I PAPI DELLE CATACOMBE (7)

I Papi delle Catacombe [7]

[J. Chantrel: I Papi delle Catacombe. Dillet ed. Parigi, 1862]

Ottava persecuzione (257).

La Chiesa aveva avuto appena il tempo di respirare, quando l’imperatore Valeriano, che regnava dal 253, e che aveva inizialmente risparmiato i Cristiani, firmò un nuovo editto di persecuzione. Il Papa Stefano fu portato davanti all’imperatore: « Sei tu, dice Valeriano, che cerchi di rovesciare la repubblica e che persuadi il popolo ad abbandonare il culto degli dei? – Io non cerco di rovesciare la repubblica, risponde Stefano, ma esorto il popolo ad abbandonare il culto dei demoni che si adorano negli idoli, e riconoscere il vero Dio, e Colui che lo ha inviato, Nostro Signore Gesù-Cristo. » Santo Stefano Papa ebbe la testa mozzata! San Sisto, successore di Santo Stefano, non doveva tardare molto a raggiungerlo in cielo. L’anno seguente, il 6 agosto 258, mentre celebrava i santi misteri al cimitero di Callisto, dei soldati lo arrestarono e lo condussero al supplizio. Lorenzo, l’arcidiacono della Chiesa di Roma, lo seguiva piangendo: « Dove andate, padre mio, senza vostro figlio? – diceva – dove andate, santo Pontefice, senza il vostro diacono? Voi non avete l’usanza di offrire il sacrificio senza ministro; permettete che io aggiunga il mio sacrificio al vostro. – Io non vi abbandono, figlio mio – gli rispondeva il venerabile vegliardo, ma il cielo vi riserva per un combattimento più grave; voi mi seguirete tra tre giorni. » E lo incaricò sul campo di distribuire ai poveri i tesori della Chiesa di cui era depositario, per paura che i pagani se ne impossessassero. I soldati tagliarono la testa a Sisto. – Lorenzo, tutto pieno di gioia nella prospettiva di un prossimo martirio, si occupò subito di seguire le raccomandazioni del Pontefice. La Chiesa romana aveva al tempo delle ricchezze considerevoli, frutto delle elemosine e dei doni dei fedeli; esse venivano impiegate per sostenere i suoi ministri, per alleviare le vedove, gli orfani ed i poveri e ad inviare abbondanti elemosine alle altre chiese che potevano averne bisogno; le sue ricchezze erano veramente il patrimonio dei poveri e dei bisognosi. I pagani lo sapevano, e queste ricchezze eccitavano la loro cupidigia. Il prefetto di Roma fa venire Lorenzo e gli dice: « Io non vi convoco per inviarvi al supplizio, io voglio domandarvi una cosa che dipende da voi. Si dice che voi abbiate dei vasi d’oro e d’argento ed una grande quantità di denaro: l’imperatore chiede tutto questo, rendetelo a noi. – È vero, risponde Lorenzo, che la nostra chiesa è ricca, e lo stesso imperatore non ha tanti grandi tesori. Io vi farò vedere ciò che essa ha di più prezioso; datemi soltanto qualche tempo per mettermi in ordine, redigere il punto della situazione e fare il calcolo. » Il prefetto gli accordò tre giorni. Lorenzo percorse tutta la città per cercare i poveri che la Chiesa sosteneva con le sue elemosine; egli raccolse tutti i malati, zoppi, ciechi, lebbrosi. paralitici, malati coperti di ulcere, e li radunò n un vasto cortile; poi andò a trovare il prefetto e lo pregò di venire a vedere i tesori di cui aveva parlato: « Voi vedrete, egli diceva, un grande cortile pieno di vasi preziosi e di lingotti d’oro ammassati sotto le gallerie. » L’uomo di Dio voleva colpire questo pagano con un grande spettacolo, e fargli comprendere quanto le ricchezze della terra siano disprezzabili: « L’oro che voi desiderate, gli dice, non è che un metallo senza valore, ed è la causa di tanti crimini. Il vero oro è la luce del cielo di