GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IDEALI SANTI – MODE – CELESTE PRESENZA (3)

 

GREGORIO XVII – IL MAGISTERO IMPEDITO: IDEALI SANTI – MODE – CELESTE PRESENZA (3)

  1. — Ortodossia

[Lettera pastorale scritta il 23 luglio 1963; «Rivista Diocesana Genovese», 1963, pp. 192-245.].

Parte seconda: Mode

Qualcuno stenterà a vedere la connessione tra la prima e la seconda parte di questa nostra lettera. Gli risolviamo subito le difficoltà. Gli ideali santi sono tra quelli ai quali si possono applicare gli uomini con frutto e fecondità. Ma davanti agli uomini non stanno solo, ad attrarli, degli ideali santi; stanno anche altre cose che ne possono prendere il posto quando la colpevole ignoranza, la malvagia ingenuità ed il marcato interesse si radicano troppo nell’anima degli uomini stessi. Nella grande fiera non ci sono solamente i fiori del giardino di Dio, ma anche i parassiti del deserto. Il contrasto è forte. E qui che si collocano le mode. Tutti vedono che piuttosto di seguire ideali santi, molti seguono le irrazionali mode correnti. Bisogna dunque parlarne. Le mode appannano i cristalli e li appannano al punto da impedire ogni visione, che si spinga oltre. Le mode sono molte. Ma qui la discrezione ci fa restringere il discorso a talune solamente, che hanno il potere di offuscare, se accettate, gli ideali santi dei quali abbiamo parlato, nonché tutti gli ideali in essi contenuti come parte implicita o potenziale. Che cosa è la «moda»?. «Moda» è un costume, che prescinde dalla nazionalità — e ciò significa che può essere ed è spesso di fatto irrazionale – e che viene imposto da una pressione emotiva, non razionale. Sono dunque due gli elementi costitutivi: il costume «logico e la imposizione dall’esterno per via di suggestione. Il prescindere dalla razionalità (che ci può essere, ma che non è intesa) è fatto deteriore in chi, intelligente, libero e responsabile dovrebbe sempre usarla. L’accettare una imposizione dall’esterno, senza motivi, mette in pericolo di seguire una via cattiva; perché il criterio non è quello della bene informata coscienza. In più c’è una cessione ed una capitolazione, che è a scapito della dignità. Questo altro aspetto implica qualcosa di deteriore. Si tratterà in ogni caso di un peccato? Sarebbe imprudente affermarlo, perché le mode possono svilupparsi in campi sui quali non grava l’obbligo morale di fare piuttosto a un modo che all’altro, e perché sovente il loro processo di penetrazione è così poco avvertibile da giustificare un certo velo di disattenzione, se non proprio d’incoscienza. Moda ed incoscienza si trovano bene insieme. Tuttavia anche quando non si può affermare il peccato, resta una certa sconvenienza, per le ragioni dette sopra.

