INFERNO -1-

INFERNO [1]

[E. Barbier: I tesori di Cornelio Alapide, S.E.I. Ed. Torino – vol. II, 1930]

– 1. Che cosa è l’inferno? — 2. Pene dell’inferno: 1ª il fuoco; 2ª le tenebre; 3ª il verme roditore; 4ª la schiavitù; 5ª la separazione da Dio; 6ª ogni sorta di mali. — 3. Il reprobo è maledetto da Dio, dal demonio, e dagli altri reprobi. — 4. Morte nell’inferno.— 5. Come i demoni trattano i reprobi. — 6. Disperazione nell’inferno. — 7. Gradazioni di supplizi. — 8. Eternità delle pene infernali. — 9. L’inferno è conforme alla giustizia di Dio. — 10. Mezzi per schivare l’inferno.

1. – CHE COSA È L’INFERNO! — L’inferno, a definirlo in una parola, è la privazione di ogni sorta di beni e l’abbondanza di ogni sorta di mali; la privazione di ogni piacere, il colmo di ogni tormento… Nell’inferno, non più ricchezze…, non più onori…, non più libertà…, non più gioia…, non più consolazione…, non più lumi …, non più speranza…, non più carità…, non più felicità…, non più riposo…, non più grazie…, non più Dio …, ecc., ecc. … Ma a farcene una sbiadita idea chiamiamo a breve rassegna le varie pene che costituiscono quello che si chiama inferno.

2. – PENE DELL’INFERNO. lª Il Fuoco. — « I reprobi, dice S. Paolo, sono condannati a stare in mezzo alle fiamme vendicatrici perché non vollero conoscere Iddio, né obbedire al Vangelo — In fiamma ignis dantis vindictam iis qui non noverunt Deum, et qui non obediunt Evangelio (II Thess. I , 8). La mano del Signore, come annunziava il Salmista, si stenderà sopra i suoi nemici e la sua destra afferrerà coloro che l’odiano; li getterà in un forno ardente: — Inveniatur manus tua omnibus inimicis tuis; dextera tua inveniat omnes qui te oderunt. Pones eos ut clibanum ignis (Psalmi. XX, 8-9); l’ira sua ha acceso un fuoco che avvamperà fino al fondo dell’inferno: — Ignis succensus est in furore meo, et ardebit usque ad inferni novissima (Deuter. XXXII, 22); e durerà, a tormento dei maledetti, per tutti i secoli, senza mai né spegnersi, né scemare: — Discedite a me, maledicti, in ignem æternum (MATTH. XXV, 41). Il fuoco dell’inferno fa patire all’anima, separata dal corpo, gli strazi medesimi che sentirebbe, se gli fosse unita e quando dopo il giudizio universale, lo avrà compagno, daranno ambedue continuo alimento al fuoco, senza che ne restino distrutti. « Il fuoco divino, dice Lattanzio, brucerà e ribrucerà sempre con la medesima attività ed energia gli empi e quanto toglierà ai corpi, tanto vi rimetterà per consumarli di nuovo; somministrando così a se medesimo un pascolo eterno (Divinus ignis, una eademque vi atque potentia, et cremabit impios, et recremabit, et quantum e corporibus absumet, tantum reponet; ac sibi ipsi aeternum pabulum subministrabit – Lib. VII, c. XXI) ». – Quindi il fuoco infernale, come supplizio ed effetto della vendetta divina, è il sommo dei mali; tanto più se si consideri: 1° che esso è un fuoco ardentissimo, cocentissimo, penetrantissimo… 2° Che abbrucia le anime non meno che i corpi, senza mai annientarli … 3° Che è un fuoco tenebroso, puzzolente, il quale tormenta i dannati non solamente con la sua intensità, ma ancora con la sua oscurità, col suo fumo densissimo, con l’intollerabile suo fetore di zolfo. « Pioverà (Iddio) sopra di loro i suoi lacci; il fuoco, lo zolfo, il vento delle tempeste saranno il calice che loro prepara » — Pluet super peccatores laqueos; ignis et sulphur, et spiritus procellarum, pars calicis eorum (Psalm. X, 6). S. Giovanni li vide affondare vivi in uno stagno di fuoco e zolfo e vomitare dalla bocca fiamme, iumo e zolfo: – Vivi mìssi sunt in stagnum ignis ardentis in sulphure (Apoc. XIX, 20): — De ore eorum procedit ignis et fumus et sulphur (Id. IX, 17). E più oltre: « In quanto ai vili, agli increduli, agli abbominevoli, agli omicidi, ai fornicatori, agli avvelenatori, agli idolatri, ai mentitori, essi toccheranno per loro eredità lo stagno ardente di fuoco e zolfo, che è la seconda morte » — Timidis, et incredulis, et execratis, et homicidis, et fornicatoribus, et veneficis, et idolatris, et omnibus mendacibus pars illorum erit in stagno ardenti igne et sulphure, quod est mors secunda (Id. XXI, 8). 