DOMENICA XXIII dopo PENTECOSTE – VI quæ superfuit Post Epiphaniam

 

DOMENICA XXIII

Dominica VI quæ superfuit Post Epiphaniam

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Jer XXIX: 11; 12; 14
Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. [Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]
Ps LXXXIV: 2
Benedixísti, Dómine, terram tuam: avertísti captivitátem Jacob.
[Hai benedetta la tua terra, o Signore: hai distrutta la schiavitú di Giacobbe.]

Dicit Dóminus: Ego cógito cogitatiónes pacis, et non afflictiónis: invocábitis me, et ego exáudiam vos: et redúcam captivitátem vestram de cunctis locis. [Dice il Signore: Io ho pensieri di pace e non di afflizione: mi invocherete e io vi esaudirò: vi ricondurrò da tutti i luoghi in cui siete stati condotti.]

Oratio
Orémus.
Præsta, quǽsumus, omnípotens Deus: ut, semper rationabília meditántes, quæ tibi sunt plácita, et dictis exsequámur et factis.
[Concedici, o Dio onnipotente, Te ne preghiamo: che meditando sempre cose ragionevoli, compiamo ciò che a Te piace e con le parole e con i fatti.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Thessalonicénses
1 Thess 1: 2-10
Fratres: Grátias ágimus Deo semper pro ómnibus vobis, memóriam vestri faciéntes in oratiónibus nostris sine intermissióne, mémores óperis fídei vestræ, et labóris, et caritátis, et sustinéntiæ spei Dómini nostri Jesu Christi, ante Deum et Patrem nostrum: sciéntes, fratres, dilécti a Deo. electiónem vestram: quia Evangélium nostrum non fuit ad vos in sermóne tantum, sed et in virtúte, et in Spíritu Sancto, et in plenitúdine multa, sicut scitis quales fuérimus in vobis propter vos. Et vos imitatóres nostri facti estis, et Dómini, excipiéntes verbum in tribulatióne multa, cum gáudio Spíritus Sancti: ita ut facti sitis forma ómnibus credéntibus in Macedónia et in Achája. A vobis enim diffamátus est sermo Dómini, non solum in Macedónia et in Achája, sed et in omni loco fides vestra, quæ est ad Deum, profécta est, ita ut non sit nobis necésse quidquam loqui. Ipsi enim de nobis annúntiant, qualem intróitum habuérimus ad vos: et quómodo convérsi estis ad Deum a simulácris, servíre Deo vivo et vero, et exspectáre Fílium ejus de coelis quem suscitávit ex mórtuis Jesum, qui erípuit nos ab ira ventúra.

OMELIA I

[Mons. Bonomelli: Omelie, vol IV, Omelia XXIII – Torino, 1899 ]

“Noi rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, facendo incessantemente memoria di voi nelle nostre preghiere. Ricordando la vostra fede operosa e la vostra fede travagliata e la costante speranza nel Signor nostro Gesù Cristo, al cospetto di Dio, Padre nostro, sapendo, o fratelli a Dio cari, la vostra elezione. Poiché il nostro Evangelo presso di voi non consistette soltanto in parole, ma anche in potenza ed in Spirito Santo, ed ogni pienezza, come avete veduto quali fummo tra voi per voi. E voi diventaste imitatori nostri e del Signore, ricevendo la predicazione fra grandi tribolazioni, con gaudio dello Spirito Santo. Tantoché siete stati di esempio a tutti i credenti nella Macedonia e nell’Acaia. Perché non solo la parola del Signore è passata a voi nella Macedonia e nell’Acaia, ma anche la fede che avete in Dio si è divulgata in ogni luogo, sicché non è bisogno di parlarne. Perché essi stessi raccontano di noi quale fosse la nostra entrata tra voi, e come dagli idoli vi convertiste a Dio, per servire al Dio vivo e vero, e per aspettare dal cielo il Figlio di lui (cui suscitò dai morti) Gesù, il quale ci salverà dall’ira ventura „ (I ai Tessalonicesi, I, 2-10).

