I PAPI DELLE CATACOMBE (9)

I Papi delle Catacombe [9]

[J. Chantrel: I Papi delle Catacombe. Dillet ed. Parigi, 1862]

V

Successione dei Papi.

I Papi meritavano di essere i generali di queste armate di martiri, di queste legioni di dottori, di santi, di vergini? Quasi tutti coloro che si succedettero sulla cattedra di San Pietro, nei due secoli che vennero ad attraversare la storia, morirono martiri, e tutti furono modello di ogni virtù, tutti si mostrarono intrepidi difensori della fede e della dottrina; nelle difficoltà gli occhi erano voltati a loro, ad essi venivano indirizzati. Tutte le Chiese li riconoscevano come i Vescovi dei Vescovi: il loro primato brilla, da questi primi secoli, di un bagliore sul quale la sola empietà può tentare di ammassare nubi. Non li si vede indubbiamente produrre delle opere così magnifiche come quelle conosciute di diversi dottori; ma essi, quasi continuamente nascosti nelle catacombe, regnano spesso solo qualche anno o qualche mese, sostenendo le fatiche delle persecuzioni, affaticati dalle sollecitudini di una Chiesa tormentata più vivamente di tutte le altre, e dalla sollecitudine di tutte le Chiese del mondo, avrebbero mai potuto avere il tempo di scrivere magnifiche opere come quelle dei dottori che tutti i secoli hanno studiato ed ammirato? L’autorità ha generalmente un’azione meno eclatante, ma non meno utile e spesso più efficace della discussione, e questo lo si vede precisamente nell’oscurità relativa che circonda i primi Papi, una prova in più dell’universalità della loro azione e dell’autorità generale di cui essi godevano. Un rapido colpo d’occhio sulla loro successione fa vedere quale posto importante occupino nella Chiesa. Il Primato di san Pietro nel collegio apostolico non può essere contestato. Avendo Gesù-Cristo promesso alla Chiesa di essere con essa fino alla fine dei secoli, è ai successori di San Pietro che doveva passare questo Primato, con tutti i privilegi del Principe degli Apostoli, il potere supremo delle chiavi, e l’infallibilità che gli permetteva di confermare i suoi fratelli, secondo le stesse parole del Salvatore. Avendo San Pietro occupato successivamente due sedi, quella di Antiochia e quella di Roma, non potevano aversi dubbi che su queste due sedi. Ora non è ad Antiochia che Pietro è morto; il suo successore ad Antiochia, non potendo essere il capo della Chiesa quando S. Pietro viveva, non poteva trasmettere al suo successore se non i suoi privilegi, cioè quelli di un semplice Vescovo. Infatti mai Antiochia ha reclamato il primato; e si è visto sant’Ignazio, scrivendo ai romani, distinguere la loro Chiesa tra tutte le altre. Tutto si riduce dunque nel constatare che San Pietro è morto Vescovo di Roma e, fatto stabilito nel modo più incontestabile, a constatare la successione legittima degli altri Vescovi di Roma. Ora se c’è qualche difficoltà nell’ordine della successione dei due o tre Pontefici e sulla data precisa della loro nomina e della loro morte, queste difficoltà si spiegano perfettamente con lo stato di violenta persecuzione in cui essi si trovavano, e per le differenze di cronologia che esistono anche per i fatti più universalmente ammessi nella storia di tutti i tempi. Così, nel primo secolo, esistono delle difficoltà per i primi tre o quattro primi successori di San Pietro: alcuni dànno i nomi di Lino, Cleto, Clemente e Anacleto, altri non ammettono che tre Pontefici: Lino, Cleto e Clemente. Questo proverebbe solo che ci sono stati recenti dubbi su questa successione, e non certo che ai tempi dei Papi i Cristiani ignorassero in quale ordine questi si fossero succeduti. L’erudizione moderna è venuta poi a risolvere la difficoltà: si riconosce oggi generalmente che Cleto ed Anacleto non formano che un solo Papa. Cleto, eletto come successore a San Lino, l’anno 78, fu compreso in un ordine di esilio contro i Cristiani reso, sotto Vespasiano, dal prefetto di Roma; al suo ritorno, sotto il regno di Tito, egli prese il nome di Anacleto, che in greco significa “richiamato”.

San Lino successe dunque a San Pietro, nell’anno 65 dopo Gesù-Cristo.

San Cleto o Anacleto successe a San Lino nel 76.

San Clemente successe a San Anacleto nel 91.

San Evaristo successe a San Clemente, nell’anno 100.

Il Pontificato di San Evaristo (dal 100 al 109), vide la terza persecuzione, quella di Traiano. Si attribuisce a questo Papa, che fu una delle vittime della persecuzione, l’istituzione dei Cardinali-Preti, poiché fu il primo che divise Roma in titoli o parrocchie, assegnandovi a ciascuna un sacerdote; egli ordinò pure che sette diaconi accompagnassero il Vescovo quando predicava.

Sant’Alessandro I (109-119), morto pure martire, ordinò ai preti di richiamare nella Messa il ricordo della Passione; egli ordinò la mescolanza dell’acqua e del vino nel calice, ed introdusse tra i Cristiani l’avere acqua benedetta nelle loro case. Gli si attribuisce pure l’uso del pane senza lievito per il santo sacrificio. « Così, sottolinea in questa occasione il cardinale Baronio, le pie tradizioni venute dagli Apostoli venivano confermate e ricevevano una sanzione regolare dai loro immediati successori. »

San Sisto I (119-128), che fu martirizzato sotto Adriano, emanò un decreto per riservare ai soli ministri il potere di toccare le cose sante, e completò la liturgia della Messa con il canto del Sanctus. Egli ordinò pure che i Vescovi che erano stati inviati alla Cattedra apostolica, non potessero essere ricevuti nel luogo della loro giurisdizione, se non con lettera della Santa-Sede, indirizzata in forma di saluto al loro popolo. La gerarchia si costituiva dunque nell’unità di governo, nell’autorità dei successori di San Pietro, e nessuno vi resisteva perché si riconosceva che il Vescovo di Roma non faceva che uso di un legittimo diritto.

San Telesforo, che governò la Chiesa dal 128 al 139, confermò l’istituzione apostolica della quaresima, ordinando un digiuno di sette settimane prima di Pasqua, mantenendo così l’uso di non celebrar Messa prima dell’ora terza (le nove del mattino), eccetto per la Messa di mezzanotte di Natale, ed introdusse nella liturgia il canto del Gloria in excelsis. Un glorioso martirio pose fine alla sua vita come a quella dei suoi predecessori.

San Igino (139-142), era nato ad Atene, e si era convertito dalla filosofia pagana alla fede. Egli scomunicò l’eresiarca Cerdone, che era venuto a predicare i suoi errori a Roma; tentò di ricondurre all’ovile con la dolcezza un altro eresiarca, Valentino; ma costui continuò a propagare le sue dottrine gnostiche, ed il successore di Igino dovette allontanarlo dalla comunione con la Chiesa. Igino morì martire, gli si attribuisce il costume di prendere un padrino ed una madrina per il Battesimo dei bambini.

San Pio I (142-157) morì martire. Uno dei suoi decreti mostra che il Battesimo dato dagli eretici è stato in ogni tempo considerato valido, quando le condizioni richieste per la somministrazione di questo Sacramento, fossero state adempiute.

Sotto il pontificato di Sant’Aniceto (157-158), cominciò ad agitarsi una questione che preoccupò per lungo tempo la Chiesa: quella della celebrazione della Pasqua. Siccome si era trasferita la celebrazione del sabato alla domenica, San Pietro aveva trasferito ugualmente in questo giorno la celebrazione della festa di Pasqua, ma non ne aveva fatto un obbligo, ed i Pontefici romani tollerarono in Oriente la celebrazione del sabato. Ben presto si ebbero delle discussioni tra i Cristiani sul soggetto di questa differenza. San Policarpo venne a Roma per conferire con Sant’Aniceto: il venerabile discepolo di San Giovanni aveva lavorato con successo a sradicare diversi usi introdotti nella Chiesa dai giudei convertiti; egli non credeva di dover sradicare questo uso, al quale egli stesso teneva perché lo aveva sempre visto seguito dall’Apostolo suo maestro. Aniceto pensò che non fosse ancora venuto il momento di cambiare su questo punto la disciplina della Chiesa orientale; egli permise anche agli asiatici che si trovavano a Roma di seguire l’usanza dei loro paesi. Policarpo fu trattato con grandi onori;  Aniceto gli fece celebrare i santi misteri in sua presenza; molti eretici si convertirono alla predicazione del Vescovi di Smirne, e l’insolenza di Marcione fu confusa da queste parole, che sono state già riportate: « Io ti conoscono come il figlio primogenito di satana. » I due santi Pontefici si diedero il bacio di pace prima di separarsi; essi non dovevano più rivedersi che nel cielo, ove il martirio li condusse entrambi. Il viaggio di San Policarpo a Roma è una preziosa testimonianza del primato della Cattedra apostolica e romana. Sant’Aniceto proibì ai chierici di lasciarsi crescere i capelli, secondo il precetto dell’Apostolo, ciò che si deve senza dubbio intendere della tonsura.

San Sotero gli successe (168-177); egli ebbe a sostenere la persecuzione di Marco Aurelio: i gloriosi martîri di Santa Felicita, di San Policarpo, dell’apologista San Giustino e di migliaia altri, precedettero il suo. Egli mostrò un grande zelo contro l’eresia, principalmente contro quella dei montanisti che allora si moltiplicavano, ed una grande carità per le chiese che soffrivano della persecuzione. Una lettera di San Dionigi di Corinto richiama l’antica e toccante carità di questi Pontefici romani, la cui sollecitudine paterna si estendeva ai bisogni di tutte le chiese dell’universo, e sovveniva all’indigenza ed alle necessità dei fedeli esiliati per la fede, o condannati dai persecutori alle cave ed alle miniere: « il vostro beato Vescovo Sotero, diceva San Dionigi ai romani, non soltanto ha conservato questo costume, ma ha fatto ancor più, distribuendo delle elemosine più abbondanti agli indigenti delle provincie, accogliendo con affettuosa carità i fratelli che si recano a Roma, prodigando loro le consolazioni della fede, con la tenerezza di un padre che riceve dei figli nelle proprie braccia. »

Il Pontificato di San Eleuterio (177-186) è celebre per il martirio di San Potino, di Santa Blandina, si San Sinforiano e altri migliaia in Gallia. La persecuzione non impediva che la fede si estendesse. Mentre essa infuriava, un piccolo re della Bretagna (Inghilterra), chiamato Lucio, inviò al Papa Eleuterio una lettera in cui lo pregava di procurargli la conoscenza della Religione cristiana. Eleuterio inviò in Bretagna dei sacerdoti che battezzarono Lucio con un grande numero dei suoi sottoposti. La luce della fede era penetrata nelle isole britanniche fin dal primo secolo; una tradizione vuole  che San Paolo sia stato a predicare il Vangelo fino a queste isole lontane; la conversione di Lucio rianimò la fede e ne estese l’impero. Era senza dubbio un re tributario dei Romani, forse anche di origine romana; checché ne sia, si può considerarlo come il primo re cristiano dell’Europa. Qualche storico moderno, fondandosi su dei testi non compresi degli antichi Padri, ha accusato San Eleuterio di avere ad un certo punto tollerato e condivisa l’eresia dei montanisti. [tra gli altri, M. Amédée Thierry, nella sua Histoire de la Gauli sous l’administration romaine.]. Alcuni di questi testi, come ha dimostrato il sapiente abbate Gorini, [Défense de l’Église contre les erreurs historiques.], non prova ciò che si sostiene; ce n’è uno di Tertulliano che si cita, che non prova niente, mentre ce n’è un altro che prova il contrario. Tertulliano dice: « Prassea denunciava i montanisti e le loro assemblee e, per farli condannare, si appoggiava sull’autorità dei predecessori del Papa a cui parlava. » Ora questo Papa, a cui parlava Prassea, era San Vittore, i cui predecessori sono San Sotero e san Eleuterio »; questi ultimi non si erano però mai mostrati favorevoli a Montano. San Ireneo, del quale si invoca l’autorità contro Eleuterio, dice, dopo aver dato la lista dei Pontefici che si sono succeduti sulla sede di Roma, da San Pietro fino ad S. Eleuterio, dice inclusivamente: «  È da essi che la tradizione e la predicazione apostolica è stata conservata nella Chiesa, ed è arrivata fino a ni. È di tutta evidenza che la fede vivificante di questi Vescovi è la medesima di quella degli Apostoli conservata e trasmessa in tutta purezza fino a questo momento ». [S. Ireneo: Contra Hæres.]. –  Una terza testimonianza si legge nel libro dei Pontefici [L’abbé Constant, l’Histoire et l’infaillibilité des Papes.]: « San Eleuterio, vi si dice, rinnovò e confermò con decreto la proibizione, fatta ai Cristiani, di respingere, adducendo motivi superstiziosi, alcun genere di nutrimento di cui gli uomini hanno costume di servirsi. » Questa privazione di certi alimenti era evidentemente una pratica della nuova setta. A San Eleuterio, morto martire per questa fede che lo si accusa falsamente di aver abbandonato, successe San Vittore I (186-200), sotto il cui Pontificato cominciò la persecuzione di Settimo Severo. La questione della Pasqua si ripropose: gli orientali celebravano sempre questa festa il quattordicesimo giorno della luna, come i Giudei; gli Occidentali la rinviavano alla Domenica seguente. I Papi avevano tollerato questa divergenza disciplinare, ma gli orientali, e soprattutto il metropolita di Efeso e le Chiese che erano sotto la sua dipendenza, se ne prevalsero per dire che la Chiesa latina aveva torto, e portarono una tal vivacità nei loro attacchi, che divenne urgente adottare una decisione definitiva. Il Papa decise che l’uso della Chiesa romana dovesse essere seguito dappertutto. Un Concilio dei Vescovi italiani, riuniti a Roma, era di questo avviso. I concili provinciali, riuniti in Oriente, accettarono la decisione venuta da Roma; solo il Concilio di Efeso rifiutò di accettarle: Vittore minacciò di scomunicare gli Asiatici che vi resistessero. Sant’Ireneo intervenne per consigliare misure di conciliazione; il Papa giudicò che si potesse attendere ancora qualche tempo prima di imporre la sua decisione e la diatriba si quietò. Quasi tutte le Chiese d’Oriente adottarono l’uso di Roma, che alcuni del resto già seguivano; gli altri si videro sempre più isolati nel loro sentimento, ed il Concilio di Nicea poté chiudere interamente questo affare che aveva fatto brillare l’autorità della Sede di Roma. A coloro che continuarono nella pratica dei Giudei, si diede il nome di Quartodecimani, o uomini del quattordicesimo giorno. Alcuni autori moderni hanno accusato San Vittore di durezza e di ira eccessiva in questa questione della Pasqua; lo studio serio dei fatti però ridimensiona questa accusa, come quella di montanismo che pure si è intentata nei suoi riguardi, appoggiandosi senza ragione su di un testo di Tertulliano già caduto in questa eresia. [Si veda in: l’abbé Constant, l’Histoire et l’infaillibilité des Papes.]. San Vittore aveva, in effetti, inviato in un primo tempo delle lettere di comunione a Montano, Ma questo avvenne su di un esposto che non mostrava alcun errore nella dottrina dell’eresiarca; quando il Papa si informò meglio circa questa dottrina, revocò le sue lettere. San Vittore confessò la fede nei tormenti; egli ha ricevuto il titolo di martire, ma si ignorano i particolari della sua morte. Egli emise un decreto con il quale dichiarava che l’acqua comune della fontana, di stagno, di fiume o di mare, potesse servire, in caso di necessità, per l’amministrazione del Battesimo. Questo decreto mostra che fino ad allora ci si serviva di acqua benedetta per amministrare questo Sacramento. San Zefirino (200-217), successore di San Vittore, ebbe a sopportare tutto il peso della persecuzione di Settimo Severo; ebbe il dolore di vedere la caduta di Tertulliano; vide elevarsi, al posto del dottore caduto, il sapiente Origene, la cui dottrina non fu sempre irreprensibile, ma i cui immensi lavori hanno reso onore alla Chiesa. Origene aveva per padre San Leonida, che morì martire. San Zefirino mostrò un grande zelo contro le eresie che andavano allora moltiplicandosi, ed ebbe la gloria di soffrire per la fede; ma non si sa se egli morisse tra i tormenti; qualche storico nota che fosse il primo Papa che non terminasse la sua vita da martire. Gli si deve qualche decreto importante, come quello che ordina di consacrare d’ora innanzi, il prezioso Sangue di Gesù-Cristo in coppe di vetro o di cristallo, e non in vasi di legno. San Callisto, o Callisto I (217-222), morì martire sotto Eliogabalo dopo aver fatto ingrandire considerevolmente il cimitero che porta il suo nome. Regolò l’istituzione del digiuno delle quatempora. La scoperta fatta, in questi ultimi tempi, di un libro intitolato “Philosophumena”, attribuito falsamente a San Ippolito, vescovo di Porto, e che è l’opera di un eretico del terzo secolo, ha fatto nascere delle gravi controversie sull’ortodossia e sulle legittimità di questo Papa, indegnamente calunniato dallo scrittore sconosciuto. Ecco come questo scrittore racconta la storia di Callisto: « Callisto era schiavo di un cristiano di nome Carpoforo, che faceva parte della casa dell’imperatore. Poiché professava la medesima fede del suo padrone, questi gli affidò una somma considerevole per fargli fare delle operazioni di banca. Callisto stabilì il suo “banco” in un luogo che si chiamava la “piscina publica”, e in qualità di incaricato degli affari di Carpoforo, ricevette da un certo numero di vedove e di fedeli, dei depositi importanti. Egli perse tutto e cadde nel più grande imbarazzo. Si ebbero delle persone che avvertirono il padrone dei disordini nei suoi affari, e Carpoforo annunciò l’intenzione di chiederne conto. A questa nuova, Callisto tentò di nuocere chi lo minacciava, e prese la fuga verso il mare. Trovò ad Ostia un vascello pronto a partire e vi si imbarcò; ma quanto avvenuto venne risaputo da Carpoforo che, sulla base delle indicazioni ricevute, si diresse verso il porto e si dispose a salire su di un naviglio che stazionava in mezzo alla rada. La lentezza del pilota fece sì che Callisto, che era nel bastimento, scorgesse da lontano il suo padrone; vedendo che stava per essere preso, e non badando alla sua vita in questa triste estremità, si gettò in mare; ma i marinai, gettandosi a loro volta dalla barca, lo salvarono, malgrado lui e, tra i clamori che spingevano coloro che erano sulla riva, lo consegnarono al suo padrone, che lo riportò e lo mise a girare la macina. Dopo qualche tempo, come di solito succede, alcuni Cristiani vennero a trovare Carpoforo per pregarlo di perdonare al suo schiavo, assicurando che dichiarava di aver affidato a certe persone una somma considerevole. Carpoforo, che era un uomo pio, rispose che egli faceva poco caso a ciò che gli apparteneva, ma attribuiva importanza ai depositi, perché molte persone venivano a lamentarsi da lui lamentandosi del fatto che si erano affidati a Callisto sulla sua raccomandazione. [Il sapiente abbate Doellinger, in Germania, e Mgr. Cruice, vescovo di Marsiglia, hanno fatto giustizia di tutte le calunnie lanciate dall’autore delle Philosophumena contro San Callisto. – L’Histoire della Chiesa di Roma, dall’anno 192 all’anno 224, di Mgr. Cruice, allora direttore della scuola ecclesiastica degli studi superiori. Parigi, 1856]. Tuttavia Carpoforo si lasciò persuadere ed ordinò di liberare lo schiavo; ma costui che non aveva nulla da rendere, e che si trovava nell’impossibilità di fuggire di nuovo, perché sorvegliato, immaginò un mezzo per esporsi alla morte. Un sabato, fingendo di andare a trovare dei creditori, si recò alla sinagoga, ove i Giudei erano radunati, e cercò di eccitare una turba durante la loro riunione. Essendosi i Giudei sollevati contro di lui, lo insultarono e lo caricarono di colpi; poi lo trascinarono davanti a Fusciano, prefetto della città, e deposero contro di lui in questi termini: “i Romani ci hanno permesso di esercitare pubblicamente il culto dei nostri padri, ed ecco, quest’uomo viene ad impedirlo e disturba le nostre cerimonie, dicendo che egli è Cristiano”.  Fusciano si indignò della condotta che i giudei rimproveravano a Callisto, e riferì a Carpoforo ciò che succedeva. Costui si affrettò ad andare dal prefetto e gli disse: “vi prego, signor Fusciano, non crediate che questo uomo sia Cristiano, perché egli cerca un’occasione per morire avendo dissipato grosse somme di denaro, come vi proverò”. I giudei credendo di vedere in ciò un sotterfugio usato da Carpoforo per liberare il suo servo, e ne reclamarono immediatamente le sentenza dal pretore. Egli cedette alle loro sollecitazioni, fece frustare Callisto e l’inviò alle miniere in Sardegna. Qualche tempo dopo, siccome altri martiri erano esiliato in quest’isola, la concubina di Commodo, Marcia, che aveva qualche sentimento religioso, volle fare una buona azione; fece venire il beato Vittore, Vescovo della Chiesa in questa epoca, e gli domandò chi fossero i martiri di Sardegna. Vittore le diede i nomi di tutti, eccetto quello di Callisto, di cui conosceva la condotta colpevole. Marcia, che godeva di grande favore presso Commodo, ne ottenne le lettere di liberazione che affidò ad un vecchio eunuco chiamato Giacinto. Costui si recò in Sardegna, ed avendo portato l’ordine al governatore di questo paese, liberò i martiri ad eccezione di Callisto. Ma Callisto, gettandosi alle ginocchia e versando lacrime, lo pregò di non escluderlo. Giacinto si lasciò commuovere e consentì a chiedere al governatore la libertà del prigioniero, dicendo che aveva egli stesso allevato Marcia, che si assumeva la responsabilità della decisione favorevole che sollecitava. Il governatore, cedendo a questa preghiera, liberò Callisto con gli altri. Essendo questi tornato a Roma, Vittore fu vivamente afflitto da ciò che era successo; ma poiché aveva buon cuore, mantenne il silenzio. Tuttavia, per evitare i rimproveri di un gran numero di persone (perché i crimini di Callisto erano recenti, e per soddisfare Carpoforo, che non cessava dal reclamare), ordinò a Callisto di ritirarsi ad Antium [Anzio] assegnandogli una pensione per il suo sostentamento. Dopo la morte di Vittore, Zefirino, suo successore, avendo scelto Callisto come amministratore degli affari ecclesiastici, gli fece un onore che divenne funesto a se stesso; lo richiamò da Antium e gli conferì la sorveglianza dei cimiteri dei Cristiani. Callisto, trovandosi sempre con Zefirino, gli rendeva delle cure ipocrite, giungendo ad affossarlo completamente. Il Vescovo divenne incapace di discernere ciò che si diceva e di sorprendere il disegno segreto di Callisto, che si accomodava a tutto ciò che facesse piacere al suo protettore. Dopo la morte di Zefirino, Callisto, credendo di essere pervenuto allo scopo che si era prefisso da tempo, cacciò Sabellio come eretico. » – Questa recita, disseminata da inverosimiglianze e contraddizioni, è come il modello di tutti coloro che si sono dati da fare per calunniare altri Papi. Non è difficile infatti dare giustificazioni a Callisto. Innanzitutto nulla prova che Callisto abbia commesso delle frodi: da ciò che si vede, egli fece delle speculazioni maldestre, che si lasciò ingannare, che mancò di abilità; ma quando si vedono i Cristiani intercedere per lui presso Carpoforo che lo aveva condannato a girar la mola, non si può essere impediti dal pensare che Callisto non demeritasse la stima dei suoi confratelli. Carpoforo stesso non mostra egli stesso la stima e l’affetto che ha conservato per Callisto tentando di sottrarlo alla sentenza provocata dai giudei? Quanto al dolore che provò il Papa San Vittore al suo ritorno, il calunniatore ha cura di dire che il Pontefice non testimoniò nulla; aggiungendo poi che San Vittore gli assegnò una pensione per farlo vivere ad Antium, egli dimostra che il Papa non lo considerasse con tanta pena e gli affidasse poi un impiego importante. Infine quest’uomo che si pretende essere così disprezzato e spregevole, diventa sacerdote, cosa che prova, essendo egli schiavo, che Carpoforo lo stimasse sempre e lo considerasse veramente come un martire che aveva sofferto per la fede. La fiducia che gli assegnò poi San Zefirino nel corso di un Pontificato di diciannove anni, ci completa la giustifica che rende sovrabbondante l’ultimo tratto della recita: San Callisto scaccia da Roma l’eretico Sabellius; il suo odio per l’eresia, le misure che aveva indubbiamente suggerito a San Zefirino contro gli eretici: ecco la spiegazione delle calunnie che lo perseguitano. L’autore dei “Philosophumena” fa tre rimproveri principali a San Callisto dopo l’elevazione all’Episcopato: secondo lui il Papa errava sul dogma della Trinità, nella disciplina relativa alla penitenza, e nella disciplina relativa al matrimonio ed al celibato imposto agli ecclesiastici. Sul primo punto c’è la testimonianza anche dall’autore dei Philosophumena stessi, che la dottrina di Callisto era perfettamente ortodossa, e quando dice che la parte di Callisto, componente la maggioranza, conservò anche dopo la morte la sua dottrina, egli confessa implicitamente che la fede del Papa era quella di tutta la Chiesa. I rimproveri relativi alla disciplina della penitenza provano semplicemente che Callisto mostra grade dolcezza nei riguardi dei settari che tornano alla Chiesa Cattolica, e che rendendo facile il ritorno degli apostati pentiti, agisse con una carità ed una saggezza che trovano imitatori tra i suoi più illustri successori. San Callisto pretendeva di rendere la legislazione ecclesiastica relativa al matrimonio affatto indipendente dalla legislazione romana. Egli dichiarava validi, contrariamente alla legge romana, i matrimoni contratti dalle giovani libere o nobili con gli schiavi o con gli uomini liberi, ma poveri. Così la Chiesa migliorava sempre più la condizione della schiavitù, ed elevava la dignità dell’uomo; non è certo ai nostri giorni che si possono rimproverare al santi Papa le misure adottate a questo riguardo. – Quanto alla legge del celibato ecclesiastico, l’autore del “Philosophumena” dice solamente che S. Callisto aveva ammesso nel clero degli uomini sposati; ma non fa intendere se non che fossero membri del basso clero, che allora erano molto numerosi. – Così nessuna delle calunnie lanciate contro Callisto sussiste, anzi molte tornano a sua gloria, ed il libro, recentemente ripubblicato, serve come tanti altri, scritti per ben altro scopo, alla glorificazione della Chiesa romana e del Papato. Noi lo constateremo più di una volta nel corso della storia della Chiesa.

Sant’Urbano I (222-230), trascorse quasi tutto il suo Pontificato nelle catacombe; abbiamo già visto come il suo martirio seguì di poco quello di Santa Cecilia. Questo grande Papa si distinse per un grande zelo per la fede, ed operò numerose conversioni tra i pagani. Nello stesso tempo provvide alla dignità ed allo splendore del culto. Rinnovò i vasi dell’altare in argento, e fece fare venticinque patene per le diverse parrocchie della città.

G. FRASSINETTI: CATECHISMO DOGMATICO (IX)

Catechismo dogmatico (IX) 

[Giuseppe Frassinetti, priore di S. Sabina di Genova:

[Ed. Quinta, P. Piccadori, Parma, 1860]

CAP. VII
DEI SACRAMENTI.

§ II

Del Battesimo.

— Come si definisce il Sacramento del Battesimo?

«Un Sacramento della nuova legge Istituito da Cristo per la spirituale rigenerazione dell’Uomo. »

— Che cosa significano queste parole: per la spirituale rigenerazione dell’uomo?

L’uomo è morto alla grazia di Dio per il peccato, mediante il Battesimo rinasce a questa grazia, che è la vita soprannaturale dell’anima. In questa spirituale rigenerazione, entra a fare parte dei fedeli di Cristo, diviene cioè membro della sua Chiesa, e acquista il diritto di essere ammesso agli altri Sacramenti.

— Quale è la materia di questo Sacramento?