4° Finalmente, questo fuoco sarà eterno; non può né spegnersi, né diminuire mai e tiene in continua agitazione, in un tremito incessante, gli adoratori della bestia, dall’ira di Dio colà confinati: — Et fumus tormentorum eorum ascendet in sæcula sæculorum, nec habent requiem die ac nocte, qui adoraverunt bestiam (Id. XIV, 11). « Meditate, esclama qui S. Agostino, queste verità e di questo fuoco dell’inferno fatevi schermo contro le fiamme della concupiscenza che vi tormentano nella vita presente. Il fuoco materiale che serve ai nostri usi investe gli oggetti a cui si appicca e li consuma; ma il fuoco dell’inferno divora i reprobi, e ciò nulla meno sempre li conserva interi per sempre castigarli. Perciò si chiama inestinguibile, non solamente perché non si spegne mai, ma anche perché non uccide e non distrugge coloro che consuma. La potenza poi e l’efficacia di quella pena e di quel fuoco, non vi è né lingua né parola che possa esprimerla (Serm. CLXXXI) ».Venite a contemplare l’orrendo spettacolo delle vittime del fuoco infernale! Entrate in ispirito in quelle prigioni ardenti, osservate quegli schiavi legati con catene di fiamme! Essi non stanno semplicemente nel fuoco, nota Gesù Cristo, ma vi stanno sepolti: — Sepultus est in inferno ( Luc. XVI, 22). Guardate quel fuoco che divampa da quegli occhi ebbri di lascivia, o che si dilettarono tante volte di fermarsi in oggetti osceni! Mirate quel fuoco che entra ed esce a onde da quelle bocche che vomitarono tanto spesso canti impuri, parole sconce, esecrabili bestemmie e velenose maldicenze! Guardate come quelle fiamme avvolgono tutte le membra, come penetrano nelle midolle, come scorrono per tutte le vene per fare del reprobo un carbone acceso! Giustizia del mio Dio, quanto sei tremenda! Quelle vittime sciagurate non vedono che fuoco, non toccano, non inghiottono, non sentono, non sono che fuoco: — Crucior in hac fiamma (Luc. XVI, 24). Ah! « chi di voi, esclama Isaia, potrà dimorare con quel fuoco divoratore? Chi sosterrà quegli ardori sempiterni? » — Quis poterit habitare de vobis cum igne devorante? quis habitabit ex vobis cum ardoribus sempiternis? ( ISAI. XXXIII, 14). Il fuoco di quaggiù, già tanto ardente, è il fuoco della bontà di Dio; pensate, quale sarà il fuoco infernale che è il fuoco della giustizia e della vendetta del Signore!…

Le tenebre. — I reprobi non vedranno più raggio di luce in eterno: — In æternum non videbit lumen (Psalm. XLVIII, 19), perchè sprofondati nell’abisso, nel regno delle tenebre, nella notte della morte: — Posuerunt me in lacu inferiori, in tenebrosis, et in umbra mortis (Psalm. LXXXVII. 6), vi staranno come morti sempiterni: — In tenebrosis collocavit me, quasi mortuos sempiternos (Lament. III, 6). Il peccatore in vita, andava cercando l’oscurità delle tenebre per abbandonarsi senza ritegno alle brutali sue passioni e trova nell’inferno tenebre senza misura e senza fine, in punizione dei suoi misfatti … L’inferno, regno di satana, è regno di tenebre, di oscurità, di notte densissima ed eterna… Rappresentatevi un disgraziato incatenato in oscurissimo carcere, condannato a non uscirne più mai e a non più vedere un barlume di luce: o Dio, che desolante, disperata condizione sarebbe mai questa! meglio cento volte la morte. Lontana immagine dell’infelice stato dei reprobi, stipati nell’orrendo buio dell’inferno, nei densi vortici del fumo, che si alza dallo stagno del fuoco e dello zolfo, meno orribile e puzzolente delle colpe dei dannati! …

Il verme roditore. — Nell’inferno, nel fuoco che sempre brucia, si mantiene tuttavia, dice Gesù Cristo, sempre vivo in seno ai reprobi un verme che li rode del continuo senza mai consumarli: — Vermis eorum non moritur (MARC. IX, 43); adempiendosi in loro quel detto della Scrittura: « Il Signore darà la loro carne alla fiamma e ai vermi, affinché siano tormentati e straziati per sempre » —- Dabit ignem et vermes in carnea eorum, ut urantur et sentiant usque in sempiternum ( IUDITH. X V I , 21). Questo verme roditore indica i rimorsi e gli inutili rammarichi dei dannati. – S. Cirillo dice: « I reprobi gemono continuamente e nessuno ha pietà di loro; gridano dal fondo dell’abisso e nessuno li ode; si lagnano e nessuno li soccorre; piangono e nessuno li compassiona. O peccatori riprovati, dove è ora la superbia del secolo? dove sono l’alterigia, le delicatezze, gli ornamenti, la potenza, il fasto, le ricchezze, la nobiltà, la forza, la seduttrice avvenenza, l’audacia altera ed insolente, la gioia nel misfatto? » (De exitu animæ). Il medesimo linguaggio tiene S. Efrem: « I dannati versano fiumi di amaro pianto e tra gemiti, singhiozzi e strida vanno gridando: Noi infelici! come mai abbiamo potuto sciupare in tanto torpore e negligenza il nostro tempo? Perché lasciarci cogliere così goffamente alle reti delle passioni? O come lo scherno e il disprezzo che noi facevamo delle cose sante si è riversato sul