In ordine di tempo questa lettera di san Paolo ai fedeli di Tessalonica, oggi dì Salonikì, una delle capitali della Macedonia, è la prima delle quattordici lettere che di lui abbiamo. L’Apostolo, vi aveva in breve tempo fondata ma Chiesa numerosa e fiorente (Atti Ap. XVII), composta specialmente di Gentili; poi costretto a partire di là per le persecuzioni degli Ebrei, era andato a Berea, poi ad Atene e finalmente a Corinto. Da Corinto aveva mandato Timoteo a Tessalonica, ed avute da lui ottime novelle di quella Chiesa, scrisse questa prima lettera, l’anno 53 o forse 54 dell’èra nostra. Essa è quasi tutta morale, e le sentenze riportate, che formano il primo capo, sono uno sfogo affettuoso del suo cuore paterno, e contengono una lode grandissima della fede di quei suoi figliuoli. Ed ora alla spiegazione. Questa prima lettera ai Tessalonicesi, come parecchie altre di S. Paolo, è scritta a nome suo e di alcuni altri, suoi compagni e cooperatori nelle fatiche dell’apostolato. I suoi compagni e cooperatori qui nominati sono Silvano o Sila, e Timoteo, e perciò non vi deve far meraviglia se l’Apostolo parla in comune e, secondo il suo costume, comincia dagli auguri e dai rallegramenti, dicendo: “Noi rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi …” Tutto ciò che gli uomini fanno di bene, in qualunque ordine di cose, è sempre fatto con l’aiuto di Dio, senza del quale essi non possono far nulla: è dunque giusto che del bene che l’Apostolo vedeva nei suoi Tessalonicesi, ne rendesse grazie a Dio, il quale ne era la causa prima e principale. Ben è vero che questo bene era proprio dei Tessalonicesi, ma la vera carità ci fa considerare il bene altrui come nostro; il perché come del bene nostro, così del bene che vediamo in altrui, dobbiamo ringraziare Iddio, la carità rendendo comune ogni cosa. La ragione, e più assai lo spirito di fede, ci portano in tutte le cose e in tutti gli avvenimenti ad elevarci al di sopra della terra, a fissare gli occhi della mente in Lui, che è il supremo Reggitore e fonte d’ogni bene e ringraziarlo dei doni, dei quali ci è largo ad ogni istante: ecco perché S. Paolo apre la sua lettera con quelle parole: “Noi rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi. Non fa eccezione per alcuno, non mette restrizioni di tempo: “Per tutti e sempre. „ – E non solo S. Paolo con i suoi colleghi porge vivi rendimenti di grazie a Dio per i suoi figli spirituali, ma protesta di fare “incessantemente memoria di essi nelle sue preghiere. „ La carità vuole che procuriamo il bene per noi possibile ai nostri fratelli, giacché una carità inoperosa non si può nemmeno concepire. Ma tu dici: Io non posso far nulla di bene ai miei fratelli; sono povero, sono ignorante, i miei fratelli sono lontani, sono moltissimi, non li conosco nemmeno di nome: qual bene volete ch’io possa fare ad essi?  Grandissimo ed ogni giorno. — In qual maniera? — Facilissima. Non puoi tu pregare il buon Dio, il Padre celeste per essi? — Sì. — Ebbene, pregalo adunque per te, per i fratelli tuoi, per tutti, siano credenti o non credenti, siano buoni o malvagi, e tu hai procurato loro quel maggior bene, che per te sia possibile: tu hai imitato l’Apostolo, che nelle sue preghiere si rammentava sempre dei suoi cari neofiti di Tessalonica. La preghiera fatta a vicenda ci stringe tutti nei dolci vincoli della carità, ci affratella e sale a Dio più accettevole, è l’aiuto scambievole più facile e più efficace che possiamo prestarci quaggiù sulla terra. S. Paolo, mentre ringrazia Dio e lo prega per i Tessalonicesi, rammenta eziandio le ragioni, che a lui li facevano cari. Quali ragioni? Anzitutto la loro fede operosa: Operis fidei veitræ. Fondamento della vita cristiana, lo dissi più volte, è la fede, il conoscimento cioè di Dio e delle verità rivelate per lui, che teniamo con la più irremovibile certezza. Ma che vale il conoscimento della verità senza le opere della verità? Ciò che vale il fondamento senza la fabbrica, il seme senza il frutto, il disegno senza l’edificio. La fede si compie nelle opere, e per questo S. Paolo, facendo l’elogio dei Tessalonicesi, scrive che ricordava bene la loro fede operosa, cioè la loro condotta conforme alla fede. Dilettissimi! Noi, per divina bontà, abbiamo la fede dei Tessalonicesi: ma con essa abbiamo anche le loro opere? Se Paolo comparisse in mezzo a noi e fosse testimonio della nostra condotta quotidiana, potrebbe dire di noi: « Vedo la vostra fede operosa? „ Io non lo so! E la risposta la lascio alle vostre coscienze. Ciò che so e vedo è che molti cristiani vivono come se non fossero cristiani, a talché se si trovassero in mezzo a pagani difficilmente si potrebbero da loro distinguere quanto alla condotta morale. Sono cristiani perché battezzati e perché essi stessi si professano cristiani; ma le loro opere ohimè! non sono da cristiani. Quale contraddizione! quale vergogna per il nome cristiano! quale argomento di bestemmia contro la nostra santa Religione! Dirsi cristiani e vivere quasi da pagani! “La fede, scrive altrove l’Apostolo, è la prima, poi la speranza, e poi la carità, e maggiore di tutte, quasi corona delle altre, è la carità : „ sono quelle tre virtù, che avendo per oggetto Dio, si dicono anche teologali, e senza di esse è impossibile salvarci. Qui pure san Paolo le ricorda, invertendo lievemente l’ordine; infatti dice: ” Rammentando l’operosa vostra fede e la carità travagliata e la costante speranza: Laboris charitatis et sustìnentìæ spei. Penso che S. Paolo chiami travagliata la carità e costante la speranza dei Tessalonicesi, perché dovevano aver sofferte molte molestie e gravi tribolazioni per la fede, ancorché noi non ne conosciamo i particolari; ma in quei principi della Chiesa ed in quei tempi le prove più dure e le persecuzioni più crudeli erano pressoché quotidiane; da una parte gli Ebrei, sempre nemicissimi dei cristiani, dall’altra i Gentili, armati della legge e forti delle tradizioni pagane, non davano tregua ai seguaci del Vangelo, vessandoli ed opprimendoli in mille guise. Essi non potevano attingere la forza necessaria per resistere a sì fieri cimenti che nella fede, nella speranza e nella carità, i tre vincoli che ci legano a Dio e che ci fanno forti della sua fortezza. Noi pure, o cari, siamo ogni giorno sottoposti alle prove della vita cristiana: non saranno sì dure come quelle dei primi cristiani, no: ma sono prove spesso penose, lunghe, e sotto le quali non pochi dei fratelli nostri soccombono. Vogliamo agevolare e assicurare la vittoria? Con la fede leviamo a Dio la nostra mente, con la speranza e con la carità leviamo a Lui le nostre aspirazioni e il nostro cuore, a Lui teniamoci saldamente uniti, e la vittoria non potrà fallire. Ho visto assai volte una navicella con salda fune raccomandata ad una massiccia colonna di pietra ergentesi sulla riva: i venti qua e là furiosamente la trabalzavano, e ad ogni istante pareva la dovessero sommergere o sfasciare; ma a poco a poco la procella cessava, le onde si calmavano e la navicella appariva intatta, ferma ai piedi della colonna, e quasi riposante sulle acque. Ecco un’immagine dell’anima nostra, allorché con la triplice fune della fede, della speranza e della carità sta fortemente unita a Dio. Finché con questa triplice fune stiamo uniti a Dio, non temete, il naufragio è impossibile. Rammentando io, anzi, vedendo io, così l’Apostolo, queste prove, queste opere della vostra fede, della vostra carità, della vostra speranza, ne traggo argomento sicuro, che siete stati veramente eletti da Dio, che avete la sua grazia e siete cari a Lui: Scientes, fratres dilecti a Deo, electionem vestram. Allorché noi vediamo un albero sostenere il furore del vento, diciamo: le sue radici sono ben salde e profonde, e gagliardo il suo tronco: similmente l’Apostolo, vedendo la fermezza nella fede dei suoi Tessalonicesi, e rimirando le opere della loro carità, ne arguisce la certezza della loro elezione e l’abbondanza della grazia divina nei loro cuori, perché dall’abbondanza e dalla bontà dei frutti si conosce l’albero. L’Apostolo prosegue, svolgendo più ampiamente questo pensiero, e dice: “Poiché il nostro Evangelo presso di voi non consistette soltanto in parole, ma sì ancora in potenza e in Spirito Santo, ed in ogni pienezza, come vedeste quali fummo in mezzo a voi per voi. „ Bene a ragione, così suona il linguaggio dell’Apostolo, bene a ragione voi rimanete saldi all’insegnamento ch’io vi ho dato, perché le prove ch’io vi diedi della sua verità e divina origine non si riducevano a parole: voi le vedeste nei miracoli, che Iddio a sua confermazione operò e nella diffusione mirabile dei doni dello Spirito Santo, che fu sì piena e sovrabbondante: prove queste che Iddio si compiacque operare per mio mezzo fra voi e a vostro beneficio. L’uomo, dice sapientemente S. Tommaso, non crederebbe le verità della fede se non vedesse che è dover suo il crederle. Se così non fosse, parliamo degli adulti, che si convertono alla fede, la loro fede non sarebbe ragionevole. Chi è fuori della Chiesa non può entrare nella Chiesa che seguendo la ragione, la quale gliene mostra la divina origine, onde i Padri dissero che la ragione è il pedagogo, che guida alla fede. Non occorre qui avvertire che la grazia divina opera internamente prevenendo ed accompagnando i nostri passi. Ora come l’uomo può conoscere essere dover suo il credere le verità insegnate dalla fede? Forse perché con la sua ragione le conosce vere in se stesse, come le altre verità d’ordine naturale? No; perché queste verità, fossero anche tutte di ordine naturale, non tutti gli uomini son capaci di intenderle; una gran parte poi di esse sono sopranaturali, e superano al tutto le forze della nostra ragione. In qual modo adunque possiamo noi conoscere il dovere che ci stringe di ammetterle? Un uomo si presenta a voi: egli vi insegna una dottrina che non comprendete, vi assicura che è vera: voi lo conoscete quell’uomo: è egli onesto, pieno di sapienza, né vi è possibile nemmeno sospettare che possa o voglia ingannarvi. Sul campo di battaglia ad un generale si presenta un ordine, si comanda un movimento, del quale non vede la ragione, che anzi gli pare contrario alla ragione. Il generale guarda l’ordine scritto, riconosce la firma del suo duce superiore; non esita un istante: ubbidisce. Voi, accogliendo quella dottrina, che non comprendete: il generale ubbidendo a quel comando inesplicabile, operate forse contro ragione? No; anzi, operate secondo la ragione, perché è la ragione, la qual vuole che l’uomo si rimetta al giudizio di chi conosce essere meritevole di piena fiducia. Voi non comprendete la cosa in sé, ma la comprendete con la mente di chi sapete che la comprende. È il caso nostro, era il caso dei Tessalonicesi. Essi per fermo non potevano comprendere tutte le verità che S. Paolo insegnava loro; ma vedevano quest’uomo tutto amore della verità, disinteressato: lo vedevano predicare una dottrina, che non gli fruttava nessun vantaggio materiale, che gli imponeva sacrifici d’ogni maniera e lo metteva a pericolo della vita stessa; l’udivano affermare aver egli stesso veduto Cristo risorto; lo vedevano operare miracoli splendidi, indubitati, sotto i loro occhi, in conferma di ciò che insegnava; lo vedevano adorno d’ogni virtù: come dubitare della dottrina che annunziava? Era dunque ragionevole credere a tutto ciò che insegnava, com’è ragionevole che noi pure crediamo, appoggiati alle stesse prove che n’ebbero i primi cristiani, e che non variano per mutar di tempi, anzi acquistano col tempo maggior forza ed evidenza. – S. Paolo continua l’elogio dei Tessalonicesi e le sue congratulazioni, dicendo: “Voi foste imitatori nostri e del Signore, accogliendo la predicazione, fra grandi travagli, con gaudio nello Spirito Santo. „ Voi, o Tessalonicesi, imitaste me ed i miei compagni e cooperatori nel ministero apostolico; che dico : Imitaste noi! Dirò meglio, imitaste il Signor nostro Gesù Cristo. In che cosa? ” Accogliendo la verità per noi predicata ed accogliendola in mezzo a molti e grandi travagli. „ Qui si fa manifesto che i buoni Tessalonicesi avevano dovuto soffrire assai: In multa tribulatione, per la fede che avevano accolto. Ma da veri discepoli di S. Paolo e di Gesù Cristo, in mezzo ai contrasti ed ai travagli sofferti per la fede, “Erano anche ripieni di gioia — Cum gaudio Spiritus Sancti. „ Quale esempio di fede e di fortezza d’animo ci danno questi primi cristiani! vessati, tribolati, perseguitati dalle male lingue e peggio, non venivano meno, e lungi dal lagnarsi e darsi per vinti, si rallegravano. Questo è proprio, grida il Crisostomo, di coloro che son fatti superiori alla natura, e per poco non sentono i dolori, fatti simili a Gesù Cristo che, percosso, coperto di sputi, confitto alla croce, godeva; soffriva nel corpo, ma godeva nello spirito. Non è proprio dei dolori apportare gioia, ma la gioia deriva dal patire per Cristo e dal pensiero che attraverso al fuoco delle tribolazioni si passa, mercé la grazia divina, al riposo eterno. Questa vostra condotta, prosegue S. Paolo, tessendo sempre le lodi dei Tessalonicesi, è tale, “che siete stati d’esempio a tutti i credenti nella Macedonia e nell’Acaia. „ Voi, o Tessalonicesi, imitando noi, come noi imitiamo Cristo, sulla gran via della croce, avete l’onore e la gloria d’essere modelli a tutti i credenti della Macedonia non solo, ma di tutta la Grecia. Lode più magnifica di questa non poteva farsi a quella cristianità. Come ciascun cristiano deve vivere in guisa da presentare nella propria condotta un modello da potersi imitare dai suoi fratelli, così ogni famiglia, ogni parrocchia. Carissimi! Ciascuno di noi è tale? Son tali le nostre famiglie e la nostra parrocchia? O non abbiamo per avventura da arrossire? A ciascuno di noi la risposta. Era sì luminoso l’esempio dei Tessalonicesi in Macedonia e in tutta la Grecia, che S. Paolo francamente soggiunge: “Non solo la parola del Signore è proceduta da voi nella Macedonia e nell’Acaia, ma anche la fede, che avete in Dio, si è divulgata in ogni luogo, sicché non ci è mestieri parlarne. „ Le quali parole significano che la fama della predicazione evangelica fatta da Paolo ai Tessalonicesi, per opera di questi, ebbe un’eco profonda in tutte le regioni vicine di Macedonia e d’Acaia o Grecia, e si sparse largamente per ogni dove; e non solo la fama della loro conversione risuonò in tutti i paesi finitimi, ma la loro fede, provata dalla santità della vita, si propagò per guisa, che l’Apostolo non aveva bisogno di farla conoscere. I Tessalonicesi, con la franca professione della fede e con la vita virtuosa, con la quale manifestavano ed onoravano la fede stessa, in certo modo avevano esercitato nei paesi vicini il ministero apostolico, in guisa che Paolo non aveva quasi più necessità di predicare. Essi, i Tessalonicesi, avevano narrato a tutti la venuta dell’Apostolo fra loro, e come avevano lasciato il culto degli idoli e si erano dati al servizio del Dio vivo e vero; il Dio vivo e vero qui è detto per opposizione agli dei od idoli, che non erano né vivi, né veri, ma creazioni dell’ignoranza e della impostura. Ancora una volta ci si fa conoscere la grande efficacia dell’esempio: esso è una predicazione eloquentissima per guisa, che in qualche modo sembrava pareggiare la predicazione stessa dell’Apostolo e gli faceva dire: “A me ornai non occorre parlare. „ Dove si conosce la vostra conversione e la vostra fede è quasi inutile la mia parola. Per opera vostra, o Tessalonicesi, i paesi vicini hanno potuto apprendere, che è dovere volgere le spalle agli idoli e servire al vero Dio; non solo questo hanno potuto apprendere, continua l’Apostolo, ma che per noi “si aspetta dal cielo il Figlio di Dio, Gesù, che fu risuscitato. „ È stile di S. Paolo condensare in un periodo le verità più importanti, perfino negli auguri e nei ringraziamenti, e qui ne dà un saggio. Con la conversione dal gentil esimo a Dio egli unisce il termine ultimo di tutte le cose, che è la venuta di Cristo giudice e il giudizio finale, che tutti ci aspetta. È questa una delle verità capitali della nostra fede, che se fosse più spesso richiamata alla nostra mente, scuoterebbe la nostra pigrizia, ci riempirebbe d’un santo timore e ci renderebbe più solleciti nell’adempimento dei nostri doveri. L’uomo che sovente pensa al conto strettissimo che dovrà rendere a Dio di tutta la sua vita, ed alla sentenza irrevocabile che le terrà dietro, non può non sentirsi fortemente eccitato a vivere cristianamente. In alto le menti ed i cuori, sembra gridarci l’Apostolo … in alto! Ricordate che delle opere vostre, delle vostre parole, dei vostri pensieri ed affetti risponderete in un giorno solenne a quel Gesù, che vi ho predicato, che è venuto per salvarci dal peccato, e per conseguenza per salvarci dalla pena che accompagna il peccato, che è l’ira sua e l’eterna condanna.