La teologia senza raziocinio

Appaiono qua e là delle malcelate antipatie per la teologia speculativa, per l’assunzione di principi certi della filosofia perenne ai fini di una migliore intelligenza del dato rivelato; appaiono contrasti a san Tomaso d’Aquino (in quanto corifeo, ma la ragione varrebbe anche per Scoto, S. Agostino, etc), alla sistemazione scolastica, al lavoro compiuto dopo l’epoca dei grandi Padri occidentali ed orientali. – Contemporaneamente non mancano persone alle quali piace occuparsi di teologia semplicemente cucendo insieme brani scritturali e brani patristici, soprattutto, se non esclusivamente, dei primi secoli, con meticolosissima cura nell’evitare qualsiasi terminologia scolastica, precisazione, definizione di cose e di termini. Questo fino è onestissimo, se si può escludere che il procedere a quel modo suppone o vuole un pregiudizio negativo nei confronti di quanto non è pura citazione di testi, per di più ristretti ad un certo alveo. – Riesce difficile dare un giudizio negativo ed affermare con certezza che quella procedura è dettata dalla precisa volontà di eliminare ogni dato di indagine scolastica. Tuttavia il sospetto che così possa essere viene, e non viene in modo del tutto gratuito. Noi ci siamo occupati nell’argomento in una precedente lettera a proposito delle varie accezioni della kerigmatica. Neppure possiamo documentatamente affermare che tutto questo sia caratteristica di una «teologia nuova», alla quale si raccolgono qua e là allusioni. Pertanto non intendiamo giudicare o attaccare qualcuno. – Siccome però è possibile che tali indizi abbiano una realtà e un significato negativo ed è possibile che si pensi veramente da taluni a costruire una «teologia nuova» sulla antipatia a qualsivoglia approfondimento scolastico, noi ci sentiamo davanti ad un pericolo. E, in forma del tutto ipotetica, dichiarando esplicitamente che non intendiamo giudicare nessuno, trattiamo dell’argomento come se ormai si potesse parlare di una corrente che intende fare una teologia nuova alla insegna della irrazionalità o della relatività rispetto ai principi naturali noti e fin qui assunti a spiegare i dati rilevati. Se il pericolo è inesistente, tanto meglio. Ne ringrazieremo Iddio! Ma, siccome il pericolo non è del tutto chimerico, avremo fatto il nostro dovere; perché un Pastore deve prevenire anche i pericoli solamente possibili con qualche grado di probabilità. Esistono malcelate antipatie per la teologia speculativa? Non ci può essere dubbio. Tali antipatie hanno il valore solamente di evitare esagerazioni, pleonasmi e poco uso della diretta parola di Dio, nel qual caso si dovrebbe solo rimproverare la intemperanza o la imprudenza di linguaggio? Non possiamo rispondere affermativamente, perché è difficile indagare le intenzioni. Tuttavia non possiamo escludere che si debba rispondere affermativamente. – In via di ipotesi, supponiamo di dover rispondere affermativamente. Le considerazioni che seguono le facciamo solo subordinatamente a tale ipotesi.

– La teologia speculativa è necessaria e non per una sola ragione. Gli uomini, anzitutto, vogliono capire almeno qualcosa in quello che si sentono dire. Quando sentono dire «incarnazione», vogliono avere una definizione almeno approssimativa della cosa, perché senza questa non capiscono nulla. La risposta dovrà essere data componendo insieme dati positivi della Scrittura e della Tradizione; ma questi dati sono espressi con parole che hanno un significato umano e che rimandano a concetti e principi usati nel lavoro concettuale degli uomini. Prendere questi termini, questi concetti e principi, vedere se possono essere assunti in pieno diritto e sicurezza per spiegare, mettere insieme i dati rivelati, farne una sintesi e delle deduzioni, significa fare quello che la intelligenza di un uomo normale domanda, soltanto per capire qualcosa. Ma fare tutto questo è fare della speculativa. Se ci si rinuncia, si rinuncia a spiegare, a intendere, e si domanda agli uomini non solo la fede, ma anche una cecità non necessaria alla purezza e integrità della fede. Chi sa che la parola di Dio porta con sé una ricchezza inesauribile sa per ciò stesso che può crescere la scienza di quella e che può e deve crescere il tesoro tratto da quella. Trarre è dedurre, esplicitare, applicare. La deduzione corre sempre su un ragionamento. La esplicitazione difficilmente fa a meno del ragionamento, la applicazione per lo meno esige un giudizio. Tutto questo significa far uso dell’umano raziocinio. O lo si presume, o si condanna la parola di Dio a chiudere la profusione delle sue ricchezze. Il lavoro sul dato rivelato non può essere affidato né al sentimento, né alla poesia, né alla fantasia; esso deve procedere secondo norme sicure, frettate e sperimentate da secoli, passate pertanto al vaglio del buonsenso comune e del magistero, quali vengono presentate nel Trattato De locis theologicis. La opposizione alla teologia speculativa è: o la opposizione a che intelligenza eserciti un suo diritto di intendere quello che accetta, arche se non può pretendere di esaurire e comprendere; oppure la accettazione di una impotenza e di un relativismo, che sono contrari a tutto il fatto della stessa Rivelazione.

