SAN TOMMASO D’AQUINO: CONOSCERE, AMARE, SERVIRE DIO.

SAN TOMMASO D’AQUINO
CONOSCERE, AMARE, SERVIRE DIO

[G. COLOMBO: “Pensieri sui Vangeli e sulle feste del Signore e dei Santi” Vol. I; Soc. Ed. “Vita e pensiero”, Milano, 1939- impr.]

Aveva appena cinque anni: racchiuso in un abito nero, ricoperto di un nero scapolare, con un cappuccetto a punta che nel traversare i chiostri pieni di silenzio si tirava come uno spegnitoio sul capo, Tommaso già si crucciava dietro a questa domanda: « Chi è Dio? ». – Pronipote a Federico Barbarossa e nel sangue l’audacia e la tenacia dei Normanni suoi avi materni, il cadetto dei signori d’Aquino, come poté far senza della madre e della nutrice, era stato offerto alla badia di Monte Cassino con gran pompa: così l’abito di San Benedetto era venuto a rivestire lui giovanissimo, e la sottile tonsura a rigirargli la piccola testa. – Fosse la profonda religione materna a condurlo là, o fosse invece l’ambizione della famiglia che sognava di vederlo un giorno abate potente dell’abbazia principale delle Puglie col dominio di sette vescovati, è difficile decidere per noi ora; ma è facile invece immaginarci il monacello benedettino assillato dal suo problema: « Dio, chi è? ». – O che pregasse sperduto sotto l’ombrosa navata, o che mirasse il tramonto arrossare i colli in giro e, sopra essi, il torvo castello paterno, o che davanti all’enorme antifonario si levasse in punta di piedi nello sforzo di voltare la pagina, — che tale era il suo compito in coro, — sempre, ce lo attesta Guglielmo di Tocco suo biografo, ripeteva la terribile domanda: « Chi è Dio ? ». – Chi è Dio: non vi sembri strano che questo bambino interroghi così. Iddio, dopo d’avere stampato in lui una più vasta orma d’ingegno e di genio, quasi geloso aveva disposto che in nessun giorno quella poderosa mente avesse gli occhi distratti dal suo lume inaccessibile. Ed ecco dal primissimo uso di ragione, tutta la vita del santo fu un salire di gradino in gradino, di anelito in anelito, di spasimo in spasimo, verso la sublime risposta. E quando l’avrà toccata con la punta della sua anima, — la mattina del 6 dicembre 1273, — spezzerà la penna e dirà: « Reginaldo, ho finito: io muoio ». Chi è Dio: sotto queste parole si sprofonda l’abisso del vero. I suoi, quando lo chiamarono Tommaso, non sapevano che etimologicamente quel nome significa «abisso» e non potevano prevedere che nell’abisso della realtà nessun uomo, forse mai, si sarebbe inoltrato quanto quel loro bambino. – Chi è Dio: rispondere a tale domanda non è come rispondere a tutte le altre, poniamo a questa «che è la luna?». Poiché, dato pure che trovassimo per la luna la risposta esatta, poi lasceremmo ch’ella se ne vada per la sua strada celeste, e noi, senza badarci più, ce ne andremmo per la nostra strada terrestre. Ah no: man mano conoscere Dio vuol dire amarlo man mano ed anche man mano servirlo.

Conoscerlo!
Amarlo!
Servirlo!

Ecco tre parole che sono nel piccolo catechismo per tutti: per questo non crediatele piccola cosa. Conoscerlo, amarlo, servirlo è lo sforzo sublime della piccola trinità ch’è in noi, — intelletto, cuore, volontà, — per assomigliare all’infinita Trinità ch’è in Dio, — Padre, Figliuolo, Spirito Santo. – In queste tre parole è racchiusa la santità di tutti i santi, la quale tuttavia è sempre diversa perché ciascun santo traduce nella vita pratica quelle tre parole in una maniera sempre diversa. S. Tommaso le ha realizzate nello studio. Lo studio fu tutta la sua vita, lo studio è tutta la sua grandezza nei secoli; ma lo studio è anche tutta la sua santità. Infatti: che cos’era per lui studiare? conoscere Dio; quale forza lo spingeva, notte e giorno, a consumarsi sui libri e sulle intricate questioni? l’amore di Dio; che cosa intendeva poi fare della sua miracolosa cultura? servire Dio.