Graduale
Ps XLIII:8-9
Liberásti nos, Dómine, ex affligéntibus nos: et eos, qui nos odérunt, confudísti.
V. In Deo laudábimur tota die, et in nómine tuo confitébimur in sæcula.  [Ci liberasti da coloro che ci affliggevano, o Signore, e confondesti quelli che ci odiavano. V. In Dio ci glorieremo tutto il giorno e celebreremo il suo nome in eterno.]

Alleluja

Allelúja, allelúja.
Ps CXXIX: 1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam. Allelúja.
[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaeum.
Matt XIII: 31-35
In illo témpore: Dixit Jesus turbis parábolam hanc: Símile est regnum coelórum grano sinápis, quod accípiens homo seminávit in agro suo: quod mínimum quidem est ómnibus semínibus: cum autem créverit, majus est ómnibus oléribus, et fit arbor, ita ut vólucres coeli véniant et hábitent in ramis ejus. Aliam parábolam locútus est eis: Símile est regnum cœlórum ferménto, quod accéptum múlier abscóndit in farínæ satis tribus, donec fermentátum est totum. Hæc ómnia locútus est Jesus in parábolis ad turbas: et sine parábolis non loquebátur eis: ut implerétur quod dictum erat per Prophétam dicéntem: Apériam in parábolis os meum, eructábo abscóndita a constitutióne mundi. [In quel tempo: Gesù disse alle turbe questa parabola: Il regno dei cieli è simile a un grano di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo: e questo grano è la più piccola di tutte le sementi, ma, cresciuta che sia, è più grande di tutti gli erbaggi e diventa un albero: così che gli uccelli dell’aria vanno e si riposano sui suoi rami. E disse loro un’altra parabola: Il regno dei cieli è simile a un po’ di lievito, che una donna mescola a tre staia di farina, così che tutto sia fermentato. Gesù disse tutte queste parabole alle turbe: e mai parlava loro se non in parabole: affinché si adempisse il detto del Profeta: aprirò la mia bocca in parabole, manifesterò cose nascoste dalla fondazione del mondo.]

