DOMENICA IV dopo PENTECOSTE (2018)

DOMENICA IV dopo PENTECOSTE

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Ps XXVI:1; XXVI:2 Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timebo? Dóminus defensor vitæ meæ, a quo trepidábo? qui tríbulant me inimíci mei, ipsi infirmáti sunt, et cecidérunt. [Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò? Il Signore è baluardo della mia vita, cosa temerò? Questi miei nemici che mi perséguitano, essi stessi vacillano e stramazzano.] Ps XXVI:3

Si consístant advérsum me castra: non timébit cor meum. [Se anche un esercito si schierasse contro di me: non temerà il mio cuore.]

Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timebo? Dóminus defensor vitæ meæ, a quo trepidábo? qui tríbulant me inimíci mei, ipsi infirmáti sunt, et cecidérunt. [Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò? Il Signore è baluardo della mia vita, cosa temerò? Questi miei nemici che mi perséguitano, essi stessi vacillano e stramazzano.]

Oratio

Orémus.

Da nobis, quæsumus, Dómine: ut et mundi cursus pacífice nobis tuo órdine dirigátur; et Ecclésia tua tranquílla devotióne lætétur. [Concedici, Te ne preghiamo, o Signore, che le vicende del mondo, per tua disposizione, si svolgano per noi pacificamente, e la tua Chiesa possa allietarsi d’una tranquilla devozione.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Romános.

Rom VIII:18-23. Fratres: Exístimo, quod non sunt condígnæ passiónes hujus témporis ad futúram glóriam, quæ revelábitur in nobis. Nam exspectátio creatúræ revelatiónem filiórum Dei exspéctat. Vanitáti enim creatúra subjécta est, non volens, sed propter eum, qui subjécit eam in spe: quia et ipsa creatúra liberábitur a servitúte corruptiónis, in libertátem glóriæ filiórum Dei. Scimus enim, quod omnis creatúra ingemíscit et párturit usque adhuc. Non solum autem illa, sed et nos ipsi primítias spíritus habéntes: et ipsi intra nos gémimus, adoptiónem filiórum Dei exspectántes, redemptiónem córporis nostri: in Christo Jesu, Dómino nostro.

Omelia I

[Mons. G. Bonomelli, “Nuovo saggio di OMELIE per tutto l’anno”, Vol. III, Marietti ed. Torino 1899 –imprim.]- Om. IX.