L’acqua naturale, sia del pozzo, sia della fontana, sia del mare. Però nel Battesimo solenne, cioè nel Battesimo che si conferisce con le solite cerimonie, si deve adoprare l’acqua santa benedetta nel fonte del Sabato Santo.

— Altro liquido come vino, olio, ecc. non basterebbe per amministrare il Battesimo in caso di necessità?

É di Fede che solo l’acqua vera e naturale sia necessaria per dare validamente il Battesimo (Conc. Trìd. sess. VII c. 2 ), e perciò se si adoprasse qualunque altro liquido il Battesimo sarebbe invalido.

— Se si adoprasse acqua vera e naturale, ma vi si mischiasse altro liquido o materia, sarebbe parimente invalido il Battesimo?

Se si mischiasse in poca quantità, non sarebbe invalido; vediamo infatti che nell’acqua benedetta del fonte del Sabbato Santo si mischia alquanto di Olio e di Crisma, e non solo si può, ma si deve battezzare con quell’acqua, tolto il caso di necessità. Se poi il liquido, o altra materia mischiata con l’acqua, fosse in tale quantità che essa non si potesse dire più acqua, come se ci si mischiasse tanta terra che quell’acqua divenisse fango, in questo caso il Battesimo resterebbe invalido, cioè non avrebbe alcun effetto.

— Quale è la forma del Sacramento del Battesimo.

« Io ti battezzo in nome del Padre, e del Figliuolo, e dello Spirito Santo. »

— Chi cangiasse o tralasciasse di esprimere qualcuna di queste parole, il Battesimo resterebbe invalido?

Se la mutazione non fosse essenziale, e l’omissione nè meno, il Battesimo sarebbe valido, altrimenti non avrebbe più alcun valore. A cagione di esempio se si tralasciasse la parola io, il Battesimo avrebbe il suo valore, se si tralasciasse la parola battezzo non avrebbe più valore alcuno (vedi la prop. condann. da Aless. VIII n. 27).

— Quale attenzione si deve avere nel battezzare?

Di versare l’acqua sopra la testa del fanciullo in quantità che scorra sopra la medesima, e frattanto di proferire le parole della forma con tutta precisione.

— Perché si deve avvertire a versare l’acqua sopra la testa?

Perché versandola sopra altra parte del corpo, quantunque probabilmente il Battesimo sia valido, specialmente se si versasse sopra una parte delle primarie, come sopra il petto e sopra le spalle, non è però certissimo il suo valore come allorché si versa sopra la testa. È per questo che se un fanciullo fosse stato battezzato sopra altra parte del corpo, si dovrebbe ribattezzare sotto condizione, come prescrive il Rituale Romano. Versando l’acqua sopra la testa, si deve anche avere l’avvertenza di non farla scorrere soltanto sopra i capelli quando il battezzando li avesse folti, perché alcuni dubitano che l’acqua, non toccando la pelle, resti il Battesimo senza valore. Questo dubbio ha pochissimo fondamento, ma trattandosi di un Sacramento di tanta necessità, bisogna usare di tutta la sicurezza; perciò in quel caso si dovrebbe avvertire che l’acqua scorresse alquanto sopra la fronte, o le tempia.

— Perché richiedesi che l’acqua si versi in quantità che scorra?

Perché il Battesimo dovendo essere una lavanda, non si potrebbe dir tale qualora l’acqua non scorresse, e certo non si dice che una cosa si lavi se gli si lasciano cader sopra alcune gocce di acqua che si fermano dove cadono.

— É necessario che l’acqua si versi in tre volte sopra il capo del battezzando?

La Chiesa comanda così, e perciò si deve osservare questo rito; per altro il Battesimo sarebbe certamente valido anche versandola in una volta sola.

— Perché si vuole che tutto in un tratto, chi versa l’acqua proferisca insieme la forma?

Perché si deve sempre applicare la forma alla materia in tutti i Sacramenti, e quando vi fosse notabile interruzione tra il profferire la forma e l’applicare la materia, il Sacramento sarebbe invalido.

— Chi è il ministro del Sacramento del Battesimo?

Il ministro ordinario è il Sacerdote, lo straordinario è il Diacono, il quale può essere delegato ad amministrare questo Sacramento con le debite cerimonie, quando vi sia giusta causa. Avvenendo però qualche caso in cui non si possa avere né Sacerdote, né Diacono, qualunque persona, anche un fanciullo, purché abbia l’uso della ragione, e anche un infedele, può amministrare il Battesimo: questo è definito dal concilio IV Lateranese (Antoin. de Rap. c. 3 a. 1).

— Se un Chierico non ancora ordinato Diacono, o pure un laico battezzasse un fanciullo fuori del caso di necessità, tale Battesimo sarebbe valido?

Sarebbe valido certamente; per altro chi si arrogasse di battezzare fuori del caso di necessità peccherebbe gravemente (Antoine ibid.).

— Il Battesimo è necessario per tutti?

Il Battesimo è necessario a tutti perché conseguiscano l’eterna salute, ed è articolo di Fede definito dal Sacrosanto Concilio di Trento (Sess. VII, c. 5), però i Teologi distinguono tre sorta di Battesimo: il Battesimo di sangue, il Battesimo di desiderio e il Battesimo di acqua, il quale solo è propriamente Sacramento; gli altri due fanno le sue veci, ma non sono Sacramenti.

— Che cosa è il Battesimo di sangue?

Il Battesimo di sangue è il martirio. Se un bambino fosse ucciso in odio della fede prima di essere battezzato si salverebbe. Quando però nelle persecuzioni uccidevano i Cristiani adulti, e anche i loro bambini, se alcuno di tali bambini non era ancor battezzato, andava salvo.

— Che cosa è il Battesimo di desiderio?

Il desiderio di ricevere il Battesimo: se un turco trovandosi in punto di morte e non avendo chi volesse battezzarlo, desiderasse il Battesimo, si salverebbe.

— Che cosa si richiede per il martirio?

Nei fanciulli si richiede che siano uccisi in odio di Cristo o della sua Fede, né altro si richiede di più. In tal modo furono veramente martiri i ss. Innocenti fatti uccidere da Erode. – Negli adulti poi si richiede: 1. Che accettino la morte per un motivo onesto e soprannaturale; se uno accettasse il martirio per fine della vanagloria di essere onorato qual martire, la sua morte non avrebbe il merito del martirio; se un altro l’accettasse per levarsi dal condurre una vita angustiata nell’indigenza, né meno egli sarebbe martire. 2. Che non abbiamo volontà di difendersi; perché il morire in guerra per la Fede non è propriamente martirio. 3. In chi fosse reo di peccato mortale, si richiederebbe il pentimento del peccato almeno di attrizione. Si noti poi che il martirio deve essere volontario, essendo un atto della virtù della fortezza; per altro non è necessaria la volontà attuale e nemmeno virtuale d’incontrare la morte per attestare la Fede; basta la volontà abituale. Per esempio, in tempo di persecuzione un Cristiano è già risoluto di piuttosto morire che rinunziare alla Fede, un giorno mentre dorme è sorpreso dal persecutore ed è ucciso: egli è vero martire per la sua disposizione abituale in cui si trova. Si noti di più che il martirio non libera da tutte le altre obbligazioni che può aver l’uomo in punto di morte, se però può aver tempo a soddisfarvi. Se non avesse ancora preso il Battesimo, potendo sarebbe obbligato a prenderlo, se avesse qualche peccato mortale non ancor confessato, sarebbe obbligato a confessarlo, qualora avesse pronto il Sacerdote che lo potesse assolvere (Antoine ut sup. art. 5).

— Chi soffrisse la morte per non offendere un’altra virtù p. es. la castità, sarebbe martire?

Certamente; e le vergini che vollero morire piuttosto che cedere alle lusinghe dei tentatori della loro pudicizia, sono venerate per martiri (Antoine ut sup. art. 4).

— Chi soffre la morte per motivo di carità, servendo agli appestati, si può dire vero martire?

Egli non è martire in tutto il rigore del termine, perché il martirio è un atto della virtù della fortezza in difesa della Fede, o di qualche altra virtù cristiana; nell’esporsi al pericolo di morte servendo agli appestati, v’interviene un atto di fortezza non in difesa, ma soltanto in esercizio della virtù della carità; egli per altro potrebbe avere innanzi a Dio un merito uguale a quello del reale martirio: la Chiesa nel suo martirologio al 28 di febbraio venera come martiri quelli che morirono in servigio degli appestati (« Quos velat martyres religiosa fides venerare consuevit.») – (Antoine ibid.).

— Il martirio supplisce per tutti gli effetti del Battesimo?

Supplisce soltanto per l’infusione della grazia e per la remissione dei peccati, né può supplire per gli altri effetti, dei quali si dirà dopo, e per cui si richiede il Battesimo di acqua, cioè il Sacramento. È però da notare, circa la remissione dei peccati, che nel martirio restano rimessi in quella pienezza che si rimettono nel Battesimo, sicché al martire nulla resta a scontare di pena temporale nell’altra vita, e appena consumato il martirio è ammesso nella beatitudine eterna (Antoin. ibid. art. 4).

— In caso di necessità il semplice desiderio del Battesimo vale per conseguire l’eterna salute?

Il semplice desiderio non vale se non è accompagnato dall’atto di contrizione o di carità; perché i peccati non si rimettono fuori del Sacramento, e fuori del caso del martirio, senza la contrizione dei medesimi, cioè senza che l’uomo li detesti per motivo di perfetto amor di Dio (Antoin. ibid. art. 3).

— È poi certo che si possano battezzare validamente i fanciulli?

É articolo di Fede definito dal Sacrosanto Concilio di Trento (sess. VII, C. 13), e chi dicesse che non sono veri fedeli i fanciulli così battezzati o che si devono ribattezzare arrivati all’uso della ragione, o che è meglio aspettare per battezzarli che arrivino al suddetto uso, sarebbe eretico, e dallo stesso Concilio scomunicato.

— Se arrivati all’uso della ragione fossero malcontenti di essere stati battezzati, si potrebbero obbligare a vivere da Cristiani?

Il Battesimo li costituisce sudditi della Chiesa; si dovrebbero obbligare a vivere da Cristiani, e in nulla si dovrebbe attendere al loro malcontento, come irragionevole, ed ingiustissimo.

— Non sarebbe questo un violentar la coscienza.

Non si può dire che si violenti la coscienza ad alcuno quando si obbliga a fare ciò che è di suo preciso dovere. Se gli uomini costituiti sudditi della Chiesa mediante il Battesimo, potessero ricusare di restarle soggetti arrivati all’uso della ragione, tanto più potrebbero, arrivati a quest’uso, ricusare di sottomettersi all’autorità del legittimo governo di quello stato in cui nascono. Dico tanto più, perché è più sacra ed inviolabile l’autorità che ha la Chiesa sopra i battezzati, di quella che hanno i Sovrani sopra i loro popoli. Infatti non siamo fatti sudditi da alcun Sacramento, e non abbiamo alcun carattere indelebile che in perpetuo ci costituisca tali a riguardo del legittimo Sovrano nel cui stato nasciamo; se mutiamo stato non siamo più sudditi di lui; non vi ha frattanto alcuna parte di mondo in cui andando ci possiamo sottrarre dalla sudditanza della Chiesa dopo di essere stati battezzati (Con questo non si vuol dire che non sia anche sacra ed inviolabile l’autorità che ha il Sovrano sopra i suoi sudditi. È sacra perché i principi hanno la loro autorità da Dio; è inviolabile, perché tolto il caso in cui il principe comandasse il delitto, caso che non formerebbe uso di autorità, ma abuso di prepotenza, non può mai accadere che il suddito abbia il diritto di disubbidire al Sovrano).

— Quali sono gli effetti del Battesimo?

Si assegnano sei effetti del Sacramento del Battesimo:

1) Rimette il peccato originale ed ogni peccato attuale, tanto circa la colpa quanto circa la pena anche temporale dovuta al peccato attuale: cosicché se un adulto subito dopo ricevuto il Battesimo passasse all’altra vita, nulla avrebbe da scontare in Purgatorio; e perciò, se si battezzasse un adulto moribondo, non se gli potrebbe dare alcuna indulgenza.

2. Conferisce la grazia santificante, le virtù infuse e gli altri doni soprannaturali con cui l’uomo resta santificato e rinnovato interiormente.

3. Da un certo diritto ad ottenere le grazie attuali necessarie al conseguimento del suo fine, cioè necessarie all’uomo, affinché possa vivere cristianamente e santamente. Qui consiste la grazia sacramentale di cui si parlò nel § antecedente D. 15.

4. Imprime nell’anima un carattere indelebile per cui non si può ricevere che una volta sola.

5. Ci costituisce membri della Chiesa, e ci sottomette alla sua giurisdizione.

6. Ci dà la capacità e il diritto a ricevere gli altri Sacramenti, e ci fa partecipi dei beni comuni della Chiesa, come sono le Indulgenze, i frutti del Sacrificio della Messa ecc. (Antoine de Bapt. cap. 4, art. 1).

— Gli adulti che ricevono il Battesimo, devono avere il dolore dei peccati?

Del peccato originale non ne devono aver dolore, perchè non ci possiamo pentire se non dei peccati commessi con la propria individua personale malizia. È certo poi che devono essere pentiti dei peccati mortali attuali, almeno con dolore di attrizione, giacché questi non si perdonano mai senza che la persona ne abbia sincero dolore (Antoin. loc. cit. art. 2).

III.

Della Confermazione.

— Come si definisce il Sacramento della Confermazione?

« Un Sacramento della nuova Legge col quale si dà ai battezzati la fortezza dello Spirito Santo perché restino fermi nella Fede e la professino intrepidamente » (Habert).

— Chi è il ministro di questo Sacramento?

É articolo di Fede, dichiarato dal sacrosanto Concilio di Trento (sess. VII, can. 3) che il solo Vescovo è il ministro ordinario di questo Sacramento. Per altro il Sommo Pontefice può delegare anche un semplice Sacerdote a conferire la Confermazione; in tal caso il semplice Sacerdote, ne è ministro straordinario.

— Quale è la materia della Confermazione?

L’imposizione delle mani e l’unzione del Sacro Crisma.

— Quale ne è la forma?

Sono quelle parole « Io ti segno col segno della Croce, ti confermo col Crisma della salute. »

— Chi è il soggetto di questo Sacramento?

Ogni uomo battezzato; e per ciò, sebbene fuori il caso di necessità, secondo l’odierna disciplina non si debba dare se non dopo il settennio, anticamente si dava anche ai bambini immediatamente dopo il Battesimo (Hubert, cap. 2).

— Quali disposizioni si richiedono in quelli che ricevono questo Sacramento?

Quando il Vescovo crede di avere bastanti motivi per conferire questo Sacramento ai fanciulli prima dell’uso di ragione, si richiede soltanto che siano battezzati; conferendosi questo Sacramento agli adulti e ai fanciulli che hanno già l’uso della ragione, si richiede lo stato di grazia, e una conveniente istruzione circa le cose della Fede e la natura e gli effetti di questo Sacramento.

— Questo Sacramento è necessario per conseguire la salute eterna?

Non è necessario assolutamente parlando; e diversamente ne sarebbero ministri i semplici Sacerdoti affinché a tutti fosse cosa facile il riceverlo; per altro ciascuno potendo, è obbligato a ricevere questo Sacramento sotto pena di peccato mortale; come Benedetto XIV comanda ai Vescovi d’insegnare a quelli che non lo hanno ancora ricevuto .(Bulla Etsi pastoralis de rit. et dogm. Græcor. 1742, § 3, n. 4).

— Quali sono gli effetti di questo Sacramento?

Sono due: 1. Il carattere indelebile, come si disse nel § 1 alla D. 17. 2. È la pienezza dello Spirito Santo che dà all’anima una particolare fortezza onde si vincano facilmente le tentazioni contro la Fede, e si sopportino con invitta costanza le persecuzioni che si dovessero incontrare per causa della medesima. Questa pienezza dello Spirito Santo include anche l’aumento della grazia santificante (Hubert cap. 3).

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI ERETICI DI TORNO: REGNANS IN EXCELSIS

La bolla papale di Papa San Pio V, Regnans in Excelsis, depone la pretesa regina Elisabetta I e pone l’Inghilterra sotto interdetto. Pio V dichiara Elisabetta “serva di malvagità” ed eretica, e libera tutti i suoi sudditi dall’obbligo si esserle fedele. L’intramontabile condanna papale [irreformabile ed eterna davanti a Dio senza pubblica abjura] contro il mostruoso usurpante governo elisabettiano [l’attuale “monarchia britannica” è FALSA al 100% ] è pubblicata sia in latino che in italiano.

“L’ estrema corruzione e la malvagità della nazione inglese ha provocato la giusta ira di Dio. Quando la malizia raggiungerà la pienezza della sua misura, Dio, nella sua ira, invierà al popolo inglese (1) gli spiriti malvagi che lo puniranno e affliggeranno con severità (2) separando l’albero verde dal suo tronco originale [Roma] …. ” Profezia del re S. Edoardo d’Inghilterra (XI sec.)

(1) È un fatto storico che l’Eresiarca Enrico VIII (come Lutero) usasse la Cabala occulta nella formulazione della sua setta pervertita.

(2) Lo scisma anglicano venne predetto vari secoli prima del suo effettivo verificarsi.

(Immagine del (falso) “Principe” Carlo, che indossa una yarmulka ebraica il 29/04/08)

SDN PII PAPÆ V SENTENTIA DECLARATORIA
CONTRA ELIZABETHAM PRÆTENSAM ANGLIÆ REGEM,
ET EI ADHARENTES HÆRETICOS

Qua etiam dichiarantur absoluti omnis subditi a iuramento fidelitatis,
et quocunque alio debito.

ET DIENCEPS OBEDIENTES
Anathemate illaqueantur.

PIUS EPISCOPUS SERVUS SERVORUM DEI,
AD FUTURAM REI MEMORIAM

Regnans in excelsis, omnis in cœlo et in terra potestas, Unam Sanctam Catholicam et Apostolicam Ecclesiam, extra quam nulla est salus, uni soli in terris, videlicet apostolorum principi Petro, Petrique successori Romano Pontifici, in potestatis plenitudine tradidit gubernandam. Hunc unum super omnes gentes, et omnia regna principem constituit, qui evellat, destruat, dissipet, disperdat, plantet, et aedificet, ut fidelem populum mutuae charitatis nexu constrictum in unitate spiritus contineat, salvumque et incolumem suo exhibeat salvatori. Quo quidem in munere obeundo, nos ad praedictae ecclesiae gubernacula Dei benignitate vocati, nullum laborem intermittimus, omni opera contendentes, ut ipsa unitas, et Catholica religio (quam illius autore ad probandum suorum fidem, et correctionem nostram, tantis procellis conflictari permisit) integra conservetur . – Sed imporum numerus tantum potentia invaluit, ut nullus iam in orbe locus sit relictus, quem illi pessimis doctrinis corrumpere non tentarint; adnitente inter cæteros, flagitiorum serva Elizabetha prætensa Angliæ regina, ad quam veluti ad asilo omnium infestissimi profugium invenerunt. Hæc eadem, regno occupato, supremi ecclesiæ capitis locum in omni Anglia, eiusque præcipuam autoritatem atque iurisdictionem mostri sibi usurpanti, regnum ipsum iamtum ad fidem Catholicam, et bonam frugem reductum, rursus in miserum exitium revocavit. Usu namque verae religionis, quam ab illius desertore Henrico VIII olim eversam, claræ memoriæ Maria regina legittima huius sedis præsidio reparaverat, potenti manu inibito, secutisque et amplexis hæreticorum erroribus, regium consilium ex Anglica nobilitate confectum diremit; illudico oscuro hominibus hæreticis complevit, Catholicæ fidei cultores oppressit, improbos concionatores atque impietatum administros reposuit. Missæ sacrificium, preces, ieiunia, ciborum delectum, cœlibatum, ritualque Catholicos abolevit. – Libros manifest hæresim continentes toto regno proponi, impia mysteria, et instituta e Calvini præscriptum a se suscepta et observata, etiam a subditis servari mandavit. Episcopos ecclesiarum, rectores, et alios sacerdotes Catholicos suis ecclesiis et beneficiis eiicere, ac de illis, et aliis rebus ecclesiasticis in hæreticos disponere, de ecclesiæ causis decerenere ausa. Prælatis, clero, et populo, ne Romanam ecclesiam agnoscerent, neve eius præceptis sanctionibusque canonicis obtemperarent, interdixit; plerosque in nefarias leges suas venire, et romani pontificis auctoritatem atque obedientiam abiurare, seque solum in temporalibus et spiritualibus dominam agnoscere, iureiurando coegit; pœnas et supplicia in eos qui dicto non essent audientes imposuit, easdemque abis, qui in unitate fidei et prædicta obedientia perservarunt, exegit; Catholicos antistes et ecclesiarum rectores in vincula coniecit, ubi multi diuturno languore et tristitia confecti, extremum vitæ diem misere finierunt. – Qua omnia cum apud omnes nationes perspicua et notiora sint, et gravissimo quamplurimorum testimonio ita comprobata, ut nullus omnino locus excusationis, defensionis, aut tergiversationis relinquatur, nos multiplicantibus aliis atque aliis super alias impietatibus et facinoribus, et præterea fidelium persecutione, religionisque afflictione, impulsu et opera dictæ Elizabethæ quotidie magis ingraviscente; quoriam illius animum ita obfirmatum atque induratum intelligimus, ut non modo pias Catholicorum principum de sanitate et conversione preces monitionesque contempserit, sed ne huius quidem sedis ad ipsam hac de causas nuncios in Angliam traiicere permiserit, ad arma iustitiæ contra eam de necessitate conversi, dolorem lenire non possumus, quod adducamur in unam animadvertere, cuius maiores de republica Christiana tantopere meruere. Illius itaque autoritate suffulti, qui nos in hoc supremo iustitiæ throno, licet tanto impegnamente, voluit collocare, de apostolicæ potestatis plenitudine dichiaramus prædictam Elizabetham hæreticam, et hæreticorum fautricem, eque adhærentes in prædictis, anathematis sententiam incurrisse, esseque a Christi Corporis unitate præcisos. – Quin etiam ipsam prætenso regni prædicti iure, necnon omni et quocunque dominio, dignitate, privilegioque privatam; et item proceres, subditos, et populos dicti regni, ac cæteros omnes, qui illi quomodunque iuraverunt, un iuramento huiusmodi, ac omni prorsus dominii, fidelitatis, et obsequii debito, perpetuo absolutos, prout nos illos præsentium auctoritate absolvimus; et privamus eandem Elizabetham prætenso iure regni, omnibus supradictis aliisque. Præcipimusque et interdicimus universis et singulis proceribus, subditis, populis, et aliis prædictis, ne illi eiusve monitis, mandatis et legibus auded obedire. Qui secus egerint, eos simili anathematis sententia innodamus. Quia vero difficile nimis esset, præsentes quocunque illis opus erit perferre, volumus ut earum exempla, notaii publici manu, et prælati ecclesiastici, eiusve curiæ sigillo obsignata, eandem prorsus fidem in iudicio, et extra illud ubique gentium faciant, quam ipsae præsentes facerent, si essent exhibitæ vel ostensæ.

Dato Romæ apud Sanctum Petrum, anno incarnationis dominae millesimo quingentisimo sexagesimo nono, quinto kalendis Martii, pontificatus nostri anno quinto.

SDN. PAPA PIUS V

5 marzo 1570

UNA DICHIARAZIONE DI NOSTRO SIGNORE PAPA PIO QUINTO,  CONTRO ELISABETTA, LA PRETESA REGINA D’INGHILTERRA,  E GLI ERETICI A LEI ADERENTI.

… e di come tutti i suoi sudditi siano dichiarati sciolti dal Giuramento di Fedeltà e da ogni altra cosa a lei dovuta; e coloro che  d’ora in poi obbediscono a lei, sono accomunati  nell’Anatema

PIO VESCOVO, SERVO DEI SERVI DI DIO,

AD FUTURAM REI MEMORIAM

Colui che regna in alto, a cui è dato ogni potere in cielo e in terra, e che affidò il governo della Chiesa, Una, Santa, Cattolica ed Apostolica, fuori dalla quale non c’è salvezza, ad uno solo sulla terra, cioè a Pietro, Principe degli Apostoli, e al successore di Pietro, il Romano Pontefice, per essere governata in pienezza di potere. Egli solo ha costituito Principe su tutto i popoli e su tutti i regni, per strappare, distruggere, disperdere, consumare, piantare e costruire, per poter tenere il popolo fedele strettamente unito al vincolo della carità, nell’unità dello spirito, e presentarlo immacolato ed incolume al suo Salvatore. – Obbedienti a tale ufficio, Noi, chiamati per bontà di Dio  al governo della predetta Chiesa, non risparmiamo dolori e fatiche, lavorando senza omissioni, onde conservare integra nella medesima unità la Religione Cattolica (il cui Autore, onde provare la fede dei suoi figli e, per nostro emendamento, ha sofferto di essere punito con così grandi afflizioni). Ma il numero degli empi ha ottenuto un tale potere che non c’è più un posto in tutto il mondo che non abbiano provato a corrompere con le loro più malvagie dottrine ; la più perniciosa di tutte ha trovato rifugio, tra gli altri, presso in Elisabetta, la pretesa regina d’Inghilterra, la serva di malvagità. Questa stessa donna, pervenuta al regno usurpando mostruosamente il posto di capo supremo della Chiesa in tutta l’Inghilterra, la sua autorità e la giurisdizione, ha portato indietro il suo reame, già cattolico e che aveva dato buoni frutti, in uno stato di miserabile distruzione . Poiché aveva con mano forte inibito l’esercizio della vera Religione che Maria, la leggendaria legittima Regina, di illustre  memoria, dopo il suo rovesciamento da parte di Enrico VIII, aveva restaurato con l’aiuto di questa Sede, ha seguito ed abbracciato gli errori degli eretici; ha rimosso dal Regio consiglio la Nobiltà inglese, e lo ha riempito di oscuri uomini eretici, ha oppresso i seguaci della Fede Cattolica, ha istituito Predicatori disonesti ed empi ministri, ha abolito il sacrificio della Messa, le preghiere, i digiuni, l’astenersi dalle carni, il celibato, le cerimonie e i riti Cattolici. Ha ordinato che fossero letti in tutto il Reame libri contenenti Eresie manifeste, intrattenendo ed osservando i misteri e le empie istituzioni secondo il Prescritto di Calvino, osservati ugualmente da ella stessa; ha osato gettare vescovi, parroci di chiese e altri sacerdoti cattolici, fuori dalle loro Chiese e dai loro benefici, e conferire questi ed altre cose ecclesiastiche agli eretici; ha vietato ai prelati, al clero e al popolo di riconoscere la Chiesa di Roma o di obbedire ai suoi precetti e alle sue sanzioni canoniche; ha costretto la maggior parte di loro a render conto  alle sue leggi malvagie, ad abiurare l’autorità e l’obbedienza del Papa di Roma, e ad accettarla, sotto giuramento, come la loro unica signoria in questioni temporali e spirituali; ha imposto sanzioni e punizioni a coloro che non erano obbedienti ed ha preteso di esigere la predetta obbedienza da coloro che perseverano nell’unità della fede; ha gettato i prelati e i parroci cattolici in prigione, dove molti, logorati da lunghi languori e sofferenze, hanno miseramente concluso le loro vite. Tutto questo è manifesto e noto tra tutte le nazioni, talmente ben dimostrato dalla grave testimonianza di molti uomini, che non c’è posto per scuse, difese o tergiversazioni, Noi, vedendo le impunità e i crimini moltiplicarsi uno dopo l’altro, che la persecuzione dei fedeli e le afflizioni della religione diventavano quotidiane sempre più gravi sotto la guida e l’attività di detta Elisabetta, e riconoscendo che la sua mente è così ostinata e determinata, che ha non solo disprezzato le pie preghiere e gli ammonimenti con cui i principi cattolici hanno cercato di dissuaderla e convertirla, ma non ha nemmeno permesso che i nunzi inviati a lei in questa materia da questa Sede attraversassero l’Inghilterra, siamo obbligati dalla necessità a prendere contro di lei le armi della giustizia, anche se non possiamo astenerci dal rimpiangere di essere costretti a rivolgerci contro una delle maggiori comunità cristiana i cui antenati hanno così tanto meritato. Quindi, appoggiandoci all’autorità di Colui si è compiaciuto di porci, sebbene indegnamente, su questo supremo seggio di giustizia, facendo uso dalla pienezza del nostro potere apostolico, dichiariamo la predetta Elisabetta, eretica e fautrice di eretici, ed i suoi seguaci nelle questioni suddette, di essere incorsi nella sentenza di anatema, e di essersi posti fuori dall’unità del Corpo di Cristo. – E inoltre (la dichiariamo) essere privata del suo preteso titolo alla corona summenzionata e di ogni signoria, dignità e privilegio di sorta. – E anche (dichiariamo) che i nobili, i sudditi e le persone del suddetto Regno e tutti gli altri che in qualche modo avessero prestato giuramento a lei, siano assolti per sempre da tale giuramento e da qualsiasi dovere di fedeltà e obbedienza, derivante dalla signoria; e noi, per l’autorità dei nostri poteri, li assolviamo e priviamo inoltre la stessa Elisabetta del suo preteso titolo alla corona e di tutte le altre cose dette sopra. Diffidiamo e comandiamo a tutti e singolarmente i nobili, i sudditi, il popolo e tutti gli altri: che non osino obbedire ai suoi ordini, mandati e leggi. Coloro che agiranno in senso contrario, saranno coinvolti nella stessa sentenza di scomunica. – Perché in verità potrebbe essere troppo difficile trasmettere queste diposizioni ovunque fosse necessario, noi faremo in modo che siano riprodotti altri esemplari, per mano di un notaio e sigillate con il sigillo di un prelato della Chiesa o del suo tribunale, che abbiano simile forza ed efficacia, dentro e fuori dai procedimenti giudiziari, in tutti i luoghi tra le nazioni, ove questi stessi fossero esibiti o mostrati.

