GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: 1° corso di ESERCIZI SPIRITUALI “LA PERFEZIONE” (10)

GREGORIO XVII:

IL MAGISTERO IMPEDITO

I. corso di ESERCIZI SPIRITUALI

LA PERFEZIONE

(10)

12. La legge dell’amore

Inserirsi pienamente nell’ordine soprannaturale è condizione essenziale per raggiungere la perfezione. Ho detto le diverse condizioni per inserirsi pienamente nell’ordine soprannaturale. Alcune le ho dipanate, un’altra l’ho lasciata da dipanare, vi ho accennato soltanto per compiutezza d’elenco, ed è questa: il nostro comportamento morale coerente a quell’ordine. – Si tratta di questo. A Dio, il quale oltre l’ordine della creazione ci ha dato l’ordine soprannaturale e la Redenzione, noi dobbiamo dare qualche cosa. Questo è estremamente logico. A Dio che ci ha dato più della vita e del cosmo in nostro uso, ma che ci ha aperto un mondo infinitamente più grande di noi, che ci ha prospettato un più vasto orizzonte, dobbiamo dare, col nostro contegno morale, qualche cosa di più. È qui dove si vede la valutazione degli uomini onesti che sanno. Molti non sanno. Ma quelli che sanno debbono trarre una conclusione, semplice, spontanea, la cui logica è evidente. A Dio bisogna dare qualche cosa di più di quello che la semplice morale umana forse sarebbe disposta a concedere. È questo di più che importa mettersi bene in testa. La formula stessa: qualche cosa di più, è una formula che indica generosità. E allora ci rimanga nella mente che noi diamo questo di più in quanto entriamo in una formula di generosità, dove non si fanno i piccoli conti, dove non si aguzza l’ingegno per poter definire fino a quale punto si riesca a fare il proprio comodo senza offendere Dio. Questi discorsi non hanno più posto e ragione. A Dio si deve dare di più. Si deve di più per una ragione ontologica che è quella della proporzione. Inseriti nella grazia col Battesimo, noi non siamo più per Iddio semplici creature, noi siamo figli, e allora il livello morale deve alzarsi, dal piano dei servi deve arrivare al piano dei figli. C’è stato un cambiamento ontologico nella nostra situazione; ci deve essere un pari cambiamento ontologico nel nostro comportamento morale. Dal piano dei servi al piano dei figli. Tutti capiscono che non è lo stesso piano, e del resto anche fra gli uomini la differenza fra i due piani è evidentissima e generalmente si presenta come alquanto odiosa. Ma qui siamo con Dio. A Dio bisogna dare quello che corrisponde alla dignità di figli che Lui ci ha data. – Dove possiamo prendere per dare a Dio nel margine che egli ha lasciato a nostra discrezione? Il margine che ha lasciato a nostra discrezione è quello in cui siamo liberi di scegliere tra il più e il meno; perché veramente ci muoviamo con l’intera responsabilità, e pertanto con la nostra imputabilità e col nostro intero merito. Dobbiamo restituire. Che cosa restituiremo? Nel momento in cui moriremo restituiremo la vita che Dio ci ha dato; tanto se la prenderebbe ugualmente. Ma è nella nostra libera elezione che noi abbiamo la capacità di poter fare una restituzione dignitosa, una di quelle restituzioni che avvengono non per naturale svolgimento delle cose. Accade che talvolta gli uomini superbi accettino, cioè si pieghino a Dio nel momento in cui muoiono, perché allora si curvano, piegano la schiena davanti a Dio. Che merito c’è? C’è un’altra ragione perché noi dobbiamo dare di più. E ‘ per la nostra assimilazione a Gesù Cristo. Dite un po’: dobbiamo lasciarlo solo sul Calvario? Solo sulla croce a offrirsi per tutti gli altri e a perdonare a quelli che lo insultano? Dobbiamo lasciarlo solo? Ma che faccia avremmo noi? Che dignità ci rimarrebbe, non dico di cristiani ma di uomini, se sul Calvario lo lasciassimo solo? E ‘ ovvia la ragione. Noi dobbiamo dare a Gesù Cristo, a Dio nostro Padre e nostro Salvatore, più