“Tengo per certo, che le sofferenze del tempo presente non hanno punto proporzione con la gloria che sarà manifestata in noi. Perché la stessa creatura irragionevole aspetta ansiosamente la manifestazione dei figliuoli di Dio: perché la stessa creatura suo malgrado fu sottomessa alla vanità da colui che ad essa l’ha sottoposta nella speranza. Perché anch’essa creatura sarà affrancata dalla servitù della corruzione e messa nella libertà gloriosa dei figliuoli di Dio. Sappiamo difatti, che fino ad ora ogni creatura geme ed è in travaglio quasi di parto. Né solamente essa, ma noi ancora, che abbiamo le primizie dello spirito e gemiamo in noi stessi, anelando all’adozione a figliuoli di Dio, alla redenzione del nostro corpo „ (Ad Rom. VIII, 18) – Paolo ci lasciò quattordici lettere e prima di tutte nella Scrittura è posta quella ai Romani, dalla quale sono tolti i pochi versetti, che avete uditi e che si leggono nella Messa odierna. Questa tiene meritamente il primo posto tra le lettere di S. Paolo, non già perché sia stata scritta prima delle altre, ma perché è indirizzata alla Chiesa di Roma, madre di tutte le altre Chiese, sede del Primato, ed anche perché è la più lunga e per ragione della dottrina dogmatica in essa sviluppata sopra le altre importantissima. Questa lettera fu scritta da S. Paolo in Corinto, allorché era sulle mosse per Gerusalemme, l’anno 58, al più tardi, il 59 dell’era nostra. – Il tratto che devo chiosare si legge nel capo ottavo della lettera, ed è una miniera d’altissime verità teoriche e pratiche. L’Apostolo comincia il capo, toccando la felice condizione dei rigenerati in Cristo, e afferma ch’essi sono sciolti dalla legge del peccato; poi accenna alla misera condizione di coloro che vivono secondando la carne. Insegna che nei rigenerati in Cristo abita lo Spirito Santo, come devono seguirne la legge e come nell’intimo della coscienza abbiano la testimonianza d’esser figli di Dio. A quali condizioni potranno riceverne la mercede? A condizione di patire con Cristo; soffrendo con Lui, con Lui saranno anche glorificati. E qui comincia la lezione che devo spiegare. – « Tengo per certo, che le sofferenze del tempo presente non hanno proporzione con la gloria, che sarà manifestata in noi. „ È questa una verità, che troviamo, starei per dire, ad ogni pagina nelle lettere dell’Apostolo, ma che pure non è mai abbastanza ripetuta, perché di questa abbiamo bisogno continuo. La nostra vita quaggiù è una serie di afflizioni interne ed esterne raramente interrotte: il fardello del dolore ci sta sempre sulle spalle e l’ombra della croce ci segue dovunque. Ora in mezzo a tante tribolazioni, a tanti e sì crudeli affanni, che ci accompagnano nel cammino della vita, la verità più consolante, che possiamo avere, è questa: “Siamo certi, che le sofferenze del tempo presente non hanno proporzione colla gloria, che sarà manifestata in noi” —. Quali sofferenze? Forse quelle soltanto che ci vengono direttamente dal professare la fede di Gesù Cristo e dalla osservanza fedele dei suoi precetti? Indubbiamente queste ci meritano la gloria divina; ma l’Apostolo non parla di queste solamente, ma di tutte le sofferenze della presente vita: Hujus temporis —, come sono quelle del lavoro, delle infermità, dell’inclemenza delle stagioni, dei timori, delle contraddizioni, della povertà e andate discorrendo; anche queste, quantunque comuni a tutti gli uomini, patite con spirito di fede, per amore di Gesù Cristo, ci fruttano per il cielo. Quale conforto il cristiano può attingere in questo insegnamento di S. Paolo! Egli può e deve dire a se stesso: io soffro, ma il mio soffrire è seme che frutterà il godere e godere eterno; tra il soffrire presente e il godere futuro non vi è proporzione alcuna; il soffrire lieve, immenso il godere; il soffrire è breve, pochi giorni, pochi anni; il godere interminabile; la ricompensa, Dio stesso. Io affido alla terra un granellino, che l’occhio appena discerne; questo, dopo alcuni giorni, qualche mese o qualche anno, mi dà un fiore bello a vedersi, soave a odorarsi, un albero che curva i rami sotto il peso dei suoi frutti moltiplicati. Ecco l’immagine del mio soffrire quaggiù sulla terra e del mio godere su in cielo. Questo pensiero deve essere un balsamo versato sulle ferite del mio povero cuore e deve mitigarne e raddolcirne il dolore, come la speranza della messe copiosa rallegra il contadino, che suda sull’aratro e sparge la semente nel solco aperto. – S. Paolo dice: “Tengo per certo „ existimo che le sofferenze presenti mi daranno una gloria senza confronto maggiore del merito. „ Quale certezza abbiamo noi di ricevere il premio del nostro patire? La nostra certezza non è, né può essere di fede, perché la Chiesa ha definito contro gli eretici, che nessun cristiano, senza una speciale rivelazione, può essere certo di fede d’aver ottenuto la grazia, senza la quale non si può ottenere la vita eterna (Conc. di Trento, sess. VI, can. XIII, XLI); ma la nostra certezza può essere una certezza umana, che viene dalla coscienza di adempiere i propri doveri, di fare ciò che possiamo per pacere a Dio, per fuggire il peccato, simile a quella certezza che abbiamo d’essere amati dall’amico, dal padre, dalla madre, ai quali ci studiamo di mostrarci fedeli e ubbidienti. Questa gloria, che deve essere il frutto delle presenti sofferenze, sarà manifestata in noi, dice l’Apostolo, e a ragione. La gloria e la gioia, che avremo in cielo, non è altra cosa che la esplicazione e la fioritura della grazia, che possediamo sulla terra, come i fiori ed i frutti dell’albero non sono che la esplicazione e la fioritura di quel piccolo seme che avete affidato alla terra; ondeché, possedendo la grazia, possediamo in potenza o in germe la gloria, e soffrendo in pace i dolori della vita, portiamo in noi stessi la gioia, che un dì sgorgherà dal fondo dell’anima nostra: Revelabitur in nobis. – Poiché noi tutti siamo fatti per la felicità e ad essa tendiamo necessariamente, come la pietra tende al suo centro, ne conseguita che i nostri cuori con ardente brama sospirano questa ricompensa delle nostre sofferenze e la gloria onde saremo vestiti. – Ma vi è di più, continua l’Apostolo: non pure noi, noi esseri deboli di ragione, sollevati e mossi dalla grazia aspettiamo col desiderio più acceso questa futura trasformazione, “ma la stessa natura irrazionale aspetta con ansia che siano manifestati i figliuoli di Dio, „ ossia che apparisca il giorno della loro manifestazione o gloria celeste. – Che è dessa quella creatura, che dicesi aspettare con ansia la rivelazione? Alcuni vi ravvisarono indicati gli Angeli, ma a torto: perché questa creatura la si dice tosto nel versetto seguente soggetta alla vanità, e per fermo gli Angeli non possono essere soggetti alla vanità. D’altra parte non possono essere gli uomini giusti, perché si dice, che questa creatura aspetta la rivelazione dei figli di Dio, cioè dei giusti, onde è manifesto che la creatura che aspetta non si può confondere coi giusti: non possono essere nemmeno i tristi o peccatori, perché questi né aspettano, né possono aspettare questa rivelazione, che non conoscono, disprezzano od odiano. Resta dunque che quella parola creatura significhi la natura tutta irragionevole, ossia l’universo. S. Paolo, uomo orientale e nutrito nello studio dei Profeti, con un volo arditissimo di fantasia, ci rappresenta non solo le anime cristiane, ma le creature tutte anche irragionevoli, che si uniscono a quelle in desiderare ardentemente il compimento della speranza mercé la manifestazione della gloria eterna. Ma come mai e perché la natura irragionevole può unirsi alle anime credenti in questo affocato desiderio della futura trasformazione? Questo modo di parlare è veramente poetico, attribuendo l’aspettazione ansiosa a esseri destituiti di ragione e di volontà e perciò incapaci di desiderio; ma vi si nasconde un senso profondo, che mi studierò di spiegare alla meglio. Tutte le cose materiali sono create per l’uomo e debbono servire a lui in tutti i modi, e in gran parte per via di evoluzioni meravigliose e perenni debbono entrare nell’organismo dell’uomo stesso, diventare successivamente parte del suo corpo ed essere assunte all’altissimo onore di strumento del suo pensiero e della sua volontà. Il perché tutte le creature materiali, a nostro modo di dire, aspirano alla loro unione con l’uomo, perché in esso e con esso si nobilitano, partecipano alla sua vita fisica e spirituale e sentono che la loro sorte è legata indissolubilmente alla sorte dell’uomo. Ecco perché tutte queste creature irragionevoli, a loro modo anch’esse, come formanti il corteggio, l’appendice dell’uomo, formanti anzi qualche parte dell’uomo insieme con lui sospirano che venga il giorno dell’umana trasformazione e risplenda agli occhi di tutti la gloria degli eletti e dei figli di Dio. E qui S. Paolo sviluppa più ampiamente il suo pensiero. Seguitiamolo. “La stessa creatura è soggetta alla vanità. „ Tutte le creature, che esistono sulla terra che direttamente o indirettamente servono l’uomo, giusta il volere del Creatore, nell’ordine presente, subiscono incessanti trasformazioni ed alterazioni: ora passano dalla natura in organica all’organica vegetale od animale e fino all’umana e poi ritornano all’inorganica. Osservate ciò che avviene intorno a noi e nel nostro corpo e troverete un movimento incessante, un farsi e disfarsi perpetuo delle creature, or lento, or rapido, tantoché la morte è la condizione della vita e la vita la condizione della morte: non vi è una sola creatura visibile che sfugga alla legge che tutto fa vivere e morire e dalla morte trae gli elementi di una, vita novella e getta nella vita i germi della morte. Tutte queste creature non solo sono sottoposte a questa trasformazione che non cessa un solo istante, ma devono servire (ahi quante volte!) di strumento al disordine, all’offesa del Creatore, contro il loro fine. L’aria, la luce, l’acqua, la terra, le sue produzioni più belle e più preziose, tutto il regno vegetale, animale ed universale, per opera dell’uomo sono forzati a deviare dal loro fine e a diventare strumento di peccato. Inquantoché sono sottomesse al lavoro della trasformazione senza tregua ed alla necessità di essere soventi volte costrette ad un uso contrario al loro fine naturale, queste creature sono dette da S. Paolo ” sottoposte alla vanità: „ Vanitati creatura subjecta est. Espressione sublime, che rappresenta il mondo tutto in uno stato di prova e di violenza, come l’uomo, del quale segue necessariamente la sorte, perché ad esso è ordinato, come mezzo al fine. Questo mondo visibile, continua S. Paolo, non vorrebbe questa legge di continue mutazioni, di alternative di morte e di lotta e rivolta contro il Creatore, alla quale è costretto dall’uomo: Non volens; ma vi si acconcia, perché così vuole il Creatore; vi si acconcia, ma con la speranza che verrà pure quel giorno, nel quale cesserà questa lotta che lo affatica, nel quale saranno cieli nuovi e terra nuova e tutto sarà composto in una pace inalterabile e perfetta. “La stessa creatura è sommessa alla vanità, non volente, ma da Colui che a questa l’ha sottoposta nella speranza. „ Sì, la natura tutta irrazionale, nel suo linguaggio domanda al pari di noi, uomini e cristiani, il cessare del suo stato presente, al quale istintivamente rilutta: il suo grido, eco lontana del nostro, è questo: Quando, Signore, porrete fine al mio travaglio? Quando mi darete la pace ? Quando, anch’io, come l’uomo e per l’uomo, sarò rinnovata e secondo la mia natura non servirò che a Lui solo? E giusto, risponde l’Apostolo: “anch’essa, questa natura irrazionale sarà affrancata dal servaggio della corruzione, nella libertà della gloria dei figliuoli di Dio. „ Non è facile intendere questo luogo del sacro testo, ma sembra fuor di dubbio essere, non altrimenti del seguente, una spiegazione dell’antecedente. La natura tutta irrazionale, quasi culla, reggia e nutrice dell’uomo, suo re, al termine dei secoli, quando egli ripiglierà, rifiorente di vita immortale, il suo corpo, anch’essa si rinnovellerà, quasi per fare più bella la gloria dell’uomo, e ad imitazione dell’uomo stesso: Et ipsa creatura liberabitur a servitute corruptionis, in libertatem gloria filiorum Dei. Quale sarà questo rinnovellamento della natura irrazionale, riflesso del rinnovellamento dell’uomo? Come finirà il suo servaggio e quale sarà la libertà sua, di cui qui favella l’Apostolo? Sappiamo che avverrà, ma quale sarà lo ignoriamo, e solo per una cotale induzione possiamo formarcene un’idea. Saranno cieli nuovi e terra nuova, l’uno e l’altra abitazione degna dell’uomo glorificato, sottratta interamente all’impero e all’influenza di ogni male morale e fisico, e saper questo ci basti. – Da questa dottrina sì alta e sì bella dell’Apostolo si fa manifesto che il fine delle creature tutte irragionevoli è legato al fine proprio dell’uomo e da questo dipende tantoché, se così posso esprimermi, anch’esse saranno felici o infelici della sua felicità od infelicità: ed è giusto perché le creature irragionevoli sono create per l’uomo e a lui debbono servire e per conseguenza la sorte del principale tira seco la sorte del secondario. Gli elementi, onde risulta il nostro corpo, accompagneranno e per sempre l’anima o beata in cielo, o straziata nell’inferno, perché l’unione sarà sempiterna, e perciò siamo noi che determiniamo la sorte eterna del mondo materiale. Il linguaggio dunque dell’Apostolo in questo luogo è poetico e ad un tempo altamente filosofico e vero. Questa idea dell’aspettazione ansiosa della natura irrazionale è ribadita e con più forte tinta rilevata in questo altro versetto: “Sappiamo di fatto che ogni creatura finora geme ed è come nel travaglio del parto. „ Questo gemere e quasi soffrire i dolori del parto di tutte le creature irragionevoli, aspettanti la loro liberazione e trasformazione finale, ci fa sentire la loro solidarietà con l’uomo e com’esse fremono nello stato di disordine e di violenza, in cui al presente troppo spesso si trovano. Questa frase dell’Apostolo ci riduce alla memoria quell’altra frase non meno energica del libro della Sapienza, in cui si dice, che Dio armerà tutte le creature contro gli stolti, cioè i peccatori. Ah! ricordiamola sempre, o dilettissimi, questa verità. Ogni volta che noi abusiamo delle creature, peccando, rivolgendole contro il Creatore, esse, per così dire, si sdegnano contro di noi, soffrono, gemono e sospirano il momento nel quale spezzeranno il giogo della corruzione che loro imponiamo: strumento nostro quaggiù al peccato, al piacere colpevole, diventeranno allora strumento di Dio a nostra punizione. S. Paolo, dopo questa breve e brillante digressione sulle creature tutte irrazionali, che con sì affocato desiderio aspettano e invocano la propria libertà e rinnovazione, ritorna a sé, ai credenti, e prosegue: “E non solo essa, cioè la creatura irrazionale, ma noi ancora, che abbiamo le primizie dello spirito, gemiamo in noi stessi, anelando alla adozione dei figliuoli di Dio, alla redenzione del nostro corpo. „ Sì, l’universo sospira e geme, ma con esso e ben più di esso, noi, Cristiani, primizie del giardino di Cristo, la Chiesa, o meglio, noi Cristiani, che abbiamo ricevuto i primi e più copiosi doni dello Spirito, sospiriamo e gemiamo nel fondo delle anime nostre. Travagliati da sollecitudini ed affanni interni, fatti segno di calunnie e di persecuzioni, sbandeggiati, flagellati, gettati in carcere, trascinati dinanzi ai tribunali, divenuti il rifiuto del mondo, ci viene a noia la vita, ita ut tæderet nos etiam vivere, volgiamo lacrimosi gli occhi al giorno, in cui la grazia, o l’adozione di figli di Dio ci schiuderà le porte del cielo e saremo liberati da questo corpo mortale e rivestiti del corpo impassibile e glorioso: Adoptionem filiorum Dei, expectantes redemptionem corporis nostri. Questo grido affannoso dell’Apostolo che guarda, aspetta ed invoca la gloria della risurrezione del corpo, risponde al grido di Giobbe, che, straziato e disfatto dalla lebbra esclama: “So che il mio redentore vive, e ch’io alla fine dei tempi risorgerò dalla polvere e rivestirò questa carne, e in essa vedrò il mio Dio e mio Salvatore. „ È questo il grido, che erompe dal cuore d’ogni credente, che attraversa questa terra d’esilio, che sente la miseria della vita presente, che cammina verso la vera patria, al possesso di Dio. Sia pur questo il grido che esce dai nostri cuori, disillusi della terra e anelanti al cielo!