Dato a Roma, a San Pietro, nell’incarnazione di nostro Signore  millenovecentosessantanove, il quinto delle calende di marzo e anno quinto del nostro Pontificato.

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI USURPANTI APOSTATI DI TORNO – S. S. LEONE XIII: “DIVINUM ILLUD MUNUS”

Questa enciclica è una vera e propria catechesi illuminante sullo Spirito Santo del Santo Padre Leone XIII, oggi ancor più necessaria che nell’epoca in cui essa fu scritta. Si tratta di un documento, pieno di riferimenti scritturali, che un “vero” Cattolico dovrebbe stampare nella mente e nel cuore, e tutti dovrebbero sempre tenere in mente in particolare almeno le parole di S. S.: “… dobbiamo pregare lo Spirito Santo, del quale abbiamo tutti grandissimo bisogno. Siamo poveri, fiacchi, tribolati, inclinati al male, ricorriamo dunque a Lui, che è fonte inesausta di luce, di fortezza, di consolazione, di grazia”. Questo allora, immaginiamo oggi, in tempi di apostasia generalizzata dei popoli un tempo Cristiani, oggi indefferentisti, per non dire atei o al più “deisti” secondo i dettami delle società a guida massonica, non ultima quel Novus Ordo forgiato dai marrani ecumenisti-cabalisti, dagli antipapi-clown. Ma la risorsa straordinaria che è lo Spirito Santo, può far ribaltare ogni situazione umanamente impossibile, situazione che oggi vede dominante la sinagoga di satana occupare i sacri palazzi e le sacre istituzioni. Ma, fiduciosi ad oltranza nel “Non prævalebunt”, ci immergiamo nel mare salvifico dello Spirito Santo, che sarà in grado di ricreare e rinnovare tutte le cose, ristabilendo la magnificenza e la purezza della Sposa di Cristo, la Chiesa Cattolica, Una, Santa, Apostolica, Romana, sotto la guida del Vicario di Cristo, trionfante sui servi dell’anticristo, i “dei gentium, dœmonia”. – “… basti sapere che se Cristo è il capo della Chiesa, lo Spirito Santo ne è come l’anima: “… Ciò che è l’anima nel nostro corpo, lo Spirito Santo lo è nella Chiesa, corpo di Cristo”.


Leone XIII
Divinum illud munus

Lettera Enciclica

Lo Spirito Santo
9 maggio 1897

La divina missione, che Gesù Cristo ricevette dal Padre per la salvezza del genere umano, e che egli ha perfettamente compiuto, come fu rivolta quasi ad ultimo fine, a dare agli uomini la vita di gloria nella beata eternità, così nel corso del tempo fu intesa a partecipare e coltivare in essi la vita della divina grazia, perché poi fiorisse nella vita celeste. Perciò il Redentore medesimo pieno di benignità non cessa mai di invitare tutti gli uomini di ogni nazione e di ogni lingua al seno dell’unica sua chiesa: “Venite a me tutti; Io sono la vita; Io sono il buon pastore”. Tuttavia secondo i suoi altissimi progetti non volle compiere da sé solo nel mondo questa missione, ma come egli l’aveva ricevuta dal Padre, così lasciò che lo Spirito Santo la conducesse a termine, Ed è sempre dolce ricordare quelle parole, che Cristo poco prima di lasciare la terra disse ai suoi discepoli: “È bene per voi che io vada, perché se non andrò, non verrà sopra di voi il Paraclito; ma se andrò, ve lo manderò” (Gv 16,7). In queste parole egli diede come principale ragione della sua partenza e del suo ritorno al Padre, soprattutto l’utilità per i suoi cari che deriverà dalla venuta dello Spirito Santo, ed essendo egli che lo manda, dimostra in tal modo anche da sé procede come dal Padre e che lo stesso Spirito, come avvocato, come consolatore e come maestro, avrebbe compiuto nel mondo l’opera da sé cominciata. Vale a dire il compimento della redenzione era giustamente riservato alla virtù molteplice e ammirabile di questo Spirito, che nella creazione aveva “ornato i cieli” (Gb XXVI,13) e “riempita la terra” (Sap 1,7),

Orbene, sulle tracce del Salvatore, principe dei pastori e vescovo delle anime nostre, Ci siamo studiati di camminare sempre anche Noi, aiutati dalla divina grazia, continuando la sua missione, affidata dapprima agli apostoli e in particolare a Pietro, “la cui dignità non vien meno neppure in un erede indegno”. Da tal fine mossi in tutti gli atti del Nostro ormai lungo pontificato a due cose abbiamo mirato e miriamo principalmente: alla restaurazione cioè della vita cristiana nella famiglia e nella società, nei prìncipi e nei popoli, perché solo Cristo è la vera vita di tutti, e al ritorno dei dissidenti alla Chiesa Cattolica, perché è questa la volontà di Cristo, che si abbia un solo ovile sotto un solo pastore. Ora pertanto che Ci sentiamo vicini al termine della Nostra vita mortale, Ci piace affidare in particolar modo l’opera Nostra, qualunque sia stata, allo Spirito Santo, che è vita e amore, perché egli la maturi e la fecondi. E per un più felice risultato nel desiderato fine, avvicinandosi la solennità della Pentecoste, vogliamo parlarvi dello Spirito Santo, dell’azione cioè che egli esercita nella Chiesa e nelle anime col dono dei suoi superni carismi. In tal maniera sarà ravvivata e rinvigorita, come Noi ardentemente desideriamo, la tede nel mistero augustissimo della Trinità e m particolare accresciuta e alimentata la pietà verso questo divino Spirito, al quale vanno tanto debitori tutti coloro che seguono la via della verità e della giustizia, mentre, come notò san Basilio, “tutta l’economia ordita dalla divina bontà intorno all’uomo, se fu eseguita dal nostro Salvatore e Dio Gesù Cristo, fu però portata a compimento per grazia dello Spirito Santo”.

E prima di entrare nel tema proposto, Ci piace ed è utile soffermarci un po’ sul mistero della Triade sacrosanta. Questo mistero è chiamato dai sacri dottori “sostanza del nuovo testamento”, cioè il mistero dei misteri, principio e fine di tutti gli altri, per conoscere e contemplare il quale furono creati in cielo gli angeli, in terra gli uomini, mistero adombrato già nell’antico testamento e più tardi più chiaramente insegnato da Dio stesso, venuto a bella posta dagli angeli fra noi: “Nessuno ha mai veduto Dio, l’unigenito Figlio che è nel seno del Padre l’ha rivelato” (Gv 1,18). Chiunque pertanto si metta a scrivere o parlare di sì grande mistero abbia sempre davanti agli occhi l’ammonimento dell’Angelico; “Quando si parla della Trinità, conviene farlo con prudenza e umiltà insieme, perché, come dice Agostino, in nessun’altra ricerca intellettuale è maggiore o la fatica o il pericolo di sbagliare, o il frutto se si coglie nel vero”. E il pericolo sta in ciò che nella fede e nella pietà non si confondano le divine Persone, e non si moltiplichi l’unica natura mentre “la fede cattolica ci insegna a venerare un solo Dio nella Trinità e la Trinità in un solo Dio” [Simbolo “Quicumque”; Denz 75]. Perciò il Nostro predecessore Innocenzo XII respinse le istanze di coloro, che domandavano una festa propria in onore del Padre, e se vi sono dei giorni consacrati ai vari misteri compiuti dal Verbo incarnato, non c’è però una festa speciale per il Verbo, solo in quanto Persona divina; e la Stessa antichissima solennità di Pentecoste non riguarda lo Spirito Santo, come spirato dal Padre e dal Figlio, ma piuttosto ricorda il suo avvento, o esterna missione.

E tutto ciò fu sapientemente ordinato per non dare occasione a moltiplicare la divina essenza col distinguere le Persone. Anzi la chiesa, per mantenere nei suoi figli la purezza della fede, volle istituita la festa della Trinità, resa poi universale dal pontefice Giovanni XXII; alla santissima Trinità ha lasciato innalzare altari e templi e, dopo una celeste visione, ha anche approvato per la redenzione degli schiavi un ordine religioso ad onore e col titolo della santissima Trinità. S’aggiunga a ciò come il culto tributato ai santi, agli angeli, alla vergine Madre di Dio, a Cristo, ridonda tutto e s’incentra nella Trinità; non v’è preghiera rivolta a una delle tre divine Persone, dove non si faccia menzione anche delle altre; nelle litanie, invocate distintamente le tre Persone, si conclude con un’invocazione comune; i salmi, gli inni hanno tutti la stessa dossologia al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo; le benedizioni, i riti, i sacramenti s’accompagnano e s’amministrano implorando la Trinità. Ma a tutto questo alludeva già l’Apostolo in quella sentenza: “Poiché da Dio, per Dio, in Dio sono tutte le cose, a Dio sia gloria per tutti i secoli” (Rm XI, 36), esprimendo così la trinità delle Persone e l’unità dell’essenza, la quale essendo in tutte la medesima fa sì che si debba a ciascuna, come al solo e medesimo Dio, la stessa gloria eterna. S. Agostino commentando le citate parole scrive: “Non si deve prendere indistintamente ciò che l’Apostolo distingue dicendo: da Dio, per Dio, in Dio; con la prima frase significa il Padre, con l’altra il Figlio, con l’ultima lo Spirito Santo”.

Di qui l’uso nella chiesa di attribuire al Padre le opere della potenza, al Figlio quelle della sapienza, allo Spirito Santo quelle dell’amore. Non già perché non siano comuni alle divine Persone tutte le perfezioni e tutte le opere esterne; infatti “sono indivise le opere della Trinità come ne è indivisa l’essenza”, poiché, come le tre divine Persone “sono inseparabili, così anche operano insieme”,7 ma per una certa relazione e quasi affinità che passa fra le opere esterne e il carattere proprio di ciascuna Persona, più all’una che alle altre si attribuiscono o, come dicono, si appropriano: “Come noi – sono parole dell’Angelico – ci serviamo delle creature quasi di segni e di immagini per manifestare le divine Persone, così facciamo degli attributi divini, e tale manifestazione tolta dai divini attributi si dice appropriazione” (Summa theol. I, q. 39, a. 7). In tal modo il Padre, che è “il principio della Trinità”, (S. Agostino, De Trinitate, I. IV, c. 20; PL 42, 906) è anche causa efficiente di tutte le cose, dell’incarnazione del Verbo, della santificazione delle anime, “da Dio sono tutte le cose”; da lui, a causa del Padre. Il Figlio poi, Verbo e Immagine di Dio, è causa esemplare per cui tutte le cose hanno forma e bellezza, ordine e armonia, egli, come via, verità e vita, ha riconciliato l’uomo con Dio, “per lui sono tutte le cose”; per lui, a causa del Figlio. E lo Spirito Santo è di tutto la causa finale, perché come nel suo fine la volontà e ogni cosa trova quiete, così egli che è la bontà e l’amore del Padre e del Piglio, da impulso forte e soave e quasi l’ultima mano all’altissimo lavoro dell’eterna nostra predestinazione, “in lui sono tutte le cose”; in lui, a causa dello Spirito Santo.

Osservati dunque rigorosamente gli atti di fede e di culto dovuti all’augustissima Trinità, cosa non mai abbastanza inculcata al popolo cristiano, volgiamo il Nostro discorso all’efficacia propria dello Spirito Santo.

E dapprima giova dare uno sguardo a Cristo fondatore della Chiesa e redentore del genere umano, L’incarnazione del Verbo è l’opera più grande che Dio abbia mai compiuto fuori di sé, alla quale concorsero tutti i divini attributi, in modo tale che non è possibile anche solo immaginarne una maggiore, ed è in pari tempo l’opera per noi più salutare. Ora un sì grande prodigio, benché compiuto da tutta la Trinità, tuttavia si ascrive come proprio dello Spirito Santo, onde dice il Vangelo che la concezione di Cristo nel grembo della Vergine fu opera dello Spirito Santo: “Si trovò incinta per opera dello Spirito Santo”, e “Quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo” (Mt 1,18.20): e a buon diritto, perché lo Spirito Santo è la carità del Padre e del Figlio, e il “grande mistero della divina bontà” (1Tm 3,16), che è l’incarnazione, fu causato dal suo immenso amore per l’uomo, come accenna san Giovanni: “Dio ci ha amati a tal segno da darci l’unigenito suo Figlio” (Gv 3,16). Si aggiunga che per tal fatto la natura umana fu sollevata alla dignità d’essere unita personalmente al Verbo, non per meriti che avesse, ma per pura grazia, che è dono proprio dello Spirito Santo: “Questa maniera – dice sant’Agostino – con cui Cristo fu concepito per opera dello Spirito Santo ci fa vedere la bontà di Dio, giacché la natura umana senza meriti precedenti nel primissimo istante fu unita alla persona del Verbo così intimamente che il medesimo fosse e figlio di Dio e figlio dell’uomo”. Né solo il concepimento di Cristo, ma anche la santificazione dell’anima sua, o “unzione”, com’è detta nei libri santi (At 10,38), fu compiuta dallo Spirito Santo, come pure ogni sua azione “era come sotto l’influsso dello stesso Spirito” che in particolar maniera cooperò al suo sacrificio: “Cristo per mezzo dello Spirito Santo si offrì vittima innocente a Dio” (Eb 9,14).

Dopo ciò qual meraviglia che tutti i carismi dello Spirito Santo inondassero l’anima di Cristo? In Lui una pienezza di grazia propria di Lui solo, cioè nella massima misura ed efficacia a tutti gli effetti, in lui tutti i tesori della sapienza e della scienza, le grazie date gratuitamente, le virtù, i doni tutti, preannunciati da Isaia (Is IV,1; XI,2-3) e simboleggiati in quella colomba miracolosa, apparsa sul Giordano, quando Cristo col suo battesimo ne consacrava le acque per il nuovo sacramento. E qui ben nota sant’Agostino che “Cristo non ricevette lo Spirito Santo all’età di trent’anni, ma quando fu battezzato, era senza peccato e aveva già lo Spirito Santo; solo nell’atto del battesimo prefigurò il suo corpo mistico, che è la Chiesa, in cui i battezzati ricevono in special modo lo Spirito Santo”. Dunque l’apparizione sensibile dello Spirito Santo su Cristo e la sua azione invisibile nell’anima di Lui figurano la duplice missione dello Spirito Santo, visibile nella Chiesa e invisibile nell’anima dei giusti.

La Chiesa concepita e uscita già dal cuore del secondo Adamo come addormentato sulla croce, apparve al mondo la prima volta in modo solenne il giorno della pentecoste con quell’ammirabile effusione che era stata vaticinata dal profeta Gioele (cf. II,28-29), e in quel dì medesimo si iniziava l’azione del divino Paraclito nel mistico corpo di Cristo, “posandosi sugli Apostoli, quasi nuove corone spirituali, formate con lingue di fuoco, sulle loro teste”. E allora gli Apostoli “discesero dal monte – come scrive il Crisostomo – non già portando a somiglianza di Mosè le tavole di pietra nelle mani, ma lo Spirito Santo nell’anima spargendo tesori e rivi di verità e di carismi”.

Così si avverava l’ultima promessa fatta da Cristo poco prima di salire al cielo, di mandare cioè di lassù lo Spinto Santo, che negli Apostoli avrebbe compiuto e quasi suggellato il deposito della rivelazione: “Io ho ancora molte cose da dirvi, ma adesso non le intendereste; lo Spirito di verità, che vi manderò Io, vi insegnerà tutto” (Gv XVI,12-13). Lo Spirito Santo infatti, che è spirito di verità, in quanto procede dal Padre, eterno Vero, e dal Figlio, che è verità sostanziale, riceve dall’uno e dall’altro insieme con l’essenza tutta la verità, che poi a vantaggio nostro comunica alla chiesa, assistendola perché non erri mai, e fecondando i germi rivelati, finché, secondo l’opportunità dei tempi, giungano a maturazione. E poiché la chiesa, che è mezzo di salvezza, deve durare sino al tramonto dei secoli, è appunto questo divino Spirito che ne alimenta e accresce la vita; “Io pregherò il Padre ed egli vi manderà lo Spirito di verità, che resterà per sempre con voi” (Gv XIV,16-17). Da Lui infatti sono costituiti i Vescovi, che generano non solo i figli, ma anche i padri, cioè i sacerdoti, a guidarla e nutrirla con quel sangue con cui Cristo la acquistò: “Lo Spirito Santo pose i Vescovi al governo della Chiesa di Dio, redenta col sangue di Lui” (At XX, 28); gli uni e gli altri poi, Vescovi e sacerdoti, per singolare dono dello Spirito Santo hanno la potestà di rimettere i peccati, come disse Cristo agli Apostoli: “Ricevete lo Spirito Santo: saranno perdonati i peccati a quelli, ai quali voi li avrete perdonati e ritenuti a quelli, ai quali voi li avrete ritenuti” (Gv XX, 22-23). E poi l’origine divina della Chiesa appare in tutto il suo splendore nella gloria dei carismi, dei quali si circonda; ma questo serto ella riceve dallo Spirito santo. Per ultimo basti sapere che se Cristo è il capo della Chiesa, lo Spirito Santo ne è come l’anima: “Ciò che è l’anima nel nostro corpo, lo Spirito Santo lo è nella Chiesa, corpo di Cristo”.

E stando così le cose, non si può immaginare e attendere un’altra più larga e abbondante “effusione e manifestazione dello Spirito Santo”, giacché ora nella Chiesa se ne ha la massima e durerà sino a quel giorno in cui la stessa Chiesa dallo stadio della milizia verrà assunta al glorioso consorzio nella letizia dei trionfanti.

Ma non meno ammirabile, sebbene più difficile a intendersi, anche perché del tutto invisibile, è l’azione dello Spirito Santo nelle anime. Anche questa effusione è copiosissima, tanto che Cristo medesimo, che ne è il donatore, l’assomigliò a un fiume abbondantissimo, come è registrato in san Giovanni: “Dal seno di colui che crede in me, come dice la Scrittura, sgorgheranno le sorgenti d’acqua viva”; e poi lo stesso evangelista, commentando queste parole, soggiunge: “Ciò disse dello Spirito Santo, che avrebbero ricevuto i credenti in Lui” (Gv VII, 38-39). È verissimo che anche nei giusti vissuti prima di Cristo vi fu lo Spirito Santo con la grazia, come leggiamo dei profeti, di Zaccaria, del Battista, di Simeone e di Anna, giacché non fu nella pentecoste che lo Spirito Santo “incominciò ad abitare nei santi la prima volta, in quel dì accrebbe i suoi doni, mostrandosi più ricco, più effuso”. Erano sì figli di Dio anch’essi, ma rimanevano ancora nella condizione di servi, perché anche il figlio “non differisce dal servo”, finché “è sotto tutela” (Gal IV,1-2); e poi mentre quelli furono giustificati in previsione dei meriti di Cristo, dopo la sua venuta molto più abbondante è stata la diffusione dello Spirito Santo nelle anime, come avviene che la mercé vince in prezzo la caparra e la verità supera immensamente la figura. La qual cosa è espressa da san Giovanni là dove dice: “Non era ancora stato dato lo Spirito Santo, perché Gesù non era stato ancora glorificato” (Gv VII, 39); ma non appena Cristo, “ascendendo al cielo”, ebbe preso possesso del suo regno, conquistato con tanti patimenti, subito ne dischiuse con divina munificenza i tesori, “spargendo sugli uomini i doni” dello Spirito Santo (Ef IV, 8); “non già che prima non fosse stato mandato lo Spirito Santo, ma certo non era stato donato come fu dopo la glorificazione di Cristo”. La natura umana è essenzialmente serva di Dio: “La creatura è serva, noi per natura siamo servi di Dio”; anzi, infetta dall’antico peccato, la nostra natura cadde tanto in basso che noi divenimmo odiosi a Dio: “Eravamo per natura figli d’ira” (Ef II,3), E non vi era forza che bastasse a rialzarci da tanta caduta, a riscattarci dall’eterna rovina. Ma quel Dio, che ci aveva creati, si mosse a pietà, e per mezzo del suo Unigenito sollevava l’uomo ad un grado di nobiltà maggiore di quella donde era precipitato. Non c’è lingua che valga a narrare questo lavoro della grazia divina nelle anime degli uomini; essi perciò nelle sacre Scritture e dai santi dottori sono detti rigenerati, creature novelle, consorti della divina natura, figli di Dio, deificati, e così via.

Ora così ampi benefici dobbiamo riconoscerli propriamente dallo Spirito Santo. Egli è lo “Spirito di adozione di figli, per cui a Dio diciamo: Abbà, Padre”; egli ci fa sentire tutta la dolcezza di tale invocazione, “testimoniando all’anima che noi siamo figli di Dio” (Rm VIII, 15-16). E per spiegare ciò viene opportuna l’osservazione dell’Angelico che vi è una somiglianza tra la duplice opera dello Spirito Santo, poiché è per virtù dello stesso Spirito che “Cristo fu concepito nella santità perché fosse figlio naturale di Dio, e gli uomini sono santificati perché siano figli di Dio adottivi”. E così in maniera più nobile, che non sia nell’ordine naturale, la rigenerazione spirituale è frutto dell’Amore increato.

La quale rigenerazione o rinnovazione, per ciascuno, s’inizia nel battesimo, nel qual sacramento, cacciato dall’anima lo spirito immondo, vi discende per la prima volta lo Spirito Santo, rendendola somigliante a sé, perché “è spirito ciò che nasce dallo Spirito” (Gv III, 7). Con più abbondanza nella cresima ci viene donato lo stesso Spirito, infondendoci costanza e fortezza per vivere da Cristiani, quello Spirito cioè che vinse nei martiri, trionfò nei vergini sulle illecite passioni. E abbiamo detto che lo Spirito Santo dona se stesso, “diffondendo Dio nei nostri cuori la carità per lo Spirito Santo che ci è dato” (Rm V,5); infatti non solo dà a noi doni divini, essendo Egli degli stessi doni l’Autore, ma per giunta Egli stesso è il primo dono, procedendo dal mutuo amore del Padre e del Figlio, “il dono di Dio altissimo”.

E per capire meglio la natura e gli effetti di questo dono, conviene richiamare ciò che insegnano sulla scorta delle divine Scritture i sacri dottori, e cioè che Dio si trova in tutte le cose “per la sua potenza, con la sua presenza e con la sua essenza, in quanto egli tiene tutto a sé soggetto, tutto vede, di tutto è la causa prima”.  Ma nella creatura ragionevole Dio si trova in un’altra maniera; cioè in quanto è conosciuto e amato, giacché è anche secondo natura amare il bene, desiderarlo, cercarlo. Da ultimo Dio per mezzo della sua grazia sta nell’anima del giusto, in un modo più intimo e ineffabile, come in un suo tempio, donde deriva quell’amore vicendevole, per cui l’anima è intimamente a Dio presente, è in lui più che non soglia farsi fra dilettissimi amici e gode di Lui con una piena soavità.

Ora questa unione, che propriamente si chiama “inabitazione”, la quale non nell’essenza, ma solo nel grado differisce da quella che fa i beati in cielo, sebbene si compia per opera di tutta la Trinità, “con la venuta e dimora delle tre Persone nell’anima amante di Dio” (Gv XIV, 23), tuttavia allo Spirito Santo si attribuisce. Giacché anche negli empi il Padre e il Figlio dimostrano la loro potenza e sapienza, ma lo Spirito Santo, il cui carattere personale è la carità, non può dimorare che nel giusto. Si aggiunga che a questo Spirito si dà l’appellativo di Santo, anche perché, essendo il primo ed eterno Amore, ci muove e spinge alla santità, che in fine consiste nell’amore di Dio. Perciò i buoni, che pure dall’Apostolo sono detti templi di Dio, non sono mai chiamati espressamente templi o del Padre, o del Figlio, ma dello Spirito Santo: “Non sapete voi che le vostre membra sono tempio dello Spirito Santo, che abita in voi, avendolo ricevuto da Dio?” (1Cor VI, 19).

Inoltre lo Spirito Santo, abitando nelle anime pie, reca con sé molti altri doni celesti. Infatti “lo Spirito Santo – è dottrina dell’Aquinate – procedendo con Amore, è anche il primo dono; perciò dice Agostino, che per mezzo di questo che è lo Spirito Santo, molti altri doni sono distribuiti alle membra di Cristo”. Sono fra questi doni quelle arcane ispirazioni e inviti che si fanno sentire nella mente e nel cuore per impulso dello Spirito Santo, dai quali dipende l’inizio della buona strada, l’avanzamento in essa, la salvezza eterna. E poiché queste voci e ispirazioni ci arrivano per vie occulte, nelle sacre pagine sono alcune volte assimilate alle vie del vento; e l’angelico maestro le paragona bellamente ai movimenti del cuore la cui virtù è tutta nascosta: “II cuore ha una tal quale influenza occulta, onde al cuore è assomigliato lo Spirito Santo, che in maniera invisibile vivifica la Chiesa”.

Inoltre il giusto che già vive la vita di grazia e opera con l’aiuto delle virtù, come l’anima con le sue potenze, ha bisogno di quei sette doni che si dicono propri dello Spirito Santo. Per mezzo di questi l’uomo si rende più pieghevole e forte insieme a seguire con maggiore facilità e prontezza il divino impulso; sono di tanta efficacia da spingerlo alle più alte cime della santità, sono di tanta eccellenza, da rimanere intatti, benché più perfetti nel modo, anche nel regno celeste. Con questi doni poi lo Spirito Santo ci eccita e ci solleva all’acquisto delle beatitudini evangeliche, che sono quasi fiori sbocciati in primavera, preannuncianti la beatitudine eterna. Infine sono soavissimi quei frutti elencati dall’apostolo (cf. Gal V, 22), che lo Spirito Santo produce e dona ai giusti anche in questa vita mortale, frutti pieni di dolcezza e di gusto, quali s’addicono allo Spirito Santo “che nella Trinità è la soavità del Padre e del Figlio e riempie d’infinita dolcezza tutte le creature”.

E così questo divinissimo Spirito, procedente dal Padre e dal Figlio nell’eterno lume della santità come amore e come dono, dopo essere apparso in figura nell’antica alleanza, effondeva la pienezza dei suoi doni in Cristo e nel suo mistico corpo, la Chiesa, e con la presenza e con la sua grazia richiamava gli uomini dalla via dell’iniquità, tramutandoli da carnali e peccatori in nuove creature spirituali e quasi celesti.

Ed ora, essendo così grandi i benefici ricevuti dall’infinita bontà dello Spirito Santo, dobbiamo per gratitudine rivolgerci a Lui, pieni d’ossequio e di devozione: e ciò si otterrà se gli uomini cercheranno di conoscerlo, amarlo, pregarlo ogni giorno più, al che Noi li esortiamo paternamente.