1. CONOSCERE DIO
Camminava un giorno tra i suoi condiscepoli nei querceti e negli uliveti in giro all’abbazia; guidava l’escursione un religioso anziano. La piccola truppa si ferma d’un tratto e tutti si diffondono nel bosco chiassosamente. Tommaso, no: in disparte, poggiato a un tronco è silenzioso. Guarda le gemme nuove prorompere dalla scorza come occhi verdissimi, guarda i vertici ondeggiare nel vento, guarda le foglie dell’anno passato marcire in terra. Donde vengono le gemme e dove vanno le foglie? chi sospinge il vento invisibile a correre?… « Che cerchi, qui, solo? » gli domandò il religioso scorgendolo. « Cerco, — rispose, — di conoscere Dio ». Dunque davanti agli occhi profondi di quel fanciullo si compiva la parola d’Isaia: « Tutta la terra è colma della scienza del Signore ». – La brama di questa scienza che gli svela la faccia dell’Eterno, non che sminuire, crescerà nella sua anima a dismisura. All’Università di Napoli, poi a Colonia, sotto la guida illuminata di Alberto Magno, poi a Parigi, e di nuovo a Colonia, — lui, che quand’era in fasce non smetteva di piangere se non lo lasciavano biascicare un foglio di carta, — divorerà i libri allora più famosi, senza mai placare la sua sete di conoscere Dio. In Italia, per 10 anni, dal 1259 al 1269, senza tregua studierà, scriverà, insegnerà intorno a Dio. O silenziose celle d’Anagni, d’Orvieto, di Roma, di Viterbo, ove, anche quando il convento era sommerso nel buio del sonno, ardeva la vigile lampada di S. Tommaso! voi conoscete i tormenti dell’aspra ricerca e la gioia dell’amplesso con la verità ritrovata; voi conoscete l’affannoso ascendere, passo per passo, nell’analisi del pensiero e la mistica ebbrezza della sintesi contemplata dal vertice dell’idea raggiunta!… – « Le volte che davanti al dubbio l’ho visto lasciare la cella e fuggire in chiesa ed abbracciare i l tabernacolo ed interrogarlo e singhiozzare son più di cento ». Così ha giurato frate Reginaldo che gli viveva d’accanto e dormiva nella cella attigua. Orazione e studio erano per lui una cosa sola, un tendere al medesimo oggetto: Dio. – Cristiani, la vita e la santità di Tommaso d’Aquino è tutta un rimprovero alla società moderna, a ciascuno di noi, forse. Dov’è il desiderio nostro di conoscere Dio? Che cosa facciamo per, sapere le verità eterne? Perché tanto deserto sotto i pulpiti? Di tutto siamo curiosi e informati, eccetto che delle cose necessarie per salvarci. – Ma torniamo a S. Tommaso, il gigante dell’intelligenza, che armato di osservazione di studio di preghiera, ha saputo salire su su, scalare una montagna di questioni, di articoli, di scolii, di dilemmi, in cima alla quale, — come una volta sul Sinai, — sta Iddio nella nube fulgida. E Dio discende incontro a questo mortale, ed anche a lui come a Mosè concede sulla fronte due raggi della sua luce: la Summa contra gentes e la Summa Theologica. Sono le due « Somme » come due fiumi imperiali che entrambi sgorgano da Dio, — nella loro prima parte, — attraversano tutta la creazione visibile ed invisibile, — nelle altre due parti, — e, trascinando nella loro conquista il mondo intero, fanno — nell’ultima parte — ritorno a Dio. A Dio, che si nega ai superbi e si concede ai pargoli, a Dio che si è lasciato trovare da S. Tommaso perché umile. – A lodarvi la sua umiltà non ripeterò più come, diffidando delle sue forze, solo nella preghiera confidasse; né ricorderò con quale semplicità accoglieva le ripetizioni di quel suo compagno di Colonia, il quale capiva poco e faceva da maestro a lui che capiva tutto, e più ancora; dirò soltanto come l’umiltà è la base del suo alto e complesso sistema filosofico e teologico. In quei secoli, quando Roscellino osava applicare al mistero della Trinità la sua dottrina filosofica; e Abelardo e Gilberto della Porretta pretendevano di sgrandire la propria ragione fino a spiegare i domini, quasi a commisurare la loro statura con quella di Dio; in quei secoli, quando pur di non umiliare la ragione si era trovata la teoria della doppia verità, secondo la quale alcuno poteva credere un’asserzione in quanto teologo e cristiano e poi deriderla e negarla in quanto filosofo, sorse Tommaso e sottomise la fragile nostra mente alla infallibile rivelazione di Dio, negò qualsiasi dissidio tra il credo e la scienza, proclamò la teologia regina e la filosofia ancella. In questa limpida distinzione tra i due ordini di verità, quello di fede e quello di ragione, e nella subordinazione di questa a quella, sta la novità del pensiero di S. Tommaso, che è quindi un pensiero di umiltà. « S’incontrano oggi uomini — dice — che studiano filosofia e sostengono opinioni contrarie alla fede: falsi profeti sono, sono falsi dottori ». E prosegue: « La fede vale molto di più della filosofia, perciò se la filosofia è contraria alla fede bisogna rigettarla ». Era giusto allora che da questo umile atleta, che gli prosternava ai piedi la mente d’Aristotele e la propria, Dio si lasciasse conoscere. E amare.