Graduale  

Ps LXXVIII:9; LXXVIII:10 Propítius esto, Dómine, peccátis nostris: ne quando dicant gentes: Ubi est Deus eórum? V. Adjuva nos, Deus, salutáris noster: et propter honórem nóminis tui, Dómine, líbera nos. [Sii indulgente, o Signore, con i nostri peccati, affinché i popoli non dicano: Dov’è il loro Dio? V. Aiutaci, o Dio, nostra salvezza, e liberaci, o Signore, per la gloria del tuo nome.]

Allelúja

Alleluja, allelúja Ps IX:5; IX:10 Deus, qui sedes super thronum, et júdicas æquitátem: esto refúgium páuperum in tribulatióne. Allelúja [Dio, che siedi sul trono, e giudichi con equità: sii il rifugio dei miseri nelle tribolazioni. Allelúia.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam. Luc. V:1-11

In illo témpore: Cum turbæ irrúerent in Jesum, ut audírent verbum Dei, et ipse stabat secus stagnum Genésareth. Et vidit duas naves stantes secus stagnum: piscatóres autem descénderant et lavábant rétia. Ascéndens autem in unam navim, quæ erat Simónis, rogávit eum a terra redúcere pusíllum. Et sedens docébat de navícula turbas. Ut cessávit autem loqui, dixit ad Simónem: Duc in altum, et laxáte rétia vestra in captúram. Et respóndens Simon, dixit illi: Præcéptor, per totam noctem laborántes, nihil cépimus: in verbo autem tuo laxábo rete. Et cum hoc fecíssent, conclusérunt píscium multitúdinem copiósam: rumpebátur autem rete eórum. Et annuérunt sóciis, qui erant in ália navi, ut venírent et adjuvárent eos. Et venérunt, et implevérunt ambas navículas, ita ut pæne mergeréntur. Quod cum vidéret Simon Petrus, prócidit ad génua Jesu, dicens: Exi a me, quia homo peccátor sum, Dómine. Stupor enim circumdéderat eum et omnes, qui cum illo erant, in captúra píscium, quam céperant: simíliter autem Jacóbum et Joánnem, fílios Zebedaei, qui erant sócii Simónis. Et ait ad Simónem Jesus: Noli timére: ex hoc jam hómines eris cápiens. Et subdúctis ad terram návibus, relictis ómnibus, secuti sunt eum”.

OMELIA II

[Mons. Bonomelli, ut supra, Omelia X]

“Avvenne che la moltitudine, stringendosi addosso a Gesù per ascoltare la parola di Dio, e stando Egli in piedi presso il lago di Genesaret, vide due barchette presso la riva del lago e i pescatori, smontati, lavavano le reti. Ed Egli, essendo montato sopra una di quelle, che era di Simone, lo pregò di allargarsi un poco da terra e seduto, ammaestrava le turbe dalla navicella. E com’ebbe finito di parlare, disse a Simone: Piglia il largo e calate le vostre reti per pescare. Ma Simone, rispondendo gli disse: Maestro, ci siamo affaticati tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma pure, alla tua parola, getterò la rete. E fatto questo, rinchiusero grande quantità di pesce, tantoché la rete si rompeva. E accennarono ai loro compagni, ch’erano nell’altra navicella, affinché venissero per aiutarli. Ed essi vennero, e riempirono ambe le barche a talché affondavano. Ciò visto, Simon Pietro, si gettò alle ginocchia di Gesù dicendo: Partiti da me, o Signore, perché io sono un uomo peccatore. Perché egli e quelli che erano con Lui erano compresi di spavento per la presa dei pesci che avevano fatto. Lo stesso fu ancora di Giacomo e Giovanni, figliuoli di Zebedeo, ch’erano compagni di Simone. E Gesù disse a Simone: Non temere: d’ora innanzi attenderai a pescare uomini. Ed essi, tirate a terra le navicelle, lasciata ogni cosa, lo seguitarono „ (S. Luca, V, 1-11).