nostro capo! Dio ci parlava e noi ci turavamo le orecchie! ora noi gridiamo ed Egli è sordo. Che vantaggio abbiamo ora delle grandezze del mondo? Dov’è il padre che ci ha generati? dove la madre che ci mise alla luce? dove i figli, gli amici, le ricchezze, i poderi? dove la turba dei clienti, lo sciame dei parassiti e degli adulatori; dove i balli, i festini, le danze, i divertimenti, i conviti, le geniali conversazioni? » (Serm.). « In tre modi, osserva Innocenzo III, il verme roditore della coscienza lacera ì dannati: col ricordo, col pentimento troppo tardo e con le ambasce. I reprobi rammentano con un rammarico ed un rimorso ineffabile, infinito, quel che fecero nel mondo con tanto diletto; il pungolo della memoria punge tormentosamente coloro che lo stimolo del peccato aveva spinto al male » (In lib. Sap.). – « Il verme roditore, dice anche S. Bernardo, è la memoria del passato; nato nell’anima insieme col peccato, così tenacemente vi si aggrappa, che portato da lei con se nell’interno, più non se ne distaccherà in eterno; ma incessantemente rodendola e nutrendosi di questo alimento inconsumabile, prolungherà i n eterno la sua vita ». E poco dopo fa esclamare al reprobo: «Misero me! Perché, o madre mia, hai tu dato alla luce un figlio di dolore, di amarezza, di sdegno, di pianto e di rammarico eterno! ». Quindi conchiude tremante: «Ah! io inorridisco al pensiero di questo verme roditore! (De Consider. Lib. V) ». Il verme della coscienza, che rode fino al midollo e roderà eternamente i dannati, farà loro risonare del continuo agli orecchi queste lugubri, strazianti parole: Come avete voi venduto a prezzo così vile l’anima vostra così preziosa, l’anima unica ed immortale”? Come, per un breve ed abbietto piacere, vi siete gettati in queste fiamme spaventose ed inestinguibili? Voi potevate servirvi, secondo la volontà del Signore, di quanto possedevate e farvene scala per meritare la gloria eterna, per ascendere i seggi degli angeli e dei beati; ma voi stolti voleste abusare di tutto, perciò la vostra sorte sarà di abitare eternamente coi demoni. Poveri pazzi! perché siete stati così crudeli verso di voi medesimi? Perché cambiare la beatitudine eterna contro un sozzo alimento? Perché comprarvi, per un istante di vile piacere, un’eternità di sventura e di pianto? Che vi resta dei vostri colpevoli diletti? Tutto svanì come ombra, come sogno, come fumo. I dannati vedono i loro traviamenti e se li rimproverano essi medesimi dicendo gemebondi e inveleniti: Ah! se almeno, vittime di un destino inesorabile, noi non avessimo potuto evitare la fatale nostra sorte, sapremmo adattarci alla forza della necessita e meno dolorosa ci riuscirebbe l’infelice nostra condizione; ma il pensare che era in nostra facoltà il salvarci e che ci siamo perduti per nostra colpa, questo ci tormenta più di tutto! A noi soli dobbiamo l’orribile nostra disgrazia. Noi siamo gli artefici della nostra sventura, a noi soli dobbiamo imputare l’infinita, irreparabile perdita che abbiamo fatto di Dio. Da noi dipendeva il possederlo eternamente in cielo, il regnare con i santi; a noi stava aperta non meno che agli altri la porta di quel beato soggiorno; ma noi ci siam rifiutati d’entrarci e abbiamo abbandonato la strada che conduce lassù, per tenerci alla via spaziosa che ci ha condotti a perdizione: « O Israele, la tua perdita vien da te stesso » — Perditio tua ex te, Israel (OSE. X III, 9). Ah! ciechi ed insensati che fummo! valeva la spesa che per beni così fragili e così fugaci, quali sono i terreni, per insipidi e abbietti piaceri, dei quali non ci rimane che la memoria e l’onta, facessimo getto dei beni eterni, delle ineffabili delizie di cui ora godremmo nel regno della gloria? Conveniva che ci affezionassimo ad un’indegna creatura anziché al Creatore il quale solo poteva soddisfare i nostri immensi desideri? – Oh! che acutissima spina per i reprobi la perdita volontaria di Dio, del cielo, della salvezza eterna; che amaro cordoglio, che cocente rimorso strazierà loro le viscere! I n quell’inferno, dove l’anima ristretta in se stessa, non avrà più modo di uscire né mezzo di stordirsi, di distrarsi, ella sentirà tutta l’acerbità e lo strazio di questi rimorsi; ne sarà come cinta, assediata, punta da tutte le parti; su qualunque lato si volga, incespicherà in queste spine le quali penetreranno così profondamente in lei, che le sarà impossibile strapparle. Non passerà momento ch’ella non si rappresenti, si rimproveri i peccati commessi e quelli di cui fu cagione; l’abuso da lei fatto