OMELIA II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. III -1851-]

La Santa Chiesa.

Il regno dei cieli è simile ad un grano di senapa, che sebbene fra i semi ordinari, pure seminato in buon terreno, massime nella fertile regione della Palestina, spunta in germoglio, cresce in albero, si estende in rami sì robusti e frondosi, che volano ad abitarvi gli uccelli dell’aria. “Simile est regnun cœlorum grano sinapis … quod minimum est omnibus seminibus”, con quel che segue nell’odierno Vangelo. Or perché mai al grano più piccolo viene paragonato il regno dei cieli? E che va inteso per regno dei cieli? “Regnum cœlorum”, risponde il magno Gregorio, “præsentis temporis Ecclesia dicitur (Hom. 11 in Evang.), regno dei cieli, si chiama la Chiesa  da Gesù Cristo fondata nel tempo presente, e che durerà fino alla consumazione dei secoli: e si paragona ad un piccolo granello di senapa cresciuto in una gran pianta, per significare l’umile principio, e poscia l’ingrandimento della medesima Chiesa. L’umile principio della Chiesa nascente fa vedere la mano di Dio, che la fondò: l’esaltamento della Chiesa in ogni tempo fa conoscere la mano di Dio, che la difese. Due riflessioni, signori amatissimi, su cui penso intrattenere la vostra pietà. Si tratta di un argomento in cui vedremo le divine qualità che caratterizzano la Chiesa nostra madre per vera sposa di Gesù Cristo, da Lui fondata, da Lui difesa: argomento interessante, che tutto deve richiamare l’attenzione dei veri suoi figliuoli.