cui godono questi poveri, presenti davanti ai vostri occhi. Essi trovano nelle loro infermità e nelle loro sofferenze, sopportate pazientemente, i più preziosi benefici; voi vedete nelle loro persone i tesori che io ho promesso di mostrarvi. Vi aggiungo le perle e le pietre preziose della Chiesa, le vedove e le vergini consacrate a Dio: è la corona della Chiesa. Godete di queste ricchezze per Roma, per l’imperatore e per voi stesso. » Il prefetto, per tutta risposta, fece approntare una immensa graticola di ferro, sotto la quale si misero dei carboni ardenti. Si spogliò il generoso diacono dei suoi vestiti, e lo si legò su questa graticola, aumentando gradualmente l’intensità del calore. Lorenzo conservò un viso sereno e tranquillo; il suo pensiero era a cielo, la sofferenza sembrava non sfiorarlo. Dopo essere rimasto per un certo tempo esposto a questo atroce supplizio, egli dice dolcemente al tiranno: « Ora fatemi rigirare, perché da questo lato mi sono già arrostito! » I carnefici allora lo rigirarono effettivamente. Dopo un poco di tempo aggiunse: « Ora la mia carne è ben cotta, potete pure mangiarla. » Il prefetto non rispose a questo meraviglioso coraggio se non con insulti. Tuttavia il martire pregava con fervore, chiedeva a Dio la conversione di Roma, e pregava Gesù-Cristo di accordare questa grazia ai santi Apostoli Pietro e Paolo, che vi avevano piantato la croce bagnandola con il proprio sangue. Finita la preghiera, levò gli occhi al cielo e rese lo spirito, martire della fede e della carità … Lo stesso anno vide il martirio di San Cipriano, vescovo di Cartagine, una delle luci più brillanti della Chiesa. Il proconsole Galero lo cita davanti al suo tribunale: « Tu sei Tascio Cipriano – gli dice – Si, io lo sono. – Sei tu il capo dei Cristiani? – Si, sono io! – Sacrifica dunque agli dei. – Io non posso. – Riflettete, dice il proconsole; in una giusta cosa – replica Cipriano – ho ben riflettuto; eseguite gli ordini di cui siete incaricato. » Galero delibera con il suo consiglio, e di seguito dice: « Tu sei vissuto senza pietà; ha trascinato una moltitudine di persone al tuo culto, noi ti condanniamo ad essere decapitato. – Dio sia benedetto! » esclama il generoso Vescovo. Allora i Cristiani che erano intorno al tribunale, urlano: « Che ci si faccia morire con lui! » Ne segue una scena tumultuosa, ed il proconsole, temendo una sedizione, ordina di portare Cipriano fuori dalla città; molti cristiani lo accompagnano. Quando Cipriano giunge sul luogo dell’esecuzione, mette le ginocchia a terra e prega per un po’ di tempo; poi si toglie il mantello, si spoglia della sua dalmatica, o veste di sopra, rimanendo con una semplice tunica di lino. Si benda da se stesso gli occhi; un sacerdote ed un diacono che l’accompagnano gli legano le mani. Egli fa dare venticinque monete d’oro all’esecutore, e presenta la sua testa al carnefice, che la taglia con un colpo solo. I Cristiani raccolgono il suo sangue in stoffe di lino e di seta. Galero muore solo qualche giorno dopo. Si potrebbero raccontare tutti questi gloriosi combattimenti che illustrarono la Chiesa in tutte le provincie dell’impero, ma necessiterebbe uno spazio enorme. A Cirto, in Numidia, vi fu una strage di Cristiani,; in Spagna, San Fruttuoso, Vescovo di Tarragona, fu martirizzato con due dei suoi diaconi; ad Antiochia, un sacerdote, di nome Sapricio, che aveva in odio un cristiano chiamato Niceforo, apostatò vigliaccamente, malgrado le esortazioni di questo cristiano che gli chiedeva perdono, e che ricevette al suo posto la corona del