delle grazie concessele dal suo Dio: né già confusamente, o le une dietro le altre le si presenteranno innanzi le sue colpe, ma distintamente, tutte a un tratto e in tutta la loro deformità e le diranno: Ci riconosci? sei tu che ci hai fatte, noi siamo l’opera delle tue mani. Questo crudele pensiero — Io ho perduto Dio per mia colpa — non lascerà mai un istante il dannato che ne sarà incessantemente travagliato, afflitto, tormentato. Me disgraziato, andrà dicendo a se stesso, che ho mai fatto? Ho sacrificato il mio Dio, la mia anima, la mia eternità; ho attirato sopra di me supplizi eterni! ho abusato del sangue di Gesù Cristo e calpestate le sue grazie! io mi vedo ai fianchi il Calvario, vedo il sangue di Gesù gocciolarmi dalla croce sul capo e

alimentare la fiamma che mi divora! O reprobi sciagurati, voi ora vedete i vostri misfatti e ne avete orrore, ma è troppo tardi! Infelici! nessuno vi sforzava a peccare; il mondo, il demonio, le passioni vi invitavano e sollecitavano, ma non vi violentavano. Siete voi che avete liberamente scelto la morte in cambio della vita, il demonio invece di Dio, l’inferno in luogo del cielo!…

4ª La schiavitù. — I dannati, sono legati e incatenati tutti insieme, e cIascuno alla propria catena: ceppi particolari, ceppi universali; ma tutti arroventati ad un medesimo fuoco, tutti temprati nelle loro stesse lacrime, affinché non si spezzino e non si logorino. – Il Savio vide i disertori della divina Provvidenza giacere tutti legati ad una medesima catena di tenebre: — Una catena tenebrarum omnes erant colligati… Vinculis tenebrarum, et longœ noctis compediti… fugitivi perpetuæ Providentiæ iacuerunt (Sap. XVII, 17,2); li vide come covoni di paglia, legati insieme, consumarsi nel fuoco: — Stuppa collecta synagoga peccantium, et consummatio illorum fiamma ignis (Eccli. XXI, 10); la medesima similitudine f u adoperata da Gesù Cristo, quando simboleggiando i cattivi nella zizzania, disse che sarebbe stata falciata e, legata in covoni, gettata ad ardere: — Colligite primum zizania, et alligate ea in fasciculos ad comburendum (MATTH. XIII, 30). – Nelle galere, i condannati erano legati parecchi insieme, per modo che, quando un galeotto cammina, si ferma, monta, discende, imprime agli altri i medesimi movimenti. Scolorita imagine di quello che avviene nell’inferno! Tutti i reprobi, legati gli uni agli altri, sono costretti a subire tutti i movimenti, le agitazioni, i contorcimenti dì ogni reprobo; e ciascun condannato gli scotimenti e le agitazioni di tutti i dannati. In conseguenza di questa furiosa e incessante scossa, tutti gli echi dell’inferno rimbombano del continuo del confuso, assordante rumore prodotto dallo strascico delle pesanti catene dell’innumerevole torma dei demoni e dei reprobi. – Come leone incatenato e furibondo si agita, addenta rabbioso la sua catena e la rode ruggendo, così il dannato si travaglia continuamente a limare coi denti le sue catene, cerca di romperle senza che gli venga mai raggiunto lo scopo…

5ª La separazione da Dio. — L a privazione della vista di Dio forma la principale e più acerba pena dei dannati. Un Dio perduto! questo bene per eccellenza, l’autore, la sorgente di ogni bene; o cielo, che perdita! Può mai l’uomo sentirne tutta l’amarezza, misurarne tutta l’estensione? Non vi è mente che possa comprenderla. Chi vuole farsene una qualche idea, ricordi quell’invincibile brama di felicità di cui siamo tutti assetati. Questa brama è un sentimento profondo che ci signoreggia e ci segue dovunque; è il movente di tutti i nostri disegni, di tutte le nostre imprese e azioni. Questo desiderio è l’opera di Dio medesimo; è Lui che l’ha inserito nel cuore dell’uomo nell’atto medesimo che lo creava. Ora Dio solo può soddisfarlo; Egli ha fatto per sé il cuore dell’uomo ed Egli solo può contentarlo: perciò questo cuore chiama Iddio suo unico e sommo bene. Ma intanto l’uomo, distratto dalle inclinazioni e dal solletico dei sensi, si discosta da Dio e cerca altrove la soddisfazione dei suoi desideri; siccome però è fuori di strada, si sente agitato e conturbato per la mancanza di quell’oggetto che solo può formare la sua fortuna. E chiunque l’ha per poco provato ben può dire quanta inquietudine e quanto affanno gliene venne nei giorni di tale sventura. Viaggiatore sulla terra, se invece di alzare lo sguardo al cielo, lo fissa su ciò che lo circonda, se pone nelle ricchezze, negli onori, nei piaceri l’oggetto della sua felicità, con quanta foga non si getta dietro a queste chimere! Niente lo impedisce e