I PAPI DELLE CATACOMBE (6)

I Papi delle Catacombe [6]

[J. Chantrel: I Papi delle Catacombe. Dillet ed. Parigi, 1862]

Sesta persecuzione (anno 235).

Caracalla, che regnò dal 211 al 217, fu un mostro degno di sedere sui troni dei vari  Caligola, Nerone, Domiziano, Commodo. Egli uccise suo padre; si sbarazzò di suo fratello Géta, sotto gli occhi della loro comune madre; fece mettere a morte tutti coloro che a Roma rappresentavano i cittadini più raccomandabili. Gli alessandrini si erano permessi qualche battuta scherzosa sulla sua persona, ed egli fece mettere il villaggio al saccheggio. Imitatore di Alessandro il Grande, fece avvelenare uno delle sue favorite per piangere come Alessandro aveva pianto Efestione. Macrino, prefetto del pretorio, sbarazzò l’impero romano di questo flagello che non aveva risparmiato i Cristiani più degli altri, ma che tuttavia li fece respirare un poco. Macrino non gioì che di qualche mese del frutto del suo crimine: i soldati infatti proclamarono imperatore un pronipote di Settimo Severo, chiamato Eliogabalo, nuovo mostro che sembrò essersi proposto di sorpassare tutti i suoi predecessori in fatto di stravaganze, scelleratezze e crudeltà. Il palazzo imperiale non fu che un luogo di nefandezze; il prefetto del pretorio era un buffone; commedianti, cocchieri divenivano consoli e senatori. Eliogabalo creò anche un senato di donne per decidere delle mode. Ecco a quali padroni si affidavano questi fieri romani che non volevano riconoscere il solo vero Dio. Il Papa San Callisto I, che aveva ingrandito considerevolmente il cimitero conosciuto con il suo nome, fu una delle vittime di Eliogabalo. Messo in prigione, ebbe a soffrire tutti gli orrori della fame; i suoi carcerieri non gli accordavano un po’ di nutrimento se non per lasciargli la forza di sopportare il supplizio delle verghe, al quale essi lo sottoponevano ogni giorno; infine lo precipitarono dalla finestra della sua prigione in fondo ad un pozzo ove egli trovò la morte. Lo stesso anno (222) finì il regno di Eliogabalo. Questo insensato, che non credeva potesse morire di morte naturale, aveva preparato, per uccidersi, dei cordoni di seta, un pugnale d’oro, dei veleni chiusi in vasi di cristallo e di porfido, ed aveva fatto pavimentare una corte interna di pietre preziose sulla quali contava di precipitarsi dall’alto di una torre. Tante precauzioni furono inutili; egli venne ucciso in una fogna, e la popolazione gettò il suo cadavere nel Tevere. Dopo di lui apparve un imperatore stimabile che regnò dal 222 al 235, era Alessandro Severo, cugino di Eliogabalo, figlio di Mammeo, che si pensa essere stato Cristiano ed allievo di Origene, uno dei più celebri dottori della Chiesa. Questo principe aveva eccellenti disposizioni alla virtù. Aveva un grande amore per la giustizia, ed amava ripetere questa massima cristiana: “Non fate agli altri quello che non volete sia fatto a voi”. Egli lasciò libertà ai Cristiani; li elevò anche agli onori; ne aveva un gran numero nella sua casa, e permise loro di edificare templi al vero Dio, li sostenendoli anche in una circostanza contro le ingiurie di certi teatranti di Roma che reclamavano uno spazio dove i Cristiani avevano costruito una chiesa: « è meglio, disse, che vi sia adorato Dio, in qualunque modo sia, che vedere questo luogo occupato da teatranti. » Ma questo principe non ebbe il coraggio di riconoscere pubblicamente il vero Dio, e mescolò al suo rispetto per Gesù-Cristo, che egli aveva posto tra i suoi dei nel suo larario (cappella domestica), le peggiori superstizioni. Egli avrebbe voluto costruire un tempio a Gesù-Cristo; gli fu impedito, dice il suo storico Lampride, dicendogli che tutti si sarebbero fatti Cristiani, e che gli altri templi sarebbero stati abbandonati se si rendeva un tale onore al Cristo. Non ci sarebbero state persecuzioni a ritardare il trionfo definitivo del Cristianesimo. Alessandro Severo non perseguitò i Cristiani, tuttavia si ebbero dei martiri sotto il suo regno. Le leggi dell’impero erano più forti della sua volontà, anche a Roma e nelle provincie lontane che dipendevano da governatori locali. Alcuni autori collocano il martirio del Papa san Callisto durante i primi giorni del regno di Alessandro. Sette anni dopo ebbe luogo a Roma, il martirio di san Tiburzio, Valeriano e Massimo, e l’anno seguente quello di Santa Cecilia, sposa di Valeriano. I pagani avevano approfittato di un’assenza di Alessandro Severo per eccitare il prefetto della città, Almachio, che era pure lui molto mal disposto verso di loro. Cecilia era di famiglia illustre; benché i suoi genitori fossero idolatri, essa