di quello che esige la semplice morale umana. Mi pare tanto evidente! – Ora veniamo al pratico. Il di più dove ci viene descritto? Nell’Evangelo. E tutto l’Evangelo forza i limiti della morale umana, perché esso odia la morale consuetudinaria, che è stata insegnata dai saggi, dagli uomini onesti fuori del Cristianesimo. – Prendiamo la morale mosaica e vediamo che arriva a certi limiti e a quei limiti si ferma. Il Vangelo questi limiti li forza tutti. Non sarebbe pedagogico richiamare del Vangelo tutto quello che induce il di più; pertanto io mi soffermo su alcuni punti che sono estremamente caratteristici, sono tali che, assolti quelli, è assolto tutto il resto. – Il punto certamente più caratteristico è quello dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo. Nostro Signore ha detto: « Chi vuole essere con me, chi vuole venire dietro di me, prenda la sua croce e mi segua ». Quando egli diceva queste parole, aveva dinanzi l’ombra della propria croce; gli altri forse non hanno capito niente perché, per quanto già ci fosse stato un annuncio della Passione del Signore, essi erano assolutamente riottosi su questo punto e non ne volevano sentir parlare. Basta ricordare la reazione di Pietro: « Dove vai tu, vengo anch’io ». Erano riottosi, non avevano le orecchie aperte a sentir parlare di croce. Io penso che quando Gesù ha detto quella frase, gli apostoli non abbiano capito niente; a ogni modo l’ha detta sapendo che l’avrebbero capita poi, dopo il commento che Egli ne avrebbe fatto con la sua vita. Comunque rimane che Gesù ha detto che chi vuole andare dietro di Lui deve prendere la croce. La croce è una caratteristica del più che noi dobbiamo restituire al nostro Salvatore. Leviamoci dalla testa che la via della perfezione sia una via asfaltata, senza ostacoli, senza salite e senza discese, in piano, in mezzo ai boschi d’estate per avere fresco, senza ombre d’inverno per goderci il sole. No, la via della perfezione non è questa. Bisogna scuotere l’anima nostra da un certo preconcetto che disegni l’avvenire un po’ con la liturgia del Natale, un po’ con la liturgia della Pasqua, un po’ col canto dei fringuelli e così via. Una composizione di colori, tutti ben dosati, in rapporti tonali armonici, se non perfetti, e poi molta luce, e per di più il gaudio delle cose eterne, e poi tante belle consolazioni spirituali, e poi tanti sorrisi e tante belle cose col sorriso di ritorno. No, questa non è la via della perfezione. La via della perfezione è quella della croce. Gesù ha detto che la via che conduce alla vita è stretta e che la porta è angusta: metafora di commento alla via della croce. – Noi non possiamo prescindere da questo concetto, che la via della perfezione deve essere necessariamente una via della croce. Questa non è un’affermazione spaventosa, perché io non ho detto che sulla croce ci si rimanga attaccati tutta quanta la vita. Nostro Signore sulla croce c’è stato tre ore e poi è morto. Ma la croce ci deve essere nella vita e non la si deve respingere; la si deve accettare, e bisogna anche un po’ cercarla: e non vi sembri violento questo, non vi sembri sadismo, perché il cercarla fa un po’ da contrappeso alla voglia di scappare quando c’è, e così si tiene l’equilibrio; ma anche perché il cercarla anche quando non c’è, dà la misura della nostra generosità e del nostro amor di Dio. Voi sapete che i sacrifici si distinguono in diverse categorie. C’è un sacrificio che è legato all’adempimento di qualche dovere, perché tutti i doveri costano in qualche momento. Ci sono dei doveri che sono piacevoli, ma non resistono ad essere sempre piacevoli, e talvolta debbono diventare spiacevoli anche per il fatto che, se non si rovesciano loro, ci rovesciamo noi; ma possono diventare anche pesanti e talvolta dolorosi, di dolore anche lancinante. E allora il sacrificio