2. AMARE DIO
Nella vita di S. Tommaso d’Aquino, i cilici cruenti, le flagellazioni, gli aspri digiuni con cui molti santi hanno significato a Dio la veemenza del loro amore, invano li cerchereste. Se una cosa straordinaria v’è, anch’essa è soave: il dono delle lagrime. – Quaggiù in hac lacrimarum valle, le lagrime non sembrano cosa rara: lagrime d’odio, lagrime di miseria, lagrime di morte, lagrime di vanità, lagrime di gioia anche; ma le lagrime dell’amor di Dio le versano solo i santi, ed essi pure non tutti. S. Tommaso piangeva d’amore. Quest’uomo alto, grosso, bruno — magnus, grossus, brunus, come dice il suo primo biografo, — che quand’era in viaggio, i contadini dal campo segnavano a dito e stupiti lo guardavano oltrepassare poderosamente, era di una delicatezza materna: confratelli e discepoli se ne meravigliavano. In Napoli, una Domenica di Passione, tutto il popolo lo vide effondersi in pianto, mentre celebrava; ogni giorno, celebrando, piangeva. Ed appena in coro la voce dei frati, in toni melanconiosi, cantava l’antifona Media vita in morte sumus: quem quærimus adiutorem nisi te Domine?… Sancte Deus, Sancte Fortis, Sancte Misericors, Salvator, amaræ morti ne tradas nos! » sempre Tommaso, il volto tra le mani, piangeva come un bambino. – Prima di giungere a questa sublime intimità con Dio, belle prove d’amore aveva saputo dargli. Gli aveva dimostrato che l’amava più della gloria e dell’opulenza tra cui era nato; che l’amava più di suo padre e di sua madre, de’ suoi due fratelli e delle sue due sorelle; che l’amava con tutte le forze. L’amava più della gloria e dell’opulenza: la guerra tra il Papa e l’imperatore aveva fatto fuggire i monaci dalla badia di Montecassino, e Tommaso quattordicenne ritornò in famiglia, lasciando per sempre in convento gli abiti da benedettino. I suoi però, che non avevano deposto il pensiero di farlo abate, lo mandarono all’Università di Napoli: col risveglio culturale di quegli anni intuivano che un monaco non avrebbe potuto figurare dignitosamente da abate, se non fosse stato dottore. A Napoli invece l’aspettava il Signore per dirgli in occulto: « Ti voglio domenicano ». E i sette vescovati che sua madre sognava per lui? e la badia sul colle che suo padre sperava d’avere come baluardo inespugnabile? e la prelatura? « Signore non altro che Te ». – La primavera del 1244, che rivestiva le frondi di nuovo colore, vide Tommaso rivestito di bianco e di nero come le rondini immigranti in quell’aprile. Per fortuna suo padre era già morto. Ma l’imperiosa Teodora da Chieti, sua madre, non era donna d’acquietarsi a quell’umiliazione del casato. Corse a Napoli, e le fu risposto che Tommaso viaggiava per Roma; corse a Roma, e le fu risposto che Tommaso viaggiava per Bologna. Dunque c’era qualcuno che osava prendersi gioco della cugina di Federico II? Le vennero in aiuto gli altri due figliuoli, Rinaldo e Landolfo, luogotenenti entrambi nell’esercito imperiale, che era allora acquartierato nelle terre d’Acquapendente. – Sul mezzodì, quando Tommaso fuggitivo col Maestro generale ed altri frati pellegrini sedeva ad una sorgente per consumare un frugale ristoro, in una nugola di polvere comparvero numerosi cavalieri. Lo accerchiarono. Non intendevano maltrattarlo, ma solo strappargli l’abito domenicano. Tommaso balza in piedi, con la testa alta sopra le messi biondeggianti: si stringe la cappa in giro alla persona e con tutte e due le mani se la preme sul cuore come una bandiera. Tace, ma sta di contro con la sua statura e con la forza de’ suoi vent’anni. Quella veste gli era più cara del blasone colorato sul castello di Roccasecca; era per lui il simbolo di un amore più grande dell’amore per suo padre morto, per sua madre viva, per i fratelli armati, per le dolci sorelle lontane. Per quest’amore era pronto a battersi. Dovettero giurare di lasciarlo vestito com’era. Allora curvò la testa grossa e li seguì. Poi venne l’ultimo tormento. Gielo mandava suo fratello Rinaldo, poeta d’amore alla corte e soldato: giacché non lo si poteva indurre a riprendere l’abito