conosceva bene il Cristianesimo; ella ascoltava con la più grande docilità le lezioni del Santo Papa Urbano, ed aveva fatto voto di verginità. Quando i suoi genitori vollero maritarla a Valeriano, giovane pagano di alto lignaggio e di grandi meriti, si trovò in una grande imbarazzo. Infine ella acconsentì; ma quando si trovò sola con il suo sposo, gli dichiarò il voto che aveva fatto e gli parlò con tanta dissuasione che Valeriano andò, in quello stesso giorno, a richiedere il Battesimo a Papa Urbano. I due sposi vissero come fratello e sorella, Valeriano convertì suo fratello Tiburzio, che ebbe la sorte di essere martire insieme a lui. Cecilia seppellì ella stessa i santi corpi dei coraggioso atleti, come quello di Massimo, impiegato di Almachio, che il coraggio dei martiri aveva convertito. Almachio, un po’ spaventato per le conseguenze della sua crudeltà, tentò di indurre Cecilia alla persuasione: gli fece ricordare, dai suoi inviati, che ella doveva avere qualche considerazione per la sua giovinezza, la sua beltà e la sua fortuna: « Morire per il Cristo, rispose la vergine cristiana, non è sacrificare la propria giovinezza, è rinnovarla; è dare come un po’ di fango in cambio di oro; è come cambiare una dimora angusta e vile con un magnifico palazzo; è offrire una cosa deperibile in cambio di un bene immortale. » Ella poi parlò con tanta eloquenza e ardore, che gli ufficiali del prefetto e più di quattrocento persone accorse per ascoltarla, si convertirono e ricevettero il Battesimo. – Almachio non prese più altre iniziative. Ordinò che Cecilia fosse rinchiusa nella sala da bagno della sua casa e che venisse asfissiata da vapori brucianti. La giovane vergine si lasciò condurre con gioia in questa sala, e vi passò il resto del giorno e della notte seguente, senza che i vapori soffocanti che respirava le facessero alcun danno. Almachio, informato del prodigio, inviò un littore con l’ordine di tagliare la testa alla santa. Il littore, dopo tre colpi male assestati, lasciò Cecilia bagnata dal suo sangue e ancora respirante. Una legge proibiva ai carnefici che dopo tre colpi non aveva finito la vittima, di colpirla ancora. Cecilia sopravvisse tre giorni, durante i quali i Cristiani vennero a visitarla e raccolsero in dei panni il sangue che colava dalle sue ferite. Furono tre giorni di predicazione. Anche il Papa Urbano venne a sua volta; la santa gli disse:« Padre, io ho chiesto al Signore questo ritardo di tre giorni per rimettere nelle mani della vostra beatitudine il mio ultimo tesoro: sono i poveri che io nutrivo ed ai quali sto per mancare. Io vi affido anche questa casa che abito, affinché sia da voi consacrata come chiesa e diventi un tempio del Signore per sempre. » Dopo queste parole, Cecilia si raccolse in sé ascoltando solo le armonie del cielo, sorda a tutti i brusii della terra. I cieli si aprivano già al suo occhio moribondo, ed un ultimo svenimento annunciò l’avvicinarsi della morte. Essa era distesa sul lato destro, con le ginocchia riunite con modestia. Giunto il momento supremo, le sue braccia si abbandonarono l’una sull’altra, e come se avesse voluto conservare il segreto di questo ultimo sospiro che ella inviava al divino Oggetto del suo unico amore, girò verso terra la sua testa solcata dalla spada, e la sua anima si staccò dolcemente dal suo corpo. La memoria di santa Cecilia è stata grandemente venerata dalla Chiesa, le arti si sono ingegnate con l’intento di celebrarla, e si sa che i musicisti l’hanno adottata come loro patrona perché ella era stata sempre più attenta, durante la sua vita, agli accenti degli Angeli che ai rumori di questo mondo. Il Papa Sant’Urbano la seguì ben presto; il prefetto Almachio lo fece morire un mese dopo. Alessandro Severo morì assassinato in una sedizione eccitata da Massimino, che gli successe. Il regno di Massimino non durò che tre anni (dal 235 al 238), e si segnalò per una violenta persecuzione contro la Chiesa. I due Papi, san Ponziano e San Antero furono martirizzati. Massimino era un uomo di grande taglia e di una straordinaria voracità, ma ci si stancò ben presto di lui, il senato pronunciò la sentenza di decadenza mentre era lontano da Roma. A questa notizia, Massimino entrò in un pauroso eccesso di furore: correva di qua e di la, lacerando i suoi abiti e rotolandosi per terra. Marciò di gran lena sull’Italia e mise la sua sede nei pressi di Aquileia. Ma scoppiò una sedizione generale nel suo campo; fu così ucciso. Quando a Roma si apprese della morte del tiranno, il popolo che era a teatro, si alzò con movimento unanime e corse ai templi a rendere grazie agli dei.