– Esiste una contrarietà e alla assunzione di principi filosofici per la esplicazione del dogma e al riconoscimento di un valore sicuro e perenne in taluni principi filosofici? Tutto sommato si deve propendere per una risposta affermativa. Diciamo: «propendere». – Certo si leggono testi dei quali si dovrebbe dire: qui c’è la sfiducia della obiettività della conoscenza e nel ragionamento intellettuale. Si tratta di infiltrazioni kantiane e, più ancora, hegeliane. – In verità esistono ragioni certe per poter non avere più alcun timore né di Kant, né di Hegel. Non è nostra intenzione trattare qui dell’argomento, che merita, se mai, lunghe ed appropriate considerazioni a parte. Ma qui dobbiamo richiamare ad un punto, già espresso in una nostra lettera antecedente: dalla parola di Dio non si può avere (sia pure limitatamente) intelligenza certa, sicurezza, vera guida, fondamento di serena speranza, se non si attribuisce valore certo ed obiettivo ai termini e pertanto alla comprensione dei termini e alle altre necessarie operazioni dell’intelletto. Se questo valore di apprensione e di operazione intellettuale non esiste in maniera sufficiente, diviene inutile la Rivelazione di Dio, perché l’uomo non apprende quella, ma solo una sua mutevole ed inconsistente fantasia. La cosa sarebbe troppo grave. – Tutto ciò non cambia se si pretende affermare un relativismo nei principi, mutevoli secondo le età. A parte il fatto che questo modo di pensare è autentico modernismo, non si vede quale stima potremmo avere e quale tranquillità nutrire a proposito di un complesso rivelato, che per noi rimanesse sempre al di là di un velo, sicché non potessimo sapere mai se è sicuro o no. – È dunque necessario accettare i placita di una filosofìa perenne, che di fatto emerge con evidenza e dalla storia della filosofia e dalla storia umana. Pretendere di staccare violentemente la intelligenza della Rivelazione dal dato filosofico è non solo agire contro la tradizione della Chiesa, ma contro il più elementare buon senso. – Coloro che (contro le certezze raggiunte in campo filosofico e contro le definizioni del Concilio Vaticano I, a proposito della cognizione certa di Dio) si comportano come se non ci fossero principi certi naturali e non ci fosse il pieno diritto di servirsene perdono il diritto stesso di parlare (DS. 1785). E non vale, per riacquistarlo, fare il ricorso ad esperienze mistiche, ad afflati, perché se non siamo certi della obiettività del pensiero umano nessuno potrà distinguere gli afflati mistici dalla pazzia. Si traggano le conseguenze. — L’antipatia per san Tommaso o la messa in tacere della sua opera possente, che qua e là affiora, non è che una forma di opposizione e alla teologia speculativa e alla sicurezza dei principi filosofici naturalmente conosciuti, nonché alla obiettività della nostra cognizione. In verità non è opposizione a san Tommaso, ma è opposizione a tutto. Nei principi fondamentali necessari effettivamente gli altri grandi pensatori non differiscono da lui, qualunque possa essere la impronta personale del genio. San Tommaso in teologia vale anzitutto per il consenso che ha avuto e per la fiducia a lui decretata dal Magistero; vale perché espressione di una filosofia perenne; vale finalmente per il suo genio. Non si dimentichi tutto questo. Molti non lo hanno mai letto e tanto meno lo hanno considerato senza pregiudizio.