benedettino, piuttosto che domenicano era meglio sopportarlo cadetto nel secolo. Ma quando il prigioniero udì risonare le scale sotto il passo della tentazione veniente, ghermì il tizzone e, come il turbine, si scagliò contro la disonesta faccia. Vinse. In questa vittoria d’amore per Gesù che si pasce tra i gigli, tutte le forze aveva consumate; solo gliene rimase quanto bastò a tracciare una croce sul muro e baciarla. Poi s’addormentò, o svenne. – Eppure la manifestazione più alta della fiamma che dentro gli ardeva, non penso che sia questa, ma un’altra. Una volta, in scuola, sospinto da una segreta forza a lodar Dio, confidò ai suoi scolari che in tutta la vita non aveva mai ceduto coscientemente a un moto di superbia. Il grande Maestro che l’Europa applaudiva, che vivo ancora si sentiva citato al fianco d’Aristotele e d’Agostino, non è mai disceso ad una compiacenza di sè. Quale incendio d’amore doveva avvolgerlo per controbilanciare la tirannia del demone della superbia che, anche per gli uomini mediocri, è implacabile? Dicono che la superbia è l’impudicizia dello spirito: allora S. Tommaso fu purissimo e nella carne e nello spirito, perciò era giusto che Dio si lasciasse amare da lui.
3. SERVIRE DIO
Quando, come tesi dottorale, il laureando Tommaso d’Aquino prendeva a svolgere il passo: Rigans montes de superioribus suis, de fructibus operum tuorum satiabitur terra, non immaginava come si sarebbero avverate per lui quelle parole: acqua che disseta le vette dell’intelligenza e frutto che sazia la brama del cuore riuscì la sua opera nel mondo. E sì che a Colonia, un po’ per quella carnagione pingue e floscia, — che egli credeva confacente allo studio, —- e un po’ per la sua taciturnità, i condiscepoli gli avevano affibbiato il nomignolo di bue muto. È perché parlare se si trattava soltanto di eccellere fra gli altri e accaparrarsi una qualche simpatia dai professori? Aveva un padrone solo da servire, lui; servire ogni altro è schiavitù. Oh, se anche noi lavorassimo solo e sempre per Dio, e non sperdessimo nella vanità, nella sensualità, nell’avarizia, troppe energie, che ci sono date per amare il Signore! – Con la bocca sigillata, dunque, il bue muto scavava intanto i solchi e rivoltava ad una ad una le zolle dell’umano sapere. Appena il servizio di Dio lo richiederà, ecco egli è pronto: volgesi indietro e lancia il suo muggito. – Nell’Università di Parigi s’agitava una rivolta contro i religiosi. Era uscito un trattatello livido di calunnie De novissimorum temporum periculis; gli ultimi tempi dell’anti-Cristo sono giunti, vi si diceva, e i falsi profeti sono i frati domenicani. L’infame libello, come accade per ogni satina d’attualità, clandestinamente prima e poi sfacciatamente, si leggeva da per tutto, perfino a Roma. Gli studenti ne tiravano le chiose più matte e maligne. Il Papa stesso pregava che si trovasse un rimedio per far cessare lo scandalo. Allora ad Anagni si raccolse il capitolo a cui i padri Domenicani più dotti intervennero, accasciati per quella guerra di calunnie. Davanti agli adunati, Umberto di Romans si mosse dal suo stallo, e con un bel gesto mise nelle mani di fra Tommaso il manoscritto paventato. Il giovane dottore lo raccolse come un guanto di sfida: « Padri miei, questo libro l’ho già letto: poggia sulla sabbia ». E facendolo scricchiolare nel suo pugno aggiunse: « Lo confuterò ». Il bue muto comincia a mugghiare. – Nella Chiesa si era da poco istituita la festa del Corpus Domini. Papa Urbano IV- domandò a Tommaso di comporne l’ufficiatura. Che dolce servizio ora gli chiedeva Gesù! E dal cuore del teologo e dell’aristotelico eruppe una vena di poesia prodigiosa. O strofe del Lauda Sion sonanti come angeliche fanfare! O misteriosi accenti del Tantum ergo entro cui fluirono tutte le lagrime ch’egli versava di notte davanti ai silenziosi tabernacoli! O cadenze eteree dell’Adoro te devote ove par di cogliere i respiri commossi dell’anima ! Fra tutti i carmi dei poeti, quelli di Fra Tommaso ebbero la fortuna più grande. Nelle Americhe e nell’Australia, nelle