lo trattiene; egli corre al vagheggiato oggetto, i rischi e i pericoli, invece di spegnere le sue voglie, le infiammano, gli ostacoli ne irritano l’ardore. Vedete il guerriero che affronta mille volte la morte sui campi di battaglia, per cingere una corona di quercia! Il mercadante si allontana dalla famiglia, dalla patria, dagli amici, valica monti, passa mari sconosciuti, sfida tempeste e naufragi, in cerca di fortuna. Chi può dire l’impeto violento delle brame di colui che è dominato dall’amore delle creature? La passione s’impadronisce di tutte le sue facoltà; il più breve indugio lo impazienta; il bisogno di possedere quello che ama lo assorbisce per tal modo, che qualche volta diventa più forte che lo stesso amore della vita; non di rado si vedono di quelli che si tolgono la vita per mania amorosa. I disgraziati si uccidono perché non sono riusciti a raggiungere quel fantasma che essi credevano dover formare la loro felicità. O ciechi e stupidi mortali, non vedete voi che niente di ciò che è in terra può soddisfare i desideri del vostro cuore? Mettete pure insieme tutti quanti i diletti, cambiateli, variateli a talento, moltiplicateli senza fine, ma non tardate a sentirne l’insufficienza e il vuoto. Incapaci a sbramare la fame del cuore, questi frutti della terra incantano e seducono all’apparenza, ma appena gustati danno amarezza e putredine. I piaceri, le affezioni del mondo si consumano ben presto e con dolore. Tutto passa e non si lascia dietro se non disgusto, angoscia, ansietà, inquietudine e quella vaga, indefinibile noia che forma, si può dire, la trama della vita umana. No, no, niente può quaggiù riempire il cuore umano; egli è troppo più grande che il mondo; domanda il suo Dio, vuole il suo Dio; cercava il suo Dio anche allora che un oggetto ingannatore lo sedusse e l’illuse… Quaggiù in terra l’uomo distratto e ingannato da ciò che lo circonda, non riflette su questa verità; agli occhi dei mondani poi passa del tutto inavvertita; ma nell’inferno non vi saranno più distrazioni, perché non vi saranno più illusioni. L’anima del peccatore che su la terra dormiva, si sveglia nell’inferno e vi si sveglia per non più addormentarsi. Ella vede, non più accecata e illusa, il suo Dio; lo vede come suo unico bene, come il solo oggetto che possa renderla felice. Ella vi si slancia allora con la celerità del lampo; ma un invisibile braccio la ferma, la respinge, un intervallo immenso la separa dal suo Dio; secondo quel che rispose Abramo dal cielo al ricco malvagio, che lo pregava di una goccia di acqua dall’inferno: « Figliuol mio, un grande abisso sta scavato tra noi e voi: chi vuole passare di qua a voi, non può, né da codesto luogo venire fin qua» — Fili … inter nos et vos chaos magnum firmatum est: ut hi, qui volunt hinc transire ad vos, non possint, neque inde huc transmeare (Luc. XVI, 26). Tuttavia l’anima piombata nell’inferno non cessa di volgere gli occhi al cielo; essa ci vede sempre il suo Dio, ne conosce la grandezza, ne scorge le perfezioni. Gran Dio, va gridando, non c’è dunque più riparo, io vi ho perduto e perdendo voi ho perduto tutto! Bel paradiso, per il quale io era fatta, mai, mai più non ti vedrò! O beato soggiorno; o patria di delizie, le tue porte mi stanno chiuse in faccia per sempre! Un trono di gloria mi stava in te preparato ed ora ne sono sbalzato in eterno! Cari parenti, diletti amici, che ne siete i fortunati abitatori, io vi ho dunque dato un eterno addio! non godrò mai più con voi della vista e della presenza del mio Dio! non gusterò mai di quel torrente di delizie, dal quale voi siete inondati! non sarò mai a parte con voi della vostra gloria! Sul vostro capo splende la corona dell’immortalità e quella ch’era a me destinata l’ho lasciata cader dal mio capo per sempre! Non vi è rimedio; io ho perduto ogni cosa e la mia perdita è irreparabile! – E intanto quest’anima s’infiamma di nuovo ardore, prende nuovo slancio, ma invano! Ella si sente stringere e inchiodare nell’inferno dalle catene che non può spezzare. Chi può immaginarsi l’acerbità di questa tortura; sentirsi attratta e spinta senza posa verso il cielo e vedersi del continuo risospinta e ricacciata nell’inferno! Essa tende a Dio come a suo centro, si porta a Lui con foga impetuosa; le onde di un mare in burrasca che si accavallano, si urtano, si sospingono e rompono senza tregua contro gli scogli, sono una debole immagine dell’agitazione, del turbamento di quell’anima. Dove vai tu, anima colpevole”? Bada che tu voli dinanzi al tuo giudice, tu ti getti