Settima persecuzione (250).

 

Al regno di Massimino, successe l’anarchia. Cinque imperatori sparirono in dieci anni. Un sesto, di nome Filippo, regnò cinque anni (244-249). Filippo era Cristiano, ma disonorava la Religione con la sua condotta, e non era degno di far sedere con lui il Cristianesimo su di un trono ove era salito come assassinio. Tuttavia i Cristiani godettero di una certa tranquillità sotto il suo regno, e viene citato un episodio che mostra che la fede nel suo cuore non era del tutto spenta. Si trovava ad Antiochia, nel 244, il 14 aprile, giorno in cui si celebrava la festa della Pasqua, e si presentò all’assemblea dei fedeli. Ma il vescovo San Babila lo fermò alle porte della chiesa rimproverandogli l’omocidio dell’imperatore Gordiano, suo predecessore, e finì dichiarando che fosse indegno di partecipare ai santi misteri, finché non avesse espiato il suo peccato con la penitenza. Filippo si sottomise, e più tardi si riconciliò con la Chiesa. L’avvento di Decio, che detronizzò Filippo e lo fece sgozzare dai suoi soldati a Verona, fu il segnale di una delle più sanguinose persecuzioni che i Cristiani ebbero a soffrire. – Fortunatamente il suo regno fu breve 249-251). Nel suo editto di proscrizione, Decio dichiarava che, « Benché deciso a trattare tutti i suoi soggetti con clemenza, ne era impedito dalla setta dei Cristiani, che per la loro empietà attiravano la collera degli dei e tutte le calamità sull’impero. Egli ordinò dunque che tutti i Cristiani, senza distinzione di qualità, o rango, di sesso o di età, fossero obbligati a sacrificare nei templi; che tutti coloro che rifiutavano fossero rinchiusi nelle prigioni di stato e sottomessi prima ai supplizi minori, per vincere poco a poco la loro costanza, ed infine, se restassero ostinati, precipitati in fondo al mare, gettati vivi in mezzo alle fiamme, gettati alle fiere, sospesi ad alberi per essere pasto degli uccelli da preda, o mutilati in mille modi con i più crudeli tormenti. » C’era tutta un’arte per condurre all’apostasia mediante la tortura: le spade, la pira, le bestie feroci, le sedie roventi, le tenaglie di ferro, i cavalletti, gli strumenti per ridurre le carni a brandelli o dislocare le ossa, etc. La persecuzione si diffuse in tutto l’impero: il Papa san Fabiano cadde per primo, e ben presto dopo di lui, san Babila di Antiochia, san Saturnino di Tolosa, san Marziale di Limoges, san Trofimo di Arles, san Alessandro di Gerusalemme, san Ippolito vescovo e dottore, una moltitudine di sacerdoti, Cristiani e Cristiane di ogni condizione, dei quali non sapremo mai tutti i nomi. Si cita tra di essi san Cirillo, fanciullo di Cesarea, che suo padre aveva cacciato dalla casa paterna, perché si rifiutava di adorare gli idoli. Il governatore della città volle prima convincerlo con le carezze, e non vi riuscì; impiegò poi minacce e fece accendere un gran fuoco per spaventare il fanciullo; ma non riuscì nel suo intento. La spada troncò i giorni del coraggioso bambino. Ad Alessandria c’era una donna che dava l’esempio di un coraggio simile: si chiamava Apollonia. I carnefici gli fecero dapprima saltare tutti i denti a colpi di pugni; poi alzarono ed accesero un falò e minacciarono di bruciarla viva se rifiutava di blasfemizzare con essi. La coraggiosa vergine deliberò in se stessa in un istante e tutta infervorata, dice il martirologio, di un sacro fuoco che lo Spirito-Santo aveva acceso nel suo cuore, si gettò in mezzo alle fiamme, di modo che gli autori di questa crudeltà restarono stupefatti ed interdetti per come