bisogna farlo. Ma c’è un altro ordine di sacrifici: vi sono dei sacrifici che non sono direttamente collegati coi nostri doveri, e tra questi possiamo scegliere. Qualcuno è leggero, ma non dobbiamo eleggerne il numero maggiore possibile, dobbiamo orientare la nostra simpatia verso le cose che ci piacciono meno, che ci soddisfano meno e costano di più. Noi possiamo dire d’aver raggiunto una buona quota nel cammino della perfezione quando saremo così snodati da essere quasi nella santa indifferenza per quello che ci piace di più e quello che ci piace di meno, per quello che ci costa di più e quello che ci costa di meno, tali da fare con la stessa facilità le cose che ci costano di più e quelle che ci costano di meno, tali da fare con lo stesso sorriso le cose che ci sono antipatiche e quelle che ci sono simpatiche. – Allora si arriva a quello che gli asceti chiamano lo stato di indifferenza, che non è lo stato d’inedia, d’ignavia, d’assenza del sentimento, tutt’altro; è lo stato della positiva e volitiva perfetta padronanza di sé stessi. Ma a questo stato non si arriva se non in molti anni, e bisogna cercare di far pendere la scelta dalla parte delle cose che non piacciono e che costano piuttosto che dalla parte delle cose che sono di nostro gusto e di nostra simpatia e che sono fatte per riempirci di gloria, di diletto, che costituiscono un perenne diversivo. Non dico che, almeno in partenza, debbano essere eliminati tutti i diversivi della nostra vita; non sarebbe certo una buona norma per chi è ai primi passi e per chi di passi ne ha fatti pochi: bisogna essere umani. Però man mano che si va avanti, diminuisce il bisogno di mettere il diversivo nella vita, salva si capisce la ragione della sanità. Perché, specialmente quando si debbono fare i conti con questi poveri mezzi di cui disponiamo noi esseri umani, possiamo benissimo volere, ma talvolta abbiamo un frate asino che strepita e che a un certo momento, in certe situazioni non tratteniamo più, non controlliamo più. E talvolta, bisogna dirlo, il lavoro consuma non la vita ma il sistema nervoso, e si arriverà a un certo punto in cui ci sarà qualche cosa in noi che è diventato la nostra penitenza costante, che noi non teniamo più in mano. – Ma quando si arriva a questo stato, che è di malattia, stato patologico, allora avverrà la nostra ascesi, la grande ascesi. Allora bisogna pure mettere tra i casi possibili situazioni che non dipendono più da noi, ma che si debbono semplicemente subire; e può essere che soltanto nel fatto di subirle vi sia un immenso merito. Perché qualche volta ci sono delle paralisi che non sono affatto colpa, ma sono semplicemente croci che si aggiungono, costituiscono una umiliazione che Dio permette perché sia maggiore il merito della nostra vita. – Ma qui entriamo in una casistica marginale. Io dovevo accennarvi almeno, perché devo anche supporre che qualcuno dei miei ascoltatori potrebbe trovarcisi un giorno. E allora prenda coraggio; ci sarà sempre una soluzione, perché una soluzione c’è sempre per tutto. Ci possono essere delle soluzioni più su, delle soluzioni più giù, vi sono delle soluzioni che possono sembrare anche così, da meschinelli. – Ma le soluzioni possono sempre salvare la ragione della perfezione anche nella peggiore delle situazioni, perché anche quando non si vince trionfando, si vince perdendo; anche quando non si vince conquistando, si vince cedendo a Dio tutto quello che si ha, buono o cattivo che sia. – Comunque è certo che la via della croce bisogna abbracciarla e che accanto ai sacrifici che si devono accogliere, perché sono insiti, connaturati, immanenti nell’esercizio del proprio e semplice stretto dovere, ce ne sono altri che si possono scegliere. Il limite della sufficienza non è un limite degno dell’amore. Quando Gesù ha voluto fare un dono al suo Vicario