– L’antipatia per la sistemazione scolastica ha le stesse radici e pertanto non occorre si prolunghi il discorso. Ma c’è un dubbio più che legittimo ed è il seguente: nel campo filosofico al di fuori (Dio non voglia dentro!) degli studi cattolici, il canone che spesso appare supremo, quando non si tratta di mera ricerca critica e storica, è quello di non dire cose già dette e dire decentemente cose che altri non abbiano detto. Si tratta di un orgoglioso criterio che vuol fare l’uomo creatore della verità e non servo della medesima. Ed è orgoglioso criterio fuori d’ogni saggezza, perché è evidente che all’uomo, schiavo della morte e spesso di molte altre cose, non compete il diritto di «fare la verità». Sarà molto se la raggiungerà. – Affermazioni forse non intenzionali, raccolte qua e là, ingenerano il dubbio che in una nuova concezione della teologia si avrebbe oltre la estromissione della speculativa un restringimento della stessa teologia positiva. – Non c’è alcun dubbio che la testimonianza degli scrittori e Padri dei primi secoli acquista un valore storico particolare per la più vicina connessione cogli apostoli e con l’era della Rivelazione divina. Neppure c’è dubbio che il contributo dei grandi Padri nell’epoca aurea, e per l’intrinseco vigore e per la vittoriosa difesa contro le eresie e per l’influenza decisiva nel far entrare il Cristianesimo al livello intellettuale dei popoli allora veramente civili, debba essere considerato con fiducia e riverenza specialissime. Il che sempre è stato fatto e tuttavia si fa. Ma il valore sostanziale della testimonianza e del Magistero, che la garantisce, è lo stesso al quarto ed al ventesimo secolo. La Chiesa è «vivente» ora come allora; la trasmissione della verità è garantita ora, come allora. E pertanto non solo è infondata una distinzione sostanziale tra scrittori antichi e consenso moderno dei teologi, tra magistero dei primi quattro concili e odierno magistero della Chiesa; ma è indice di una posizione di fondo al tutto erronea. Infatti si ritiene la Chiesa non un corpo vivo, ma una mummia da conservare, sempre rifacendoci a quello che ha fatto, per la ragione che oggi non «può» far di più. Bisogna ammettere che questo giudizio non impedisce affatto il maggiore uso dei Padri antichi e dei padri orientali. Ma ciò non è questione teologica, è questione solamente tattica. Le due cose non vanno confuse. E sempre norma di metodo cominciare da quello che nei diversi interlocutori di un dialogo è base da tutti accettata o anche solo da tutti meglio compresa. – E allora, che pensare di una «teologia nuova»? Questo termine può essere facilmente equivoco e, se proprio lo si volesse assumere, dovrebbe essere spiegato e purificato da ombre non rassicuranti, e tanto meno convincenti. – Diciamo che è termine in sé equivoco per i motivi seguenti:

– Potrebbe insinuare che quanto fatto fin qui a proposito della verità rivelata abbia bisogno di riforma. Sarebbe la fine della divina Tradizione, la quale nel frattempo avrebbe dormito al punto di alterarsi; sarebbe la fine della efficacia e garanzia del Magistero, che nel frattempo avrebbe pure dormito. Sarebbe la fine, probabilmente. di gran parte di quello che è insegnato nel trattato De locis Teologicis, da tutti fino a questi anni ritenuto dottrina certa. Sarebbe principio della fine di tutto. – Potrebbe insinuare che nella Chiesa vi sono «epoche diverse» con profonde differenze tra di loro. Ritorneremmo al punto di vista non ignoto a qualche sognatore. Nulla nel dato rivelato autorizza a fare la più piccola supposizione di queste epoche «diverse». Appartiene invece alla fede che la Chiesa è immutabile e indefettibile pur camminando sempre in avanti fino alla pienezza del numero degli eletti.

— Potrebbe insinuare che nel mondo esistano un progresso ed una evoluzione tali da subordinare la Rivelazione che vi si dovrebbe adottare. In tal caso non la Rivelazione subordinerebbe gli uomini e quanto li riguarda in questo effimero passaggio terreno, ma sarebbe il complesso ristretto nell’effimero passaggio terreno a subordinare la Rivelazione divina. Non il mondo al giudizio di Cristo, ma Cristo al giudizio del mondo. Il rovesciamento sarebbe completo. Se Cristo fosse passabile di essere aggiogato al carro del mondo, non sarebbe più il Verbo eterno incarnato. – Per capire il valore delle piccole e crespuscolari deviazioni bisogna aver il coraggio di spingerle alle loro ultime conseguenze. Se ogni età dovesse adattarsi alle situazioni supposte nuove, dovesse spaventarsi di quello che succede e credere che una dilatazione di conoscenze nel campo meramente quantitativo debba portare squilibri in quello spirituale (che è al di fuori della quantità), noi assisteremmo non alla storia, ma alla vergognosa fuga dei deboli. E chiaro dunque che le insinuazioni poste dalla posizione equivoca del termine vanno respinte, nel caso in cui qualcuno fosse veramente invaghito del termine. Dietro a tutto questo c’è una ragione, della quale ci siamo occupati nella lettera diretta al nostro clero sui complessi di inferiorità.