una donna avesse potuto soffrire con prontezza una morte sì crudele e tale che i suoi nemici non erano riusciti a preparare. Due città della Sicilia, Palermo e Catania si disputano l’onore di aver dato alla luce un’altra celebre vergine ancora più forte. Agata aveva consacrato a Dio la sua verginità fin dagli anni più teneri. Un personaggio di nobile nascita, chiamato Quintiano, affascinato dalla sua bellezza, e sapendo che oltretutto era molto ricca, ne aveva chiesto la mano. Irritato dal rifiuto di Agata, si risolse di profittare dell’editto di Decio per giungere al suo scopo. Egli fece prendere la giovane vergine e la mandò davanti ad un tribunale. « Signore Gesù, disse Agata vedendosi consegnata ai persecutori, Voi siete il mio Pastore, io la vostra pecorella; rendetemi degna di vincere il demonio. » Quintiano la pose tra le mani di una donna di mala vita che la fece entrare in un luogo infame. La casta vergine vi restò per un mese, esposta a tutti i pericoli ma senza che la sua virtù ne ricevesse oltraggio. Quintiano allora la fece comparire una seconda volta davanti a lui: furioso per le sue risposte, la fece oltraggiare e condurre in prigione. All’indomani distese Agata sul cavalletto e le si fecero soffrire le più orribili torture. Ma nulla distruggeva la sua costanza. Quintiano non si poté più contenere; preso dalla rabbia, diede ordine di tagliarle le mammelle: « Crudele tiranno, esclamò la giovane, subendo questo martirio, non arrossisci nel farmi questa ingiuria, tu che hai succhiato le mammelle di tua madre? » Quintiano la rimandò in prigione, con la proibizione di curare le sue piaghe e di nutrirla. Ma Dio vegliava sulla sua intrepida serva: San Pietro apparve ad Agata in visione, la consolò, la guarì e riempì la sua cella di una luce sfolgorante. Una tale meraviglia avrebbe dovuto aprire gli occhi di Quintiano, ma la gelosia e la rabbia l’accecarono. Egli la mandò a cercare quattro giorni dopo e la fece rotolare su pezzi di cocci rotti, misti a carboni ardenti. Poi la fece ricondurre in prigione: « Signore mio Dio, dice la vergine arrivando, Voi mi avete sempre protetto fin dalla culla; avete sradicato dal mio cuore l’amore del mondo, e mi avete dato la pazienza necessaria per soffrire; ricevete ora il mio spirito. » E così spirò. Il suo nome è inserito nel canone della Messa. Affianco a tanti nobili esempi, si ebbero deplorabili defezioni. La pace di cui i Cristiani avevano goduto per qualche tempo, aveva prodotto un rilassamento tra loro; si ebbero degli apostati, dei deboli nella fede; ma diversi di questi apostati espiarono più tardi il loro crimine con la penitenza ed il martirio, e la Chiesa riprese un nuovo vigore durante questo terribile tormento che Dio aveva permesso per rianimare il fervore dei fedeli. I flagelli desolarono nello stesso tempo i persecutori: una peste violenta colpì le principali città dell’impero, e le invasioni dei barbari, Geti o Goti, portarono la desolazione nelle provincie più belle. Decio volle marciare contro di essi, annegò nelle paludi adiacenti al Danubio e perì sotto i colpi dei barbari con i suoi tre o quattro figli e gran parte della sua armata. La persecuzione continuò sotto il suo successore Gallo, ma con minor violenza. Il Papa San Cornelio fu martirizzato; il Papa San Lucio fu esiliato e morì poco dopo il suo ritorno a Roma. I Papi erano sempre alla testa di queste gloriose falangi che conquistarono il cielo con il loro martirio, e che preparavano con l’effusione del loro sangue l’avvento del regno di Gesù-Cristo sulla terra.