e dargli un onore, gli ha profetizzato il martirio: « Quando sarai vecchio, stenderai le mani, e un altro ti cingerà e ti condurrà dove non vorresti ». Pietro se ne sarebbe ricordato, e quando è venuto il momento, non ha voluto che la croce fosse rizzata nel modo normale, ha chiesto e ottenuto che la croce fosse capovolta. Così è andato in croce, e così l’annuncio del Salvatore si è adempiuto: nella sua libera elezione egli ha voluto morire rovesciato, con la testa in giù. Non si sentiva dì fare da controfigura al suo Salvatore. Il dono che ha fatto Gesù Cristo al suo primo Vicario, badate, è stata una croce, e glielo ha detto per tempo affinché la vedesse per tutta la vita. Non che gli apparisse l’ultimo “giorno e che per tutta la vita se ne stesse giubilando di primavera, ma che la vedesse tutta la vita, perché fosse in grado di accettarla tutta la vita, di volerla tutta la vita. – Io non so molto dell’intimo di Pietro, ma forse non vado lontano dal vero dicendo che la sua conclusione, la preghiera fatta: rovesciate questa mia croce e mettetemi con la testa in giù, non era altro che il frutto di una meditazione durata tutta la vita. Ci è arrivato preparato dignitosamente e con la ferma volontà di volerla e accettarla, ma di toglierle la somiglianza con Gesù Cristo; non se ne sentiva degno. E forse la sua ultima preghiera è proprio la rivelazione di una contemplazione e di una accettazione che è stata costante per tutta quanta la sua vita. Il dono di Cristo al suo Vicario è stata la croce. Non esattamente una croce d’oro, ma una croce autentica; non una croce sul petto, una croce dietro le spalle. – Ora voi capite che non è possibile che noi allontaniamo la croce dalla nostra vita cercando di imbottire tutte le pareti. Non dobbiamo allontanarla, certi che quando essa compare, quando già si delinea, è quello il momento di Dio. È quello il momento del massimo amore nostro per Lui. Il Vangelo è questo: Vangelo concreto, Vangelo austero, Vangelo duro. – Tra le cose che Gesù ci ha detto nel Vangelo ne prendo una che pare l’ultima, ma che è riassuntiva, perché se si riesce a fare quella, si fa tutto il resto. E questa non me la invento affatto. C’è un apostolo, cugino di Gesù Cristo, che ha scritto una lettera, è la Lettera Cattolica di S. Giacomo. Vi pregherei di leggerla. Perché questa lettera non indugia, come avrebbe fatto S. Giovanni, sulla carità, che è certamente il centro della elevazione morale cristiana; questa indugia invece su un’altra parte, indugia sulla lingua. E come dice che la lingua è l’università di tutte le iniquità, dice anche che è il concentrato di tutte le verità e virtù. Un apostolo che la sapeva lunga, e non soltanto perché era cugino di Gesù Cristo ma per molti altri motivi, ed era divinamente ispirato, ha richiamato i cristiani su quel punto. – Del resto quel che si vede di più negli uomini è che la lingua non la sanno tenere a posto. L’argomento è interessante, è un rigoroso, un forte argomento che va trattato con grande acutezza, ed è per tutti questi motivi che io l’ho messo qui davanti. Nel di più che dobbiamo dare a Dio c’è anche questo: che dobbiamo tenere la lingua a posto. Voi sapete bene che se si riesce a tenere la lingua a posto vuol dire che abbiamo tutte le virtù, perché questa arriva per ultima, non per prima. Quando si arriva a non giudicare più il proprio prossimo, a non prendersi più la soddisfazione di starsi a sentire, quando si arriva al punto di non rivelare quello che si sa di meno onorevole del nostro prossimo, di non pronunciare più nessuna parola forte, di contenere sempre la parola nei limiti dell’onesto e dell’utile al prossimo, togliendone tutto quello che può per il prossimo diventare incitamento non solo al male, ma a situazioni meno nobili e meno sicure, è garantito che noi abbiamo raggiunto la stabilità