martirio; a Cesarea, in Palestina, tre amici, Prisco, Malco ed Alessandro andarono insieme al cielo, dopo essere stato esposti alle bestie feroci; a Melitene, in Armenia, un ufficiale delle truppe dell’impero, Polieucto, che ha ispirato una tragedia così bella al poeta Corneille, confessò strenuamente la sua fede, malgrado le preghiere e le lacrime di Paolina, sua sposa, e dei suoi figli. Citiamo ancora San Romano, soldato, che San Lorenzo aveva convertito; la vergine Santa Eugenia, che era la maestra di diverse altre vergini consacrate a Dio; i santi detti della “massa bianca” a Utica che, in numero di centocinquantatré, furono precipitati in una fornace di calce, e le cui ossa, mescolate alla calce, formarono una massa bianca, da cui il nome designante, etc. etc. Ma il castigo di tanta crudeltà non tardò a raggiungere Valeriano. Mentre la peste devastava ancora una volta le grandi città dell’impero, i barbari invasero le frontiere, penetrando fin nel cuore delle più belle province e, in Oriente, i Persiani, sotto la guida di Sàpore, minacciavano l’Asia minore. Valeriano partì alla testa di un’armata per respingere il nemico, ma fu sconfitto e fatto prigioniero. Sàpore lo trascinò dappertutto, carico di catene, per renderlo testimone della devastazione delle più fertili contrade dei suoi stati; e quando il superbo vincitore voleva salire a cavallo, gli faceva un segno, e l’imperatore romano curvava il dorso affinché le sue spalle, ricoperte di porpora romana, servissero da sgabello al barbaro monarca. Questo supplizio durò tre anni. Quando Valeriano morì, si scorticò il suo cadavere, se ne conciò la pelle, la si tinse di rosso, e restò così sospesa per diversi secoli alle volte del tempio principale della Persia. Tuttavia Gallieno, figlio di Valeriano, si dispiacque ben poco della sorte del padre e, quando apprese della sua morte, si contentò di dire: « Lo sapevo che mio padre era mortale! »

Nona persecuzione (274)

Alla morte di Gallieno, trenta tiranni si disputarono l’impero. Aureliano finì per restare l’unico padrone nel 270; egli ristabilì la tranquillità, respinse i barbari, vinse Zenobia, regina di Palmira, e regnò gloriosamente, ma egli attribuì i suoi trionfi ai suoi falsi dei, e volle acquisire un’ultima gloria, quella di distruggere una religione che i suoi predecessori avevano invano proscritto. Dio non gli lasciò che più di otto mesi di regno. Un prima volta, un fulmine cadendo ai suoi fianchi, nel momento in cui stava firmando l’editto di proscrizione, aveva arrestato la sua mano; ma egli non ignorò questo avvertimento, e corse verso la sua fine. Il Papa San Felice fu uno delle sue vittime; la morte di Aureliano, ucciso da uno dei suoi ufficiali, non fece che rallentare la persecuzione, ma non la fece cessare completamente, e si contano ancora numerosi martiri fino alla fine del terzo secolo, benché non vi fosse stato un nuovo editto imperiale. Si cita, tra questi illustri confessori della fede, san Genesio, commediante che si convertì nel corso di una parodia teatrale delle cerimonie del Battesimo; san Maurizio ed i suoi compagni, tutti soldati di una legione chiamata Tebana, che si lasciarono sgozzare nel Valais  piuttosto che sacrificare ai falsi dei; San Crespino e San Crespiniano, nobili romani che furono martirizzati a Soissons; San Quintino, cittadino romano di famiglia senatoriale, che ha dato il suo nome ad una delle più fiorenti città della Francia; San Firmino, primo vescovo di Amiens; San Luciano, primo vescovo di Beauvais; San Vincenzo, in Spagna, i due Papi, San