Forse non mancano ai nostri giorni di quelli, che se fossero interrogati, come una volta certuni dall’apostolo Paolo, se avessero ricevuto lo Spirito Santo, risponderebbero anch’essi: “Noi non sappiamo neppure se lo Spirito Santo esiste” (At XIX, 2); oppure, se l’ignoranza non giunge tant’oltre, certo in una gran parte è scarsa la cognizione che se ne ha; ne hanno sì sempre sulle labbra il nome, ma la loro fede è molto caliginosa. – Perciò si ricordino i predicatori e i parroci che è loro dovere spiegare diligentemente al popolo la dottrina cattolica sullo Spirito Santo, schivando le questioni ardue e sottili ed evitando quella stolta curiosità, che presume d’indagare su tutti i segreti di Dio. Si dilunghino piuttosto a spiegare chiaramente i molti e grandi benefici che ci sono venuti e continuamente ci vengono da questo divin Donatore, dissipando così ogni errore o ignoranza, che tanto sconviene ai “figli della luce”. E ciò Noi inculchiamo non solo perché si tratta di un mistero che direttamente ci ordina alla vita eterna, e perciò dev’essere creduto fermamente ed espressamente, ma anche perché un bene, quanto più intimamente e chiaramente è conosciuto, tanto più fortemente si ama. – Noi dobbiamo amare lo Spirito Santo, ed è questa l’altra cosa che vi raccomandiamo, perché lo Spirito Santo è Dio, e noi dobbiamo “amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze nostre” (Dt VI, 5), E poi Egli è il sostanziale, eterno e primo Amore, e non vi è cosa più amabile dell’amore; tanto più poi dobbiamo amarlo, per gli immensi benefici ricevuti, i quali se sono da una parte testimonianza dell’affetto di chi li fa, sono dall’altra richieste di gratitudine da chi li riceve. E questo amore reca due non piccoli vantaggi. Anzitutto ci spinge ad acquistare una conoscenza sempre più chiara dello Spirito Santo, perché “chi ama – come dice l’Angelico – non è contento di una qualunque notizia dell’amato, ma si sforza di penetrare nelle cose sue più intime, come è scritto dello Spirito Santo che, essendo l’Amore di Dio, scruta le cose divine anche più profonde”. L’altro vantaggio è di aprire sempre più largamente l’abbondanza dei suoi doni, perché come la freddezza chiude la mano del donatore, così al contrario la riconoscenza l’allarga. Perciò soprattutto è necessario che tale amore non consista solo in aride speculazioni e in ossequi esteriori, ma dev’essere operoso, fuggendo il peccato, con cui si fa allo Spirito Santo un torto speciale, Giacché quanto noi siamo e abbiamo, tutto è dono della divina bontà, che viene attribuita soprattutto allo Spirito Santo; orbene il peccatore l’offende mentre è beneficato, abusa per offenderlo dei doni ricevuti, e perché Egli è buono, prende ardire a moltiplicare le colpe. – Di più, essendo lo Spirito Santo Spirito di verità, se qualcuno manca o per debolezza o per ignoranza, troverà forse scusa davanti al tribunale di Dio, ma chi per malizia impugna la verità, fa un affronto gravissimo allo Spirito Santo. E tal peccato è adesso sì frequente, che sembrano giunti quei tempi infelicissimi, descritti da Paolo, nei quali gli uomini per giustissimo giudizio di Dio accecati, avrebbero tenuta la falsità per verità e avrebbero creduto al “principe di questo mondo”, al demonio bugiardo e padre di menzogna, come a maestro di verità: “Insinuerà Dio fra essi lo spirito dell’errore perché credano alla menzogna” (2Ts II,10), e “molti negli ultimi tempi abbandoneranno la fede per credere agli spiriti dell’errore e alle dottrine dei demoni” (1Tm IV,1),

Ma poiché lo Spirito Santo abita in noi, quasi in suo tempio, come sopra abbiamo detto, ripetiamo con l’apostolo: “Non vogliate contristare lo Spirito Santo di Dio, che vi ha consacrati” (Ef IV,30). E per questo non basta fuggire tutto ciò che è immondo, ma di più il cristiano deve risplendere per ogni virtù, soprattutto della purezza e della santità, per non disgustare un Ospite sì grande, giacché la mondezza e la santità si convengono al tempio. Quindi lo stesso apostolo grida; “Non sapete che voi siete tempio di Dio e lo Spirito di Dio abita in voi? Se alcuno oserà profanare il tempio di Dio, sarà maledetto da Dio; infatti santo dev’essere il tempio e voi siete questo tempio” (1Cor III,16-17): minaccia tremenda, ma giustissima.

Infine dobbiamo pregare lo Spirito Santo, del quale abbiamo tutti grandissimo bisogno. Siamo poveri, fiacchi, tribolati, inclinati al male, ricorriamo dunque a Lui, che è fonte inesausta di luce, di fortezza, di consolazione, di grazia. E soprattutto dobbiamo chiedergli la remissione dei peccati, che ci è tanto necessaria, giacché “lo Spirito Santo è dono del Padre e del Figlio e i peccati vengono rimessi per mezzo dello Spirito Santo come per dono di Dio”, e la liturgia più chiaramente chiama lo Spirito Santo “remissione di tutti i peccati”.- Sulla maniera poi d’invocarlo, impariamo dalla Chiesa, che supplice si volge allo Spirito Santo e lo chiama coi titoli più cari: “Vieni, padre dei poveri, datore dei doni, luce dei cuori, consolatore perfetto, ospite dolce dell’anima, dolcissimo sollievo“: e lo scongiura che lavi, che sani, che irrori le nostre menti e i nostri cuori e conceda a quanti in lui confidano il “virtù e premio“, “morte santa“, “gioia eterna“. Né si può dubitare che tali orazioni non siano ascoltate, mentre ci assicura che “Egli stesso prega per noi con gemiti inenarrabili” (Rm 8,26). Inoltre dobbiamo supplicarlo con fiducia e con costanza perché ogni giorno più ci illumini con la sua luce e ci infiammi della sua carità, disponendoci così per via di fede e di amore all’acquisto del premio eterno, perché egli è “il pegno dell’eredità che ci è preparata” (Ef 1,14).

Ecco, venerabili fratelli, gli ammonimenti e le esortazioni Nostre intorno alla devozione verso lo Spirito Santo, e non dubitiamo affatto che apporteranno al popolo cristiano buoni frutti in considerazione principalmente della vostra sollecitudine e diligenza. Certo non verrà mai meno l’opera Nostra in cosa di sì grave importanza, anzi intendiamo incoraggiare questo slancio di pietà nei modi che giudicheremo più adatti al bisogno. Intanto, avendo Noi, due anni or sono, col breve Provida matris raccomandato ai cattolici per la solennità di pentecoste alcune particolari preghiere per implorare il compimento della cristiana unità, Ci piace sulla stessa cosa adesso aggiungere qualche cosa di più. Decretiamo dunque e comandiamo che in tutto il mondo cattolico quest’anno e sempre in avvenire si premetta alla pentecoste la novena in tutte le chiese parrocchiali e anche in altri templi e oratori, a giudizio degli ordinari. Concediamo l’indulgenza di sette anni e sette quarantene per ogni giorno a quelli che assisteranno alla novena e pregheranno secondo la Nostra intenzione, l’indulgenza plenaria poi o in un giorno della novena, o nella festa di Pentecoste o anche fra l’ottava, purché confessati e comunicati preghino secondo la Nostra intenzione. Vogliamo parimenti che di tali benefìci godano anche quelli che, legittimamente impediti, non possono assistere alle dette pubbliche preghiere, anche in quei luoghi nei quali queste a giudizio dell’ordinario non possano farsi comodamente nel tempio, purché in privato facciano la novena e adempiano alle altre opere e condizioni prescritte. E Ci piace aggiungere dal tesoro della Chiesa che possano lucrare di nuovo l’una e l’altra indulgenza tutti coloro che in pubblico o in privato rinnovano secondo la propria devozione alcune preghiere allo Spirito Santo ogni giorno durante l’ottava di pentecoste sino alla festa della santissima Trinità inclusa, purché soddisfino alle altre condizioni sopra ingiunte. Tutte queste indulgenze sono applicabili anche alle anime sante del purgatorio.

E ora il Nostro pensiero ritorna a ciò che dicemmo in principio per affrettarne dal divino Spirito con incessanti preghiere l’adempimento. Unite, dunque, venerabili fratelli, alle Nostre preghiere anche le vostre, anche quelle di tutti i fedeli, interponendo la mediazione potente e accettissima della beatissima Vergine. Voi ben sapete quali relazioni intime e ineffabili corrano tra lei e lo Spirito Santo, essendone la Sposa Immacolata.
La Vergine con la sua preghiera molto cooperò sia al mistero dell’incarnazione sia all’avvento dello Spirito Santo sopra gli apostoli. Continui ella dunque ad avvalorare col suo patrocinio le Nostre comuni preghiere, affinché si rinnovino in mezzo alle afflitte nazioni i divini prodigi dello Spirito Santo, celebrati già da Davide: “Manderai il tuo Spirito e saranno create e rinnovellerai la faccia della terra” (Sal CIII,30).

Intanto come auspicio dei doni celesti e pegno del Nostro affetto, impartiamo di gran cuore a voi, venerabili fratelli, al clero e al vostro popolo, nel Signore l’apostolica benedizione.

Roma, presso San Pietro, 9 maggio 1897, anno XX del Nostro pontificato.

 

 

 

DOMENICA DI PENTECOSTE (2018)

DOMENICA DI PENTECOSTE (2018)

Incipit

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus

Sap 1:7. Spíritus Dómini replévit orbem terrárum, allelúja: et hoc quod cóntinet ómnia, sciéntiam habet vocis, allelúja, allelúja, allelúja [Lo Spirito del Signore riempie l’universo, allelúia: e abbraccia tutto, e ha conoscenza di ogni voce, allelúia, allelúia, allelúia].

Ps LXVII:2 Exsúrgat Deus, et dissipéntur inimíci ejus: et fúgiant, qui odérunt eum, a fácie ejus. [Sorga il Signore, e siano dispersi i suoi nemici: e coloro che lo òdiano fuggano dal suo cospetto].

Spíritus Dómini replévit orbem terrárum, allelúja: et hoc quod cóntinet ómnia, sciéntiam habet vocis, allelúja, allelúja, allelúja [Lo Spirito del Signore riempie l’universo, allelúia: e abbraccia tutto, e ha conoscenza di ogni voce, allelúia, allelúia, allelúia].

Oratio

Orémus.

Deus, qui hodiérna die corda fidélium Sancti Spíritus illustratióne docuísti: da nobis in eódem Spíritu recta sápere; et de ejus semper consolatióne gaudére.[O Dio, che in questo giorno hai ammaestrato i tuoi fedeli con la luce dello Spirito Santo, concedici di sentire correttamente nello stesso Spirito, e di godere sempre della sua consolazione.]

Lectio

Léctio  Actuum Apostolórum. Act. II:1-11

“Cum compleréntur dies Pentecóstes, erant omnes discípuli pariter in eódem loco: et factus est repéente de coelo sonus, tamquam adveniéntis spíritus veheméntis: et replévit totam domum, ubi erant sedentes. Et apparuérunt illis dispertítæ linguæ tamquam ignis, sedítque supra síngulos eórum: et repléti sunt omnes Spíritu Sancto, et coepérunt loqui váriis linguis, prout Spíritus Sanctus dabat éloqui illis. Erant autem in Jerúsalem habitántes Judaei, viri religiósi ex omni natióne, quæ sub coelo est. Facta autem hac voce, convénit multitúdo, et mente confúsa est, quóniam audiébat unusquísque lingua sua illos loquéntes. Stupébant autem omnes et mirabántur, dicéntes: Nonne ecce omnes isti, qui loquúntur, Galilæi sunt? Et quómodo nos audívimus unusquísque linguam nostram, in qua nati sumus? Parthi et Medi et Ælamítæ et qui hábitant Mesopotámiam, Judaeam et Cappadóciam, Pontum et Asiam, Phrýgiam et Pamphýliam, Ægýptum et partes Líbyæ, quæ est circa Cyrénen, et ádvenæ Románi, Judaei quoque et Prosélyti, Cretes et Arabes: audívimus eos loquéntes nostris linguis magnália Dei.” [Giunto il giorno di Pentecoste, tutti i discepoli stavano insieme nello stesso luogo: e improvvisamente si sentí un suono, come di un violento colpo di vento: che riempí tutta la casa ove erano seduti. Ed apparvero loro delle lingue come di fuoco, che, divise, si posarono su ciascuno di essi, cosicché furono tutti ripieni di Spirito Santo e incominciarono a parlare in altre lingue, secondo che lo Spirito concedeva loro. Soggiornavano allora in Gerusalemme molti Giudei, uomini religiosi di tutte le nazioni della terra. A tale suono si radunò molta gente, e rimase attònita, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. E si stupivano tutti, e si meravigliavano, dicendo: Costoro che parlano, non sono tutti Galilei? E come mai ciascuno di noi ha udito il suo linguaggio natio? Parti, Medi ed Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia, della Panfilia, dell’Egitto e della Libia, che è intorno a Cirene, e pellegrini Romani, tanto Giudei come proseliti, Cretesi ed Arabi: come mai abbiamo udito costoro discorrere nelle nostre lingue delle grandezze di Dio?]

 Alleluja

Allelúja, allelúja

Ps CIII:30 Emítte Spíritum tuum, et creabúntur, et renovábis fáciem terræ. Allelúja. Hic genuflectitur:

Veni, Sancte Spíritus, reple tuórum corda fidélium: et tui amóris in eis ignem accénde.

Sequentia

Veni, Sancte Spíritus, et emítte cælitus lucis tuæ rádium.

Veni, pater páuperum; veni, dator múnerum; veni, lumen córdium.

 Consolátor óptime, dulcis hospes ánimæ, dulce refrigérium.

 In labóre réquies, in æstu tempéries, in fletu solácium.

O lux beatíssima, reple cordis íntima tuórum fidélium.

Sine tuo númine nihil est in hómine, nihil est innóxium.

Lava quod est sórdidum, riga quod est áridum, sana quod est sáucium.

 Flecte quod est rígidum, fove quod est frígidum, rege quod est dévium.

 Da tuis fidélibus, in te confidéntibus, sacrum septenárium.

Da virtútis méritum, da salútis éxitum, da perénne gáudium. Amen. Allelúja.

Evangelium

 Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Joannes XIV:23-31

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Si quis díligit me, sermónem meum servábit, et Pater meus díliget eum, et ad eum veniémus et mansiónem apud eum faciémus: qui non díligit me, sermónes meos non servat. Et sermónem quem audístis, non est meus: sed ejus, qui misit me, Patris. Hæc locútus sum vobis, apud vos manens. Paráclitus autem Spíritus Sanctus, quem mittet Pater in nómine meo, ille vos docébit ómnia et súggeret vobis ómnia, quæcúmque díxero vobis. Pacem relínquo vobis, pacem meam do vobis: non quómodo mundus dat, ego do vobis. Non turbátur cor vestrum neque formídet. Audístis, quia ego dixi vobis: Vado et vénio ad vos. Si diligere tis me, gaudere tis utique, quia vado ad Patrem: quia Pater major me est. Et nunc dixi vobis, priúsquam fiat: ut, cum factum fúerit, credátis. Jam non multa loquar vobíscum. Venit enim princeps mundi hujus, et in me non habet quidquam. Sed ut cognóscat mundus, quia díligo Patrem, et sicut mandátum dedit mihi Pater, sic fácio.”

OMELIA

[Mons. G. Bonomelli: “I Misteri Cristiani” vol. III, Queriniana Ed., Brescia, 1894; impr.]

« Gesù disse ai suoi discepoli: se alcuno mi ama, osserverà la mia parola: e il Padre mio lo amerà e verremo a Lui e faremo dimora presso di Lui. Chi non mi ama, non osserva la mia parola: pure la parola, che avete udita, non è mia, ma di Colui che mi ha mandato. Queste cose vi ho ragionato, conversando con voi. Ma l’Avvocato, lo Spirito Santo, che il Padre vi manderà nel nome mio, quegli vi insegnerà ogni cosa e vi rammenterà quanto io vi ho detto. Vi lascio la pace; la pace do a voi, non come la dà il mondo, io la dò a voi: non si turbi il vostro cuore, né si sgomenti. Avete udito, come io vi ho detto: Vado e vengo a voi; se mi amaste, certamente godreste, che Io vado al Padre, perché il Padre è maggiore di me. Ed ora ve l’ho detto prima che avvenga, acciocché quando sia avvenuto, crediate. Già non parlerò guari con voi, perché il principe di questo mondo viene; ma in me non ha nulla. Ma perché il mondo conosca, che Io amo il Padre, e che come il Padre mi ha ingiunto, così fo Io ». (Giov. XIV, 24-31).