Gesù cominciò la sua predicazione in Galilea, e chiamò alla sua sequela alcuni discepoli, come narra S. Giovanni nel primo capo, tra gli altri Simon Pietro, Andrea, Filippo, Natanaele ed i fratelli Giacomo e Giovanni, tutti Galilei. Con essi salì a Gerusalemme per celebrare la Pasqua, poi ritornò in Galilea, a Nazaret. In quel frattempo i discepoli ritornarono alle loro reti (erano quasi tutti pescatori), per campare la vita, ma per pochi giorni. Gesù da Nazaret recossi a Cafarnao e ripigliò la sua vita pubblica, e qui comincia il fatto evangelico, che forma l’argomento della nostra omelia, e che determinò i primi e principali discepoli a seguirlo stabilmente, come vedremo. Due volte essi furono chiamati da Gesù: la prima volta sulle rive del Giordano, dov’essi erano per udire Giovanni, e dove Gesù stesso ricevette il battesimo; la seconda e definitivamente, sulle sponde del lago di Genesaret, riferita da S. Luca nel capo V. Ora, a noi, o carissimi. “Avvenne che la moltitudine, stringendosi addosso a Gesù, per ascoltare la parola di Dio, e stando Egli in piedi presso il lago di Genesaret, vide due barchette in sulla riva, ed i pescatori, smontati, lavavano le reti. „ Nessun bisogno di illustrare queste parole, che non potrebbero essere più chiare: ma non sarà superfluo cavarne qualche pratica riflessione. – Considerate Gesù, le turbe e gli Apostoli pescatori. Gesù sta sulla riva di quel lago allora sì ridente, solo, senza corteggio, corre l’ultimo dei figli d’Israele, in mezzo alla folla, ch’era accorsa dalle vicine città e castella. E che fa Egli? Ammaestra quella moltitudine. Che cosa insegnasse, il Vangelo non lo dice, ma è agevole immaginare che parlasse, come soleva, del regno dei cieli e di quelle verità sì semplici e sì alte che rapivano il buon popolo, il quale pendeva estatico dalle sue labbra. – Considerate le turbe: esse si accalcavano intorno a Gesù, lo premevano, Gli si serravano addosso: Cum turbæ irruerent in eum, avide di udire la parola di Dio. Quale spettacolo, o cari! Gesù Cristo, il Figlio di Dio che parla al popolo, e questo popolo che lo ascolta tacito e riverente: era il mattino e di sopra rideva il cielo sereno, tranquillo: intorno, da una parte il lago con le sue rive incantevoli, seminate di villaggi popolosi; dall’altra i colli, coperti d’ulivi e di vigne, che si sollevano a mano a mano, ad occidente verso il Tabor, a tramontana, da lungi, verso l’Hermon ed il Libano. È sulle sponde di questo lago, in mezzo a questi pescatori, a questi figli dei campi, che Gesù Cristo sparge i semi di quella Dottrina che sarà portata ai quattro lati della terra e trasformerà il mondo pagano. – Considerate gli Apostoli: essi erano smontati dalle loro navicelle, e dopo aver ripulite e racconciate le reti, si erano mescolati con le turbe per udire il divino Maestro. In mezzo a quella moltitudine, credo io, non vi erano né ricchi, né dotti: essi avrebbero sdegnato di trovarsi in mezzo a quella povera gente, ma non si sdegnava Gesù, anzi le sue gioie più dolci erano quelle di annunziare a quei poverelli il regno di Dio: Misit me evangelìzare pauperibus. E vedete questi Apostoli, che già chiamati a seguire Gesù Cristo seguitano a pescare, non certo per sollazzo, ma per necessità della vita. Essi, destinati alla conquista del mondo, non si lagnano della loro povertà e della vita travagliosa che menano e che non muteranno nemmeno più tardi, perché santamente si glorieranno di provvedere ai propri bisogni col lavoro delle mani: Manus istæ ministraverunt. – Gesù, viste quelle due barchette, “salì sopra una, che era quella di Simon Pietro. „ Posto fine al suo discorso alle turbe, Gesù per scansarsi da queste e fare il miracolo che gli vedremo operare, salì sopra una navicella e, nota il Vangelista, che era quella di Pietro. Voi troppo bene comprendete che Gesù Cristo non faceva, nè poteva far nulla a caso; nessun uomo assennato fa mai cosa alcuna a caso; e l’avrebbe fatta Colui che è la stessa sapienza? Sarebbe bestemmia pure il sospettarlo. Perché  Gesù Cristo tra le due barchette preferì quella di Pietro e sopra di questa s’allargò nel lago e poi operò il miracolo? E perché  l’evangelista S. Luca volle notare questo fatto? I Padri ravvisarono in questo fatto un indizio della podestà suprema, che Gesù avrebbe più tardi conferita a S. Pietro. Noi non possiamo avere salute che col ricevere la dottrina di Gesù Cristo: ora dove Gesù annunzia la sua dottrina? Da qual nave la predica agli uomini? Dalla nave di Pietro: dobbiamo adunque essere nella nave di Pietro se vogliamo avere la dottrina di Gesù Cristo. La nave è simbolo della Chiesa; su ciò non vi è dubbio alcuno: i Padri, gli interpreti ed il simbolismo antico lo mostrano; ma sono molte navi o le chiese che si dicono navi e Chiese di Cristo. C’è la nave della Chiesa Greca, quella della Chiesa Nestoriana, della Chiesa Eutichiana, della Russa , della Anglicana via e via (1). Tutte a gran voce protestano di essere ciascuna la nave, l’unica vera Chiesa di Cristo, ed invitano gli uomini a salirvi se vogliono salute. Io domando: Dov’è Cristo? Su qual  nave siede Egli ed ammaestra? Sulla nave di Pietro, non sulle altre! Dunque teniamoci sempre fermi su questa nave di Pietro,  sicuri di avere con noi Gesù Cristo e con Gesù Cristo la verità. – Che cosa insegnò Gesù Cristo alle turbe, stando sulla navicella di Pietro? Il Vangelo non lo dice, ed è facile e natural cosa il credere che parlasse loro delle verità del regno dei cieli, giacché solo di queste cose Egli intratteneva la moltitudine che lo seguiva. “Poiché ebbe finito di parlare, disse a Simone: Piglia il largo e calate le vostre reti alla pesca.„  Il mare o lago di Genesaret è figura del mondo; i pesci sono figura degli uomini: la nave di Pietro, che con Gesù solca le onde, come dissi, è figura della Chiesa. Gesù comanda a Pietro ed ai suoi compagni di calare le reti per la pesca. Ma quando? Non prima, ma dopo di aver parlato al popolo. E perché? Perché vuole insegnarci che prima si devono ammaestrare gli uomini e poi accoglierli nella Chiesa: prima si deve seminare e poi mietere: prima far conoscere la verità; poi raccoglierne i frutti. Gli Apostoli ed i loro successori, come dirà più innanzi Gesù Cristo, devono pigliare gli uomini. Ma come si pigliano gli uomini? Essi sono spiriti nella parte loro più nobile, e non si pigliano come i pesci e gli uccelli nelle reti: pigliati i loro corpi, avete pigliato ogni cosa. Pigliati i corpi degli uomini, voi non avete preso nulla; per pigliare gli uomini conviene pigliare quello in cui sta veramente l’uomo, cioè l’anima sua. E questa che non si vede, che non si tocca, in qual modo si piglia? I pesci e gli uccelli li pigliate con l’offrir loro il cibo, che loro si confà: l’anima dell’uomo la si piglia col mostrarle quel cibo di cui solo essa è ghiotta, il cibo della verità. La verità signoreggia la sua mente e la mente tira a sé la volontà; e guadagnata la mente e la volontà dell’uomo, voi avete pigliato tutto l’uomo. E con qual mezzo presentare all’uomo il cibo della verità? Il pescatore presenta al pesce il cibo legato al filo della sua canna, o lo sparge presso le reti: noi lo porgiamo alla mente dell’uomo mediante la parola o l’istruzione, e perciò Gesù Cristo disse agli Apostoli: Andate, ammaestrate. Ammaestrate! cioè porgete alle menti il cibo della verità con la parola: questa scuoterà la volontà e trarrà a voi gli uomini retti. Ecco perché Gesù Cristo, dopo avere ammaestrate le turbe, comanda di gettare le reti. Proseguiamo. “Pietro rispondendo, disse a Gesù: Maestro, ci siamo affaticati tutta la notte e non abbiamo preso nulla. „ La pesca allora (come in parte anche in oggi da noi) si faceva la notte. Gli Apostoli l’avevano fatta da soli, senza la compagnia di Gesù, ed era stata senza frutto. Così aveva disposto il divino Maestro, per mettere in maggior luce il miracolo che aveva operato, e per dare una lezione importantissima a’ suoi cari Apostoli e determinarli a seguirlo definitivamente. – Il buon Pietro, sempre eguale a se stesso, risoluto, ardente e schietto, dopo d’aver pubblicamente dichiarato ch’era stato vano ogni lavoro della notte, e che non aveva speranza alcuna di miglior fortuna, mostrando la docilità e prontezza dell’animo suo, soggiunse: “Pure sulla tua parola getterò la rete. „ La parola del Maestro è tutto per il discepolo: questi fa tacere ogni suo giudizio, non bada alla nuova fatica, non muove ombra di difficoltà o di dubbio: il Maestro l’ha detto e gli basta: “Sulla tua parola getterò la rete. „ – Carissimi! quando la voce del dovere, la voce dell’autorità ha parlato, ancorché torni duro e sembri anche poco conforme alla nostra ragione, imitiamo la generosa prontezza di S. Pietro, e diciamo: Signore, ubbidisco. Gli Apostoli calarono adunque la rete, e appena ebbero cominciato a tirarla a sé, si accorsero “che avevano chiuso in essa grande quantità di pesci, tanto che la loro rete si rompeva. „ Vedendosi impotenti a tirare nella nave sì gran quantità di pesce, “accennarono ai compagni dell’altra nave, affinché venissero ad aiutarli, e vennero ed empirono ambe le barche; sicché quasi affondavano. „ – Tutti questi particolari del fatto, notati con somma concisione e semplicità, non abbisognano di schiarimento, e ci mettono sotto gli occhi la scena avvenuta sulle rive del lago, a talché ne siamo per poco noi stessi spettatori. È noto dalla storia che quel piccolo lago era abbondantissimo di pesci: d’altra parte si sa, che in certe stagioni e in certe con giunture, è possibile una pesca straordinaria, e nessuno lo sapeva meglio di Pietro