Sotero e San Caio, e soprattutto San Sebastiano, il cui martirio è rimasto celebre nella Chiesa. Gli imperatori si erano succeduti rapidamente dopo Galliano, ed i flagelli si succedevano ancor più rapidamente. Nel  284, Diocleziano salì al trono; gli si aggiunse, come pari, Massimino Ercole; l’ordine si ristabilì, ma non la pace della Chiesa. Sebastiano, originario di Narbonne nella Gallia, era capitano di una compagnia di guardie pretoriane: pieno di zelo per la fede, egli visitava i Cristiani prigionieri, incoraggiava i deboli, ed aveva convertito un gran numero di pagani che ebbe la ventura di condurre in seguito in cielo per la via del martirio. Lo stesso prefetto di Roma, di nome Cromazio, si convertì con tutta la famiglia, i suoi servi ed i suoi schiavi, in numero di millequattrocento persone. La sua casa era diventata come un tempio, ove il Papa Caio celebrava i divini misteri. Questi progressi del Cristianesimo allarmarono Massiminiano Ercole. Per evitare la persecuzione, Cromazio si rifugiò in campagna con una parte della sua casa, mentre il resto rimase a Roma con il Papa; tra questi ultimi si trovava Tiburzio, figlio di Cromazio; Sebastiano non aveva abbandonato il suo posto. La persecuzione scoppiò. Santa Zoé, pia dama convertita da San Sebastiano, fu arrestata per prima, nel momento in cui pregava sulla tomba di San Pietro e di San Paolo, il giorno della loro festa; la si sospese per i piedi sopra un fuoco il cui fumo la soffocò. Altri sei cristiani, tra i quali era Nicostrato, sposo di Zoé, furono gettati in mare dopo essere stati torturati; altri furono lapidati, altri inchiodati con i piedi a dei pali ed uccisi a colpi di lancia. Tiburzio, tradito da una spia, disse ai suoi giudici: « Come! Perché rifiuto di adorare una prostituta nella persona di Venere, l’incestuoso Giove, un ingannatore come Mercurio e Saturno, assassino dei suoi figli, io disonoro la mia razza, e sono un infame! » Per tutta risposta, gli si tagliò la testa. Sebastiano che aveva mandato tanti Martiri in cielo, sospirava il momento in cui si sarebbe riunito a loro. I suoi voti non tardarono ad essere esauditi. Egli fu denunciato a Diocleziano che allora si trovava a Roma; l’imperatore rimproverò al capitano delle guardie la sua ingratitudine; egli lo accusò di tradimento, perché avrebbe usato, contro il suo governo, l’autorità che gli dava il suo grado: « Io non ho mai cessato di essere fedele al mio dovere, rispose Sebastiano, né di fare voti per la salvezza del principe e dell’impero; ma io ho da lungo tempo riconosciuto che è follia adorare gli dei di pietra e di legno, ed ho rivolto le mie preghiere al vero Dio che è nei cieli, e al suo Figlio Gesù-Cristo. » Diocleziano, irritato dal generoso ardimento del confessore, fece venire una compagnia di arcieri di Mauritania che servivano tra le sue guardie, Si spogliò Sebastiano dei suoi vestiti; gli arcieri lo trafissero con le frecce e lo lasciarono morto sulla piazza. La pia vedova di un martire, venne di notte per prenderne il corpo. Poiché comprese che il santo ancora respirava, lo trasportò nella sua casa, nello stesso palazzo dell’imperatore, e dopo qualche giorno, Diocleziano vide con stupore, in mezzo alle guardie schierate al suo passaggio, sulla scala d’onore, colui che credeva morto sotto i colpi dei suoi arcieri. Furioso lo fece subito condurre nell’ippodromo del palazzo, ove Sebastiano fu finito a colpi di bastone. Il suo corpo fu gettato in una fogna, dalla quale poi i Cristiani lo estrassero. Questo avvenne tra il 19 ed il 20 di gennaio del 288.