I . La difficoltà dell’opera, la debolezza dei mezzi fan conoscere quanto umile, quanto abbietto, secondo le umane vedute, fosse il principio della Chiesa nascente, e quanto la mano di Dio vi risplendé. – Viene Gesù Cristo al mondo, e si propone ed annunzia un disegno il più strano, il più inaudito. In tutta la terra regna l’idolatria. Le passioni più vergognose, i vizi più abominevoli sono autorizzati dal culto superstizioso di falsi dèi, infetti anch’essi, e celebri per ogni sorta d’iniquità. Gesù Cristo altamente dichiara esser venuto a rovesciar ogni idolo, ed atterrar ogni tempio a loro consacrato: esser venuto a confondere la scienza dei filosofi, la superbia dei grandi, gli errori di tutti: esser venuto ad abolire le superstizioni, a togliere i vizi, a riformare i costumi, ed a piegar tutti i popoli ad una nuova credenza, e riunirli sotto una medesima legge. In formar questo disegno non ignora nulla esservi di più difficile, che il cambiamento di religione, e allora più quando una religione radicata da secoli, una religione comoda, confacente alla corrotta natura che, lungi dall’opporsi, autorizza e consacra le più vili passioni, e le più sfrenate dissolutezze. Tutto sa, tutto prevede, e a vista di tanti ostacoli non si arresta dal concepito disegno. – Conviene dire: o essere impossibile la riuscita, o Colui che la si promette, abbia in mano dei mezzi straordinari, possenti, da sperarne felice successo. Appunto, i mezzi sono in sua mano; ma oh quanto diversi da quel che l’umana sapienza avrebbe creduto adoperare! I mezzi più disadatti, più contrari all’intento furono gli scelti da Gesù Cristo. Nato Egli in un angolo della Giudea in una capanna da povera Madre, reputato figlio di un fabbro, dimorante fino ai trenta anni in una vile bottega, esce dalla sua vita nascosta per cominciar la grand’opera della riforma del mondo. Chiama in aiuto all’ardua impresa dodici plebei senza credito, senza scienza, dodici poveri pescatori, e loro fa intendere che nel seguirlo non cesseranno di esser poveri; che anzi, se vogliono essere suoi discepoli, dovranno rinunziare perfino la speranza di ogni bene terreno. Lungi dall’allietarli con qualche umana promessa, si spiega loro chiaramente, che altro non potranno aspettarsi che persecuzioni, catene, tormenti e morte. Sono ben dolci e lusinghiere siffatte promesse! E pure si uniscono a Lui questi uomini, e fedelmente lo seguono fino alla morte. – Muore Gesù, e con la morte dell’autore doveva naturalmente perire un’opera cominciata da sì pochi anni, sì poco avanzata, e sostenuta sì poco. Muore Gesù, e di qual morte? Muore come un seduttore, come uno scellerato, ed è sepolto. – Chi non direbbe che il suo gran progetto è insieme con Lui seppellito. Così all’umana vista doveva comparire, così si lusingava la perfida Sinagoga; ma no, il grano della senapa sepolto sotterra spunterà fra poco, e crescerà in pianta perfetta. I dodici pescatori rivestiti di una virtù che viene dall’alto e di una forza invincibile, alzano la voce nelle piazze di Gerosolima, nelle contrade della Giudea e della Samaria, si spargono in tutte le parti dell’universo, predicano Gesù Cristo crocefisso e risorto, confermano coi miracoli la verità del suo risorgimento, la divinità di sua Persona, la purità di sua dottrina ed ecco la faccia della terra tutta cangiata. La luce del Vangelo ha aperto gli occhi alle nazioni sedenti in tenebre ed ombre di morte. La pagana superstizione fugge come la notte allo spuntar del sole, gl’idoli sono infranti, i templi sono distrutti, i vizi sbanditi, i costumi riformati, la Cristiana Religione riconosciuta la vera, il suo Fondatore adorato, la sua Croce esaltata, e dal luogo dei supplizi passata ad ornare la corona e la fronte dei re e degl’imperatori. “A locis suppliciorum ad frontes imperatorum” (S. Agost.  In Ps. XXXVI, ver. 2). – Or io domando, chi ha cambiato l’umano intelletto, chi l’ha fatto piegare a credere dogmi inauditi, dogmi che sembrano rivoltare l’umana ragione? Chi ha cambiato il cuor dell’uomo corrotto dalle più sozze passioni, e gli ha fatto abbracciare una Religione sì severa, che esige la più grande purezza di opere, di affetti e di pensieri? Che proibisce uno sguardo men puro, un desiderio men retto? La mano di Dio, che nella elezione degli Apostoli ha impiegati i mezzi più deboli, più inetti, ma resi idonei e forti nella possente sua grazia a propagare e stabilir la sua fede, e a suggellarne la testimonianza col proprio sangue: la mano di Dio, che per tal mezzi ha voluto stampare in fronte alla sua Chiesa i più luminosi caratteri della verità. Ed ecco la pianta della Chiesa, nata da sì picciolo seme, che ha estesi i suoi rami dall’uno all’altro confine del conosciuto mondo. Ed oh su questi rami, quanti dal gentilesimo, quanti dall’ebraismo sono volati! Quanti eroi della fede vi han posta loro dimora, quanti fiori di martiri hanno abbellita pianta sì degna, quanti fiori di vergini l’hanno adornata, quanti frutti di santi dottori, di confessori, di pontefici l’hanno arricchita! – È vero che questa pianta dalle persecuzioni dei tiranni, dall’odio dei pagani, dal furore degli eretici, come da tanti turbini è stata in ogni tempo agitata e sconvolta; ma quel Dio che la piantò, quel Dio a cui ubbidiscono il mare e i venti e le procelle, ha sempre stesa la sua mano a difenderla, per modo che le porte di averno mai prevalessero ad atterrarla; anzi, geloso dell’onor della sua Sposa, scaricò in tutti i tempi con esemplare vendetta i colpi tremendi della sua destra sopra chiunque ardì di farle oltraggio. Aprite le storie, saggi ascoltanti, e vedrete l’esaltazione della Chiesa nella depressione dei suoi nemici, nemici i più potenti del secolo, gli imperatori idolatri. Ed è ben giusto a gloria della nostra madre rammentare i castighi di chi l’oltraggiò. – Nerone (Tacit. Sveton. Eutrop.), il cui solo nome presenta un’idea della più mostruosa crudeltà, il primo e forse il pessimo fra i persecutori della fede di Cristo, venuto in odio al senato, al popolo romano, al mondo tutto, cercato a morte, fugge travestito, e per non cader nelle mani di quei che l’inseguono, da se stesso si uccide. Non poteva trovare miglior carnefice. Domiziano (Sveton. Philostr.) anch’esso da tutti odiato per la sua barbarie, più non si soffre sul trono, e vien ucciso. Ne esulta il senato romano, e fa gettar a terra le sue statue, e cancellare dovunque ogni sua memoria: il suo cadavere si lascia in man dei becchini, che lo sotterrano con contumelie a foggia d’infame gladiatore. Ascrive Massimino (Victor. Iul. Capitolin. et alii) ai cristiani la cagione dei fulmini, dei terremoti e di tutte le disavventure dell’impero, e ne fa strage; e strage fanno di lui e di suo figlio i suoi soldati. Le loro teste son poste sulla punta di un’asta, i loro corpi gettati alle fiere. Si accende d’ira Decio (Sextus Aurelius) ed infierisce contro la religione cristiana in vederla tanto più dilatata, quanto più oppressa; e in una battaglia contro i Goti spinge il cavallo in una palude, vi resta sommerso, e più non se ne trova il cadavere. Valeriano (Costant. Magnus in orat. ad s. cœtum c. 24) quanto zelatore dei culto dei falsi dèi, tanto nemico di quello di Cristo, dopo tre anni di fiera persecuzione, vinto in guerra, cade in potere di Sàpore re dei Persiani, che per avvilirlo all’estremo si serve della sua schiena ogni volta che monta a cavallo. – Sparse Aureliano (Voscus et Eusebius in Chron. Costant. ut supra) a torrenti il sangue dei fedeli; e del suo sangue si videro sparse le strade, trucidato dai suoi familiari. Chiuso da stretto assedio nella città di Marsiglia l’empio e sanguinolento Massimiano Erculeo (ibid.), disperato si sospende ad un laccio. Sotto l’impero del crudelissimo Diocleziano (Victor apud Baonium) in un sol mese si miete la vita di sette mila martiri, ed egli in vedere per tanta strage aumentarsi vie più il numero dei cristiani, divorato da diabolico livore, ha in odio la vita e se la toglie con potente veleno. Che diremo finalmente dell’apostata Giuliano? (Theodoretus lib. 4 hist. c. 25) Quest’empio restauratore del Paganesimo, protettore degli Ebrei da lui animati a riedificare Gerusalemme per render vana la profezia di Gesù Cristo, dopo lunga tirannia si protesta voler distruggere dai fondamenti la Chiesa santa di Dio; ma nella guerra contro i Persiani, dalla prima saetta scoccata a colpo incerto, vien trafitto nel petto e nel polmone, e preso un pugno del proprio sangue, gettandolo verso il cielo, confessa esser vinto da Cristo, che per insulto chiamava il Galileo, “Galilee, vicisti”. – Vani furono dunque gli sforzi delle potestà d’ogni secolo contro l’opera del Signore. Perirono e periranno i nemici della Religione e della Chiesa, come fumo in faccia al vento: Essa non perirà giammai. Della sua stabilità tien solenne promessa dall’infallibile verità del divino suo Capo. La Religione Cristiana porta in volto caratteri così sensibili e luminosi della protezione dell’Altissimo, che bisogna esser ciechi per non conoscerli. Se questo edificio fosse stato fabbricato sull’arena, in forza cioè d’umane opinioni e raggiri, come avrebbe potuto tenersi saldo all’impeto furibondo di tanti turbini, che da ogni lato l’hanno spinto con la maggior violenza di cui è capace l’odio, il furore, la nequizia, la prepotente empietà! Se la Religione, disse già sensatamente Gamaliele, dottor della legge, ai capi dell’ebraismo radunati in concilio, se la Religione che predicano questi scalzi pescatori, è opera d’uomini e fanatismo di mente alterata, svanirà fra pochi dì da sé stessa. Se ella è opera di Dio, i vostri ostacoli per impedirla non serviranno che a promuoverla. Così avvenne, e così avverrà sino alla consumazione dei secoli. Le opinioni degl’increduli, i sofismi degli atei, dei deisti, dei sedicenti filosofi, saranno in ogni tempo come i flutti d’un mare spumoso che si rompono a piè di scoglio saldissimo; saranno come le acque del diluvio portanti in alto l’arca di Noè; saranno come venti e tempeste, che possono bensì agitare la navicella di Pietro, ma non hanno forza di sommergerla. Dorme talora, e par che dorma Gesù; e l’empietà per qualche tempo minaccia naufragio, ma poi si sveglia, e ad un suo cenno tacciono i venti, svanisce la procella, ed il protetto naviglio galleggia sull’umiliato mare. E un prodigio di tal natura, manifesto, stupendo non l’han veduto gli occhi nostri? Rammentiamolo così di volo, fedeli amatissimi, a gloria di Dio e della sua Chiesa. Spogliata questa del temporale suo regno, fatto prigioniero il suo Gerarca, minacciata di guai sempre nuovi e sempre peggiori, oltre ogni umana speranza, l’abbiamo veduta deporre le vesti di lutto, e rivestirsi degli abiti di giocondità e di letizia. Motivi per noi, uditori miei, di stima, di attaccamento, di fedeltà, d’ubbidienza alla nostra Madre, la Chiesa santa, di cui siam figli, Chiesa ora militante, soggetta a guerra, ma sempre vincitrice, e poi trionfante nel regno eterno nel divino suo sposo [… ed anche dopo questa apostasia massiva della setta vaticana postconciliare, la rivedremo ancora splendida brillare nei secoli in eterno, Amen! – ndr. ].

Credo…

Offertorium
Orémus
Ps 129:1-2
De profúndis clamávi ad te, Dómine: Dómine, exáudi oratiónem meam: de profúndis clamávi ad te, Dómine.
[Dal profondo Ti invoco, o Signore: o Signore, esaudisci la mia preghiera: dal profondo Ti invoco, o Signore.]

Secreta
Hæc nos oblátio, Deus, mundet, quǽsumus, et rénovet, gubérnet et prótegat. [Questa nostra oblazione, chiediamo, o Dio, ci purifichi e rinnovi, ci governi e protegga.]

Communio
Marc XI:24
Amen, dico vobis, quidquid orántes pétitis, crédite, quia accipiétis, et fiet vobis. [In verità vi dico: tutto quello che domandate, credete di ottenerlo e vi sarà dato.]

Postcommunio
Orémus.
Cœléstibus, Dómine, pasti delíciis: quǽsumus; ut semper éadem, per quæ veráciter vívimus, appétimus.
[O Signore, nutriti del cibo celeste, concedici che aneliamo sempre a ciò con cui veramente viviamo.]