e dei suoi compagni, praticissimi del loro mestiere e di quel lago; ma quella pesca, considerata nelle condizioni particolari in cui avvenne, presentava sì chiari i caratteri del miracolo da non poterne avere dubbio alcuno. E invero: gli Apostoli avevano gettate le reti tutta la notte e sempre inutilmente: non v’era indizio di sorta da far credere probabile un mutamento e una pescagione sì copiosa; se vi fosse stato, gli Apostoli l’avrebbero conosciuto od almeno sospettato. Più, dalla narrazione appariscente che fu quasi la stessa cosa gettare le reti nel lago e vederle ripiene di pesce. Finalmente, la quantità del pesce era al tutto meravigliosa, perché si dice che la rete si sdrusciva per il peso, e che ne ebbero ripiene le due barchette e ripiene per modo che quasi affondavano: Et impleverunt ambas naviculas, ita ut pene mergerentur. Tutte le circostanze del fatto, mostravano ad evidenza che non era naturale, ma sovrannaturale e miracoloso e che non potevasi attribuire ad altri, fuorché a Colui che con tanta sicurezza, non ostante la difficoltà mossa da Pietro, aveva detto: “Gettate le vostre reti alla pesca. „ – L’effetto del miracolo fu istantaneo e grandissimo su tutti gli Apostoli presenti, ma singolarmente sopra Pietro. Uditelo: “Veduto ciò, Simon Pietro, cadde alle ginocchia di Gesù, dicendo: Partiti da me, o Signore, perché io sono un uomo peccatore. „ In questa occasione, come sempre, si rivela l’anima tutta di Pietro. Egli ha visto il miracolo di Gesù Cristo, non ne può dubitare, lo tocca con mano, è lì, in quel cumulo di pesci che gli sta dinanzi. Dimentica tutto: e due sole cose egli vede, il Maestro e se stesso: nel Maestro, egli, scosso dal fatto della pesca ed illuminato internamente, riconosce l’operatore del miracolo, il profeta, il Messia; in sé vede un povero peccatore, e conscio della propria indegnità, nell’ardore della sua fede, si getta ai piedi di Gesù, Procidit ad genita Jesu, ed esclama: “Partiti da me, che sono un uomo peccatore. „ – S. Agostino domandava instantemente due cose a Dio: Domine, noverim te, noverim me.”Signore, ch’io conosca te e conosca me stesso! „ Questo doppio conoscimento si può considerare come il supremo grado della sapienza cristiana: conoscere Dio, per amarlo e servirlo; conoscere se stesso, per correggere ed emendare i propri falli: conoscere Dio per disprezzare se stesso; conoscere se stesso, per apprezzare Dio solo. Questi due conoscimenti sono inseparabili tra loro, tantoché l’uno non si può concepire senza l’altro, come l’effetto non si può disgiungere dalla sua causa, e quegli conosce bene l’effetto che conosce bene la causa. L’uomo che si mette innanzi a Dio e con l’occhio della mente discorre e contempla la sua grandezza, la sua potenza, la sua bontà, la sua sapienza, la sua immensità; che, inabissandosi in quell’oceano dell’essere di Dio, ne considera l’eternità e la immutabilità e tutte le altre perfezioni, sentesi sopraffatto e compreso di stupore al cospetto di tanta maestà. Che se allora torce lo sguardo da Dio e lo rivolge sopra di sé, comprende e sente d’essere piccolo, debole, soggetto a continue mutazioni, pieno di miserie: comprende e sente che da sé ha nulla, e che tutto ciò che ha o può avere, lo riceve da Dio, dal quale dipende più che la lampana dal filo che la sostiene: allora egli è costretto ad erompere in quel grido sì famigliare ai santi: Signore, Voi siete tutto, ed io nulla e meno che nulla, perché peccatore. Se non che il buon Pietro, nella foga del suo dire, non si limitò a riconoscere la grandezza del Maestro e la debolezza e il nulla proprio, ma, spingendosi più oltre e non rendendosi conto di ciò che diceva, aggiunse: “Partiti da me, o Signore, perché io sono un uomo peccatore. „ Voleva che Gesù si allontanasse da sé, reputandosi indegnissimo di stare presso di Lui sì santo, egli gran peccatore! Nessun dubbio, che se alcuno in quel momento avesse detto a Pietro: Vuoi tu davvero, che Gesù si parta da te? — Pietro avrebbe risposto: No, no; io credo in Lui, io l’amo, io voglio seguirlo sempre e dovunque: ho bisogno di star sempre con Lui —. Come dunque lo pregava di allontanarsi da Lui? Era questo il linguaggio del timor santo, ond’era compreso alla presenza di Gesù e dell’amore vivissimo, che sentiva per Lui e lo portava fuori di sé, onde mentre diceva a Gesù: Partiti da me, gli si serrava come un fanciullo alle ginocchia e non sapeva staccarsene. Carissimi! quando stiamo alla presenza di Gesù nel Sacramento dell’altare, e più ancora, quando lo riceviamo in noi stessi, facciamo nostri i sentimenti di fede, di riverenza, di timore, di amore, di profonda umiltà, ond’era ripieno il principe degli Apostoli là sulla sua barchetta di Genesaret. L’anima, che riconosce la propria indegnità e si confessa peccatrice dinanzi a Gesù, diviene oggetto delle sue più care compiacenze! L’Evangelista quasi per dare una spiegazione dell’atto e delle parole sì belle di san Pietro, dice, continuando: “Perché erano compresi di spavento egli, Pietro, e quanti stavano con Lui per la presa de’ pesci, che avevano fatto. „ Come mai ciò, o dilettissimi? Pietro e i suoi compagni erano atterriti? Essi dovevano essere meravigliati sì, e lietissimi, ma non mai atterriti, come dice il sacro testo. Sì, erano meravigliati, lietissimi, ma anche atterriti. Allorché noi ci troviamo dinanzi a fatti straordinari e sovraumani, dietro i quali vediamo levarsi, a così dire, l’ombra e la maestà di Dio stesso, che ne è l’autore, ci sentiamo gagliardamente scossi, compresi d’un sacro terrore. E chi noi deve essere dinanzi a quella infinita grandezza e potenza, dinanzi alla quale sentiamo tutto il nostro nulla? Scorrete tutte le sacre Scritture dell’antico e del nuovo Testamento e troverete sempre, che ogni qual volta Iddio si manifesta, sia sul Tabor, sia sull’Oreb, sia sul Sinai, sia nei grandi miracoli, il timore ed anche il terrore è la conseguenza comune e naturale, in quelli che ne sono testimoni. – S. Luca parla del terrore di Pietro e di tutti quelli che erano con lui; ma poi, quasi corregendosi, stima necessario nominare due, che erano presenti nell’altra navicella, perché dopo Pietro tenevano il primo posto presso il Maestro, e perché insieme con Pietro, dopo questo miracolo, furono chiamati a seguirlo stabilmente. ” Lo stesso fu ancora di Giacomo e Giovanni, figliuoli di Zebedeo, che erano compagni di Simone. „ Gesù, per confortare Simon Pietro, che era a’ suoi piedi, come fuori di sé, con voce amorevole gli disse: ” Non temere: quinci innanzi attenderai a pescare uomini. „ Con queste parole Gesù volle confortare il suo Pietro e nello stesso tempo fargli conoscere chiaramente la sua vocazione all’apostolato. Ben altro che pesci, così volle dire in sentenza il Salvatore, ben altro che pesci tu devi pigliare: la tua missione in avvenire sarà quella di pigliare uomini. La metafora graziosa è sì bella e naturale che non occorre spiegarla. Più volte Gesù Cristo adombra il sacro ministero sotto la figura della pesca, e veramente la figura risponde assai bene alla realtà che si vuole significare. E qui non voglio tacere una osservazione, che mi pare scaturisca naturalmente dal sacro testo. Pietro, visto il miracolo, conobbe se stesso e schiettamente, alla presenza dei compagni, confessò d’essere peccatore e indegno di stare presso Gesù. A quest’atto di umiltà Gesù rispose con la splendida promessa dell’apostolato. “Tu attenderai a pescare uomini. „ Sempre così! all’abbassamento volontario Dio risponde sempre con l’innalzamento, e a Pietro, che si protesta peccatore, velatamente promette la più alta prerogativa  dell’apostolica dignità. Il fatto della pesca prodigiosa, qui narrato da S. Luca, è toccato appena da S. Matteo (cap. IV, 18 seg.) con qualche particolare, che dà luce al tutto insieme. S. Matteo ai tre Apostoli sopra nominati, presenti al miracolo, aggiunge Andrea, fratello di Pietro, che dovevasi trovare nella barca con esso. Inoltre san Matteo scrive, che Gesù disse a tutti quelle parole da S. Luca riferite al solo Pietro: “Io vi farò pescatori di uomini, „ e che a tutti disse: “Venite dietro a me, „ e che tutti lo seguitarono. S. Luca in questo luogo, lascia sottintese le parole di Cristo: “Venite dietro a me, „ ma narra l’effetto, dicendo: “Tirate a terra le navicelle, lasciata ogni cosa, lo seguitarono. „ Quale esempio di prontezza, di fede, di ubbidienza, di generosità ci danno questi Apostoli! E vero, erano poveri, vivevano delle proprie fatiche: non avevano che quelle sdrucite barchette, quelle poche reti, forse la casetta nella vicina Betsaida: ma Pietro aveva la suocera, Giacomo e Giovanni avevano il padre e la madre; avevano congiunti ed amici; amavano le rive del loro lago; chi dice loro: “Seguitemi, „ era ancor più povero di loro; non aveva né casa, né barca, né reti, né dove posare il suo capo; eppure incontanente, ad una sua parola lo seguono: Relictis omnibus, secuti sunt eum. Che sarà di loro? Quale la sorte che li attende? Quale la ricompensa? Fin quando e fin dove lo seguiranno? Quali i patti? Di tutto questo non si danno pensiero: hanno udite quelle misteriose parole: ” Venite dietro a me; vi farò pescatori di uomini, „ senza comprenderne perfettamente il significato; non istanno in forse un solo istante: lo seguitano per non abbandonarlo più mai, e primo senza dubbio quel Pietro, che gli aveva detto: ” Partiti da me, o Signore, che sono uomo peccatore. „ Riconosciamo ancora una volta la certezza del miracolo della pesca, ammiriamo la potenza della parola di Cristo, che li chiama, e la generosa docilità con cui rispondono gli Apostoli.