Dettare o recitare parecchi Ragionamenti sul mistero della Pentecoste senza spiegare l’Epistola e il Vangelo proprio della festa, mi sembra cosa ripugnante alla natura stessa della festa e del mistero. La Chiesa, interprete fedele dei misteri che ricorda, nella Epistola e nel Vangelo della Messa di ciascuno d’essi, riporta costantemente quelle parti dei Libri santi che ai misteri stessi più direttamente si riferiscono. Il perché se noi vogliamo con la maggior esattezza possibile studiare e conoscere ciascun mistero che si celebra, non v’è via più spedita e più sicura che quella di studiare e penetrare a fondo il senso della Epistola e del Vangelo, che si leggono nella Messa propria del mistero istesso. – Nel Ragionamento precedente mi ingegnai di spiegare quel tratto degli Atti Apostolici che si legge nell’Epistola e feci del mio meglio per ribattere e sfatare la spiegazione razionalistica, che distrugge il fatto e il mistero che oggi si ricorda e si onora. In questo verrò commentando i pochi versetti tolti dal Vangelo di S. Giovanni, che pochi minuti or sono avete udito solennemente cantare. In questi versetti Gesù parla della venuta dello Spirito Santo e degli effetti ammirabili, che avrebbe prodotto negli Apostoli e per conseguenza in tutti quelli che l’avrebbero ricevuto. L’argomento pertanto è strettamente connesso col mistero che festeggiamo, e per la sua stessa natura è interessante per tutti e perciò degnissimo della vostra attenzione. – I versetti, che noi togliamo a chiosare, si leggono in quell’incomparabile discorso dell’ultima cena, in cui Gesù Cristo versò tutte le ricchezze della sua carità e che sarà il monumento eterno della tenerezza ineffabile del suo cuore; prima di imprenderne il commento è necessario pigliare il filo del discorso alquanto in alto a fine d’averne luce. Gesù conforta gli Apostoli della imminente sua dipartita, assicurandoli che se ne va a preparare loro il luogo. A Tommaso, Che domanda della via, risponde che la sanno e a Filippo che vuol vedere il Padre, dice, che vedendo sé, vedono anche il Padre. Promette loro che faranno opere anche maggiori delle sue, e esaudirà le loro preghiere e che verrà lo Spirito Santo, nel quale conosceranno Lui e in Lui vivranno. All’Apostolo Taddeo spiega perché non può farsi conoscere al mondo, e qui comincia il nostro commento. « Chi ama me, osserverà la mia parola ». L’Apostolo Taddeo aveva detto a Gesù Cristo: « … e perché dopo la tua risurrezione ti manifesterai a noi Apostoli e non al mondo? » e Gesù gli risponde: « Sappi, che se visibilmente Io non mi manifesterò che a voi soli per opera vostra, la mia dottrina e per la fede Io mi manifesterò a quanti crederanno e osserveranno la mia legge e mi ameranno ». – Vi è una doppia manifestazione di Cristo, l’una visibile agli occhi della carne, l’altra solo alla mente, per la fede. La prima, ancorché cosa buona e santa, non giova nulla se non è congiunta alla seconda. Che valse la vista materiale di Gesù Cristo a tante migliaia di uomini, che lo videro, l’udirono e gli parlarono, ma non credettero in Lui? Nulla! Per contrario quante migliaia e milioni di uomini che non lo videro nella sua natura umana, né l’udirono, ma credettero in Lui, lo amarono e osservarono la sua legge, furono salvi ed ora con Lui e di Lui sono beati in Cielo! Non diciamo adunque: O se vedessi Gesù Cristo! Se lo udissi! Crediamo in Lui, a Lui uniamoci per amore vivo ed operoso ed a Lui piaceremo come ed anche meglio che se lo vedessimo con gli occhi ed udissimo con le nostre orecchie. La carne, disse Cristo, per sé non giova a nulla; è lo spirito che dà vita, cioè è l’anima, che con la mente e con il cuore, aderendo a Dio per fede e per carità, partecipa della sua vita istessa. – Gesù rincalza la sua dottrina e dice : « E il Padre mio amerà costui e verremo a lui e faremo dimora presso di lui ». Alto e stupendissimo insegnamento! « Visibilmente a voi soli mi mostrerò: invisibilmente per fede e per amore mi mostrerò a chiunque vorrà: anzi ti dico, o Taddeo, che non solo Io mostrerò per fede me stesso a chiunque lo vorrà, ma con me verrà il Padre e porremo dimora in Lui ». Ma come, o divin Maestro, Voi ed il Padre dimorerete in chi crederà alla vostra parola e la osserverà? E lo Spirito Santo è forse separato da Voi e dal Padre? Forse il Padre e il Figlio con lo Spirito Santo si muovono e discendono nell’anime dei giusti? Dio non è Egli immenso e perciò dovunque? Come può esso entrare ed uscire, avvicinarsi o allontanarsi da un’anima? Dio è immenso e immutabile e perciò è dovunque con la sua presenza, con la sua azione e con la sua stessa essenza. Immaginare che Dio vada e venga, entri ed esca da un’anima, è cosa indegna di Dio, che ripugna alla sua infinita perfezione e se noi usiamo questo linguaggio, e l’usano i Libri santi, è per la debolezza e povertà estrema del nostro linguaggio istesso e dei nostri concetti, che non possono sollevarsi sino a conoscere Dio nella sua natura: ma ciò che la lingua dice in modo tanto imperfetto, corregga tosto la mente sorretta dalla fede. O Cristiano! Dio è dovunque con la sua essenza: lo sai, lo credi; ma è pur vero che non è dovunque con la sua fede e con la sua grazia. Tu mi dici: “Come ciò?” Ascolta e intenderai. Tu conosci per fermo un gran numero di persone, altre vicine, altre lontane: come le conosci tu? Tu le conosci in quantochè la loro immagine, la loro fisionomia, la memoria dei loro atti sono come dipinte nella tua mente e in qualche modo essi stanno dentro di te, come possono stare le cose conosciute nella mente di chi le conosce. Ma vi è un altro modo molto più nobile, con cui le persone e le cose tutte stanno in te. Tu nel tuo pensiero tieni dentro di te le cose e le persone che conosci: ma tu puoi essere esse indifferente e puoi anche odiarle e respingerle. Allora rimangono soltanto nella mente. Ma se tu, contemplandole nella mente le ami, che accade? Dalla mente esse discendono nel tuo cuore, dalle vette del pensiero calano nel santuario della tua volontà e con le funi dell’amore tu stringi a te quelle cose e quelle persone delle quali possiedi il conoscimento e con esse, secondo l’intensità dell’affetto, formi una cosa sola. Allora quelle cose e quelle persone fanno dimora in te, sono in te per forma che tu stesso dici: – Io le tengo qui dentro del mio cuore, le ho nell’anima mia -. Vi stanno per via di cognizione (che è poca cosa) e per forza d’amore, che è tutto. È questa la dottrina di San Tommaso, fondata sulla natura delle cose stesse ed è in questo senso, o dilettissimi, che Gesù Cristo col Padre e con lo Spirito Santo fanno dimora nell’anima del giusto. Voi, o figli, per l’amore portate nei vostri cuori i vostri genitori: e voi, o giusti, per l’amore portate nei vostri cuori Dio stesso, la S. Trinità, Padre, Figliuolo e Spirito Santo. E per quanto tempo Dio abita nei vostri cuori? Fino a che lo amate e serbate in voi la sua grazia. E quando Dio si parte dalle anime vostre? – Quando cessate di amarlo, quando gli preferite una creatura e donate ad altri il vostro cuore, allora Dio rimane nella vostra mente come conosciuto per ragione o per fede, ma non è più nel vostro cuore, perché più non l’amate e il dolce vincolo che lo stringeva a voi, con il peccato è rotto. Ma di ciò basti e proseguiamo il commento del nostro Vangelo. « Chi me non ama, non osserva la mia parola ». A quelli poi che non credono in me, né mi amano, come potrei far conoscere la mia risurrezione e manifestare me stesso? Essi sono impotenti a ricevere il beneficio della mia manifestazione e la colpa è tutta loro, perché non amano la verità e nulla fanno per averla detta, così Cristo, la mia parola, o mia dottrina, che è la stessa cosa: ma, ponete ben mente, essa più propriamente non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Gesù Cristo riferisce la dottrina sua al Padre come uomo non solo, ma eziandio come Dio. Come uomo, tutto ciò che Gesù Cristo è, fa e dice, tutto appartiene a Dio-Trinità, perché come uomo anch’Egli al pari di noi è creato e tutto riceve dalla divina larghezza: ma anche come Dio, Gesù Cristo deve dire: la mia dottrina ed ogni mia cosa è del Padre, da cui tengo tutto. E perché? Perché da Lui con la generazione eterna ricevo la stessa sua sostanza e tutta la scienza che vi comunico. Perciò la mia parola, o la mia dottrina, è mia ed è del Padre mio: Egli la fonte prima, io il rivo; Egli il sole, io la luce che dal sole emana: tutto ciò che è mio è suo, perché Io e Lui siamo una cosa sola. È questo il significato di quelle parole di Gesù Cristo: « La parola, che avete udita, non è mia, ma di chi mi ha mandato ». E ciò disse Gesù Cristo per sollevare la mente degli Apostoli dalla sua natura umana alla divina e per confortarli in quei momenti di tanta e sì crudele angoscia. E poi, seguitando il discorso, disse: – « Queste cose vi ho ragionate, conversando con voi ». Queste verità, che vi ho annunziate in tutto il tempo, che ho vissuto con voi, le avete udite, ma non sempre, né tutte, né chiaramente le avete comprese: molte sono per voi oscure ed anche al tutto inintelligibili: non vi turbate: fra non molto le comprenderete chiaramente. E chi ve le farà conoscere? « Il Paraclito, od Avvocato, lo Spirito Santo, che il Padre vi manderà nel nome mio, quegli vi insegnerà ogni cosa e vi rammenterà quanto Io vi ho detto ». – Questo Paraclito, che significa Consolatore ed Avvocato, di cui parla Gesù Cristo e che promette ai suoi cari, indubbiamente è Persona, perché è pareggiata a Cristo stesso, ne tiene il luogo, continua l’opera di Lui e dicesi mandato dal Padre, cioè avente origine dal Padre non altrimenti dal Piglio. Onde in questo versetto chiaramente ci si presenta l’augusta Trinità, il Padre, che vi è nominato, il Figlio, Gesù Cristo che parla e lo Spirito Santo, che è mandato dal Padre nel nome di Cristo e che insegnerà ogni verità. Si chiama Paraclito od Avvocato in questo luogo, perché grande era la tristezza degli Apostoli in quei momenti di angosciosa aspettazione e avevano bisogno sommo di conforto e di difesa. Ma come Cristo può dire che il Padre manderà lo Spirito Santo nel suo nome – Quem mittit Pater in nomine meo? – Perché il Padre manda e spira lo Spirito Santo col Figlio, con unico atto a quel modo ch’io col mio intelletto fo col mio conoscimento accendo la fiamma del mio amore: perché la discesa dello Spirito Santo sugli Apostoli avvenne per i meriti di Cristo. Si dice che lo Spirito Santo insegnerà ogni cosa agli Apostoli : – Docebit vos omnia. – Forseché lo Spirito Santo, allorché riempì della sua luce e della sua forza gli Apostoli, insegnò loro tutte le scienze umane e divine? Forseché in quell’istante che ricevettero lo Spirito Santo gli Apostoli conobbero la matematica, la geometria, la fisica, la storia profana, la filosofia, l’astronomia, la geologia e tutte l’altre scienze naturali, di cui l’uman genere ora va meritamente altero? Certamente, no. Cristo venne sulla terra non per insegnarci queste scienze, che entro i loro confini lascia in balìa delle nostre libere discussioni, ma per insegnarci la scienza del Cielo, la scienza di Dio, dell’anima nostra, della salvezza eterna, la scienza che ci rende virtuosi e santi e figli suoi per adozione. Mirabil cosa, o carissimi! Gesù Cristo, Uomo-Dio, conosceva perfettissimamente tutte le scienze naturali, delle quali il mondo ora fa tanto strepito: conosceva quelle senza numero maggiori, che il progresso andrà mano mano scoprendo: eppure nei suoi discorsi che il Vangelo ci ha conservati nel suo insegnamento, che la tradizione ci trasmette, non vi è un solo cenno, una sola parola, che si riferisca a queste scienze naturali che formano l’orgoglio del nostro secolo. Gesù Cristo avrebbe potuto insegnare agli Apostoli almeno alcuni di quei misteri della natura, svelar loro alcune di quelle grandi scoperte, che più tardi scossero il mondo e mutarono la faccia della società. Ricchi di queste scienze e di queste scoperte gli Apostoli avrebbero ricolmato il mondo di stupore, avrebbero tirato a sé gli uomini tutti e compiuto in breve tempo la conquista delle più alte intelligenze. Eppure Gesù Cristo non fece nulla di tutto questo e restrinse tutto il suo insegnamento alle verità di ordine religioso e morale e queste sole volle che gli Apostoli predicassero. È questo, o dilettissimi, tal fatto che non deve passare inosservato e che segna a noi sacerdoti, continuatori dell’opera di Cristo e degli Apostoli, la via che dobbiamo tenere nell’esercizio del nostro ministero. È utile e necessario, che noi sacerdoti conosciamo tutte queste scienze profane e naturali per onore della Chiesa, per la difesa della fede, perché anch’esse ci sollevano a Dio e ne mettono in maggior luce la grandezza; ma non sono queste le scienze che noi dobbiamo portare nel tempio, sulla cattedra di verità, e annunziare ai popoli e né a queste scienze direttamente si estende il magistero della Chiesa e l’assistenza dello Spirito Santo promesso da Cristo. – Docebit vos Omnia -. Queste scienze della natura formano il patrimonio della ragione umana, sono il campo ch’essa può correre liberamente e cogliervi sempre e più belle palme. – Ma è da ritornare al testo evangelico che stiamo interpretando. Non senza ragioni profonde, Cristo disse che lo Spirito Santo avrebbe rammentato agli Apostoli quanto aveva loro detto: Suggeret vobis omnia quæcumque dixero vobis – . Perché disse che avrebbe loro rammentato? Gesù Cristo, nei tre anni della sua vita pubblica, aveva insegnato agli Apostoli tutte o pressoché tutte le verità necessarie alla salvezza delle anime e al governo della Chiesa: ma le avevano essi comprese a dovere? Alcune, sì: ma la maggior parte  erano rimaste nella loro memoria confusamente, ed altre le dovevano avere dimenticate o fraintese. Era dunque necessario rinfrescarne la memoria e chiarirle affinché gli Apostoli se ne facessero i banditori e questa fu l’opera dello Spirito Santo: Egli fu la luce che fece loro leggere, nel fondo dell’anima, ciò che Gesù Cristo vi aveva scritto e ch’essi non discernevano: fu la forza che li rese atti ad annunziarlo intrepidamente al mondo intero. Chi legge il discorso dell’ultima cena di leggieri comprende che non corre tutto legato, come suole essere un discorso formale, se posso usare questa parola. – Gesù Cristo si trattenne in quella sera memoranda parecchie ore con i suoi discepoli: era imminente la sua passione e la sua separazione ed Egli, a così dire, sciolse il freno alla piena dei suoi affetti e versò tutto il suo cuore. Perciò il suo discorso talvolta sembra rotto, muta argomento: ora incoraggia, ora dà consigli, ora promette, ora conforta ed ora prega. È un padre amoroso, che all’atto di separarsi per lungo tempo dai suoi figliuoli moltiplica le raccomandazioni e ripete i saluti. – Qui, quasi interrompendo il discorso, con una espansione dell’anima, che ne lascia vedere il fondo, Gesù Cristo esclama: « Vi lascio la pace; la pace mia do a voi: non come la dà il mondo, Io la do a voi ». Quali espressioni! Quale effusione di cuore! Quale tenerezza in queste parole ripetute! È vero, era questo il saluto ordinario, che si davano gli Ebrei: « La pace sia con te, sia con voi ». Ma qui e per l’occasione solenne, e per la ripetizione e per quelle parole aggiunte – la pace mia -. Non come il mondo la dà, Io la dò a voi – e perché in quel momento non si dipartiva, e soprattutto per l’accento di inesprimibile dolcezza e affocato affetto con cui pronunciò quel saluto, esso ha un significato e una forza tutta propria. Par di vedere Gesù con le palme tese verso i suoi cari, con la fronte velata da una soave e tranquilla mestizia, con gli occhi scintillanti, pieni d’amore e umidi di pianto, versare tutta l’anima sua. – Vi lascio la pace! È l’unica eredità, che vi lascio: essa è l’estremo augurio che vi fo, pegno d’ogni benedizione: pace vera, solida, eterna: pace con Dio, del quale siete figli; pace tra voi che dovete considerarvi ed amarvi come fratelli; pace con tutti, anche con i vostri nemici e persecutori; pace nei vostri cuori. Non è la pace ingannevole e bugiarda del mondo, ma la mia pace, che porta la serenità della mente, la semplicità del cuore, il vincolo dell’amore, il consorzio della carità: pace che custodisce i vostri sensi e le vostre intelligenze e trascende ogni umano concetto. – Deh, carissimi! che questa pace che Cristo porse ai suoi diletti Apostoli, che è figlia della giustizia, compagna della virtù, che allieta i giorni del nostro esilio, che in mezzo ai dolori ci consola e ci rende felici, abiti sempre nelle vostre anime. – Prosegue Gesù svolgendo l’idea della pace e confortando gli Apostoli che, afflitti, scorati e muti, gli facevano corona e dice loro: « Non si turbi il vostro cuore, né si sgomenti ». Queste parole noi pure siamo soliti indirizzare a quelli che soffrono, che sono minacciati di qualche grave sventura: è un conforto, un aiuto che vorremmo dare ai fratelli nostri, che sono posti a qualche dura prova. Esse mostrano il nostro buon cuore ed il desiderio di soccorrerli. Ma, ohimè! Queste parole sulla nostra lingua non sono che un augurio, la espressione d’un desiderio, impotenti come siamo ad infondere in altri la forza e la energia della volontà per vincere la lotta della vita. Ma Gesù, che è Dio, Egli solo fa ciò che dice, e nell’anima di chi confida in Lui e a Lui ricorre, infonde la forza di vincere se stesso, di superare ciò che sul cammino della vita vi si attraversa dinanzi e di comporre in pace le tempeste, che si agitano nel fondo dell’anima nostra. – Egli solo pertanto, con tutta verità, può dire: « Non si turbi il vostro cuore, né si sgomenti ». Voi vi trovate in mezzo a uomini che, odiando me, odiano pur voi, così Cristo; siete come agnelli in mezzo ai lupi e ciò che rende più dolorosa la vostra condizione presente è ch’Io, vostro maestro e vostra guida, me ne vado, cioè vado incontro alla morte e qual morte! Ma nemmeno per questo dovete turbarvi e sgomentarvi e abbandonarvi alla tristezza; perché se vado non rimango; se vado alla morte e morte di croce, risorgerò e ritornerò a voi. – Audistis quia ego dixi vohis: Vado et venio ad vos -. Anzi vi dico che se mi amaste davvero, godreste certamente, perché Io vado al Padre. – Si diligeretìs me, gauderetis utique, quia vado ad Patrem -. Se l’andare e il venire – Vado et venio ad vos di Cristo indicano la sua morte e la sua risurrezione e il suo mostrarsi agli Apostoli, il suo andare al Padre, senza dubbio significa non solo la sua risurrezione ed il suo apparire agli Apostoli, ma l’ascensione sua al cielo. Ancora poche ore, dice Cristo, ed Io morrò e poi risorgerò e me ne andrò al Padre: ancora poche ore e avranno fine i miei dolori, le mie angosce e comincerà una vita di gioie pure, una vita perfettamente beata, che non avrà fine più mai. So che mi amate: ma se mi amate davvero e volete il mio vero bene, lungi dal dolervi della mia andata, della mia morte, dovete rallegrarvi. L’amico che vede partire l’amico per lontano paese, dove sa che sarà felice, ne gode: i figli, che vedono il padre recarsi in remota contrada per riceverne il dominio e cingervi la corona di re, fanno gran festa. E questo dovete fare voi pure con me se mi amate, come veramente mi amate. – Lascio la terra pel Cielo, il luogo d’esilio per la patria vera, il luogo delle umiliazioni e dei dolori per il luogo della gloria e delle delizie: perché non godreste ? Vo al Padre mio, che è nei cieli; Egli è maggiore di me e perciò presso di Lui sarà compiuta la mia felicità. – Ma come il Padre vostro, o Gesù, è maggiore di Voi? Voi e il Padre non siete una sola cosa? Voi non siete nel Padre e il Padre non è in Voi? Non siete consostanziale al Padre e a Lui in ogni cosa perfettamente eguale, come crediamo per fede e Voi stesso tante volte avete insegnato? Come dunque ora ci dite che il Padre è maggiore di Voi? – Gesù Cristo è Dio ed uomo, vero Dio e vero uomo: come Dio Egli è eguale al Padre e perciò il Padre non è maggiore di Lui: ma come uomo Egli non è eguale, ma inferiore al Padre e in questo senso è verissimo il dire che il Padre è maggiore di Lui. E che Gesù abbia chiamato il Padre maggiore di sé in quanto uomo si fa manifesto dalle parole « Vado al Padre » perché l’andare di Gesù al Padre non può riferirsi che alla natura sua umana. Del resto, o dilettissimi, in un senso il Padre si può dire maggiore di Gesù Cristo, anche come Dio, senza che ne riceva offesa la sua divina natura. Come ciò? Il Padre è il Principio senza principio: Egli è la fonte del Figlio e col Figlio è la fonte eziandio dello Spirito Santo: il Padre è il sole e il Figlio è la luce che ne emana: il Padre è la radice, il Figlio è il fiore: per ragione adunque dell’origine il Padre precede il Figlio e in questo senso il Padre si può dire e si dice maggiore del Figlio. Questa dignità di principio che compete al Padre rispetto al Figlio e per la quale il Padre è maggiore del Figlio non toglie che la natura dell’uno e dell’altro sia una sola e comune e perciò vi sia tra loro perfetta ed assoluta eguaglianza. – Il sole e la luce hanno una sola natura, sono una cosa sola, ma il sole nella nostra mente è principio e causa della luce e non questa di quello: la natura e la vita della radice e del fiore è una sola, comune all’uno e all’altra; ma noi pensiamo prima alla radice e poi al fiore, perché questo germoglia da quella e perciò una cotal dignità maggiore, non per diversità di natura, ma di ordine e di origine, spetta alla radice sul fiore, al sole sulla luce. Così il Padre si può dire maggiore del Figlio, rimanendo perfetta la loro eguaglianza secondo natura. – Gesù Cristo, sempre inteso a rassodare la fede degli Apostoli nella sua Persona divina, perché è questa la base incrollabile del suo insegnamento e il motivo supremo del loro conforto, accenna alla nuova prova che ne avranno tra breve nell’adempimento fedele delle sue parole e soggiunge: « Ve l’ho detto prima che avvenga, acciocché, quando sia avvenuto, crediate ». Egli ha predetto la sua morte, la sua risurrezione ed altre cose particolari, che gli Apostoli avrebbero veduto con i loro occhi e toccato con le loro mani e che nessuno umanamente poteva prevedere con certezza: vedendo il tutto perfettamente adempito, che cosa dovevano necessariamente conchiuderne? Ch’Egli vedeva il futuro come il presente: che alle sue parole si doveva credere, perché non erano le parole d’un uomo, ma sì del Figliuol di Dio, come chiaramente affermava d’essere. Era qui il fondamento sicuro della fede degli Apostoli ed è qui pure il fondamento della fede nostra, che si appoggia a quella degli Apostoli, come in un edificio una pietra poggia sull’altra e tutte sulla prima, che ne è il fondamento. La certezza nostra, che abbiamo tanti secoli dopo gli Apostoli, è la certezza stessa degli Apostoli, perché legati con essi mercé una successione non mai interrotta, con essi formiamo una cosa sola, come le pietre d’un edificio tra loro congiunte formano un solo tutto. « Già non parlerò quasi più con voi », soggiunse Cristo, girando gli occhi sugli Apostoli e queste parole le dovette pronunciare con un accento di tenerezza insolita e forse con voce commossa e accrebbero sul volto dei suoi cari quella nube di mestizia, che vedevasi dipinta. Era un dir loro in altra forma: Ho finito l’opera mia: me ne vado: l’ora della separazione, della mia morte è vicina, è giunta. « Perché il principe di questo mondo viene ». Ma chi è, o amabile Gesù, il principe di questo mondo? Non siete Voi il Figlio di Dio, quel Verbo stesso, per il quale furono create tutte le cose? Non avete Voi detto che ogni potere vi è dato in Cielo ed in terra? Non siete il padrone assoluto d’ogni cosa? Come dunque dite che vi è un altro, che è principe di questo mondo, che viene contro di Voi? Chi è desso? – Gesù Cristo, perché Dio, è solo e vero Signore del Cielo e della terra. Ma vi è un altro, il quale, permettendolo Lui per gli altissimi fini della sua sapienza e bontà, ha invaso il suo regno, tenta usurpargli il suo dominio e muove contro di Lui stesso. È quello che chiamasi principe delle tenebre, seduttore e tentatore, che si designa col nome di maligno o demonio. Egli aperse la rivolta contro l’Uomo Dio in Cielo e l’ha portata sulla terra; egli lo odia ferocemente, perché fu la pietra, in cui urtò la sua superbia e n’ebbe rotte le tempia: perché a Lui uomo, e perciò inferiore per natura, dovette piegare il ginocchio, essendo anche suo Dio e suo Creatore. Lo odia e perciò muove contro di Lui la Sinagoga, i capi del popolo, Giuda e quanti sono satelliti suoi, per levarlo dalla terra e spegnere sul nascere il regno di Lui. La espressione, – Principe di questo mondo – cioè dei malvagi, indica la potenza del maligno, che pur troppo è grande: ma per quanto sia grande è pur sempre limitata entro quei confini, che Dio ha posto e che gli consente per il trionfo dei buoni e per la gloria loro e sua. Questa potenza del maligno deve pur sempre arrestarsi sulle soglie della libertà umana, la quale sorretta com’è sempre dal soccorso della grazia per chi debitamente la vuole, può resistere a qualsiasi più furioso assalto. Finalmente la scienza e la ragione istessa ci mostrano che in questo immenso e tremendo duello tra Cristo e il Principe di questo mondo la vittoria piena e definitiva sarà per Cristo e per quelli che lo seguono. Fidenti pertanto in Cristo, seguiamolo animosamente e con Lui e per Lui avremo parte alla finale vittoria. – Il Principe di questo mondo venga pure contro di me con tutti i suoi satelliti, mi uccida puranco: ma egli non troverà in me ombra di colpa e perciò, lungi dallo stendere sopra di me il tirannico suo dominio, perderà quello pure che tiene sugli uomini, perché Io soddisferò per essi e glieli strapperò di mano a prezzo del mio sangue, e così il mondo conoscerà qual sia l’amor mio verso del Padre: amore, che mi conduce a fare il suo volere fino alla morte. – Carissimi! Su questo gran campo di battaglia, che è la terra, un solo vinse e atterrò per sempre il Principe del mondo, l’autore del male, ed è Gesù Cristo; Egli solo lo vinse e lo atterrò per virtù propria. Vogliamo che la vittoria di Lui sia comunicata a noi, a ciascuno di noi? Non vi è che un mezzo: per fede e per carità operosa uniamoci a Gesù Cristo, facciamo con Lui una sola cosa, e la sua vittoria diventerà nostra.

Credo

Offertorium

Orémus – Ps LXVII:29-30

Confírma hoc, Deus, quod operátus es in nobis: a templo tuo, quod est in Jerúsalem, tibi ófferent reges múnera, allelúja. [Conferma, o Dio, quanto hai operato in noi: i re Ti offriranno doni per il tuo tempio che è in Gerusalemme, allelúia].

Secreta

Múnera, quæsumus, Dómine, obláta sanctífica: et corda nostra Sancti Spíritus illustratióne emúnda. [Santifica, Te ne preghiamo, o Signore, i doni che Ti vengono offerti, e monda i nostri cuori con la luce dello Spirito Santo]. Communio Acts II:2; II:4 Factus est repénte de coelo sonus, tamquam adveniéntis spíritus veheméntis, ubi erant sedéntes, allelúja: et repléti sunt omnes Spíritu Sancto, loquéntes magnália Dei, allelúja, allelúja. [Improvvisamente, nel luogo ove si trovavano, venne dal cielo un suono come di un vento impetuoso, allelúia: e furono ripieni di Spirito Santo, e decantavano le meraviglie del Signore, alleluja, alleluja.]

Communio Acts II:2; II:4

Factus est repénte de coelo sonus, tamquam adveniéntis spíritus veheméntis, ubi erant sedéntes, allelúja: et repléti sunt omnes Spíritu Sancto, loquéntes magnália Dei, allelúja, allelúja. [Improvvisamente, nel luogo ove si trovavano, venne dal cielo un suono come di un vento impetuoso, allelúia: e furono ripieni di Spirito Santo, e decantavano le meraviglie del Signore, alleluja, alleluja.]

Postcommunio

Orémus.

Sancti Spíritus, Dómine, corda nostra mundet infúsio: et sui roris íntima aspersióne fecúndet. [Fa, o Signore, che l’infusione dello Spirito Santo purifichi i nostri cuori, e li fecondi con l’intima aspersione della sua grazia] .

LO SCUDO DELLA FEDE (XI)

[A. Carmignola: “Lo Scudo della Fede”. S.E.I. Ed. Torino, 1927]

XI.

LA VERA RELIGIONE.

Tutte le religioni sono buone? — Tutte le religioni devono essere rispettate? Si devono rispettare tutte le opinioni?— Tutti coloro che non professano la religione cattolica andranno perduti? — Che è di quei bambini che muoiono senza battesimo?

— Ho appreso con piacere le prove e le testimonianze della fede ossia religione cattolica, e vedo bene che questa fede o religione è la sola vera. Com’è adunque che da tanti si dice: È affatto indifferente tener questa o quella religione, perché alla fln fine tutte le religioni sono buone? Tutte le religioni vogliono essere rispettate?  Ognuno la sua religione?

Già, è veramente così che si dice. Ma enormi stranezze e falsità! Dal momento che la religione cattolica si mostra la vera e la buona, perché la sola dotata di quelle prove e testimonianze che la comprovano tale, come mai si può dire che tutte le religioni sono buone! – Ciò vorrebbe dire, che dottrine fra di loro affatto contrarie, sono egualmente vere, che il bianco e il nero sono la stessa cosa, che la luce si accorda colle tenebre; che tanto ha ragione il pagano che adora gli idoli e commette ogni delitto per onorarli, il turco che si abbandona ad ogni nefandità per compiere un sacro dovere, l’ebreo che ha messo a morte il Redentore del mondo e lo bestemmia, il protestante che disconosce la più parte delle dottrine e delle opere di Gesù Cristo, quanto il Cristiano che crede e fa tutto quello che Gesù Cristo ha insegnato e stabilito. Ciò vorrebbe dire che a Dio poco importa di essere ignorato e conosciuto, di essere adorato Lui o che si adori il demonio, che lo si creda giusto, santo e perfetto, oppure ladro, impudico e sciocco. Ciò vorrebbe dire che nel dì del giudizio, Iddio volgendosi a tatti gli uomini, di qualsiasi religione, a tutti direbbe: di tutti io sono contento; sono contento di voi pagani, che mi avete creduto una pietra, di voi ebrei che mi avete caricato di bestemmie, di voi turchi che vi siete contaminati nelle impudicizie, di voi protestanti che avete negato la Chiesa e i miei Sacramenti, sì sono contento di voi come dei Cristiani Cattolici, che mi hanno creduto in tutto, adorato e pregato con fervore; venite tutti al mio seno, salite tutti al cielo. Ciò vorrebbe dire in una parola che Dio sarebbe un insipiente e giustificcherebbe il massimo degli assurdi. Ecco le conseguenze del dire: Tutte le religioni sono buone. Che te ne pare?

— Mi pare che il dir ciò sia davvero una gran corbelleria.

Ed aggiungi pure: una grande empietà, ed una deplorevole cecità, perché chi parla così offende quel Dio che ha rivelato la verità della santa Fede Cattolica, e chiude volontariamente gli occhi dinanzi alla luce della verità, che gli sfavilla dinanzi. Di fatti perché mai Iddio ha parlato ai Patriarchi ed ai Profeti ed ha con tanta precisione rivelato se stesso? Perché nella sua legge, data sul Sinai a Mosè, ha proibito così esplicitamente l’idolatria? Perché ha punito con sì terribili castighi i popoli pagani, che adoravano le false divinità, e il popolo ebreo quando si abbandonava a somigliante delitto? Perché Gesù Cristo è venuto sulla terra a dare agli uomini una completa rivelazione delle verità da credersi e da praticarsi! Perché confermò Egli la sua dottrina con l’evidenza dei miracoli? Perché morì Egli sulla croce? Perché gli Apostoli con immenso loro disagio andarono, chi in una, chi in altra parte del mondo, a portare la religione di Cristo? Perché  i Martiri perdettero la vita fra i più crudeli tormenti anziché apostatare da questa religione? Perché i più grandi dottori impiegarono tutto il loro genio a difenderla dall’errore? Perché infine interviene Dio stesso con la sua potenza a mantenerla immutabile nei suoi dogmi e nella sua morale, indissolubile nella sua costituzione e nella sua gerarchia? Comprendi bene che se tutte le religioni fossero buone, tutto ciò sarebbe stato affatto inutile. – Dunque come la ragione stessa ci dice che non c’è che un Dio solo, così ci dice ancora che non ci può essere che una sola vera religione, quella cioè che si mostra divinamente rivelata, la religione Cristiana Cattolica.

— Eppure vi son di coloro che dicono: O tutte le religioni sono buone, o nessuna è buona.

Amico mio, ciascuno può materialmente dire qualunque buaggine egli vuole, ma non perciò noi siamo obbligati a tenerla per una sentenza d’oro. Anzi le buaggini non meritano neppure di essere prese in considerazione. Se tu da Torino volessi recarti a Moncalieri, e trovandoti in Piazza Castello e domandando a taluno della via che vi conduce, ti sentissi a rispondere: « o tutte, o nessuna; » non guarderesti in faccia quel cotale che così t’ha risposto per sapere se si tratti di un imbecille o di un pazzo?

— Perciò non si dovranno rispettare le altre religioni?

Noi dobbiamo rispettare tutti gli uomini di qualunque religione essi siano, perché tutti sono nostri fratelli, ma le falsi religioni che professano no, perché sarebbe un rispettare l’errore e il peccato. Non voglio dire con ciò che noi a bella posta ci dobbiamo mettere a disprezzare le credenze delle falsi religioni per far dispetto a coloro che le professano, ma voglio dire che non potremo mai asserire, ad esempio, che facciano bene coloro che scientemente professano le religioni false.

— Dunque non è neppur giusto quel dire: Ognuno la sua religione?

* Tutt’altro che giusto è falsissimo come il dire: «Tutte le religioni sono buone». Anziché dire: «Ognuno la sua religione, » bisogna dire: «Ognuno deve cercare e seguire la verità ». Epperò se alcuno si trova in una religione, che con ragione lo faccia dubitare di essa, deve cercare di conoscere quale sia la vera ed abbracciarla.

— Ma pure si dice ancora che un uomo dabbene non cangia mai di religione.

E si dice così un’altra assurdità. L’uomo dabbene è quegli che vive conforme alla verità ed alla giustizia. Come dunque potrà dirsi uomo dabbene colui, che conoscendo la falsità della sua religione rimane in essa?

— Un protestante perciò, che si trovasse nel dubbio o nel sospetto di trovarsi nell’errore, che cosa dovrebbe fare?

Dovrebbe istruirsi e sincerarsi. È quello appunto che ultimamente hanno fatto moltissimi protestanti d’Inghilterra, i quali per tal guisa hanno abbracciata la Fede Cattolica. – Nel secolo XVIII visse il Duca di Brunswick e Luneburg, il quale era protestante e voleva convertirsi. Circospetto com’era, prima di farsi Cattolico, per non sbagliare, si presentò ai professori e teologi dell’Università di Hemstadt, partigiana caldissima degli errori di Lutero e fece loro il seguente quesito: « Nella Chiesa Cattolica si può conseguire l’eterna salute? » – Ebbene, non ostante che si trattasse dei teologi più arrabbiati contro i Cattolici, essi in generale risposero di sì, anzi in detto scritto dimostrarono « che uno poteva sicurissimamente salvarsi nella Chiesa Cattolica e che ad un protestante era lecito farsi Cattolico senza ombra di scrupolo o pericolo ». Così i dottori protestanti si davano da per se stessi la zappa sui piedi e implicitamente confessavano di non possedere la vera religione. Il Duca fece ben presto la sua abiura dapprima al Papa Clemente XI, e poi in pubblico nella cattedrale di Magonza dinanzi all’Arcivescovo, e in quella circostanza scrisse un libro dei cinquanta motivi per cui la fede romana cattolica sia la sola vera. E tra le altre cose in detto libro scrive: « I protestanti confessano che i Cattolici possono salvarsi, e al contrario i Cattolici credono che fuori della vera religione ciò è impossibile, dunque è da stolto essere nel protestantesimo, ove la salute è incerta. – Solo la religione cattolica ha santi e martiri; invece tutti gli eresiarchi sono scostumati nella vita e nelle opere, e la dottrina luterana ha principii nefandi, che menano al libertinaggio. – Nella Religione Cattolica vi sono miracoli senza numero, nelle sette neppure uno. Il primo eretico Simon Mago volle volare per imitare l’Ascensione di Nostro Signore Gesù Cristo, ma alla preghiera di S. Pietro cadde e si ruppe le gambe e morì. Calvino per fingere un miracolo prega un uomo di contraffare il morto e levarsi dalla bara subito che gli venisse da lui ordinato, e per giusto castigo di Dio, il finto morto si trova realmente cadavere. V’hanno Cattolici, che si fanno protestanti per vivere licenziosamente, e viceversa gli eretici, che si convertono alla fede Cattolica, lo fanno per vivere esemplarmente. Molti e moltissimi protestanti in punto di morte si fanno Cattolici; per lo contrario nessun Cattolico moribondo chiese di farsi protestante ».

— Non si può dunque ammettere la libertà di coscienza e di religione, che da tanti si predica?

Non si può affatto. Nessuno è in arbitrio di scegliersi e farsi da sé la sua religione. Ognuno deve tenere ed abbracciare quella religione che riconosce vera, a meno che non voglia essere illogico ed abusare della sua ragione.

— Ma negando questa libertà non si diventa intolleranti? Perciocché non si devono forse rispettare tutte le opinioni?

La verità non tollera certamente l’errore, epperò è verissimo che negando noi, come siamo in dovere di negare, la libertà di religione, diventiamo intolleranti della falsità e della menzogna. E chi non deve ambire questo onore? In quanto poi al rispettare tutte le opinioni bisogna intenderci. Se per opinione tu intendi il parere, il pensamento altrui attorno ad una cosa indifferente, e allora è cosa buona rispettare le altrui opinioni e non pretendere di far valere sempre la propria. Ma se per opinione intendi dire: fede, credenza religiosa, allora siamo da capo a dire questo assurdo che bisogna rispettare del pari la verità e l’errore, il giusto e l’ingiusto, il bene e il male.

— Fa dunque male la civile autorità nel tollerare la libertà di coscienza e di religione?

Sì, qualora ciò non facesse per qualche bene che da ciò ne deriva, o per qualche male che viene evitato.

— Eppure si dice che la libertà di coscienza è benefica a tutte le religioni.

E si dice così una falsità, perciocché una tale libertà riesce dannosa e funesta alla vera Religione, la quale trova tanti ostacoli a conservarsi quante sono le false religioni che lo Stato tollera e tratta alla pari.