della virtù. – Quando dieci anni fa io stavo pensando a una norma riassuntiva da dare ai miei cappellani di fabbrica, dopo aver pensato e ripensato, ho concluso col dire così: « Io vi chiedo due sole cose, il resto sono sicuro che vien da sé; datemele, vi chiedo poco. Vi chiedo di non fumare mai e vi chiedo di non dire mai male del vostro prossimo, chiunque esso sia. Se mi date solo questo, io sono contento, ne ho abbastanza ». Sono passati dieci anni e debbo dire che in sostanza mi hanno dato tutte e due le cose, forse perché sono stato discreto nel chiedere. Ho pensato che bisogna levarsela questa sigaretta dalla bocca, perché non credo che i nostri fratelli, e parlo a voi sacerdoti, abbiano di noi stima quando ci vedono sul loro piano, con le loro stesse debolezze; bisogna che ci vedano su un piano più alto, dove ci ha messo Nostro Signore Gesù Cristo. Ci devono vedere più in su, bisogna che vedano in una forma tangibile che noi non abbiamo le loro stesse abitudini e che di qualche abitudine, che per loro può essere onesta se contenuta entro certi limiti, noi sappiamo essere al di sopra. È un errore credere che per essere vicini ai nostri fratelli dobbiamo assumere i loro difetti o, se non i loro difetti, i loro usi umanissimi e i loro divertimenti. – Poi ho chiesto loro di non dir mai male del prossimo, salvo ben inteso quando c’è un dovere da compiere, quando devono dare rapporti doverosi; e allora devono dire le cose come sono, allora è dovere d’ufficio, non è la propria voglia, il proprio orgoglio, la propria soddisfazione; allora non si parla in funzione della persona propria ma in funzione di un incarico. Quando si parla per dovere, viene quella naturale castigatezza, quella connaturale prudenza, sovente quella discrezione che tutela noi nella virtù. – Non dire mai male di nessuno. Quando arriveremo a non lasciar mai uscire dalle nostre labbra una parola oziosa, quella parola oziosa della quale parla l’Evangelo; quando arriveremo a non giudicare più nessuno, riservandoci di giudicare soltanto se gualche volta avremo l’ufficio di giudici; quando saremo arrivati a non prendere più nessuna soddisfazione a danno del nostro prossimo, allora potremo dire d’aver salito alcune rampe della scala che porta a Dio e di aver fatto un cammino lungo nella via della perfezione. Nostro Signore Gesù Cristo ci ha detto che saremo giudicati anche di una parola oziosa. S. Giacomo vi ha fatto il commento. E allora, dovendo parlare del di più che dobbiamo dare a Gesù Cristo perché ci ha portato in un ordine soprannaturale, come vedete ho preso un po’ di là e un po’ di qua. Ho preso la legge dell’amore che è la croce. E poi ho preso quest’altra, tante volte trascurata massima evangelica, che sembra un epilogo, ed è effettivamente un epilogo. Però è una di quelle porte strette che, se si vogliono passare, bisogna diventare piccoli per forare, e diventando piccoli, ci si entra; si prendono le nostre giuste proporzioni, quelle che Dio ci vuol vedere addosso per guardarci con sguardi di compiacenza. Non sarà in sé stesso la pienezza della carità e della grazia il dominio sulla lingua, però è certo che per poterlo possedere bisogna avere e la pienezza della carità e la pienezza della grazia. E ‘ uno di quegli elementi di controllo, di quei traguardi che sembrano più materiali degli altri; però, materiali come sono, a volerli toccare si deve fare tutto e avere tutto. Si deve avere la pazienza, la discrezione, l’umiltà, il dominio di sé, la chiarezza intellettuale, la verità nell’anima, la semplicità, tutto. Se questo non c’è, si parla, si parla strabocchevolmente, si rompono i timpani del nostro prossimo, come i fiumi che fanno delle vere alluvioni. Ma se la lingua la tenete a posto, non c’è alcun dubbio, domani vi si canonizzerà.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.