Ite, Missa est.
R. Deo gratias.

 

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: EQUILIBRIO DELLA PERSONALITA’ (2)

GREGORIO XVII

IL MAGISTERO IMPEDITO:

EQILIBRIO DELLA PERSONALITÀ (2)

[Lettera pastorale scritta per la Pasqua del 1964; «Rivista Diocesana Genovese», 1964; pp. 252-268.]

V. – Vogliate ora considerare la seguente proposizione:

«La cultura, emanazione della persona umana, è parallela al Cristianesimo».

Siamo nuovamente ai paralleli e nello stesso senso. Nessun dubbio che la cultura sia una emanazione della persona umana, accumulata tra i tempi diversi e le persone diverse, come ricerca, invenzione, approfondimento, ricchezza della umana esperienza esteriore ed interiore, intuizione di cose maggiori, approfondimento d’ogni argomento presentabile all’intelletto umano o vibratile nella sua emotiva percezione. Nessun dubbio e la massima stima. Ma quello che conta è il fatto che un effetto della persona non può essere superiore alla persona stessa e, se questa è soggetta alla legge di Dio e all’unico fine, lo sarà anche quella; talché ove c’è una necessaria e naturale convergenza non ci sono più parallele. Queste non si incontrano mai. La proposizione è una rinnovata edizione di altra già considerata e mira allo stesso scopo, staccare il contegno umano dalla piena dipendenza da Dio e dall’ordine soprannaturale, il mondo dal Cristianesimo e lasciare «più aria» a tutti. Ottima cosa avere «più aria», purché sia nei limiti della legge di Dio. Lo stesso pensiero umano, analogico soltanto in quel che concerne la parola di Dio, ha una funzione preparatoria di ben altra cognizione e di ben superiore gloria. Voler una storia che se ne possa andare per proprio conto, anche senza parola di Dio, è voler che un cieco vada a zonzo per una landa sconosciuta. La cultura ha i suoi metodi ed ha i suoi momenti, nessuno glielo nega, ma è anche legata a tutte le debolezze e deficienze umane, all’effimero ed al transitorio, e di questo deve tenere pur conto. Del resto il tenerne conto non le ruba alcuna libertà seria ed oggettiva. Le porta via solamente il carattere polemico contro ciò che è vincolante nella fede e nella Parola di Dio. La cultura ha un immenso margine e non ha alcun bisogno di proclamarsi o indipendente o paritaria alle cose divine; ma l’intelletto umano deve essere obbediente a Dio non meno della volontà. Aver bisogno di proclamarsi paritaria all’ordine divino, od anche solo parallela, sarebbe un accettare l’inammissibile principio delle due verità e che l’intelletto umano si è talmente ristretto da non poter far più altro che giocare sulla irriverenza alle cose divine. Ma a tutto il discorso sulla cultura parallela al Cristianesimo, sta sotto un’altra grave e rovinosa affermazione: “la indipendenza della natura rispetto all’ordine soprannaturale”. Ora qui la questione è grossa e può riassumersi così. L’ordine naturale non può esigere quello soprannaturale e ciò per definizione. Però, posto che Dio abbia fatta la elevazione all’ordine soprannaturale, tutte le cose naturali non trovano il loro collocamento giusto se non nella finalità di quello. Posto che il Verbo si sia fatto carne, ogni cosa è soggetta a Lui in cielo, in terra e negli inferni. Parlare quindi di zone extraterritoriali è semplicemente negare il chiaro significato della incarnazione del Verbo e sue conseguenze. Noi crediamo che il discorso sulla cultura potrebbe portarci molto lontano, ma non è l’impegno nostro di questo momento. A noi importa solo affermare che la cultura non costituisce la zona nella quale l’uomo possa aggiudicarsi una libertà di peccato e di disperazione, che altrove non riuscirebbe in alcun modo a giustificare. Ci importa non meno affermare, come logica conseguenza delle cose dette, che la cultura, ove non rispetti le stesse leggi supreme, alle quali l’uomo è tenuto, si vendica contro di lui stesso regalandogli miti insussistenti, spingendolo a follie nefaste (ricordiamo l’ultima guerra mondiale e taluni suoi momenti), immergendolo infine nella tristezza e nella disperazione. Occorre non fare della persona un mito che prenda il posto di altri miti: rimanga quello che è; i miti hanno sempre portato alle esasperazioni ed al dolore.

VI. Ecco un’altra proposizione da esaminare con attenzione:

«La autonomia della persona genera l’autonomia della filosofia».