nelle braccia del tuo nemico, sotto i colpi di un Dio onnipotente e punitore! Ma no; né questi riflessi, né queste apprensioni, né i castighi che si prepara possono frenare il violento impulso che la trascina. Ella si slancia per necessità di sua natura e il peso della sua iniquità la fa ricadere sopra se stessa; trova nei suoi peccati un muro insuperabile ai suoi più impetuosi desideri. – Ella s’innalza portata dal bisogno immenso che ha del suo Dio e tutti i divini attributi da lei oltraggiati la respingono; Dio la respinge per l’odio necessario che porta al peccato. Ella tenta nuovamente la prova di slanciarsi verso Dio e la rapidità e persistenza dei suoi sforzi le fanno comprendere che era fatta per godere Dio; ne è rigettata e il peso del colpo che la stritola, le fa meglio intendere che ha obbligato Dio a respingerla. Tutto il suo essere, tutte le sue tendenze la trascinano al seno della divinità e quella mano medesima che imprime questi movimenti alla sua volontà, con invincibile forza la respinge da sé. Ella s’innalza per disperazione, Dio la respinge per giusta vendetta. Due terribili movimenti se la palleggiano continuamente: di qua è tratta irresistibilmente verso Dio per possederlo, lontana dai demoni e dal fuoco per schivarlo; di là è costretta a ricadere, respinta da Dio e tirata dai demoni. Essa si spinge senza posa verso Dio e Dio la respingo continuamente; essa fugge sempre dai diavoli e i diavoli la tengono sempre incatenata in fondo all’abisso. Dio al quale essa tende, la fugge; i demoni, ch’essa abbomina, l’abbracciano. Ella fugge se stessa senza potersi fuggire; sospesa tra Dio e i demoni, tra il colmo della felicità e il sommo della miseria; egualmente infelice e quando si sforza d’avvicinare la sorgente di ogni bene e quando n’è violentemente strappata; tanto tormentata quando esce di se stessa, come quando è obbligata a rientrarvi, ella trova il suo Dio senza poterlo possedere, lo desidera senza poter gustare la dolcezza dei suoi desideri; l’odia, senza assaporare il triste conforto che dà talora l’odio; passa dalle tenebre alla luce, dalla luce alle tenebre; va di abisso in abisso, di orrore in orrore; porta l’inferno verso il cielo e riporta l’immagine del cielo fin nell’inferno medesimo. 0 crudele tormento!

6ª Ogni sorta di mali. — Dice S. Cipriano: « Il reprobo, spoglio di ogni vestimento, sarà bruciato da fiamme incorruttibili; il ricco, oggi vestito di porpora, sarà abbandonato nudo all’attività di un fuoco divoratore. Le passioni troveranno il loro supplizio e il loro alimento eterno nei loro propri ardori; i miseri dannati saranno consumati in caldaie roventi. Ahi! Che luogo crudele è l’inferno! luogo di pianto, di gemiti, di singhiozzi. Il reprobo aspira e respira l’orribile incendio dell’abisso e delle fiamme che si slanciano furiose come da un cratere, nell’orrenda notte delle tenebre. Da monti di fuoco franano macigni ardenti su tutti e su ciascuno dei dannati e li schiacciano. Lave bollenti ed infiammate di zolfo e pece e bitume formano un torrente impetuoso che li trascina e travolge in fondo all’abisso, dove restano annegati e seppelliti, come Faraone e il suo esercito nei gorghi del Mar Rosso. Le fiamme ardenti che riempiono l’inferno ne uscirebbero, se trovassero uno spiraglio, ma siccome l’inferno è ermeticamente chiuso col sigillo del Dio vendicatore, le fiamme che ne arroventano la volta si curvano e ricadono su se stesse, avviluppando in mille guise i dannati» (Serm. de Ascens. Domin.). – « Il ricco venne a morte e fu sepolto nell’inferno», disse Gesù Cristo — Mortuus est dives et sepultus est in inferno ( Luc. XVI, 22). Vivendo, aveva sepolto l’anima nella gozzoviglia; eccolo ora morto, giacere nel sepolcro dell’inferno e chiedere per grazia una goccia d’acqua. « O ricco miserabile! esclama il Crisostomo, tu supplichi Abramo e tu t’inganni! Abramo non può darti nulla, né concederti nulla, ma può soltanto ricevere. Specchiamoci in questo ricco che abbisogna del povero!» (Concio. I, de Lazaro). Io brucio in quest’incendio, deh, mi sia data una sola goccia d’acqua! grida il crapulone disgraziato. Ma se il fuoco dell’inferno ti accende tutto intero, gli risponde S. Pier Crisologo, se le fiamme ti circondano, perché non domandi altro sollievo se non refrigerio alla lingua?