(1) [La Chiesa greca Foziana, com’è noto non ammette l’istituzione divina del Primato di Pietro. Il suo governo è affidato ai Patriarchi e al Sinodo ecumenico, che risiede a Costantinopoli: ma è un edificio che sta per forza di inerzia, se cosi posso esprimermi. La creazione d’ogni nuovo Stato nell’Impero ottomano porta seco per conseguenza una nuova Chiesa nazionale. Questo secolo ha visto sorgere la Chiesa ellenica, la montenegrina, la serba, la rumena, la bulgara: è naturale, perché non vi è un centro comune. – Della Chiesa nestoriana ed eutichiana non val la ragionare perché piccole e sepolte nella più crassa ignoranza; di cristiano conservano poco più che il nome. – La Chiesa russa si trova in condizioni ben diverse e perché internamente unita alla potestà imperiale dello Czar e da lui dipendente, e perché organizzata fortemente, abbraccia popoli rozzi, sì, ma giovani e forti, e poiché ad essa si apre un campo vastissimo in Oriente. E vi è qualche probabilità, che la chiesa russa rientri nel seno della Chiesa Cattolica? Alcuni lo speravano e forse lo sperano ancora: così fosse!! Ma, ragionando umanamente, essa, la Chiesa russa è ben lontana dal ritornare alla Chiesa Romana. L’anno passato, il gran Procuratore del Sinodo russo, Pobedonoskeff che ora è l’anima del Sinodo stesso, ad un alto personaggio, che gli mostrava la necessità dell’unione con la Chiesa romana, rispose: “La Chiesa ortodossa russa e la Chiesa Romana sono due sorelle eguali, che si devono rispettare a vicenda —. La Russia ha toppo interesse a star salda nello scisma e nell’eresia e l’ignoranza del popolo, congiunta allo scetticismo delle classi alte e alla autocrazia imperiale e la diffidenza e l’odio contro la Polonia, innalzano una barriera insormontabile tra la chiesa russa e la Romana. „ – Della chiesa anglicana non occorre parlare. La dichiarazione solenne della S. Sede rispetto alla nullità delle sacre Ordinazioni della chiesa anglicana, dichiarazione necessaria per le circostanze speciali, ha forse aggiunto un nuovo ostacolo a quelli che vi erano e reso più difficile il ritorno all’Unità Cattolica.]