— Se taluno adunque nel discorrere venisse fuori a dire cose contrarie alla fede Cattolica non devo giovarmi di questa regola che bisogna rispettare tutte le opinioni?

No certamente. Dovrai rispettare sempre gl’individui che mettono fuori gli spropositi, che questo la carità cristiana lo impone, ma allo sproposito, allo strafalcione, alla bestemmia, all’eresia profferita devi dare il nome che si merita. E se ti senti, e puoi farlo con utilità di chi ti ascolta, dovrai ribattere l’errore inteso, altrimenti almeno con la tua condotta devi far intendere apertamente che tu non sei di quel parere, ma che credi fermamente agli insegnamenti della Fede Cattolica. Ma il meglio di tutto sarà tenerti sempre lontano da chi puoi sospettare che nel discorrere attenti in qualsiasi modo alla tua fede.

— Ho inteso. Ma dunque tutti coloro che non professano la Religione Cattolica andranno tutti perduti?

Ascolta: Nessun uomo andrà all’eterna perdizione senza averla voluta di sua deliberata volontà. Iddio dà a tutti gli uomini la grazia necessaria per conoscerlo, amarlo e servirlo, anche agli eretici, anche agli ebrei, anche ai turchi, anche ai gentili, anche ai selvaggi. E tutti gli uomini, senza eccezione di sorta, possono assecondare tale grazia e salvarsi, non assecondarla e perdersi. – Molti poi tra coloro che non sono nella Religione Cattolica, possono tuttavia, benché non appartengano al suo corpo, ossia alla società visibile da lei formata, appartenere alla sua anima, vale a dire allo Spirito divino che la informa, e morendo in tal condizione certamente andranno salvi. E così si salveranno i bambini degli eretici, che muoiono dopo aver ricevuto il Battesimo secondo le condizioni volute dalla Chiesa Cattolica, ossia da Gesù Cristo; si salveranno gli stessi eretici adulti, che sono sempre rimasti in buona fede e hanno menata una vita conforme alla legge di Dio; si salveranno gl’infedeli, che pur non avendo conosciuto Gesù Cristo, hanno fatto mai sempre ciò che loro dettava la legge naturale, e nel voler confermare pienamente la loro volontà alla volontà di Dio hanno avuto un desiderio implicito di ricevere il santo Battesimo. – Si salveranno insomma tutti coloro che davvero vorranno salvarsi, ancorché fuori del corpo della Chiesa Cattolica, come certamente pur troppo si danneranno coloro che, pur appartenendo al suo corpo non praticano tuttavia come si conviene quella santa Religione, che la Chiesa Cattolica c’insegna e ci anima a praticare.

— E di quei bambini, che muoiono senza aver potuto ricevere il Battesimo, che sarà?

Essi, senza dubbio non sono ammessi a vedere mai Iddio a faccia a faccia e a godere la felicità di questa contemplazione, ma tuttavia secondo la più comune sentenza dei dottori, essi nell’altra vita non avranno a soffrire nessuna pena, anzi godranno in pace i beni di natura.

— Ma ad ogni modo non soffriranno essi per essere così esclusi dal paradiso?

Se essi conoscessero d’averlo perduto sì, ma siccome non hanno tale conoscenza, perciò essi non soffrono di tale esclusione.

— E non è tuttavia una ingiustizia, che questi bambini senza loro colpa siano privati dei godimenti del cielo?

Ingiustizia? E non è forse padrone Iddio di fare come gli piace? E se Egli dona a questi bambini soltanto la vita naturale e il godimento della stessa, non fa già loro un grande benefizio? E non dà già loro di più, mille volte più, di quel nulla che loro dovrebbe dare?

— Sì, ciò è vero; si deve ammettere.

I PAPI DELLE CATACOMBE [8]

 I Papi delle Catacombe [8]

[J. Chantrel: I Papi delle Catacombe. Dillet ed. Parigi, 1862]

L’era dei martiri (203-213).

L’inferno stava per fare un potente ed ultimo sforzo per distruggere il Cristianesimo, stava per insanguinare talmente la Chiesa, che l’ultima persecuzione generale ha preso il nome di “era dei martiri”. Essa ha fatto perire più Cristiani che probabilmente tutte le altre persecuzioni messe insieme, ma, più la battaglia fu terribile, più la vittoria doveva essere brillante: i coraggiosi soldati di questa guerra suprema conquistarono la libertà della Chiesa, e stabilirono definitivamente il Cristianesimo sulla terra. Ci vorrebbe qui un volume intero per raccontare i principali dettagli di questa lotta magnifica; ci vorrebbero un gran numero di pagine per citare solo gli eroi di cui gli annali della Chiesa hanno conservato i nomi; dobbiamo qui rinunciare a questo racconto che presenta tanto fascino ed attrattive, e ci contenteremo qui di tracciare un quadro generale della persecuzione. Erano tre secoli che Nostro Signore Gesù-Cristo era sceso sulla terra, ed il Vangelo era professato da milioni di fedeli che avevano acquisito il diritto di elevare dei templi al vero Dio, e che si trovavano dappertutto, nelle armate, nella magistratura, nel senato, nei palazzi stessi dell’imperatore, e fin sul cammino del trono. Prisca, la prima moglie di Diocleziano, e Valeria, sua figlia, passavano per Cristiane. Diocleziano stesso non si era dedicato a perseguitare il Cristianesimo; già oberato dal potere, egli esitava a ricominciare una lotta di cui non poteva prevedere il termine. Ma Massimiano era di tutt’altra disposizione, ed il cesare Galero, che Diocleziano aveva associato all’impero, come d’altra  parte Costanzo Cloro, padre di Costantino, portava ai Cristiani un odio implacabile. Verso la fine dell’anno 302, siccome Diocleziano si trovava a Nicomedia, Galero lo sollecitò vivamente. Il vecchio imperatore all’inizio resistette: « Era pericoloso, egli diceva, turbare ancora una volta il riposo del mondo, e versare flutti di sangue. I supplizi, da allora, non sarebbero avvenuti, poiché i Cristiani non chiedevano che di morire. » Si radunò un consiglio di magistrati e di ufficiali di guerra. I consiglieri che temevano tutta la collera di Galerio, si pronunciarono per la persecuzione. Diocleziano ancora esitava; egli inviò a consultare a Mileto l’oracolo di Apollo. Apollo rispose « … che i giusti sparsi sulla terra gli impedivano di dire la verità. » La pitonessa rimaneva muta, i sacerdoti dicevano che i giusti erano i Cristiani. Diocleziano non esitò più, ed il 23 febbraio comparve il decreto di sterminio. « Le chiese saranno abbattute, vi si leggeva, ed i libri santi bruciati; i Cristiani saranno privati di tutti gli onori, di tutte le dignità, e condannati al supplizio senza distinzione di ordine né di rango: essi potranno essere perseguitati davanti ai tribunali e non saranno ammessi a perseguire nessuno nemmeno per reclamare un furto, per riparare ad ingiurie o adulterio. Gli affrancati Cristiani ritorneranno schiavi. » In una parola i Cristiani erano messi fuori dalla legge; un editto particolare colpiva i Vescovi, ordinava di metterli ai ferri e forzarli all’abiura. La lotta fu atroce da parte dei carnefici; i Cristiani mostravano un coraggio intrepido, e si lasciavano sgozzare come agnelli. I Galli soltanto, tra cui comandava Costanzo Clorio, furono risparmiati; dappertutto allora le chiese crollavano sotto le mani dei soldati; i magistrati stabilivano i loro tribunali nei templi o nei pressi delle statue dei falsi dei, e forzavano la moltitudine a sacrificare; chiunque si rifiutasse di adorare gli dei era condannato e dato ai carnefici; le prigioni rigurgitavano di vittime; i sentieri erano coperti da truppe di uomini mutilati che venivano inviati a morire in fondo alle miniere o nei cantieri pubblici. Le fruste, i cavalletti, le unghie di ferro, la croce, le bestie feroci, laceravano teneri fanciulli con le loro madri. Qui si sospendevano per i piedi donne nude a dei pali, e le si lascia spirare in questo supplizio vergognoso e crudele; là, si legavano le membra dei martiri ad alberi avvicinati con la forza; gli alberi, raddrizzandosi portavano via brandelli della vittima. Ogni provincia aveva un particolare supplizio: il fuoco lento in Mesopotamia, la ruota nel Ponto, l’ascia in Arabia, il piombo fuso in Cappadocia. Spesso in mezzo ai tormenti, si leniva la sete del confessore, gettandogli dei getti di acqua in viso, per paura che l’ardore della febbre ne accelerasse la morte. Talvolta, stanchi di bruciare separatamente i corpi, i pagani li precipitavano in massa nei roghi; le ossa delle vittime, ridotte in cenere, erano disperse al vento. [Chateaubriand, Études historiques; l’abbé Darras, Histoire de l’Église]. Non c’era mai stata certamente alcuna religione così perseguitata e che avesse resistito a tali e numerosi supplizi, ed i Cristiani non erano accusati di altri crimini se non di rifiutarsi di adorare i falsi dei ed obbedire su questo punto agli imperatori. È impossibile, riflettendo su di un fatto così strabiliante, non riconoscere la divinità del Cristianesimo. Diversi Papi, centinaia di Vescovi, migliaia di Cristiani perirono nella decima persecuzione, ed è nella più grande debolezza dell’età e del sesso, che brillò soprattutto la forza divina che sosteneva i martiri. Due esempi tra gli altri sono sufficienti per darne un’idea. – C’era a Roma una giovane vergine di appena quattordici anni, di meravigliosa bellezza, che la rendevano ricercata per il matrimonio da parte di molti giovani romani delle famiglie più illustri dell’impero. Ella rifiutò tutti i partiti. Irritati da questa ingiuria, alcuni dei suoi pretendenti la denunciarono; essi si lusingavano del fatto che la costanza della giovane vergine non reggesse alla minaccia dei tormenti. Agnese, questo era il suo nome, respinse le promesse più seducenti dei suoi giudici; ella non fece attenzione alcuna alle loro minacce. Si portarono gli artigli di ferro, i cavalletti, tutti gli strumenti di tortura e si accese un grande fuoco. Agnese assistette a questi spaventosi preparativi senza mostrare alcuna emozione. La si trascinò dinanzi agli idoli per forzarla ad offrir loro incenso; ella non alzò la mano se non per farsi il segno della croce. Il giudice, stupito da tale costanza, ebbe un’ispirazione degna dell’inferno: minacciò la santa di mandarla in un luogo di dissolutezza, ove sarebbe stata esposta agli insulti dei libertini:  «Gesù-Cristo, rispose dolcemente Agnese, è troppo geloso della purezza delle sue spose per soffrire che tale virtù venga strappata; Egli ne è il guardiano ed il protettore. Voi potete spargere il mio sangue, ma non è in vostro potere profanare il mio corpo. » Il giudice fu talmente preso dalla collera per questa risposta, che mise in atto la sua minaccia. Ma i giovani libertini accorsi per oltraggiare la casta giovane, furono colpiti da tal rispetto alla sua vista, che restarono impietriti. Uno di essi, che si mostrava il più insolente, fu tutto ad un colpo gettato a terra mezzo morto e privo di vista. I suoi compagni, spaventati lo rialzarono e supplicarono la santa di aver pietà di lui. Agnese pregò ed il malcapitato recuperò subito la vista e la salute. Queste meraviglie, non fecero che irritare ancor più i nemici della santa, ed il giudice la condannò ad essere decapitata. La vista del carnefice riempì di gioia Agnese; ella andò al supplizio come ad una festa; rispose ancora una volta, agli ultimi tentativi che si facevano per convincerla, che ella non avrebbe mai tradito il suo Sposo celeste; pregò, abbassò la testa e ricevette il colpo che doveva colmare tutti i suoi desideri.  – Ad Antiochia, si conduce nella sala degli interrogatori, Barallah, un bambino di sette anni: « Bisogna adorare più dei o uno solo? » gli domanda il governatore. Il bambino sorride e risponde: « Non c’è che un solo Dio, e Gesù-Cristo è il Figlio suo. – Chi ti ha istruito così, piccolo empio? Riprende il prefetto. – È mia madre, dice il bambino, che mi ha insegnato queste verità, ed è Dio che le ha insegnate a mia madre. » Viene chiamata allora la madre. Due aguzzini spogliano il piccolo confessore dei suoi vestiti, lo sospendono in aria e colpi di frusta tagliano in mille parti la sua carne innocente. Ogni volta che l’impietoso osa colpire questa tenera vittima, ne resta coperto di nuovo sangue. Tutti gli astanti si sciolgono in lacrime; gli stessi carnefici colpiscono piangendo. Tuttavia il povero bambino si sente come bruciato da rigore dei tormenti: « Ho sete! Grida, datemi un poco d’acqua. » Ma sua madre, in cui la grazia trionfa sulla natura, lo guarda con aria severa, poi gli dice: « Ben presto figlio mio, tu giungerai alla fonte di acque vive. » Il bambino non sogna che il cielo. Il giudice lo condanna ad avere la testa tagliata. La madre di Barallah lo conduce ella stessa, nelle sue braccia, al luogo del supplizio. Ella lo bacia teneramente, si raccomanda alle sue preghiere, lo affida all’esecutore e stende il suo velo per ricevere la testa del giovane martire. [L’abbé Leroy, le Règne de Dieu]. L’inferno era vinto! Diocleziano, minacciato di morte da Galero, aveva abdicato; si ritirò a Salone, ove visse divorato dai rimorsi, non dormiva più, non mangiava più; prima di spirare vomitò la sua lingua rosa dai vermi. Sua moglie Prisca e sua figlia Valeria, che non avevano avuto il coraggio di confessare la loro fede, furono decapitate: i loro corpi furono gettati in mare. Massimiano Ercole era stato costretto ad abdicare; volle riprendere il potere, ma fu sconfitto. Egli fuggì allora presso Costantino, successo tra i Galli a suo padre Costanzo Cloro, e complottò per disfarsi di questo principe. Il complotto fu scoperto, e Massimiano si vide costretto a strangolarsi con le proprie mani. Infine la mano di Dio si appesantì su Galero. Un’ulcera spaventosa rose la parte inferiore del suo corpo, facendo fuoriuscire un sangue nero e corrotto, vermi che si replicavano incessantemente, ed un odore insopportabile. Domato dai dolori atroci che lo affliggevano, riconobbe infine la mano che lo colpiva, ed il terrore gli fece firmare un editto che era una eclatante dimostrazione dell’impotenza dell’uomo a distruggere ciò che Dio ha stabilito; eccone il testo: « L’imperatore Cesare, Galerio, Valerio Massimiano, invincibile, augusto, sovrano pontefice, grande Germanico, grande Egiziano, gran sarmatico, tebaico, Persiano, Carpico, armeno., medio, adiabenico, l’anno ventesimo della sua potenza tribuna, diciannovesimo anno del suo impero, console per la diciottesima volta, padre della patria, proconsole, agli abitanti delle sue provincie: salute. –  Tra le cure continue che prendiamo degli interessi pubblici, noi abbiamo cercato dapprima di far rivivere i costumi degli antichi romani, ed a riportare i Cristiani alla religione degli ancestri che essi hanno abbandonato. Subendo una influenza nuova, essi avevano abbandonato le massime dei loro padri, e formavano delle assemblee per un nuovo culto. In seguito alle nostre ordinanze, molti tra loro sono morti con supplizi diversi. tuttavia, poiché vediamo che restano perseveranti nei loro sentimenti e rifiutano di servire gli dei, per quanto non abbiano la libertà di adorare il Dio dei Cristiani, confidando nella nostra clemenza e questa bontà naturale che ci fatto sempre propendere dal lato dell’indulgenza, abbiamo creduto dover estendere anche ad essi la nostra paterna misericordia. Essi potranno dunque professare liberamente la loro religione. E ristabilire i luoghi delle loro assemblee, sottomettendosi alle leggi dell’impero. Noi faremo sapere ai magistrati, con altro decreto, la condotta che dovranno tenere. In virtù di queste grazie che noi accordiamo loro, i Cristiani saranno tenuti a pregare il loro Dio per la nostra salute, per la salvezza della repubblica, affinché l’impero prosperi in ogni parte, e possano essi stessi vivere in sicurezza e pace. » L’invincibile augusto e sommo Galero, non raccolse alcun frutto da questo pentimento forzato e da questa clemenza ipocrita: egli morì come Antioco, dopo aver vissuto come lui (311 dell’era cristiana). Costantino stava per diventare l’unico padrone del mondo, e la croce del Dio dei Cristiani stava per brillare sugli stendardi dell’impero.

IV

Le Eresie.

La sanguinosa persecuzione non fu però per la Chiesa l’unico pericolo che ebbe a correre nei primi secoli della sua esistenza. Dai tempi degli Apostoli, l’eresia aveva tentato di alterare la purezza della fede; essa fece nuovi sforzi durante i due secoli dei quali tracciamo rapidamente la storia, e non poco contribuì alle defezioni che vennero ad affliggere i fedeli durante le persecuzioni, poiché forniva ai pagani dei pretesti per accusare i Cristiani di cattivi costumi e di colpevoli pratiche. Ma Dio, che al furore dei pagani opponeva la costanza dei martiri, oppose anche alla perfidia dell’errore, la scienza e l’energia degli apologisti e dei dottori, che formarono come una seconda corona intorno alla testa gloriosa della Chiesa. – Quando cominciò la predicazione evangelica, l’idolatria, diffusa in tutto il mondo come culto, non era più che una forma simbolica per i filosofi; si lasciava la forma al volgare, e si cercava la scienza che doveva essere nascosta sotto i simboli. Una celebre scuola, fondata ad Alessandria d’Egitto, raccoglieva le tradizioni di Occidente e d’Oriente. Essa fede un miscuglio tra le dottrine filosofiche dei Greci e delle credenze dell’Asia, e da qui uscì ciò che si chiamò la conoscenza per eccellenza, o la “gnosi”, donde il nome di gnostici dati ai settari di queste dottrine. Gli gnostici facevano tutto emanare dall’intelligenza eterna; ma non vi erano emanazioni immediate se non quelle intelligenze; era una intelligenza inferiore, un demiurgo, come dicevano, che aveva creato la materia. Sotto il regno di Adriano, Valentino aggiunse alle antiche fantasticherie, nuove favole, e tentò di fare entrare il Cristianesimo nel suo sistema, spiegando i misteri a suo modo. Secondo lui il principio dell’essere abitava delle profondità inaccessibili con il suo pensiero; la profondità ed il pensiero, generano l’intelligenza e la verità, ciò che formò in tutto quattro esseri primitivi o eoni; era una tetrade che rimpiazzava la Trinità. L’intelligenza e la verità produssero il Logos o Verbo, e Zoé o la vita che a loro volta produssero l’Antropos o uomo, e la Chiesa. Questo formava gli otto eoni superiori che, padri di altri ventidue, formavano con questi il Pleroma o la pienezza. Gli ultimi eoni, produssero a loro volta, tre essenze: la “pneumatica” o spirituale, la “psichica” o animale, e l’”hylica”, o materiale, che costituivano il genere umano. La classe degli uomini pneumatici o spirituali comprendeva gli gnostici; gli psichici, partecipavano dello spirito e della materia; gli hylici formano una razza infima che vive una vita terrestre e soggetta ai sensi. Gli psichici avevano avuto bisogno di una redenzione, ed era l’ “eone” Gesù che, per riscattarli, si era incarnato nel Figlio di Maria; ma Egli si era ritirato al momento della passione, di modo che non c’era che il Cristo-materiale a soffrire. Così il Cristianesimo era capovolto da cima a fondo, gli hylici erano votati ad una morte eterna dall’imperfezione stessa della loro sostanza; ma gli gnostici erano impeccabili; la loro anima non poteva essere toccata da alcuna corruzione, di modo che, per essi, tutte le azioni divenivano indifferenti, ed essi potevano impunemente darsi a tutti i disordini. Era la distruzione di ogni morale e di ogni società; era, in altri termini, la riabilitazione della carne, tanto vantata ai giorni nostri; concezioni mostruose che produrrebbero in una generazione, l’annientamento del genere umano, se fossero completamente realizzate. Ma, se queste teorie hanno ancora una seduzione ai giorni nostri, in pieno Cristianesimo, immaginarsi quali devastazioni potevano fare in mezzo alle corruzioni del paganesimo, e come importasse che la Chiesa le combattesse vigorosamente. Il Cristianesimo, impedendo l’invasione dello gnosticismo, ha certamente reso uno dei più gradi servizi all’umanità [che purtroppo oggi rivive propagato dalle sette massoniche e dal modernismo anticristiano della setta del “Novus Ordo” -ndr. -]. Non è qui il caso di confutare tutte queste pericolose assurdità, che non possono trovare credito che in certe teste disordinate, o in costumi corrotti. È necessario solo sottolineare con quale nettezza, con quale verità la dottrina cristiana esponga tutte queste questioni circa l’origine e il destino dell’uomo: un Dio tre Persone, Creatore dello spirito e della materia, l’uomo creato per gioire del possesso di Dio, il male spiegato con la caduta degli angeli e quella dell’uomo, la riparazione del Figlio di Dio e la santificazione dello Spirito-Santo. Qui, nessuna incoerenza, nulla che porti a conseguenze assurde ed immorali. L’errore conduce direttamente al male, alla distruzione dei corpi ed alla corruzione dell’anima; si sa ciò che fa il Cristianesimo, quante virtù fa brillare sulla terra, quale rispetto manifesta per il corpo umano, e a quale altezza eleva le anime. Verso la metà del secondo secolo, un siro di nome Cerdone, venne a Roma e mescolò agli errori della gnosi, un nuovo errore preso dalle credenze della Persia. Valentino, conservava un principio unico, posto nelle profondità dello spazio; Cerdone insegnò che vi sono due principi uguali e due dei, uno buono e benefico, l’altro giusto e severo; uno invisibile e sconosciuto, l’altro visibile e manifesto; il primo, padre di Gesù-Cristo; il secondo creatore dell’universo; quello autore della grazia, l’altro della legge. Il Papa S. Igino scomunicò Cerdone, e fece tutti i suoi sforzi per premunire i fedeli contro le sue false dottrine. Qualche anno dopo, un certo Marcione, che aveva dapprima condotto una vita edificante, venne a soccombere ad una passione impura, e fu bandito dalla comunione dei fedeli, venne a Roma ove si legò a Cerdone, del quale amplificò gli errori. Egli negava l’incarnazione di Gesù-Cristo e la Resurrezione del corpo. Siccome i disordini degli gnostici allontanavano da essi i Cristiani, egli prese un’altra via ben più perfida per sedurli, e si mise ad esaltare la mortificazione ed il martirio. Così i marcioniti fecero un gran numero di adepti, e la loro setta visse più a lungo di quella di Cerdone; essa fece grande devastazione in Oriente ed in Occidente. Uno degli stessi discepoli di san Giustino, il sacerdote Tatiano, che aveva edificato i suoi fratelli con le sue virtù ed i suoi scritti, si lasciò sedurre dai marcioniti, fino a condannare il matrimonio come un adulterio. Egli si asteneva nello stesso tempo dal mangiare la carne degli animali e dal bere vino,  cosa che face dare ai suoi settari il nome di encratili o temperanti. Così il demonio cercava di prendere le anime che gli sfuggivano con rigori insopportabili, quando non poteva prenderli con l’attrattiva della voluttà: la Chiesa solo sapeva tracciare la vera strada che allontana da ogni degenerazioni, e cammina senza ondeggiare a destra o a sinistra verso gli errori più opposti. Verso la fine del secondo secolo, apparve l’impostore Montano, che fondò una setta di illuminati soggetti a convulsioni di natura straordinaria, facendole passare come il risultato dell’azione divina. Due donne opulente, Priscilla e Massimilla, si lasciarono sedurre da questo epilettico; esse ebbero come lui delle estasi e si misero a profetizzare. Montano si vantava di avere la pienezza dello Spirito-Santo, che gli Apostoli avevano ricevuto solo in parte nel giorno della Pentecoste; egli si presentava come il “paracleto” o il consolatore per eccellenza, e pretendeva di riformare la Chiesa, proibiva le seconde nozze, ma permetteva il divorzio; ordinava tre quaresime all’anno, imponeva ai suoi discepoli dei digiuni straordinari, diffidava dal fuggire durante la persecuzione e non ammetteva quasi nessun peccatore alla penitenza. Aveva pure stabilito il capoluogo della sua eresia in una piccola città di Frigia, da dove si diffuse in Asia ed Africa. I Vescovi si allertarono; un concilio condannò l’eresia, ed il Papa san Sotero confermò la sentenza del Concilio. Montano non si sottomise; si crede che finisse per darsi la morte, e la profetessa Massimilla fece altrettanto. Sembra assai certo che, sotto le apparenze di una austerità rigorosa, i montanisti avevano i costumi più licenziosi. Tertulliano, dopo aver combattuto con tanta eloquenza ed energia il paganesimo e l’eresia di Marcione, si lasciò sedurre dall’apparente austerità dei montanisti che non abbandonò che per formare una setta a parte. Terribile esempio di caduta in cui può condurre l’orgoglio! Tertulliano moriva (verso il 245) nel mentre che compariva una nuova eresia, quella di Sabellius, che negava la Trinità e la distinzione delle Persone divine. Diversi vescovi d’Egitto adottarono i suoi errori, combattuti vivamente da San Dionigi, Vescovo di Alessandria. Questa lotta fu l’occasione di una brillante testimonianza di fede resa al primato della Sede di Roma. Dei fedeli di Alessandria credettero di vedere negli scritti di San Dionigi delle espressioni che sembravano indicare che il Figlio è una creatura e che non è consustanziale al Padre; essi accusarono il Vescovo presso il Papa San Dioniso, che radunò subito un concilio a Roma. – Il Concilio condannò i due opposti errori, quello di Sabellius, che non distingueva le tre Persone, e quello che si attribuiva a Dionigi di Alessandria, che rigettava la consunstanzialità del Verbo. San Dionigi protestò la sua fede nel Verbo consustanziale, spiegò quelle sue parole che lo avevano fatto sospettare di eresia, e si giustificò completamente. Un altro errore eccitò ben presto lo zelo dello stesso Patriarca. Paolo di Samosata, Vescovo di Antiochia, uomo vano ed orgoglioso, insegnò che in Gesù-Cristo vi erano due persone, l’una Figlio di Dio per natura ed eterno, l’altra che non aveva ricevuto il nome di Figlio di Dio, dopo la sua unione con il Verbo, che per abuso di linguaggio. Sabellius era il precursore di Ario; Paolo di Samosata era il precursore di Nestorio. San Dionigi di Alessandria gli scrisse subito per dimostragli quale era la credenza della Chiesa: « Il Verbo si è fatto carne, egli diceva, senza divisione né frazionamento. Non si distinguono in Lui due persone, come se il Verbo abitasse nell’uomo e non gli fosse unito. Come osate definire Gesù-Cristo un uomo distinto dal suo genio, Egli, vero Dio, adorato da tutte le creature con il Padre e lo Spirito-Santo, incarnato nella Vergine Maria, Madre di Dio? » Questo passaggio è notevole poiché mostra la fede della Chiesa nella divina Maternità della Santa Vergine, che il Concilio generale di Efeso doveva rivendicare più tardi contro altri eretici. Paolo di Samosata finì per essere solennemente deposto a causa delle sue opinioni pertinaci nell’errore. – Un’altra eresia che doveva essere ben altre volte e contro la quale la Chiesa doveva combattere ancora nel Medio-Evo, uscì dal profondo della Persia con Manès. Questo eresiarca, padre del manicheismo, era nato in condizione servile: egli voleva accordare il Cristianesimo con la credenza ai due princîpi uguali, che si trova nel fondo della religione di Zoroastro, e farsi capo di una nuova setta. Egli colpiva le moltitudini per la singolarità del suo costume, più che per la bizzarria della sua dottrina; portava degli stivali molto alti per far apparire la sua statura più elevata; si avvolgeva in un mantello variopinto, ampio e fluttuante, che dava al suo incedere un certo apparente aspetto aereo; teneva in mano un gran bastone di ebano al quale si appoggiava nel camminare, e sotto il braccio un libro scritto con caratteri babilonesi; infine aveva una gamba avvolta da una stoffa rossa, e l’altra da una stoffa di color verde. Questo ciarlatanismo da solo avrebbe dovuto rivelare l’impostore, ma ci sono sempre immaginazioni malate e cuori viziosi che si lasciano sedure da tutto ciò che non è verità! Manès si fece numerosi partigiani, con i suoi due dii eterni, nati da se stessi, opposti l’uno all’altro, l’uno principe del bene, che egli chiamava “luce”, l’altro principe del male, che egli chiamava tenebre. Secondo lui l’anima era una scintilla di luce, mentre il corpo una particella di tenebre; poi venivano le emanazioni e gli eoni gnostici … ; il manicheismo fu proscritto pure dagli imperatori pagani e, poiché non era la verità, fu infine vinto. Il re di Persia, fece prendere Manès, che fu scorticato vivo con una punta di canna, ed il cui corpo fu abbandonato ai cani ed agli uccelli predatori. I partigiani dell’errore non si moltiplicarono con tanta rapidità come i difensori della verità. Si è già citato qualcuno di questi apologisti e dottori che rivendicavano la vera fede contro tutti gli attacchi della filosofia pagana e le assurde immaginazioni degli eretici. I loro nomi splendono con luce non meno brillante dei martiri, di cui la maggior parte condivisero battaglie e trionfi. San Ignazio, san Policarpo, san Papia, san Dionigi l’Aeropagita, san Quadrato, san Giustino, san Dionigi di Corinto, san Ireneo, Apollinare, Clemente Alessandrino nel secondo secolo, e nel terzo secolo Origene, Tertulliano, Minucio Felice, san Cipriano, san Dionigi di Alessandria, san Gregorio Taumaturgo, Arnobio, etc.: ecco dei nomi davanti ai quali impallidivano gli eresiarchi ed i filosofi pagani degli stessi tempi. Attaccati su tutti i punti nei suoi dogmi, nella sua disciplina, nella sua morale, nel suo culto, la Chiesa si difendeva su ogni punto. Essa spegneva la persecuzione nei flutti del proprio sangue, e faceva fuggire l’eresia davanti ai torrenti di luce diffusi dai suoi dottori; essa si trovava veramente alla testa dell’umanità, che andava conquistando l’impero del suo capo e suo Re, l’Uomo-Dio, Gesù-Cristo, il Figlio di Dio ed il vero Re dell’uomo …

I PAPI DELLE CATACOMBE (7)

I Papi delle Catacombe [7]

[J. Chantrel: I Papi delle Catacombe. Dillet ed. Parigi, 1862]

Ottava persecuzione (257).