Anzitutto la filosofia resta la scienza della vera e suprema realtà e per questo non è possibile considerarla come alterabile a piacimento. Essa è la scienza dei più alti principi che dimostra attraverso la evidenza, in quanto parte dal sensibile, ed attraverso le supreme ragioni, in quanto agisce deduttivamente. Ma è non meno delle scienze esatte ancorate alla realtà. Essa è quello che è tutte le cose, qualunque possano essere le esercitazioni della personale fantasia, restano quello che sono. La autonomia della filosofia ha un senso come lo può avere la autonomia della geografia o della matematica. Finché autonomia significa che il suo procedimento non ha da dipendere dal procedimento matematico etc. la cosa ha un senso, ma quando significasse la cessazione di ogni remora all’intelletto umano perderebbe ogni senso. Naturalmente una autonomia di tale genere sarebbe figlia della fantasia liberamente creatrice di sogni più o meno validi, ma certo non allineati sulla linea della realtà e verità. L’argomento quindi in se stesso appare di dubbio valore. Ma le cose peggiorano se veniamo alla persona umana. È questa che con la sua intelligenza filosofa e pertanto va alla ricerca delle supreme verità. Ma questa a proposito della verità non è affatto autonoma; deve prendere ed affermare quello che è. Non può alterare pertanto la serie dei numeri, non più di quanto possa alterare la affermazione relativa ai principi. Già si è dimostrato che la persona umana restando tale, siccome l’ha munificamente fatta Dio, è subordinata ed ha limiti. Un limite invalicabile è la verità obbiettiva. La originalità potrà esplicarla nel modo ed anche nel metodo, ma non circa quello che è indissolubilmente legato alla realtà. La originalità è meglio invocarla per la letteratura che non per la filosofia. Abituati a modificare la disposizione della materia e ad asservirne le forze, noi subiamo il fascino di poter asservire anche la verità; ma il carattere assolutamente effimero delle cose umane, per l’uomo stesso che si attarda a filosofare, lo avverte che la presunzione è al tutto illusoria. Abituati da quattro secoli a fare della verità un riflesso sempre più soggettivo noi crediamo di avere acquisito un diritto per prescrizione ed il metodo idealistico ha creduto di poterlo baldanzosamente proclamare. Ma in questo campo di cose non si danno acquisizioni per prescrizione. Pertanto l’aspetto della cultura moderna in quanto si considera indipendente da canoni ad essa antecedenti ed ancorati alla verità obbiettiva è solamente uno scherzo di cattivo gusto che l’uomo fa a se stesso. – Si noti la contraddizione profonda che la cultura porta oggi con sé: da una parte la certezza delle sue investigazioni scientifiche e delle sue applicazioni tecniche, dall’altra la più allegra libertà su ogni affermazione che non sia legata ad una formula di sperimentazione scientifica. Essa cammina su due strade, il che non va a vantaggio della sua serietà e del suo fecondo durare. – Abituati al protestantico libero esame, noi lo vogliamo spesso applicare nella più assoluta libertà di indagine e di conclusione, come se davanti a noi non ci stesse Dio. La vera lotta fatta al Magistero Ecclesiastico ed al campo in cui più si esercita il suo intervento, la Divina Tradizione, si trova in questo autentico e genuino influsso protestantico. Ma non è questione di cultura, è solo questione di orgoglio. – La cultura passa per tutte le strade, raccoglie tutte le umane espressioni, ma viene pure il momento in cui deve coi suoi geni fare una cernita per dare rilievo a quello che merita e lasciare in ombra quello che è nozione, episodi entrambi fantastici, senza alcuna luce di veri eterni principi. La cultura non è solamente un carro di raccolta di tutto quello che si produce: essa raggiunge se stessa quando seleziona, quando compara con riferimenti certi ed eterni, quando fa maturare l’uomo nel suo intimo e soprattutto nella sua finezza di apprendere, di pensare e di riesprimere. La funzione di «maturazione» è insita alla cultura non meno di quanto le sia insita quella di «coltivazione»; essa non è tale quando corrompe e deteriora cose sane e vitali, le quali hanno necessità di restare nell’uomo per un ideale nel tempo e per un riferimento valevole nella eternità. Finalmente non dimentichiamo che come non esistono due vicende umane separate e parallele, quella moralmente umana e quella soprannaturale, non esistono due verità e la relativa onesta capacità di scegliere. Ciò posto si ha come conseguenza immediata e rigorosa che la verità soprannaturale, anche se nell’uomo ha bisogno di conoscenze previe, resta dominante e riferimento inevitabile della verità puramente naturale. Non si capisce pertanto e non si capirà mai perché si debba portare la cultura cristiana verso la cultura umana, mentre la verità, la logica e la esigenza stanno esattamente nel contrario. – Concludendo: la autonomia della filosofia non ha senso se questa autonomia la si proclama di fronte alla obbiettiva verità, recata dalla obbiettiva evidenza. Ha senso solamente se la si ripete a proposito delle altre scienze umane, del cui metodo potrà casualmente servirsi, ma alle quali deve proporre il metodo suo proprio, eccezione fatta per i dati storici i quali sono e restano quello che sono. Talvolta la autonomia della filosofia può intendersi come un tentativo di originalità, più audace e più facilmente inventiva, più vivace nel dare sviluppo alla filosofia stessa. E questo un significato che può anche accettarsi a patto di salvare quanto detto sopra. In ogni caso la ricerca di originalità deve restare pudica e sempre riguardosa verso quello che è acquisito e certo e tale da doversi ritenere illuminato dalla luce della obbiettiva sicurezza. Nessuno vuol negare che anche i tentativi arditi permettono talvolta di squarciare le nubi ed arrivare a contemplare tratti di cielo altrimenti non visibili, ma allora noi siamo nella autonomia di esperimento che può, a talune condizioni, rientrare benissimo nella metodologia delle ipotesi di lavoro. Il tutto evitando lo spettro, che aduggia sinistramente, di proposizioni o di concezioni assai più soggettive che reali. E in questo senso che il campo di ricerca, non solamente e pedantemente erudita, resta immenso e lascia a molti uomini di mietere glorie le quali sono ben più stimabili dei fiori caduchi. Per l’uomo la autonomia vera è di fronte a se stesso: che non diventi servo di quello che ha fatto , delle sue abitudini e delle sue passioni, dei suoi errori e dei suoi fatti, del pallido riflesso che l’opinione altrui, laudativa e plaudente, può riverberargli sopra in modo passeggero. La autonomia è bene intenderla dai propri sogni, dalle proprie chimere, non dalle obbiettive ragioni e dalla obbiettiva verità. La persona umana è certamente una cosa grande, ma non è tanto grande da prendere il posto di Dio, principio supremo della verità, del bene, della bellezza, dell’essere. – E certo che la teologia non si è occupata di taluni settori aperti alla filosofia umana ed alla cultura. È certo ed è giusto. Ma questo non significa affatto che ove non entrano chiari limiti di fede si possa fare quello che si vuole. Infatti i limiti obbiettivi della verità evidente o giustamente dedotta continuano a contare, anche se in taluni settori non li raggiunge la teologia e il dettame di fede. I limiti sono limiti, da qualunque parte vengano. Il soggettivismo autonomo iniettato nella filosofia e nella cultura ha questo tragico effetto: di sottrarre l’uomo al suo cielo, ossia alle cose che veramente gli convengono per una eterna, perfetta sapienza e renderlo succube di un altro cielo fittizio o nefasto dal quale prima o poi ritrarrà eccitamenti insani, pretese impossibili e, finalmente, tristezza, odio, guerra e morte. – Il soggettivismo finisce coll’essere una negazione della trascendenza. Negata la trascendenza che cosa resta all’uomo, quando non ha più nulla cui appoggiarsi e rimane l’unico appoggio di se stesso, tanto debole, spesso ammalato e costretto ad una parabola di decadenza della età? Infatti la negazione della trascendenza in parole povere si riduce a questo ed a questo volevamo arrivare, perché si intendesse come una falsa interpretazione della persona e personalità umana porta più lontano di quel che si creda e in una direzione assai diversa da quella che poteva forse opinarsi nei facili entusiasmi. – La filosofia moderna ha da scegliere tra l’uomo e Dio, tra la trascendenza e la immanenza, ma non ha affatto da scegliere tra la verità e la propria distruzione. Che essa accetti una luce da qualunque parte le venga non è affatto indecoroso e se questa luce le può giungere dalla superiore certezza della fede è meglio per essa. La fede ha un oggetto che è distinto da quello della filosofia, ma la distinzione non impedisce il reciproco aiuto e, tanto meno, la sicura norma perché la filosofia umana sia orientata nel modo più confacente e meno dannoso agli uomini. Essi hanno bisogno di luce, di sicurezza, hanno bisogno di orizzonti eterni più di quanto non abbiano bisogno del pane. Non distruggiamo tutto questo in nome di una sciocca vanità di indipendenza, quando tutte le cose – e lo vediamo bene – ci lasciano liberi, ci possono servire, ma anche ci condizionano. – In conclusione: autonomia sia, mai però di fronte alla verità

VII. Ecco una proposizione che frequentemente ricorre:

«La personalità va istruita e non educata e guidata: ha in sé di che guidarsi». –

Questa proposizione è semplicemente falsa per più motivi. È falsa perché suppone non esista né i l dogma del peccato originale, né le conseguenze dello stesso. E falsa perché è contraddetta dalla esperienza di una continua umana debolezza, bisognosa di aiuto, di sostegno e di conforto da ogni parte. È falsa perché non tiene conto delle stato ciclico in cui si svolge la vita umana. Parte da zero e tramonta, ha bisogno di dipendere dai sensi e attraverso questi riesce a muovere il proprio intelletto; ha la radice della sua autonomia nella forza di volontà e questa l’acquista, non se la trova naturalmente irrobustita in modo pieno e perfetto. – Eppure la proposizione è comoda per due motivi: per riversare sopra se stessi tutti i motivi della superbia e pertanto della rivolta contro ogni limite ed ogni autorità; e per disimpegnarsi dai compiti della educazione e dall’impegno di cominciare a fare quello che si insegna agli altri. – E per tale motivo che questa teoria trova pronti assertori. Essa comincia ad eliminare ogni autorità naturale e deve logicamente finire col ritenere solo una propria mandataria: l’autorità civile. E la conflagrazione dell’orgoglio. Le autorità intermedie ricevono in un modo o nell’altro il loro valore dalla autorità divina ed appare chiaro subito il collegamento tra la irreligiosità e cotesto modo di pensare e di orientare la vita umana. – Si ritorna sempre allo stesso bivio. Gli uomini, di fronte alle proprie responsabilità ed ai propri inevitabili rimorsi, si sentono sempre più piccoli, più bimbi, più bisognosi di appoggio ed è per questo che la proposizione sopraddetta può essere riguardata come la peggiore mala azione, perpetrabile ai loro danni. Ma fa parte del sistema, quello che abbiamo denunciato subito fin dalla critica alla prima proposizione. Se non si assume là e subito in quella sede una posizione netta, diventa necessario arrivare alla miseria di questo abbandono, per il quale i giovani, pur apparentemente circondati di tanti sussidi, in realtà crescono senza umano calore come i figli di nessuno. – La proposizione cerca di salvarsi con una speciosa ragione: aspettiamo che essi scelgano! A parte le considerazioni di carattere generale già fatte e che potrebbero aggiungersi, la proposizione non tiene conto di un fatto naturale. Si formano prima le abitudini, che non il raziocinio, gli istinti sono anteriori alle stesse abitudini, quando il raziocinio è sufficientemente irrobustito per scegliere, già quasi tutto è costruito. L’intervento occorre durante la costruzione, ed è per questo che non sarà mai sufficiente la istruzione senza la vera e propria educazione. La educazione ha il merito di condurre quando manca ancora il conducente. E tutto qui. Le demolizioni che si fanno della famiglia, della autorità, dei genitori, dei superiori, della funzione del giusto timore, etc. … sono le demolizioni del futuro uomo, il quale potrà gloriarsi di essere autonomo e non sarà più capace di esserlo. Ci sarebbe stato facile trattare qui di nuovi rapporti tra personalità ed arte. Ma non lo abbiamo fatto perché l’argomento poteva uscire dal campo nostro pastorale. Ma ci sentiamo in obbligo avvertire che le stesse regole valgono anche per quel campo e che non sarebbe sincero con Dio creare qua e là zone extraterritoriali, nelle quali, con la scusa che l’uomo sia un po’ più uomo (e sarebbe scusa inane), in verità si faccia il tentativo di ridurre il comando e la sovranità di Dio. Ci sono tuttavia alcuni aspetti che dobbiamo chiarire prima di terminare questa nostra lettera.