 Credo…

 Offertorium

Orémus Ps XII:4-5 Illúmina óculos meos, ne umquam obdórmiam in morte: ne quando dicat inimícus meus: Præválui advérsus eum. [Illumina i miei occhi, affinché non mi addormenti nella morte: e il mio nemico non dica: ho prevalso su di lui.]

Secreta

Oblatiónibus nostris, quæsumus, Dómine, placáre suscéptis: et ad te nostras étiam rebélles compélle propítius voluntátes. [Dalle nostre oblazioni, o Signore, Te ne preghiamo, sii placato: e, propizio, attira a Te le nostre ribelli volontà.]

Communio

Ps XVII:3 Dóminus firmaméntum meum, et refúgium meum, et liberátor meus: Deus meus, adjútor meus. [Il Signore è la mia forza, il mio rifugio, il mio liberatore: mio Dio, mio aiuto.]

Postcommunio

Orémus. Mystéria nos, Dómine, quæsumus, sumpta puríficent: et suo múnere tueántur. Per … [Ci purifichino, o Signore, Te ne preghiamo, i misteri che abbiamo ricevuti e ci difendano con loro efficacia.]

LO SCUDO DELLA FEDE (XV)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

 XV.

IL GOVERNO DI DIO.

Come mai Iddio permette il male? — Iddio sa se mi salverò o mi dannerò; a che serve adunque che io mi travagli a salvarmi? — La predestinazione e la libertà umana.— Se Dio è infinitamente buono, perché crea coloro che andranno dannati?

— Avrei ora da esporre delle gravi difficoltà per riguardo ad alcuni attributi di Dio.

Già m’immagino quali siano. Tuttavia esponi pure liberamente tutto ciò che lambicca il tuo cervello, e vedrò di darti le spiegazioni più chiare che siano possibili.

— Ecco adunque: Iddio è onnipotente, cioè può fare tutto ciò che vuole, è santo, cioè vuole il bene ed abborrisce il male, è sapientissimo e sa tutto. Or come mai lascia che nel mondo si faccia tanto male? … si commettano tanti delitti? Li permette Egli forse perché non li può impedire! E allora dove sta la sua onnipotenza ? Li permette perché non li vuole impedire! E allora dove sta la sua santità? Li permette perché non sa che abbia ad accadere? E allora dove sta la sua sapienza?

Perdincolina! Mi fai veramente una scarica a mitraglia, ed entri per tal guisa in dei più tremendi misteri! Ma precisameli; perciò bisogna che ti ricordi anzitutto che misteri sono sempre misteri, che cioè noi non arriveremo mai a comprenderli. In secondo luogo devo dirti che il poter fare delle difficoltà anche gravi contro le verità della dottrina cristiana, difficoltà che per ora non si possono sciogliere, non dà il diritto di inferire che sia falsa la stessa dottrina, ma deve in quella vece farci riconoscere e confessare la nostra impotenza a comprendere tali verità. In terzo luogo ti aggiungerò che qualora avessi da adoperarmi a scioglierti le difficoltà, che mi hai proposte, con l’ampiezza dovuta, dovrei andare molto per le lunghe e tu non reggeresti al mio ragionamento. – Ciò premesso ti risponderò in breve che Dio, sì, è sapientissimo e perciò prevede anche il male che dagli uomini si fa, che Egli è santissimo e come tale non vuole il male e lo abborrisce, che Egli è onnipotente e che perciò assolutamente lo potrebbe impedire: e non di meno non lo impedisce perché, avendo dato all’uomo la libertà, Egli vuole assolutamente che l’uomo resti libero, padrone de’ suoi atti in modo da poter fare di sua piena volontà il bene o il male, e a seconda di quel che farà meritarsi coi propri sforzi la felicità eterna o con la propria malizia la eterna dannazione. E se l’uomo abusando della sua libertà commette il male e si abbandona persino a gravi delitti, Iddio perciò non lascia di essere e sapientissimo, e santissimo, e onnipotente.

— Va bene. Ma Iddio non poteva dare all’uomo la libertà perché faccia il bene e si meriti la felicità eterna, e a un tempo stesso impedire che l’uomo faccia il male non lasciandolo abusare della sua libertà? A me pare insomma che se Iddio non volesse davvero il male, non lo lascerebbe commettere, e che lasciandolo ommettere ne sia Egli stesso la causa.

Mio caro, senza saperlo tu metti innanzi i mostruosi errori di Calvino. Ascolta bene adunque. Che Iddio potesse, qualora lo avesse voluto, dare all’uomo la libertà per fare il bene e meritar la felicità eterna e a un tempo stesso impedire l’abuso dell’umana libertà nel fare il male è cosa certissima. Ma Egli non l’ha voluto, e in ciò appunto sta il mistero. Con tutto ciò non potendo noi capire il perché Iddio non abbia voluto affrancare l’uomo da quella naturale debolezza che lo rende peccabile, non porremo mai dire che Iddio voglia il male e ne sia Egli la causa. Il male Iddio lo permette, ma assolutamente non lo vuole, non può volerlo: se potesse voler il male, non sarebbe più Dio. Epperò non mai e poi mai si potrà ascrivere a Lui il più piccolo dei peccati, come appunto diceva S. Agostino. – E come mai sarebbe ciò possibile? Dio ha creato gli uomini, perché un giorno abbiano da possedere e godere Lui, e vorresti che Egli sia l’autore dei peccati, che allontanano l’uomo dal conseguimento del suo fine? Dio è l’infinita bontà e l’infinita giustizia, e vorresti che fosse l’autore della malizia e dell’ingiustizia? Dio è il punitore del peccato, e vorresti che punisse negli altri il peccato, di cui fosse Egli la causa? Dunque sia pure che noi non comprendiamo perché Iddio permette il peccato, ma non sia mai che sopra di Lui gettiamo la colpa dei peccati che commettiamo noi, abusando della libertà  che ci ha dato.

— Ho inteso e passo perciò ad esporle un’altra difficoltà.

Di su adunque.

— Se Iddio è, come non si può dubitare, sapientissimo, saprà certamente se noi ci salveremo o se ci danneremo, non è vero?

Verissimo!

— Dunque io dico: se Egli sa che mi salverò, sarò salvo; se Egli invece sa che mi dannerò, andrò dannato. Epperò che bisogno c’è ch’io mi travagli per salvarmi? Non mi resta così tolta ogni libertà di provvedere al mio eterno destino?

Anche questa è una difficoltà assai grave, ma se tu stai ben attento, spero che non riuscirà del tutto insolubile. – Tu dici adunque: « Iddio sa se mi salverò o se mi dannerò; » e da  questo sapere Iddio se ti salverai o ti dannerai, trai la conseguenza « che torna inutile che ti travagli per salvarti, perché non resti più libero di provvedere per parte tua al tuo eterno destino ». Ora io comincio a risponderti col fare a te una domanda. Che diresti tu a tua madre, se essa oggi ti dicesse: Figliuol mio, Iddio sa se quest’oggi devi pranzare o no; quindi è inutile che io ti prepari o non ti prepari il pranzo: se Dio sa se quest’oggi devi pranzare, pranzerai; se sa che non devi pranzare, non pranzerai?

— Oh! per certo le direi: Mia buona madre, per intanto fate il piacere di preparare il pranzo, e poi sarà come a Dio piacerà.

Così dico io a te: Pertanto tu fa da parte tua quello che importa per salvarti, e allora ti salverai; perché se al contrario non farai di tua volontà quello che devi e puoi fare per la tua eterna salvezza, certamente ti dannerai..

— Ma dunque la scienza che ha Iddio intorno alla nostra eterna destinazione non fa sì, che essa accada come Dio l’ha prevista?

La nostra eterna destinazione sarà senza dubbio infallantemente quale Iddio l’ha prevista, ma questa previsione, o a meglio dire visione (non essendovi innanzi a Dio futuro, ma tutto presente) non fa che la nostra eterna destinazione non sia ancor pienamente dipendente dalla nostra libera volontà. Supponi che tu ti trovassi sopra un terrazzo prospiciente un ampio cortile, dove molti govani tuoi compagni stanno divertendosi. Che vedresti tu?

— Eh! vedrei di quelli che corrono, di quelli che saltano, di quelli che fanno circolo, di quelli che si bisticciano, di quelli che si regalano  magari qualche pugno.

E vedendo tu tutte queste cose, ne saresti tu la cagione?

— Niente affatto!

E i tuoi compagni benché tu li veda, non restano ancor sempre liberi di proseguire i loro giuochi, le loro occupazioni, di fare quel che vogliono fare?

— Liberissimi. Il mio vedere nulla influisce sulla loro libertà.