La Chiesa aveva avuto appena il tempo di respirare, quando l’imperatore Valeriano, che regnava dal 253, e che aveva inizialmente risparmiato i Cristiani, firmò un nuovo editto di persecuzione. Il Papa Stefano fu portato davanti all’imperatore: « Sei tu, dice Valeriano, che cerchi di rovesciare la repubblica e che persuadi il popolo ad abbandonare il culto degli dei? – Io non cerco di rovesciare la repubblica, risponde Stefano, ma esorto il popolo ad abbandonare il culto dei demoni che si adorano negli idoli, e riconoscere il vero Dio, e Colui che lo ha inviato, Nostro Signore Gesù-Cristo. » Santo Stefano Papa ebbe la testa mozzata! San Sisto, successore di Santo Stefano, non doveva tardare molto a raggiungerlo in cielo. L’anno seguente, il 6 agosto 258, mentre celebrava i santi misteri al cimitero di Callisto, dei soldati lo arrestarono e lo condussero al supplizio. Lorenzo, l’arcidiacono della Chiesa di Roma, lo seguiva piangendo: « Dove andate, padre mio, senza vostro figlio? – diceva – dove andate, santo Pontefice, senza il vostro diacono? Voi non avete l’usanza di offrire il sacrificio senza ministro; permettete che io aggiunga il mio sacrificio al vostro. – Io non vi abbandono, figlio mio – gli rispondeva il venerabile vegliardo, ma il cielo vi riserva per un combattimento più grave; voi mi seguirete tra tre giorni. » E lo incaricò sul campo di distribuire ai poveri i tesori della Chiesa di cui era depositario, per paura che i pagani se ne impossessassero. I soldati tagliarono la testa a Sisto. – Lorenzo, tutto pieno di gioia nella prospettiva di un prossimo martirio, si occupò subito di seguire le raccomandazioni del Pontefice. La Chiesa romana aveva al tempo delle ricchezze considerevoli, frutto delle elemosine e dei doni dei fedeli; esse venivano impiegate per sostenere i suoi ministri, per alleviare le vedove, gli orfani ed i poveri e ad inviare abbondanti elemosine alle altre chiese che potevano averne bisogno; le sue ricchezze erano veramente il patrimonio dei poveri e dei bisognosi. I pagani lo sapevano, e queste ricchezze eccitavano la loro cupidigia. Il prefetto di Roma fa venire Lorenzo e gli dice: « Io non vi convoco per inviarvi al supplizio, io voglio domandarvi una cosa che dipende da voi. Si dice che voi abbiate dei vasi d’oro e d’argento ed una grande quantità di denaro: l’imperatore chiede tutto questo, rendetelo a noi. – È vero, risponde Lorenzo, che la nostra chiesa è ricca, e lo stesso imperatore non ha tanti grandi tesori. Io vi farò vedere ciò che essa ha di più prezioso; datemi soltanto qualche tempo per mettermi in ordine, redigere il punto della situazione e fare il calcolo. » Il prefetto gli accordò tre giorni. Lorenzo percorse tutta la città per cercare i poveri che la Chiesa sosteneva con le sue elemosine; egli raccolse tutti i malati, zoppi, ciechi, lebbrosi. paralitici, malati coperti di ulcere, e li radunò n un vasto cortile; poi andò a trovare il prefetto e lo pregò di venire a vedere i tesori di cui aveva parlato: « Voi vedrete, egli diceva, un grande cortile pieno di vasi preziosi e di lingotti d’oro ammassati sotto le gallerie. » L’uomo di Dio voleva colpire questo pagano con un grande spettacolo, e fargli comprendere quanto le ricchezze della terra siano disprezzabili: « L’oro che voi desiderate, gli dice, non è che un metallo senza valore, ed è la causa di tanti crimini. Il vero oro è la luce del cielo di cui godono questi poveri, presenti davanti ai vostri occhi. Essi trovano nelle loro infermità e nelle loro sofferenze, sopportate pazientemente, i più preziosi benefici; voi vedete nelle loro persone i tesori che io ho promesso di mostrarvi. Vi aggiungo le perle e le pietre preziose della Chiesa, le vedove e le vergini consacrate a Dio: è la corona della Chiesa. Godete di queste ricchezze per Roma, per l’imperatore e per voi stesso. » Il prefetto, per tutta risposta, fece approntare una immensa graticola di ferro, sotto la quale si misero dei carboni ardenti. Si spogliò il generoso diacono dei suoi vestiti, e lo si legò su questa graticola, aumentando gradualmente l’intensità del calore. Lorenzo conservò un viso sereno e tranquillo; il suo pensiero era a cielo, la sofferenza sembrava non sfiorarlo. Dopo essere rimasto per un certo tempo esposto a questo atroce supplizio, egli dice dolcemente al tiranno: « Ora fatemi rigirare, perché da questo lato mi sono già arrostito! » I carnefici allora lo rigirarono effettivamente. Dopo un poco di tempo aggiunse: « Ora la mia carne è ben cotta, potete pure mangiarla. » Il prefetto non rispose a questo meraviglioso coraggio se non con insulti. Tuttavia il martire pregava con fervore, chiedeva a Dio la conversione di Roma, e pregava Gesù-Cristo di accordare questa grazia ai santi Apostoli Pietro e Paolo, che vi avevano piantato la croce bagnandola con il proprio sangue. Finita la preghiera, levò gli occhi al cielo e rese lo spirito, martire della fede e della carità … Lo stesso anno vide il martirio di San Cipriano, vescovo di Cartagine, una delle luci più brillanti della Chiesa. Il proconsole Galero lo cita davanti al suo tribunale: « Tu sei Tascio Cipriano – gli dice – Si, io lo sono. – Sei tu il capo dei Cristiani? – Si, sono io! – Sacrifica dunque agli dei. – Io non posso. – Riflettete, dice il proconsole; in una giusta cosa – replica Cipriano – ho ben riflettuto; eseguite gli ordini di cui siete incaricato. » Galero delibera con il suo consiglio, e di seguito dice: « Tu sei vissuto senza pietà; ha trascinato una moltitudine di persone al tuo culto, noi ti condanniamo ad essere decapitato. – Dio sia benedetto! » esclama il generoso Vescovo. Allora i Cristiani che erano intorno al tribunale, urlano: « Che ci si faccia morire con lui! » Ne segue una scena tumultuosa, ed il proconsole, temendo una sedizione, ordina di portare Cipriano fuori dalla città; molti cristiani lo accompagnano. Quando Cipriano giunge sul luogo dell’esecuzione, mette le ginocchia a terra e prega per un po’ di tempo; poi si toglie il mantello, si spoglia della sua dalmatica, o veste di sopra, rimanendo con una semplice tunica di lino. Si benda da se stesso gli occhi; un sacerdote ed un diacono che l’accompagnano gli legano le mani. Egli fa dare venticinque monete d’oro all’esecutore, e presenta la sua testa al carnefice, che la taglia con un colpo solo. I Cristiani raccolgono il suo sangue in stoffe di lino e di seta. Galero muore solo qualche giorno dopo. Si potrebbero raccontare tutti questi gloriosi combattimenti che illustrarono la Chiesa in tutte le provincie dell’impero, ma necessiterebbe uno spazio enorme. A Cirto, in Numidia, vi fu una strage di Cristiani,; in Spagna, San Fruttuoso, Vescovo di Tarragona, fu martirizzato con due dei suoi diaconi; ad Antiochia, un sacerdote, di nome Sapricio, che aveva in odio un cristiano chiamato Niceforo, apostatò vigliaccamente, malgrado le esortazioni di questo cristiano che gli chiedeva perdono, e che ricevette al suo posto la corona del martirio; a Cesarea, in Palestina, tre amici, Prisco, Malco ed Alessandro andarono insieme al cielo, dopo essere stato esposti alle bestie feroci; a Melitene, in Armenia, un ufficiale delle truppe dell’impero, Polieucto, che ha ispirato una tragedia così bella al poeta Corneille, confessò strenuamente la sua fede, malgrado le preghiere e le lacrime di Paolina, sua sposa, e dei suoi figli. Citiamo ancora San Romano, soldato, che San Lorenzo aveva convertito; la vergine Santa Eugenia, che era la maestra di diverse altre vergini consacrate a Dio; i santi detti della “massa bianca” a Utica che, in numero di centocinquantatré, furono precipitati in una fornace di calce, e le cui ossa, mescolate alla calce, formarono una massa bianca, da cui il nome designante, etc. etc. Ma il castigo di tanta crudeltà non tardò a raggiungere Valeriano. Mentre la peste devastava ancora una volta le grandi città dell’impero, i barbari invasero le frontiere, penetrando fin nel cuore delle più belle province e, in Oriente, i Persiani, sotto la guida di Sàpore, minacciavano l’Asia minore. Valeriano partì alla testa di un’armata per respingere il nemico, ma fu sconfitto e fatto prigioniero. Sàpore lo trascinò dappertutto, carico di catene, per renderlo testimone della devastazione delle più fertili contrade dei suoi stati; e quando il superbo vincitore voleva salire a cavallo, gli faceva un segno, e l’imperatore romano curvava il dorso affinché le sue spalle, ricoperte di porpora romana, servissero da sgabello al barbaro monarca. Questo supplizio durò tre anni. Quando Valeriano morì, si scorticò il suo cadavere, se ne conciò la pelle, la si tinse di rosso, e restò così sospesa per diversi secoli alle volte del tempio principale della Persia. Tuttavia Gallieno, figlio di Valeriano, si dispiacque ben poco della sorte del padre e, quando apprese della sua morte, si contentò di dire: « Lo sapevo che mio padre era mortale! »

Nona persecuzione (274)

Alla morte di Gallieno, trenta tiranni si disputarono l’impero. Aureliano finì per restare l’unico padrone nel 270; egli ristabilì la tranquillità, respinse i barbari, vinse Zenobia, regina di Palmira, e regnò gloriosamente, ma egli attribuì i suoi trionfi ai suoi falsi dei, e volle acquisire un’ultima gloria, quella di distruggere una religione che i suoi predecessori avevano invano proscritto. Dio non gli lasciò che più di otto mesi di regno. Un prima volta, un fulmine cadendo ai suoi fianchi, nel momento in cui stava firmando l’editto di proscrizione, aveva arrestato la sua mano; ma egli non ignorò questo avvertimento, e corse verso la sua fine. Il Papa San Felice fu uno delle sue vittime; la morte di Aureliano, ucciso da uno dei suoi ufficiali, non fece che rallentare la persecuzione, ma non la fece cessare completamente, e si contano ancora numerosi martiri fino alla fine del terzo secolo, benché non vi fosse stato un nuovo editto imperiale. Si cita, tra questi illustri confessori della fede, san Genesio, commediante che si convertì nel corso di una parodia teatrale delle cerimonie del Battesimo; san Maurizio ed i suoi compagni, tutti soldati di una legione chiamata Tebana, che si lasciarono sgozzare nel Valais  piuttosto che sacrificare ai falsi dei; San Crespino e San Crespiniano, nobili romani che furono martirizzati a Soissons; San Quintino, cittadino romano di famiglia senatoriale, che ha dato il suo nome ad una delle più fiorenti città della Francia; San Firmino, primo vescovo di Amiens; San Luciano, primo vescovo di Beauvais; San Vincenzo, in Spagna, i due Papi, San Sotero e San Caio, e soprattutto San Sebastiano, il cui martirio è rimasto celebre nella Chiesa. Gli imperatori si erano succeduti rapidamente dopo Galliano, ed i flagelli si succedevano ancor più rapidamente. Nel  284, Diocleziano salì al trono; gli si aggiunse, come pari, Massimino Ercole; l’ordine si ristabilì, ma non la pace della Chiesa. Sebastiano, originario di Narbonne nella Gallia, era capitano di una compagnia di guardie pretoriane: pieno di zelo per la fede, egli visitava i Cristiani prigionieri, incoraggiava i deboli, ed aveva convertito un gran numero di pagani che ebbe la ventura di condurre in seguito in cielo per la via del martirio. Lo stesso prefetto di Roma, di nome Cromazio, si convertì con tutta la famiglia, i suoi servi ed i suoi schiavi, in numero di millequattrocento persone. La sua casa era diventata come un tempio, ove il Papa Caio celebrava i divini misteri. Questi progressi del Cristianesimo allarmarono Massiminiano Ercole. Per evitare la persecuzione, Cromazio si rifugiò in campagna con una parte della sua casa, mentre il resto rimase a Roma con il Papa; tra questi ultimi si trovava Tiburzio, figlio di Cromazio; Sebastiano non aveva abbandonato il suo posto. La persecuzione scoppiò. Santa Zoé, pia dama convertita da San Sebastiano, fu arrestata per prima, nel momento in cui pregava sulla tomba di San Pietro e di San Paolo, il giorno della loro festa; la si sospese per i piedi sopra un fuoco il cui fumo la soffocò. Altri sei cristiani, tra i quali era Nicostrato, sposo di Zoé, furono gettati in mare dopo essere stati torturati; altri furono lapidati, altri inchiodati con i piedi a dei pali ed uccisi a colpi di lancia. Tiburzio, tradito da una spia, disse ai suoi giudici: « Come! Perché rifiuto di adorare una prostituta nella persona di Venere, l’incestuoso Giove, un ingannatore come Mercurio e Saturno, assassino dei suoi figli, io disonoro la mia razza, e sono un infame! » Per tutta risposta, gli si tagliò la testa. Sebastiano che aveva mandato tanti Martiri in cielo, sospirava il momento in cui si sarebbe riunito a loro. I suoi voti non tardarono ad essere esauditi. Egli fu denunciato a Diocleziano che allora si trovava a Roma; l’imperatore rimproverò al capitano delle guardie la sua ingratitudine; egli lo accusò di tradimento, perché avrebbe usato, contro il suo governo, l’autorità che gli dava il suo grado: « Io non ho mai cessato di essere fedele al mio dovere, rispose Sebastiano, né di fare voti per la salvezza del principe e dell’impero; ma io ho da lungo tempo riconosciuto che è follia adorare gli dei di pietra e di legno, ed ho rivolto le mie preghiere al vero Dio che è nei cieli, e al suo Figlio Gesù-Cristo. » Diocleziano, irritato dal generoso ardimento del confessore, fece venire una compagnia di arcieri di Mauritania che servivano tra le sue guardie, Si spogliò Sebastiano dei suoi vestiti; gli arcieri lo trafissero con le frecce e lo lasciarono morto sulla piazza. La pia vedova di un martire, venne di notte per prenderne il corpo. Poiché comprese che il santo ancora respirava, lo trasportò nella sua casa, nello stesso palazzo dell’imperatore, e dopo qualche giorno, Diocleziano vide con stupore, in mezzo alle guardie schierate al suo passaggio, sulla scala d’onore, colui che credeva morto sotto i colpi dei suoi arcieri. Furioso lo fece subito condurre nell’ippodromo del palazzo, ove Sebastiano fu finito a colpi di bastone. Il suo corpo fu gettato in una fogna, dalla quale poi i Cristiani lo estrassero. Questo avvenne tra il 19 ed il 20 di gennaio del 288.

G. FRASSINETTI: CATECHISMO DOGMATICO (VIII)

CAP. VII
DEI SACRAMENTI.
§ I
Dei Sacramenti in generale.

