Mi sembra però un assurdo questo mistero della Santissima Trinità.

Se parli così è segno che hai capito ancor poco di quanto ti ho detto. L’assurdo implica contraddizione nei termini, come se tu dicessi che un oggetto è nero e bianco ad un tempo. Ma quale contraddizione vi ha nei termini esprimenti il mistero della Santissima Trinità? Se si dicesse che Dio è uno e nel medesimo tempo è tre divinità, allora sì, in ciò vi sarebbe l’assurdo. L’uno non è tre, come tre non è uno. Ma è così che si dice? No affatto. Si dice che vi è una sola essenza e natura divina e che vi sono tre Persone aventi la stessa essenza e natura: così che l’uno si riferisce alla natura, il tre alle Persone, e natura e persona non sono due concetti identici. Certo è misterioso che la natura divina sia una sola e senza dividersi o moltiplicarsi si trovi tutta in tre Persone. Ma appunto perché la mente umana non vede nulla di questo mistero non è autorizzata a gridare all’assurdo. Del resto si sarebbe per dire che il Signore ha disseminato in tutta quanta la creazione le vestigia di questo mistero. « Gli angeli, dice il Monsabrè, il tempo, lo spazio, l’universo, i corpi, il movimento, i regni della natura, gli astri, la vita, la nostra carne, la nostra anima, le nostre operazioni intellettuali, le nostre famiglie ne portano l’impronta ». Difatti il mondo angelico ha tre gerarchie, ed ogni gerarchia ha tre cori; il tempo si compone di oggi, ieri e domani, di presente, passato e futuro; lo spazio ha tre dimensioni, lunghezza, larghezza e profondità; la materia ha tre stati, solido, liquido e gazoso; il mondo terrestre ha tre regni, minerale, vegetale, animale; l’uomo possiede tre vite, la vegetativa, la sensitiva, la razionale; nell’anima sono tre facoltà, la memoria, l’intelligenza e la volontà; la famiglia si compie in tre persone, padre, madre e figlio ecc ».

— Queste cose sono bellissime e adombrano assai bene il gran mistero della Trinità.