… Ah, risponde il santo, perché è la sua lingua, quella lingua che insultava il povero e negava l’elemosina, è troppo più atrocemente tormentata che tutte le altre membra (Serm. CXXIV). « Egli implora, dice S. Agostino, una goccia d’acqua da colui che lo aveva pregato di una briciola di pane; la misericordia gli è negata a proporzione della sua avarizia. Questo ricco, sempre duro, sempre spietato, vuole ora venire in aiuto dei suoi fratelli; ma troppo tardi tenero e pietoso, non otterrà nulla di quello che domanda. Il povero Lazzaro si acquista la beatitudine con la stessa sua povertà; il ricco malvagio si procura l’infelicità col suo oro. O ricco! con che fronte implori tu una stilla d’acqua, tu che rifiutasti una briciola di pane? Tu avresti quello che domandi, se avessi donato quello che ti era chiesto» (Serm. CX, de Temp.). – Nell’altra vita, il ricco malvagio ha per palazzo l’inferno medesimo; per vivande il fuoco, lo zolfo, il fiele e rettili di ogni sorta; per profumi la più nauseante e insopportabile puzza; per amici, i demoni; per adulatori, manigoldi che lo flagellano; per sinfonia, pianti, strida, urli orrendi; invece di porpora è cinto di fiamme; zolfo e pece gli servono di vestimenta; ha per luce le tenebre, per compagnia i demoni i quali come cani arrabbiati, si mordono e lacerano tra di loro. Insomma tutti i membri del corpo, tutte le facoltà, tutte le potenze dell’anima, che furono strumento ai piaceri, sono tormentate da castighi e flagelli propri a ciascun senso e a ciascuna facoltà… – « Il reprobo, dice l’Apocalisse, beverà del vino dell’ira di Dio, mescolato col vino schietto nel calice della sua vendetta e sarà tormentato con fuoco e zolfo » — Bibet de vino iræ Dei, quod mixtum est mero in calice iræ ipsius, et cruciabitur igne et sulphure (Apoc. XVI, 10). Meditino i peccatori su queste frasi e vi troveranno i frutti e i castighi del peccato in queste pene: 1° Il dannato beverà il fiele della collera del Signore… 2° Questo fiele sarà senza goccia d’acqua, ossia di consolazione e farà le veci di ogni genere di supplizio… 3° Il reprobo si ciberà di fuoco e zolfo… 4° Sarà oggetto di scherno e di vitupero agli angeli ed ai santi, in presenza dell’Agnello… 5° Il fumo dei suoi tormenti esala per i secoli dei secoli… 6° Non godrà un istante di tregua… Considerando queste cose, dicano a se stessi: vorremo noi essere così pazzi, che per un sorso di miele ingannatore, per un piacere passeggero, ci anneghiamo in un mare di fiele? saremo così storditi, che per una soddisfazione vergognosa ci gettiamo a occhi chiusi per sempre nell’inferno? Ah no! non sia mai! quello che quaggiù diletta, passa in un attimo, quello che nell’inferno tormenta, dura in eterno: — Momentaneum quod delectat, æternum. quod cruciat (AUG., Serm. XC). – «L’inferno, scrive Ugo da S. Vittore, è un luogo che non si può misurare, è un baratro senza fondo, pieno di ogni sorta di dolori e di tutti i tormenti immaginabili» (Lib. IV, de Anim.). In esso è lo scolo di ogni feccia di ribaldi, di assassini, di adulteri, di ladri, ecc. … La vista è del continuo funestata da orribili spettri, da spaventosi fantasmi; la carne è assiderata dal più intenso freddo mentre divampa accesa d’inestinguibile fuoco. Oltre ciò, ogni passione vi trova il suo speciale castigo: il beone sarà arso da una sete divorante, e avrà per bevanda il fiele; l’orgoglioso sarà coperto di onta e di ignominia, di fango, di marciume; l’impudico ingoierà fuoco; il vanitoso vestirà sudici cenci; l’avaro sarà nella miseria; l’accidioso sarà eternamente stimolato, punzecchiato e senza riposo; la bellezza si muterà in ributtante laidezza; la potenza in schiavitù; la gloria in vitupero… Dio, secondo le energiche allegorie del Salmista, pioverà lacci sui miseri dannati, assegnerà per loro porzione il fuoco, lo zolfo e il turbinìo delle procelle, li abbevererà alla coppa di un’amara mistura; e della feccia di quel calice, che andrà qua e là spargendo, saranno costretti a bere tutti quanti i peccatori: — Pluet super peccatores laqueos; ignis et sulphur, et spiritus procellarum pars calicis eorum (Psalm. X, 6). — Calix in manu Domini vini meri plenus misto; fæx eius non est exinanita; bibent omnes peccatores terræ (Psalm. LXXIV, 7-8). Ecco l’orrendo quadro che dei terribili spettri infernali ci dà il Savio: « Là sono animali di generi non più veduti, di sconosciute forme, di inaudita ferocia; dalla bocca vomitano fuoco, dalle nari sbuffano nubi di denso fumo, sprizzano dagli occhi fiamme ardenti; con i morsi uccidono, col fiato appestano, la sola vista fa allibire di spavento » — Novi generis, ira plenas, ignotas bestias, vaporem igneum spirantes, fumi odorem proferentes, horrendas ab oculis scintillas emittentes, quarum non solum læsura poterat illos