— Come si definisce il Sacramento?
⁕ «Il Sacramento è un segno sacro, visibile, permanente, instituito da Cristo il quale opera ex opere operato la nostra santificazione ». Questa è la definizione che conviene a tutti i Sacramenti della nuova Legge, cioè a tutti i Sacramenti della Chiesa.
— Vi sono dunque altri Sacramenti, fuori di quelli della nuova Legge?
⁕ Prima che Cristo istituisse i Sacramenti che si amministrano nella Chiesa, cioè prima della sua venuta, vi erano dei Sacramenti, però molto inferiori ai nostri, e dei quali non è necessario parlare in questo compendio. Basti notare che sarebbe eretico chi dicesse che i Sacramenti della Legge vecchia avevano il valore di quelli della Legge nuova, cioè dei Sacramenti della S. Chiesa (Council. Trid. Sess. VI).
— Per quale ragione il Sacramento si definisce un segno?
⁕ Perché ci porta in cognizione della cosa che significa: così la lavanda nel Battesimo, ci porta in cognizione della mondezza che acquista l’anima ricevendolo (Habert).
— Perché si dice sacro?
⁕ Perché l’uso di quel segno è un atto religioso appartenente al culto di Dio (Hubert).
— Perché si dice visibile?
⁕ Si dice visibile perché bisogna che cada sotto i sensi, che cioè in qualche modo sia materiale: perciò qui il termine di visibile si prende nel significato di sensibile. Una cosa puramente spirituale non potrebbe essere Sacramento (Habert).
— Perché si dice permanente?
⁕ Perché i Sacramenti sono i fondamenti della Religione, e devono durare perpetuamente come essa; perciò i Sacramenti sono riti che dureranno fino alla fine del Mondo (Habert).
— Perché si dice istituito da Gesù Cristo?
⁕ Perché Egli è l’Autore di tutti i Sacramenti che si amministrano nella Chiesa; come
definì il sacrosanto Concilio di Trento.
— Perché si dice, che opera ex opere operato la nostra santificazione?
⁕ Vuol dire che i Sacramenti hanno una virtù loro intrinseca di conferire all’anima la grazia, sicché non sono le buone disposizioni le quali conferiscono la grazia quando riceviamo i Sacramenti, ma la conferiscono i Sacramenti per se stessi. Che conferiscano la grazia “ex opere operato” è articolo di Fede definito dal sacrosanto Concilio di Trento.
— Dunque non importa accostarsi ai Sacramenti con buone disposizioni?
⁕ Importa moltissimo; anzi è necessario affinché i Sacramenti producano il loro effetto, come importa ed è necessario che le legna siano secche affinché con prestezza si accendano. Se prendete legna secche e le mettete sul fuoco presto ardono, se le prendete stillanti sugo in primavera, non trovate modo di farle alzar fiamma. La virtù di bruciare, per altro, non è o del secco o del verde, la virtù di bruciare è del fuoco. Similmente se date i Sacramenti a chi è bene disposto per riceverli, costui acquista o la grazia, o l’aumento della medesima, perché non trovano impedimento che disturbi il loro effetto; se li date invece a chi non è ben disposto per riceverli, costui non acquista la grazia, perché trovano l’impedimento delle cattive disposizioni, il quale impedimento non permette che producano il loro effetto; come l’abbondanza dell’umore non permette al fuoco che abbruci il legno verde; vi ripeto perciò che come la virtù di bruciare sta nel fuoco, e non nelle disposizioni del legno, similmente la virtù di conferire la grazia sta nei Sacramenti e non nelle disposizioni di chi li riceve.
— L’effetto del Sacramento non sarà maggiore o minore secondo la maggiore o minore disposizione di chi lo riceve?
⁕ É certamente cosi, come vediamo che l’effetto del fuoco è maggiore o minore, secondo la maggiore e minore aridità del legno a cui si appicca (Conc. Trid. sess.5, v. 1).
— Perché si dice che i Sacramenti o conferiscono o accrescono la grazia?
⁕ Perché altri Sacramenti sono istituiti per conferire la grazia santificante a chi ne è privo, altri per accrescerla a chi già la possiede. – Il Battesimo e la Penitenza conferiscono la grazia a chi ancora non la possiede, tutti gli altri invece l’accrescono a chi di già l’ha avuta, e la conserva. Quei due si chiamano Sacramenti dei morti, e tutti gli altri Sacramenti dei vivi, dandosi i primi ai morti alla grazia di Dio, e questi secondi ai vivi alla medesima.
— Non accade mai il caso che i Sacramenti dei morti accrescano la grazia a chi già la possiede, e che i Sacramenti dei vivi la conferiscano a chi ne è privo?
⁕ Accade benissimo. Figuratevi che un catecumeno prima di ricevere il Battesimo si metta in istato di grazia con un perfetto atto di contrizione, quando poi riceve il Battesimo, il Sacramento a lui non può conferire la grazia, ma soltanto accrescerla: lo stesso si dica del Sacramento della Penitenza, se il penitente prima di ricevere l’assoluzione è di già in istato di grazia per la Contrizione perfetta, oppure se non ha altro da confessare che peccati veniali. In questi casi i Sacramenti dei morti accrescono la grazia santificante a chi già la possiede. Tutto questo è certissimo, e non v’ha luogo a dubitarne. Viceversa, alle volte i Sacramenti dei vivi conferiscono la grazia santificante a chi ne è ancora privo, come insegnano i Teologi più comunemente con S. Tommaso. Figuratevi che uno si fosse confessato con la sola attrizione da un Sacerdote privo della giurisdizione necessaria; oppure da un laico che si fosse finto Sacerdote: costui non ostante la sua confessione, resta in istato di peccato mortale; per altro, supponendo di essere stato assoluto validamente, si accosta alla S. Comunione, ed ecco che allora la S. Comunione lo rimette in istato di grazia, conferendogli la Ss. Eucaristia, che è Sacramento dei vivi, quella grazia che ancora non ha: ciò che vi dico della Ss. Eucaristia, ditelo di tutti gli altri Sacramenti dei vivi, qualora si ricevano incolpabilmente in istato di peccato mortale, da chi per altro è pentito del peccato mortale con dolore di attrizione; giacché è cosa certissima, che Dio non perdona alcun peccato attuale senza che l’uomo se ne penta con un dolore soprannaturale. La ragione è che l’attrizione toglie dall’anima la cattiva volontà la quale sarebbe d’impedimento al conseguimento della grazia (Vedi il Collet Tr. de Sacram. Eucharist. c. 8).
— Se la cosa è così noi potremo sempre accostarci ai Sacramenti dei vivi con la sola attrizione, senza premettere la Confessione: leveremo con l’attrizione l’impedimento della cattiva volontà, e quindi i Sacramenti dei vivi ci conferiranno la grazia santificante.
⁕ Questo poi no: i Sacramenti dei vivi non sono istituiti da Gesù Cristo perché di loro istituzione conferiscano la grazia a chi ne è privo, ma affinché ne diano l’aumento a chi già la possiede; e perciò vi è espresso divino comando che l’uomo non si accosti a quei Sacramenti se non in istato di grazia. – Pertanto chi conosce di essere ancora in peccato mortale, e vuole accostarvisi, trasgredisce questo comando divino, e con la sola intenzione commette un nuovo peccato mortale: quindi in lui l’attrizione sarebbe falsa come unita con la volontà di trasgredire un divino comando, e non potrebbe togliere l’impedimento per ottenere la grazia santificante. – Solo per accìdens, come dicono i Teologi, cioè quando l’uomo trovandosi in buona fede, o avendo fatto quanto sapeva di dover fare per mettersi in grazia di Dio, crede di essere giustificato e disposto, così che se conoscesse di avere ancora il peccato sull’anima si asterrebbe dal ricevere questo o quell’altro dei Sacramenti dei vivi, solo in questo caso, avendo insieme vera attrizione de’ suoi peccati mortali, ottiene la grazia santificante, ricevendo qualcuno dei Sacramenti medesimi.
— Vuol dire adunque che per ricevere degnamente i Sacramenti dei vivi bisogna prima o confessarsi con l’attrizione, o eccitarsi alla contrizione perfetta, e indifferentemente basterà, o l’una o l’altra cosa; perché l’una e l’altra cosa ci rimette in istato di grazia?
⁕ Se voi dite che basti indifferentemente per tutti i Sacramenti dei vivi dite un grande errore; giacché per ricevere la Ss. Eucaristia non basta che chi è in peccato mortale faccia un atto di contrizione; vi è obbligo, tolto il caso d’indispensabile necessità, che egli si confessi: avendo così inteso il Sacrosanto Concilio di Trento il precetto di S. Paolo: probet autem seipsum homo. Similmente chi è in peccato mortale o si trova in punto di morte, si deve confessare, perché non potrebbe in appresso soddisfare al precetto della Confessione, e per ciò non potrebbe ricevere l’Estrema Unzione senza confessarsi con un solo atto di Contrizione. Per la Cresima poi, l’Ordine e il Matrimoniò non vi è espresso comando di premettere la Confessione; basterebbe che chi deve ricevere alcuno di questi Sacramenti si pentisse con vera contrizione de’ suoi peccati avendo intenzione di confessarsi poi a tempo debito. Per altro notate bene che non si deve predicare ai rozzi questa dottrina, è bene che la ignorino perché troppo ne abuserebbero in loro danno; con un atto di contrizione storpiato, a fiore di lingua, si accosterebbero ai sacramenti della Confermazione e del Matrimonio. Questa dottrina sappiatela voi per vostra regola, onde non predicare che ugualmente si debba premettere la Confessione alla Cresima e al Matrimonio come alla Comunione, il che sarebbe falso; perché per la Comunione vi è il precetto di S. Paolo, il quale non si trova per i tre sovraccennati Sacramenti; ma frattanto predicate che il mezzo lasciatoci da Gesù Cristo per mondare l’anima dal peccato mortale è la Sacramentale Confessione, e che perciò ciascuno si confessi prima di accostarci a ricevere qualunque Sacramento trovandosi reo di qualche peccato mortale; predicate anzi che essendo troppo difficile cosa il conoscere lo stato della propria coscienza e di troppa importanza il ricevere i Santi Sacramenti con le migliori disposizioni, ciascuno si confessi prima di accostarvisi, quantunque la coscienza nol rimordesse di colpa grave.
— Oltre della grazia santificante conferiscono i Sacramenti altra grazia?
⁕ Conferiscono la propria grazia detta Sacramentale, la quale è un gius fondato nella grazia santificante conferita dal Sacramento a ricevere a tempo opportuno certi aiuti, ossia grazie attuali mediante le quali possa l’uomo ottenere il fine del Sacramento (Habert). Perciò la grazia Sacramentale del Battesimo ci fa avere gli aiuti opportuni per menare una vita degna del Cristiano; la grazia Sacramentale della Confermazione ci fa avere aiuti particolari per confessare coraggiosamente la Fede; quella dell’Eucaristia per nutrire, cioè conservare ed accrescere la carità; quella della Penitenza, affinché si evitino per l’avvenire i peccati; quella dell’Estrema Unzione, affinché si faccia un buon passaggio e tranquillo all’altra vita; quella dell’ordine, affinché degnamente e con zelo ci diportiamo nel Santo Ministero; quella del Matrimonio, affinché i Coniugati conducano una vita tra loro pacifica ed educhino la loro prole nel Santo Timor di Dio [Antoine: de Sac. in gen. a. 3, art. 3).
— Chi ha dato tanta efficacia ai Sacramenti?
⁕ Gesù Cristo che né è l’Autore, e loro la meritò con i meriti della sua Incarnazione, Passione e Morte.
— Oltre la grazia santificante e sacramentale conferiscono ì Sacramenti altro effetto?
⁕ Tre dei Sacramenti, cioè il Battesimo, la Confermazione e l’Ordine, conferiscono il carattere, che è un segno spirituale indelebile impresso nell’anima nostra, mediante il quale per tutta l’eternità si distingueranno quelli che avranno ricevuto o tutti e tre, o alcuno di questi Sacramenti, da quelli che non li avranno ricevuti. Questo carattere ai Beati sarà di gloria particolare, ai dannati di particolare confusione. Si noti pure essere articolo di Fede che questi tre Sacramenti non si possono ricevere che una volta sola.
— È di fede che questo carattere sarà indelebile per tutta l’eternità?
⁕ Che il carattere non si potrà mai cancellare durante questa vita, è articolo certamente di Fede definito dal Concilio di Trento; che sia indelebile anche per tutta l’eternità non è cosa espressamente definita di Fede, per altro così insegna S. Tommaso (Antoine ut sup.). e tale è il sentimento generale dei fedeli.
— Chi ricevesse questi tre Sacramenti con cattive disposizioni dovrebbe restare per sempre privo degli effetti dei Sacramenti medesimi?
⁕ Quando alcuno di questi Sacramenti fosse ricevuto validamente, e le cattive disposizioni avessero impedito il loro effetto; come se uno avesse ricevuto il Battesimo, con l’affetto al peccato mortale, o la Confermazione e l’Ordine in istato di peccato mortale, dicono i Teologi, che tolta la cattiva disposizione con una buona confessione, o almeno con un atto
di contrizione, che inchiude il desiderio di confessarsi, come abbiamo detto (cap. 6, § 4), rivive l’effetto di questi Sacramenti mal ricevuti, sicché si avrebbero quegli aiuti sacramentali, dei quali era l’uomo restato privo nel ricevimento dei medesimi; e lo stesso insegnano a riguardo del Matrimonio e dell’Estrema Unzione; perché si suppone che la divina pietà non voglia permettere che i peccatori pentiti restino privi degli aiuti particolari dei quali i coniugati hanno bisogno per tutta, o quasi tutta la loro vita, e i moribondi per fare un buon passaggio all’eternità. I Sacramenti poi della Penitenza e dell’Eucaristia che si possono ricevere ogni volta che si vuole, non rivivono nei loro effetti, e chi li ha ricevuti male una volta deve rimediare al suo danno con riceverli bene un’altra volta (Antoine ut sup. art. 4). Se poi il Sacramento
fosse stato ricevuto non solo con cattive disposizioni, ma anche invalidamente, allora è certo che bisognerebbe riceverlo di nuovo, fosse anche il Battesimo.
— Quali cose si richiedono al valore dei Sacramenti?
⁕ Materia, forma, ministro e intenzione.
— Che cosa è la materia?
⁕ L a materia è la cosa che si adopera nel fare il Sacramento: per esempio, la materia del Battesimo è l’acqua.
— Che cosa è la forma?
⁕ Sono le parole che si proferiscono nel fare il Sacramento, p. es. la forma del Battesimo è: Io ti battezzo in nome del Padre, e del Figliuolo, e dello Spirito Santo.
— La Chiesa può mutare la materia o la forma dei Sacramenti?
⁕ La Chiesa, secondo quanto insegna il Sacrosanto Concilio di Trento, non ha autorità di mutare la forma o la materia dei Sacramenti; quindi se la mutasse i Sacramenti resterebbero senza valore.
— In varie parti vi è qualche differenza nella forma dei Sacramenti?
⁕ Sono differenze accidentali di parole che non cangiano il senso nella sua sostanza. Se in un luogo usassero una forma che cangiasse il senso della forma istituita da Cristo, il Sacramento resterebbe senza effetto, e la Chiesa non la permetterebbe.
— Chi è il ministro del Sacramenti?
⁕ I Sacramenti hanno ministro primario e secondario: il primario è Gesù Cristo autore dei medesimi; il secondario è ciascuno che ha da Cristo l’autorità di conferirli. Quali siano i vari ministri dei vari Sacramenti lo vedremo di ciascuno. Qui si noti soltanto aver definito il Concilio di Trento contro gli eretici, che non tutti i Cristiani sono ministri di tutti i Sacramenti: il dire diversamente sarebbe una eresia.
— Nel ministro dei Sacramenti si richiede la fede e la grazia santificante?
⁕ Affinché li conferisca degnamente e con merito si richiede senza dubbio che abbia la Fede, e che sia in istato di grazia; ma per quanto spetta al valore del Sacramento è articolo di Fede che non si richiede né l’una, né l’altra; perciò ha lo stesso valore il Battesimo dato da un empio eretico, come da un pio cattolico.
— Si richiede nel ministro alcuna intenzione?
⁕ È di fede che si richieda l’intenzione di fare ciò che fa la Chiesa, quando conferisce i Sacramenti; senza questa intenzione il ministro conferirebbe invalidamente il Sacramento (Concil. Trid. sess. 7 c. 11).
— Gli eretici i quali non credono alla Santa Chiesa Cattolica, gl’idolatri, i turchi ecc., che non suppongono alcun valore nei Sacramenti, amministrando essi il battesimo, lo amministreranno invalidamente, perché non possono avere intenzione di fare ciò che fa la Chiesa non credendo a lei, parlando degli eretici; né a lei, né ai suoi Sacramenti, parlando degli idolatri, turchi ed ebrei?
⁕ Per la validità del Sacramento non richiede che s’intenda di fare una azione santa, un Sacramento, né che si creda al valore dei Sacramenti, né che si abbia intenzione di fare ciò che fa la vera Chiesa Cattolica Romana; basta che s’intenda di fare ciò che fa la Chiesa in generale; così il Luterano suppone la vera Chiesa nella sua setta, e battezzando con intenzione di fare ciò che fa la Chiesa, battezza validamente. Similmente se un turco, per fare onta e dispetto a un altro turco, gli battezzasse seriamente un fanciullo, intendendo di dargli il Battesimo dei Cristiani, quel fanciullo resterebbe validamente battezzato.
— Sarebbe valido il Battesimo, l’assoluzione o altro Sacramento dato per burla e per gioco.
⁕ Sarebbero invalidi come fu dichiarato dalla Santa Chiesa contro Lutero. Perciò se alcuno prendesse un fanciullo non ancor battezzato, e gli versasse l’acqua in capo, e proferisse la forma, dicendo: ecco come farà il parroco a battezzarlo, quel fanciullo non resterebbe battezzato. Si noti che vi sarebbe peccato mortale in fare simili burle in materia di Sacramenti.
— Quale sorta d’intenzione si richiede nel ministro dei Sacramenti?
⁕ Altra è l’intenzione attuale, quando p. es. uno che battezza, mentre che battezza dice tra sé stesso: intendo di battezzare; altra è l’intenzione virtuale, quando p. es. alcuno si parte con intenzione di andare a battezzare, nell’atto poi del Battesimo non riflette a quel che fa per qualche distrazione. L’altra è l’intenzione abituale, quando p. es. uno che abituato a battezzare impedito dall’uso di ragione per qualche malattia amministrasse questo Sacramento. La prima non è necessaria, la seconda basta; ma non la terza. Perché con la terza non si agisce più da uomo.
— In chi riceve il Sacramento quale intenzione si richiede?
⁕ Nei fanciulli prima dell’uso della ragione, e negli adulti che mai non ebbero il libero uso della medesima, non si richiede intenzione alcuna per ricevere il Sacramento del Battesimo; e questa è cosa certissima; anzi è espresso articolo di Fede che sia valido il Battesimo conferito ai fanciulli prima dell’uso della ragione, come si ricava dal Sacrosanto Concilio di Trento, e dalla pratica della Chiesa universale di battezzare i bambini appena nati. Negli adulti che hanno l’uso perfetto della ragione, o che almeno già lo ebbero, si richiede, o che abbiano attualmente la volontà di ricevere il Battesimo, o che l’abbiano avuta senza averla ritrattata. Tale volontà si ricerca tanto più nei Sacramenti della Penitenza, del Matrimonio, e fors’anche dell’Ordine [Si controverte fra i Teologi se il Sacramento dell’Ordine si possa validamente amministrare ai fanciulli (vedi Habert tom. 6 de Sacram. In genere)]. Per ricevere noi ì Sacramenti della Confermazione, Eucaristia, ed Estrema Unzione basta l’intenzione interpretativa, la quale consiste in questo: che chi vuole essere Cristiano, vuole pure godere di tutti i privilegi e grazie del Cristiano, e perciò anche di questi Sacramenti, la materia dei quali non dipende dagli atti di chi li riceve ( Habert de Sacr. c. 5).
— Crede dunque che un infermo alienato dai sensi riceverebbe con frutto la Confermazione, l’Eucaristia, l’Estrema Unzione, anche senza avere domandato prima questi Sacramenti?
⁕ Li riceverebbe con frutto, purché fosse in grazia di Dio, o almeno prima della alienazione dai sensi avesse avuto un sincero dolore di attrizione, giusta ciò che si disse nella risposta alla D. 12. Che questi Sacramenti si possano ricevere con frutto senza quella intenzione positiva che si richiede per gli altri Sacramenti ne consta dalla pratica della Chiesa, la quale anticamente dava anche ai bambini l’Eucaristia (Antoine in op. moral. Tract. de Euch. App. de Or. Ecc. ecc. § III.). È lecito il dare anche adesso ai bambini la Confermazione nel caso in cui fondatamente si tema che non potranno più riceverla arrivati all’uso della ragione, come si dirà nel § III. L’Estrema Unzione si dà agli infermi alienati dai sensi anche per malattie impreviste, che portano in un tratto l’infermo nell’articolo di morte, e quando non solo non l’hanno domandata, ma né meno avevano tempo a domandarla. – Il che non permetterebbe la Chiesa se per ricevere con frutto tali Sacramenti si richiedesse una positiva intenzione. Sì noti però che l’Eucaristia non si deve mai dare agli infermi alienati da’ sensi, per il pericolo dell’irriverenza che sempre vi sarebbe in questo caso.
— E articolo di Fede che i Sacramenti siano sette?
⁕ È articolo di Fede espressamente definito dal Sacrosanto Concilio di Trento; perciò sarebbe un eretico chi asserisse essere i Sacramenti più o meno di sette; essi sono: Battesimo, Confermazione, Eucaristia, Penitenza, Estrema Unzione, Ordine, e Matrimonio (Sess. VII, C. 1).
— Quali particolarità si richiedono in un rito sacro, perché possa dirsi Sacramento della nuova legge?
⁕ Tre: Segno esterno, Istituzione Divina, e Forza di conferire la grazia. Queste tre particolarità unite insieme non si trovano che nei sette suddetti riconosciuti per tali nella Chiesa Cattolica.

I PAPI DELLE CATACOMBE (6)

I Papi delle Catacombe [6]

[J. Chantrel: I Papi delle Catacombe. Dillet ed. Parigi, 1862]

Sesta persecuzione (anno 235).

Caracalla, che regnò dal 211 al 217, fu un mostro degno di sedere sui troni dei vari  Caligola, Nerone, Domiziano, Commodo. Egli uccise suo padre; si sbarazzò di suo fratello Géta, sotto gli occhi della loro comune madre; fece mettere a morte tutti coloro che a Roma rappresentavano i cittadini più raccomandabili. Gli alessandrini si erano permessi qualche battuta scherzosa sulla sua persona, ed egli fece mettere il villaggio al saccheggio. Imitatore di Alessandro il Grande, fece avvelenare uno delle sue favorite per piangere come Alessandro aveva pianto Efestione. Macrino, prefetto del pretorio, sbarazzò l’impero romano di questo flagello che non aveva risparmiato i Cristiani più degli altri, ma che tuttavia li fece respirare un poco. Macrino non gioì che di qualche mese del frutto del suo crimine: i soldati infatti proclamarono imperatore un pronipote di Settimo Severo, chiamato Eliogabalo, nuovo mostro che sembrò essersi proposto di sorpassare tutti i suoi predecessori in fatto di stravaganze, scelleratezze e crudeltà. Il palazzo imperiale non fu che un luogo di nefandezze; il prefetto del pretorio era un buffone; commedianti, cocchieri divenivano consoli e senatori. Eliogabalo creò anche un senato di donne per decidere delle mode. Ecco a quali padroni si affidavano questi fieri romani che non volevano riconoscere il solo vero Dio. Il Papa San Callisto I, che aveva ingrandito considerevolmente il cimitero conosciuto con il suo nome, fu una delle vittime di Eliogabalo. Messo in prigione, ebbe a soffrire tutti gli orrori della fame; i suoi carcerieri non gli accordavano un po’ di nutrimento se non per lasciargli la forza di sopportare il supplizio delle verghe, al quale essi lo sottoponevano ogni giorno; infine lo precipitarono dalla finestra della sua prigione in fondo ad un pozzo ove egli trovò la morte. Lo stesso anno (222) finì il regno di Eliogabalo. Questo insensato, che non credeva potesse morire di morte naturale, aveva preparato, per uccidersi, dei cordoni di seta, un pugnale d’oro, dei veleni chiusi in vasi di cristallo e di porfido, ed aveva fatto pavimentare una corte interna di pietre preziose sulla quali contava di precipitarsi dall’alto di una torre. Tante precauzioni furono inutili; egli venne ucciso in una fogna, e la popolazione gettò il suo cadavere nel Tevere. Dopo di lui apparve un imperatore stimabile che regnò dal 222 al 235, era Alessandro Severo, cugino di Eliogabalo, figlio di Mammeo, che si pensa essere stato Cristiano ed allievo di Origene, uno dei più celebri dottori della Chiesa. Questo principe aveva eccellenti disposizioni alla virtù. Aveva un grande amore per la giustizia, ed amava ripetere questa massima cristiana: “Non fate agli altri quello che non volete sia fatto a voi”. Egli lasciò libertà ai Cristiani; li elevò anche agli onori; ne aveva un gran numero nella sua casa, e permise loro di edificare templi al vero Dio, li sostenendoli anche in una circostanza contro le ingiurie di certi teatranti di Roma che reclamavano uno spazio dove i Cristiani avevano costruito una chiesa: « è meglio, disse, che vi sia adorato Dio, in qualunque modo sia, che vedere questo luogo occupato da teatranti. » Ma questo principe non ebbe il coraggio di riconoscere pubblicamente il vero Dio, e mescolò al suo rispetto per Gesù-Cristo, che egli aveva posto tra i suoi dei nel suo larario (cappella domestica), le peggiori superstizioni. Egli avrebbe voluto costruire un tempio a Gesù-Cristo; gli fu impedito, dice il suo storico Lampride, dicendogli che tutti si sarebbero fatti Cristiani, e che gli altri templi sarebbero stati abbandonati se si rendeva un tale onore al Cristo. Non ci sarebbero state persecuzioni a ritardare il trionfo definitivo del Cristianesimo. Alessandro Severo non perseguitò i Cristiani, tuttavia si ebbero dei martiri sotto il suo regno. Le leggi dell’impero erano più forti della sua volontà, anche a Roma e nelle provincie lontane che dipendevano da governatori locali. Alcuni autori collocano il martirio del Papa san Callisto durante i primi giorni del regno di Alessandro. Sette anni dopo ebbe luogo a Roma, il martirio di san Tiburzio, Valeriano e Massimo, e l’anno seguente quello di Santa Cecilia, sposa di Valeriano. I pagani avevano approfittato di un’assenza di Alessandro Severo per eccitare il prefetto della città, Almachio, che era pure lui molto mal disposto verso di loro. Cecilia era di famiglia illustre; benché i suoi genitori fossero idolatri, essa conosceva bene il Cristianesimo; ella ascoltava con la più grande docilità le lezioni del Santo Papa Urbano, ed aveva fatto voto di verginità. Quando i suoi genitori vollero maritarla a Valeriano, giovane pagano di alto lignaggio e di grandi meriti, si trovò in una grande imbarazzo. Infine ella acconsentì; ma quando si trovò sola con il suo sposo, gli dichiarò il voto che aveva fatto e gli parlò con tanta dissuasione che Valeriano andò, in quello stesso giorno, a richiedere il Battesimo a Papa Urbano. I due sposi vissero come fratello e sorella, Valeriano convertì suo fratello Tiburzio, che ebbe la sorte di essere martire insieme a lui. Cecilia seppellì ella stessa i santi corpi dei coraggioso atleti, come quello di Massimo, impiegato di Almachio, che il coraggio dei martiri aveva convertito. Almachio, un po’ spaventato per le conseguenze della sua crudeltà, tentò di indurre Cecilia alla persuasione: gli fece ricordare, dai suoi inviati, che ella doveva avere qualche considerazione per la sua giovinezza, la sua beltà e la sua fortuna: « Morire per il Cristo, rispose la vergine cristiana, non è sacrificare la propria giovinezza, è rinnovarla; è dare come un po’ di fango in cambio di oro; è come cambiare una dimora angusta e vile con un magnifico palazzo; è offrire una cosa deperibile in cambio di un bene immortale. » Ella poi parlò con tanta eloquenza e ardore, che gli ufficiali del prefetto e più di quattrocento persone accorse per ascoltarla, si convertirono e ricevettero il Battesimo. – Almachio non prese più altre iniziative. Ordinò che Cecilia fosse rinchiusa nella sala da bagno della sua casa e che venisse asfissiata da vapori brucianti. La giovane vergine si lasciò condurre con gioia in questa sala, e vi passò il resto del giorno e della notte seguente, senza che i vapori soffocanti che respirava le facessero alcun danno. Almachio, informato del prodigio, inviò un littore con l’ordine di tagliare la testa alla santa. Il littore, dopo tre colpi male assestati, lasciò Cecilia bagnata dal suo sangue e ancora respirante. Una legge proibiva ai carnefici che dopo tre colpi non aveva finito la vittima, di colpirla ancora. Cecilia sopravvisse tre giorni, durante i quali i Cristiani vennero a visitarla e raccolsero in dei panni il sangue che colava dalle sue ferite. Furono tre giorni di predicazione. Anche il Papa Urbano venne a sua volta; la santa gli disse:« Padre, io ho chiesto al Signore questo ritardo di tre giorni per rimettere nelle mani della vostra beatitudine il mio ultimo tesoro: sono i poveri che io nutrivo ed ai quali sto per mancare. Io vi affido anche questa casa che abito, affinché sia da voi consacrata come chiesa e diventi un tempio del Signore per sempre. » Dopo queste parole, Cecilia si raccolse in sé ascoltando solo le armonie del cielo, sorda a tutti i brusii della terra. I cieli si aprivano già al suo occhio moribondo, ed un ultimo svenimento annunciò l’avvicinarsi della morte. Essa era distesa sul lato destro, con le ginocchia riunite con modestia. Giunto il momento supremo, le sue braccia si abbandonarono l’una sull’altra, e come se avesse voluto conservare il segreto di questo ultimo sospiro che ella inviava al divino Oggetto del suo unico amore, girò verso terra la sua testa solcata dalla spada, e la sua anima si staccò dolcemente dal suo corpo. La memoria di santa Cecilia è stata grandemente venerata dalla Chiesa, le arti si sono ingegnate con l’intento di celebrarla, e si sa che i musicisti l’hanno adottata come loro patrona perché ella era stata sempre più attenta, durante la sua vita, agli accenti degli Angeli che ai rumori di questo mondo. Il Papa Sant’Urbano la seguì ben presto; il prefetto Almachio lo fece morire un mese dopo. Alessandro Severo morì assassinato in una sedizione eccitata da Massimino, che gli successe. Il regno di Massimino non durò che tre anni (dal 235 al 238), e si segnalò per una violenta persecuzione contro la Chiesa. I due Papi, san Ponziano e San Antero furono martirizzati. Massimino era un uomo di grande taglia e di una straordinaria voracità, ma ci si stancò ben presto di lui, il senato pronunciò la sentenza di decadenza mentre era lontano da Roma. A questa notizia, Massimino entrò in un pauroso eccesso di furore: correva di qua e di la, lacerando i suoi abiti e rotolandosi per terra. Marciò di gran lena sull’Italia e mise la sua sede nei pressi di Aquileia. Ma scoppiò una sedizione generale nel suo campo; fu così ucciso. Quando a Roma si apprese della morte del tiranno, il popolo che era a teatro, si alzò con movimento unanime e corse ai templi a rendere grazie agli dei.

Settima persecuzione (250).

 

Al regno di Massimino, successe l’anarchia. Cinque imperatori sparirono in dieci anni. Un sesto, di nome Filippo, regnò cinque anni (244-249). Filippo era Cristiano, ma disonorava la Religione con la sua condotta, e non era degno di far sedere con lui il Cristianesimo su di un trono ove era salito come assassinio. Tuttavia i Cristiani godettero di una certa tranquillità sotto il suo regno, e viene citato un episodio che mostra che la fede nel suo cuore non era del tutto spenta. Si trovava ad Antiochia, nel 244, il 14 aprile, giorno in cui si celebrava la festa della Pasqua, e si presentò all’assemblea dei fedeli. Ma il vescovo San Babila lo fermò alle porte della chiesa rimproverandogli l’omocidio dell’imperatore Gordiano, suo predecessore, e finì dichiarando che fosse indegno di partecipare ai santi misteri, finché non avesse espiato il suo peccato con la penitenza. Filippo si sottomise, e più tardi si riconciliò con la Chiesa. L’avvento di Decio, che detronizzò Filippo e lo fece sgozzare dai suoi soldati a Verona, fu il segnale di una delle più sanguinose persecuzioni che i Cristiani ebbero a soffrire. – Fortunatamente il suo regno fu breve 249-251). Nel suo editto di proscrizione, Decio dichiarava che, « Benché deciso a trattare tutti i suoi soggetti con clemenza, ne era impedito dalla setta dei Cristiani, che per la loro empietà attiravano la collera degli dei e tutte le calamità sull’impero. Egli ordinò dunque che tutti i Cristiani, senza distinzione di qualità, o rango, di sesso o di età, fossero obbligati a sacrificare nei templi; che tutti coloro che rifiutavano fossero rinchiusi nelle prigioni di stato e sottomessi prima ai supplizi minori, per vincere poco a poco la loro costanza, ed infine, se restassero ostinati, precipitati in fondo al mare, gettati vivi in mezzo alle fiamme, gettati alle fiere, sospesi ad alberi per essere pasto degli uccelli da preda, o mutilati in mille modi con i più crudeli tormenti. » C’era tutta un’arte per condurre all’apostasia mediante la tortura: le spade, la pira, le bestie feroci, le sedie roventi, le tenaglie di ferro, i cavalletti, gli strumenti per ridurre le carni a brandelli o dislocare le ossa, etc. La persecuzione si diffuse in tutto l’impero: il Papa san Fabiano cadde per primo, e ben presto dopo di lui, san Babila di Antiochia, san Saturnino di Tolosa, san Marziale di Limoges, san Trofimo di Arles, san Alessandro di Gerusalemme, san Ippolito vescovo e dottore, una moltitudine di sacerdoti, Cristiani e Cristiane di ogni condizione, dei quali non sapremo mai tutti i nomi. Si cita tra di essi san Cirillo, fanciullo di Cesarea, che suo padre aveva cacciato dalla casa paterna, perché si rifiutava di adorare gli idoli. Il governatore della città volle prima convincerlo con le carezze, e non vi riuscì; impiegò poi minacce e fece accendere un gran fuoco per spaventare il fanciullo; ma non riuscì nel suo intento. La spada troncò i giorni del coraggioso bambino. Ad Alessandria c’era una donna che dava l’esempio di un coraggio simile: si chiamava Apollonia. I carnefici gli fecero dapprima saltare tutti i denti a colpi di pugni; poi alzarono ed accesero un falò e minacciarono di bruciarla viva se rifiutava di blasfemizzare con essi. La coraggiosa vergine deliberò in se stessa in un istante e tutta infervorata, dice il martirologio, di un sacro fuoco che lo Spirito-Santo aveva acceso nel suo cuore, si gettò in mezzo alle fiamme, di modo che gli autori di questa crudeltà restarono stupefatti ed interdetti per come una donna avesse potuto soffrire con prontezza una morte sì crudele e tale che i suoi nemici non erano riusciti a preparare. Due città della Sicilia, Palermo e Catania si disputano l’onore di aver dato alla luce un’altra celebre vergine ancora più forte. Agata aveva consacrato a Dio la sua verginità fin dagli anni più teneri. Un personaggio di nobile nascita, chiamato Quintiano, affascinato dalla sua bellezza, e sapendo che oltretutto era molto ricca, ne aveva chiesto la mano. Irritato dal rifiuto di Agata, si risolse di profittare dell’editto di Decio per giungere al suo scopo. Egli fece prendere la giovane vergine e la mandò davanti ad un tribunale. « Signore Gesù, disse Agata vedendosi consegnata ai persecutori, Voi siete il mio Pastore, io la vostra pecorella; rendetemi degna di vincere il demonio. » Quintiano la pose tra le mani di una donna di mala vita che la fece entrare in un luogo infame. La casta vergine vi restò per un mese, esposta a tutti i pericoli ma senza che la sua virtù ne ricevesse oltraggio. Quintiano allora la fece comparire una seconda volta davanti a lui: furioso per le sue risposte, la fece oltraggiare e condurre in prigione. All’indomani distese Agata sul cavalletto e le si fecero soffrire le più orribili torture. Ma nulla distruggeva la sua costanza. Quintiano non si poté più contenere; preso dalla rabbia, diede ordine di tagliarle le mammelle: « Crudele tiranno, esclamò la giovane, subendo questo martirio, non arrossisci nel farmi questa ingiuria, tu che hai succhiato le mammelle di tua madre? » Quintiano la rimandò in prigione, con la proibizione di curare le sue piaghe e di nutrirla. Ma Dio vegliava sulla sua intrepida serva: San Pietro apparve ad Agata in visione, la consolò, la guarì e riempì la sua cella di una luce sfolgorante. Una tale meraviglia avrebbe dovuto aprire gli occhi di Quintiano, ma la gelosia e la rabbia l’accecarono. Egli la mandò a cercare quattro giorni dopo e la fece rotolare su pezzi di cocci rotti, misti a carboni ardenti. Poi la fece ricondurre in prigione: « Signore mio Dio, dice la vergine arrivando, Voi mi avete sempre protetto fin dalla culla; avete sradicato dal mio cuore l’amore del mondo, e mi avete dato la pazienza necessaria per soffrire; ricevete ora il mio spirito. » E così spirò. Il suo nome è inserito nel canone della Messa. Affianco a tanti nobili esempi, si ebbero deplorabili defezioni. La pace di cui i Cristiani avevano goduto per qualche tempo, aveva prodotto un rilassamento tra loro; si ebbero degli apostati, dei deboli nella fede; ma diversi di questi apostati espiarono più tardi il loro crimine con la penitenza ed il martirio, e la Chiesa riprese un nuovo vigore durante questo terribile tormento che Dio aveva permesso per rianimare il fervore dei fedeli. I flagelli desolarono nello stesso tempo i persecutori: una peste violenta colpì le principali città dell’impero, e le invasioni dei barbari, Geti o Goti, portarono la desolazione nelle provincie più belle. Decio volle marciare contro di essi, annegò nelle paludi adiacenti al Danubio e perì sotto i colpi dei barbari con i suoi tre o quattro figli e gran parte della sua armata. La persecuzione continuò sotto il suo successore Gallo, ma con minor violenza. Il Papa San Cornelio fu martirizzato; il Papa San Lucio fu esiliato e morì poco dopo il suo ritorno a Roma. I Papi erano sempre alla testa di queste gloriose falangi che conquistarono il cielo con il loro martirio, e che preparavano con l’effusione del loro sangue l’avvento del regno di Gesù-Cristo sulla terra.