La necessità della grazia

La personalità umana non la si completa agli effetti soprannaturali, agli effetti della perfezione e della resa, senza la grazia attuale. Essa presuppone di per sé, anche se talvolta è perduta, la grazia santificante. Ma il nostro discorso è volto anzitutto alla grazia attuale, perché così postula l’argomento in oggetto. La grazia attuale è erogazione di energia soprannaturale, che eleva l’atto umano, lo proporziona al fine eterno e gli infonde una forza ed una luce superna. Senza di essa la persona umana non può fare qualcosa di completo e può fare nulla che abbia valore e merito soprannaturale. Abbiamo già avuto occasione di dire questo, considerando la prima proposizione presentata all’esame. La necessità della grazia è dimostrata da due elementi.

a) La legge della proporzione. Se ogni atto libero dell’uomo deve servire al fine eterno cui soprannaturalmente è chiamato, deve avere valore, dignità e figura adeguati a quello. Deve in sostanza essere «elevato» per raggiungere la giusta proporzione. Nell’ordine divino tutto è perfettamente proporzionato e non si danno cause inferiori agli effetti. Per questa legge di proporzione ogni atto deve essere mosso, elevato ed aiutato dalla grazia divina. Si apre un mondo nuovo nel quale veramente vive l’uomo e nel quale si ritrova la ragione della sua verità e della sua umiltà.

b) Il fatto della umana debolezza. Ci sarebbe stata comunque, ma il peccato originale l’ha aumentata e tutti i supervenienti peccati concorrono ad aumentarla. Essa è un fatto e tutti lo conoscono a sufficienza. Certe cose si possono dire contando sul fatto che gli uomini non vedono l’interno degli altri uomini, ma non sarebbe neppure possibile tentare di dirle qualora tutti vedessero tutto. Gli istinti, i sentimenti, le abitudini sono pesi ai quali solo si oppone veramente la grazia. I cedimenti, le tentazioni, il loro persistere, il loro sfruttamento dei momenti peggiori, le condizioni fisiche: tutto apporta qualcosa al contingente della umana debolezza. La illusione che qualcosa sfugga crea l’altra illusione di pensare se stessi come capaci di concludere nel campo della perfezione! Le conseguenze diventano ovvie.

– La grazia è data a tutti, ma aumenta con la orazione e i Sacramenti. Entrambi obbligano alla vera umiltà interiore. Per questo aspetto, oltre quanto si è già detto sopra, bisogna che la personalità costruisca se stessa con l’umiltà. Dio resiste ai superbi!

– L’ordine della grazia, per averlo veramente, impone se ne accetti il «sistema». Che è questo? Gesù ha legato tutto: la grazia alla Chiesa, la Chiesa alla Gerarchia, la Gerarchia ai Sacramenti. Non si può fare una selezione, accettare il Corpo Mistico e non il rimanente. – Occorre accettare tutto, senza riserve. I tentativi per ridurre qualche parte di questo insieme vanno a danno della grazia, e dell’insieme nel quale essa è divinamente racchiusa.

– Non è possibile una personalità seria che non abbia conoscenza e coscienza dei propri limiti e delle proprie necessità. Al di là di questo limite non c’è la personalità, ma la presunzione, che è una personalità contraffatta e deformata.

L’armonia della persona.

L’armonia della personalità è data dalle idee giuste, dalla umiltà, dalle virtù armonicamente fuse, dalla presenza di una soprannaturale intenzione, dallo sfruttamento perfetto dei mezzi della grazia, dai suoi frutti nella stessa vita di relazione. – Dei primi si è già parlato, resta da dire qualcosa di questi ultimi. La personalità cristiana ha un quadro sereno di rapporti coi superiori. Questi ci sono in tutti gli ordini e servono alla fermezza stessa della personalità, non al suo disfacimento. Tutti i superiori legittimi lo sono o in forza della istituzione divina o in forza di un ordine che Dio vuole nelle cose anche quando questo ordine lascia nelle mani dell’uomo. Si direbbe che da questo punto si misura il primo vero elemento di consistenza di una personalità cristianamente equilibrata. La stessa presenta un quadro di mitezza, di comprensione, di forza e di ragionevole indipendenza nei confronti degli altri. Parliamo di «altri» che non siano superiori e parliamo di quella indipendenza che non provoca e si asside orgogliosa, ma che ha sufficiente distacco dalle cose terrene per non esserne mai dominata o indettata oltre il giusto. In verità la simpatia che può sprizzare dalla personalità in modo più avvincente la troviamo qui. – La personalità cristiana equilibrata presenta un quadro di vera indipendenza rispetto ai beni meramente terreni. Qui tocca il suo aspetto e la sua dignità più profonda, qui ha le movenze di un’inimitabile arte, qui custodisce il segreto di una forza e di una costanza che la può rendere dominatrice, qui si impone anche silenziosamente in un irradiamento soprannaturale senza ombre e senza ristagni. Le personalità serie e cristiane sono svariatissime, perché potenziano le doti più svariate, ma ricevono dalla luce di Dio e la rifrangono. Con le ostentazioni, le acrimonie, gli orgogli inariditi, le disobbedienze, le vendette, gli egoismi non si costruiscono personalità, ma degli idoli deformi che possono avere qualche adoratore, e che sono condannati a non avere ad un certo momento altro adoratore che se stesso nella più arida delle solitudini. – Cari confratelli, vogliate meditare molto quello che vi abbiamo scritto, perché il veleno si insinua e potrebbe rovinare tutti i frutti della educazione che voi impartite. Noi ci siamo volutamente astenuti dal parlare di teorie e di nomi. Non abbiamo alcuna volontà di colpire, ma solo quella di salvare. Però una parola era necessario dirla e, se sarà necessario, ritorneremo sull’argomento. Pensate bene che tutta l’età moderna, serva della macchina, tenta di rifarsi una dignità, spesso perduta, con le proposizioni di cui ha fatto suo oggetto questa nostra lettera. Che il Signore vi aiuti sempre a capire tutto e bene.      [Fine]