Va bene. Ora stammi attento: Iddio da tutta l’eternità con la sua scienza infinita ha tutto presente dinanzi a sé, epperò tutto il bene e tutto il male che faranno gli uomini con tutte le circostanze più minute e particolari, e la loro conseguente salvezza o dannazione. Ma perciò che Egli tutto vede, si potrà dire la causa di quello che noi facciamo di bene o di male per salvarci o per dannarci? No assolutamente. Egli ci lascia fare il bene o il male, epperò operare la nostra salvezza o la nostra dannazione, a seconda della libertà che ci ha dato. Quindi non è già che noi facciamo il bene o il male perché Egli lo vede; ma Egli lo vede perché noi lo facciamo. Insomma Iddio vede che tu ti salverai, se tu liberamente vivrai da buon Cristiano per salvarti; e vede che ti dannerai, se tu di tua volontà vai alla dannazione vivendo male.

.— Mi sembra di aver inteso, e voglio dargliene una prova. Ecco dunque: Bisogna che io mi adoperi quanto posso per salvarmi, benché Iddio sappia se mi salverò o se mi dannerò dal vedere quello che io farò per salvarmi o per dannarmi; e la scienza, che egli ha intorno alla mia futura destinazione, non forza minimamente la libertà, che io ho di fare, il bene per salvarmi, o non farlo e fare il male èer dannarmi.

Benissimo; tu hai inteso egregiamente.

.— Resta però sempre verissimo che io infallibilmente mi salverò o mi dannerò, come Iddio ha previsto e come Egli ha predestinato.

Sì, senza dubbio, ma resta pure sempre verissimo che tu ti salverai o ti dannnerai liberamente. E questa verità, cioè l’infallibile prescienza divina e la conseguente predestinazione degli uomini ad essere salvi o dannati non contraddicono affatto a quest’altro della libertà dell’operazione umana. Ciascuna di queste verità è certa, e se torna alquanti difficile a combinarle insieme, ciò è in causa della nostra ignoranza, ma non già della impossibilità di farlo. Tutto sta che noi riflettiamo bene che Iddio non determina egli con la sua prescienza le nostre azioni buone o cattive e la nostra conseguente salvezza o dannazione, ma che invece Iddio infinitamente sapiente, vede da tutta l’eternità quelli che faranno bene e quelli che faranno male. E siccome da tutta l’eternità, in conformità alla sua giustizia, Egli ha decretato di premiare eternamente i buoni e castigare eternamente i cattivi, perciò da tutta l’eternità Egli vede altresì a chi darà il premio e a chi il castigo eterno, destinando in tal guisa gli uni a salvarsi, gli altri a dannarsi.  – Ma in tal guisa la predestinazione dell’uomo, sia alla gloria del cielo, sia alla dannazione dell’inferno, dipende interamente dalla libera volontà dell’uomo stesso, dal fare egli cioè liberamente il bene o il male. Così che siamo noi, che da noi stessi ci predestiniamo, essendo ché siamo noi, che ci vagliamo della nostra libertà o a meritare il premio dei buoni o il castigo dei cattivi.

— Ma stando così le cose, che non ostante la prescienza e la predestinazione divina noi restiamo interamente liberi nel fare il bene e salvarci o nel fare il male e dannarci, non sarebbe stato meglio che Iddio non ci avesse data la libertà?

No, caro mio. Se Iddio non avesse dato all’uomo la libertà, non ne avrebbe fatto, come volle, il capolavoro delle sue mani. La libertà è la dote, che ci pone a capo del mondo, è il perno della nostra grandezza e della nostra nobiltà, è il colmo delle nostre rassomiglianze con Dio. Tu sai quello che in proposito dice Dante:

Lo maggior don che Dio per sua larghezza

Fesse creando ed alla sua bontate

Più conformato, e quel ch’ei più apprezza,

Fu della volontà la libertate,

Di che le creature intelligenti,

E tutte e sole, furo e son dotate.

La libertà adunque è cosa per sé eccellente, così alta, così divina, di tale gloria a Dio e a noi, che Egli nella sua infinita sapienza e bontà ha preferito che vi fossero di quelli che ne abusassero, facendo il male e conseguentemente dannandosi, anziché non donarcela. Del resto per la stessa ragione che tu dici il Signore non avrebbe neppure dovuto darci gli occhi, le mani, la lingua, eccetera, perché non possiamo noi servirci, e non vi hanno molti purtroppo, che si servono anche di tali sensi per fare il male e dannarsi? In conclusione: o togliere la libertà all’uomo, o ammettere il male morale e la conseguente dannazione di taluni.

— Qualche cosa ho inteso. Iddio però, se lo volesse, potrebbe impedire in noi l’abuso della libertà, e trascinarci per forza sulla via del bene.

Sì, lo potrebbe benissimo. Ma sarebbe un far violenza alla nostra libertà. Dio vuol trattarci bene e non venir meno alla natura che ci ha dato, né fare con noi come si farebbe con un automa. Questo inoltre sarebbe un diminuire la nostra felicità futura. Quanto ci sarà più dolce il paradiso, pensando che abbiamo dovuto sostener delle lotte contro del male affine di conseguirlo!

— Ciò è verissimo. Ma intanto come conciliare tutto ciò con la bontà divina? Se Iddio è infinitamente buono, perché, sapendo che taluni andranno dannati, nulladimeno li crea?

Questa, amico mio, si può veramente riguardare come la più grave e più spaventosa difficoltà della dottrina cattolica. Cercherò di districarla alquanto ma brevemente, perché nello scandagliare questo mistero, si corre troppo rischio di sbagliare. – Vedi: Iddio è libero di fare quel che vuole e la libertà di Dio è sì gran bene, che non può venire al confronto con nessun bene o nessun male delle creature. Perciò sebbene Iddio preveda che taluno sarà malvagio, non perciò Egli deve rinunziare alla libertà di crearlo. Ma creandolo, lo fa Egli forse a questo fine che sia malvagio? Mai no: Egli lo crea, ancorché preveda che sarà malvagio, ma lo crea col fine che sia buono e si salvi, perciocché è certissimo che Dio vuole di volontà sincerissima che tutti gli uomini, che vengono al mondo, si salvino, e senza eccezione di sorta, perché da tutti senza eccezione vuole praticato il bene ed evitato il male e la conseguente salute eterna di tutti. Inoltre a tutti gli uomini, anche a quelli che andranno dannati, Iddio dà gli aiuti necessari per salvarsi. Dunque se taluni, ricevendo da Dio il benefizio dell’esistenza e gli aiuti necessari a conseguire il loro fine, nulla di meno si dannano, perché abusano di tale benefizio e di tali aiuti, si dovrà dire che Iddio non sia buono, non sia benefico?

— No, certamente.

Aggiungi poi, che dal male morale, che Iddio permette in taluni, male per cui costoro si dannano, Egli sa cavare facilmente sì gran bene, da far risplendere anche in ciò di vivissima luce la sua bontà.

— E come mai?

Ci sono ad esempio degli uomini che fanno molto male e determinano così la loro dannazione? E Iddio di fronte a questi malvagi fa vedere la sua bontà a stimolarli in mille maniere alla penitenza, ad attendere pazientemente che si convertano, a dar loro spazio di tempo perché lo facciano. Vi sono dei malvagi, che non contenti di fare essi il male e andare essi incontro alla dannazione, vorrebbero ancora indurre altri a fare lo stesso, e si valgono a tal fine della loro prepotenza per tentarli o perseguitarli, se non si arrendono alle loro inique voglie? E Iddio manifesta la sua bontà nel sostenere i buoni, nell’aiutarli ad essere vincitori in tale lotta, nel fare sì che in tal guisa si presenti al mondo lo spettacolo delle virtù eroiche praticate dalle sante vergini, dai santi martiri, dai santi d’ogni maniera, che a costo di qualsiasi sacrificio restano fedeli alla sua tede ed alla sua legge. Insomma in un modo o in un altro Iddio cava sempre del bene dal male, e così fa sempre palese, nello stesso male che permette, la sua bontà. – Ma a questo riguardo se trovi ancora delle oscurità, ripensa all’osservazione che già ti feci, che il mistero è sempre mistero, e che se possiamo vederlo chiaro da qualche lato, vederlo chiaro del tutto ci è assolutamente impossibile.