pampas e nelle tundre, sotto le guglie gotiche e sotto il bambù impastato di fango, dai re e dai pezzenti, dai dotti e dagli analfabeti, di notte e di giorno, comprese ed incomprese, ora e sempre fino alla fine del mondo, quei carmi risuoneranno. Il bue muto ha dissuggellato la bocca ed il suo muggito ha riempito la terra davvero. – Ma un altro servizio, più diuturno e scabroso, ha reso a Dio e alla Chiesa e agli uomini di studio e di buona volontà. La diffusione della filosofia aristotelica nel sec. XII e XIII presentava un forte pericolo per la verità cattolica; tanto più che questa dottrina s’avanzava avvelenata dall’interpretazione degli Arabi, e specialmente di Averroé. Per una parte la potenza della sintesi, la profondità dei principi, il rigore delle deduzioni, affascinava i giovani studenti irresistibilmente. Ma per una altra parte, quella nuova filosofia insegnava che le anime degli uomini non sono immortali, che il mondo non ha avuto principio, che la fatalità lo governa, che il premio ed il castigo eterno sono una parabola per i semplici. Per ciò i Papi moltiplicavano le condanne contro lo Staggita e chi l’insegnava, poi che pareva impossibile il mettere una mano in quell’ingranaggio senza esserne stritolati. Ora venne Tommaso, prese nella sua morsa il pensiero della Grecia, gli strappò i pungiglioni velenosi, e lo gettò come uno sgabello ai piedi del Vangelo.
CONCLUSIONE
Sta scritto: « Chi vede Dio, muore ». La mattina del 6 dicembre 1273 mentre celebrava nella cappella di S. Nicola in Napoli, fu rapito in estasi e vide Dio. Doveva morire: non di terrore, ma di amore perché gli occhi che hanno visto la faccia del Signore, trovano così brutta la terra e le sue cose che ormai non possono se non desiderare di chiudersi nella morte, per vedere la Bellezza e l’Amore infinito. Da quella mattina non fu più lui: la gran Somma attendeva le ultime pagine, ma egli non lavorava più. Il medico non ci capiva niente: ma come sono ingenui i medici a voler capir tutto, quasi che l’uomo fosse solo carne ed ossa! Alla prima tappa del viaggio verso Lione, ove il Papa lo voleva per il gran concilio, s’accasciò. Fu trasportato nell’abbazia benedettina di Fossa Nova. Con che occhi riguardava quei neri monaci dalla sottile tonsura che rigirava a loro la testa! con che cuore ascoltava dal suo giaciglio le pacate salmodie, quelle salmodie che l’avevano accompagnato bambino, nei primi passi e che ora l’accompagnavano, non vecchio, all’ultimo passo! – Piangeva di commozione e di gratitudine, vedendo i monaci premurosi che nel rigore di quel febbraio andavano nella foresta a trascegliere i ceppi più belli e più secchi, e se li caricavano sulle loro spalle, poiché stimavano sacrilegio che la legna per riscaldare quel santo dottore fosse portata dalle bestie! Qualche monaco con scaltrezza piena di carità era riuscito a strappare un piccolo segreto a Fra Tommaso: il suo piatto preferito erano le aringhe fresche. Si mandò subito al mare a pescarle. – Tutto era finito. Già il suo pollice, stanco di rivolgere pergamene e fogli s’era fermato sulle pagine di un libro che Dio ha ispirato per le ultime estasi dei suoi santi: la Cantica. Già la sua bocca parlava d’Amore con parole che non si capiscono più in questo mondo. Quando il Viatico entrò nella cella, allargò le braccia e disse una preghiera che ogni cristiano, facendo una Comunione spirituale, dovrebbe ripetere ogni sera nell’addormentarsi:

« Ti ricevo Corpo Santissimo! prezzo del riscatto dell’anima mia… viatico del mio pellegrinaggio. Per amor tuo, Gesù, ho studiato, predicato, insegnato. Per te sono state, Gesù, le mie veglie; per te, Gesù, i miei lavori. Se qualche cosa avessi fatto che ti rincresce, mi sottometto alla correzione della Chiesa ».

Al termine d’ogni nostra giornata, al termine della vita, come sarebbe profondamente consolante ripetere queste parole! Le potremo ripetere soltanto se in tutti i giorni, in tutta la vita non avremo mai trascurato di conoscere, di amare, di servire Dio.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.