exterminare, sed et aspectus per timorem occidere (Sap. XI, 19-20). « Là tonfi di pietre che rotolano, muggire di belve, scorrazzare di animali, da cui rintrona fra quei monti di fiamme, un’eco spaventosa » — Sonus præcipitatarum petrarum, animalium cursus, mugientium valida bestiarum vox, resonans de altissimis montibus echo, defìcientes faciebant illos præ timore (Ib. XVII, 18). Tutto si rivolta contro i reprobi e muove loro accanitissima guerra… Nel mondo, il peccatore abusava di ogni cosa, tutto insozzava, tutto profanava; nell’inferno tutto gli si convertirà in istrumento di supplizio e di tortura … Immaginate quanti generi di tormenti, di strazi, di pene può inventare la più raffinata barbarie e pensate che, messe a confronto del fuoco e dei patimenti dell’inferno, non danno che una smorta immagine, un’ombra leggera della realtà. Là si avvera in tutta la sua crudezza ed estensione quella minaccia del Signore: « Accumulerò sopra di loro tutti i mali, lancerò contro di essi tutte le mie saette » — Congregabo super eos mala, et sagittas eas complebo in eis (Deuter. XXXII, 25). Li darò in cibo alle belve, li getterò preda al furore dei serpenti; saranno consunti dalla fame e serviranno di pasto agli uccelli di rapina (Ib. 24). – Nell’inferno è un continuo piangere, gemere, urlare, tremare della persona e digrignare i denti. E un oceano immenso di fuoco che si agita, s’innalza e si sprofonda; sono ondate di fiamme che s’incalzano, si accavallano, mugghiano e trascinano una turba di uomini e di demoni, che si sfiatano senza posa in strazianti e disperati lamenti. Bruciare nel fuoco, gridando mercé senza speranza; non poter né uscire, né muoversi di quella nera prigione, di quel tenebroso caos; essere guardato da manigoldi feroci, carico di catene, inseguito continuamente dai demoni con artigli da sparviere, flagellati a colpi di frusta; tuffati nelle fiamme, annegati i n un torrente di pece e zolfo; distesi su letti di carboni ardenti, inestinguibili; perseguitati dal verme roditore, da un giudice inesorabile; non trovare scampo, non sperare difesa da nessuna creatura, ma da tutte essere accusato: ecco la condizione dei dannati, esclama S. Cirillo Alessandrino (Orat, de Animæ excessu). I reprobi nell’inferno sono rosi dall’invidia, dalla, gelosia, dalla collera, dall’odio, dalla tristezza, dalle angosce, dai rimorsi, dalla disperazione… – La pena dell’inferno è pena lunghissima che si perde nell’eternità; è pena estesissima, che affligge tutti i sensi, tutti i membri del corpo, tutte le potenze, tutte le facoltà dell’anima; è pena altissima, che priva di Dio, del cielo, della felicità degli eletti; è pena profondissima, che crocifigge l’interno dell’anima, la inchioda in fondo all’abisso infernale… « O quanto è grande, esclama S. Prospero, la disgrazia di essere estraneo dall’ineffabile gioia della divina contemplazione, venire escluso dalla beata società dei santi, di non giungere mai alla cittadinanza del paradiso, di essere morto alla vita del cielo, di vivere per l’eterna morte; di essere cacciato per sempre, col dragone e con gli angeli suoi, nello stagno del fuoco, dove si trova la seconda morte, l’esilio, la dannazione, il supplizio della vita; di stare sepolto in mezzo a fiamme tenebrose, in un lago di fuoco che arde e non consuma mai, che abbrucia e agghiaccia a un tempo; di non vedere nulla e di soffrire tutti i tormenti immaginabili! Là sono gemiti incessanti, crocifissione perpetua, dolore infinito! Pensare a queste pene, vuol dire dare l’addio a tutti i vizi e ripudiare tutte le seduzioni delle passioni » (De Vita contemp. lib. III). – Nell’inferno, il fuoco punisce la lussuria dei reprobi; una tempesta di pietre infiammate fiacca la loro boria e il loro fasto; la fame castiga la loro golosità; la morte colpisce la loro vita empia e scandalosa; le zanne delle bestie feroci dilaniano la violenza e la tirannia con cui oppressero i poveri e le anime pie. Il leone li sbrana; lo scorpione li strazia; il serpente fa loro scontare la malignità e la gelosia che li ha travagliati. Onta, confusione eterna! Là i più ricchi non si distinguono dai pezzenti; i più alti giacciono nell’infimo luogo; i più saggi sono convinti di essere stati i più stolti; coloro che si stimarono di più sono i più disprezzati; i più vanitosi della loro bellezza sono i più schifosi; quelli che furono più profumati saranno i più fetenti; quelli che amavano dominare su tutti sono calpestati da tutti, ecc…. [1- Continua]

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.