Ecco quello che si auspica avvenga.

— Ulteriore perfezionamento dei metodi nell’identico perenne criterio teologico. Ciò significa impiego aggiornato delle migliori e cattolicamente serie esegesi dei testi, del loro valore storico, al quale può essere ammesso il valore teologico; quando lo merita, della nuova indagine filosofica; giusta dose nei particolari di fronte alle sintesi: purificazione da ristagni d’arzigogolo, di forzatura e di esagerate sottigliezze, nonché dalla gazzarra di facile opinabilità più adatta alla vanità dei singoli che alla migliore illustrazione della verità: credo Deo revelanti et non theologo opinanti.

— Ulteriore studio di «presentazione» alle diverse età. Questo importa un impiego di tutta la cultura contemporanea e di tutte le risorse dello studio psicologico. Ciò importa una scelta di diverse sistemazioni, di sintesi, che adatti meglio e non alteri la verità in se stessa. Importa ancora, quando occorresse, un superamento di troppo severe distinzioni tra diverse parti ed aspetti della teologia.

– Ulteriore approfondimento, ulteriore deduzione, ulteriore sintesi. Ulteriore ricerca storica e ulteriore perfezionamento del metodo e delle attitudini apologetiche. Non si dimentichi che abbiamo sempre davanti un mondo che vuole essere «convinto». – Concludendo. Il «nuovo» non può ledere quello che è stato fin qui certo, non può apportare quello che sia in contrasto con quanto fin qui «certo». Al di là di questa posizione non c’è che il relativismo e un relativismo improntato alla corsa nello spazio e nel tempo di un mondo che ci ospita così poco tempo. Il relativismo non si può comporre con la Rivelazione cristiana, ma, considerando quanto ora detto, appare che non vale la pena di dare qualsivoglia importanza al relativismo. – Perché abbiamo parlato qui della teologia senza raziocinio? Esiste in questo mondo la suggestione di abbandonarsi agli schemi metodologici di filosofie già superate. Nella frenesia del movimento e delle complicazioni esiste la tentazione di lasciarsi sedurre dalla paura di fatti e di ombre di tempi ormai andati. E una moda. Abbiamo timore che la teologia senza raziocinio, se esiste o se ne esiste la voglia, trovi là la sua spiegazione.

Il mito della disobbedienza

Prima di essere mito è fatto e diventa mito perché al fatto si vuole dare una giustificazione teorica e più che teorica una giustificazione violenta, la solita: tutto è cambiato e tutto deve cambiare. Come se fossero già cambiati nascita, morte, amore, debolezza, giovinezza, vecchiaia, limiti, decadenze, leggi interiori, etc. Quando delle cose si dà una giustificazione violenta e non razionale, siamo nel caso della «moda». L’argomento è qui per questo motivo e perché sta dissolvendo la disciplina ecclesiastica di molti del clero secolare e, non meno, regolare. – Guardiamo il fatto. La disobbedienza a Dio non ha bisogno neppure di essere giustificata per il gran mondo. Ogni tanto la opinione pubblica è intrattenuta su qualche celebre processo che mette bene in mostra come la ragione di colpire i delitti è in sostanza quella di essersi fatti colpire dalla legge per averne quadrati i termini. – I figli che proclamano la piena indipendenza ed allontanano i genitori per incapacità a capirli trovano difensori in tutto il mondo. Anzi ci sono intere scuole le quali insegnano che ai figli si deve dare solo e molto rispettosamente un’istruzione, perché l’educazione se la debbono scegliere e dare da sé e il tentare di darla loro è una vera manomissione della libertà e dignità personali. L’obbedienza nel gran mondo si salva ancora nel settore militare. Per quello civile l’obbedienza resiste ancora fino ad un certo punto, ma come dolorosa e per il momento indeclinabile necessità. – Il fatto, anche tra persone per bene, si afferma in un altro modo: creando un certo mito della personalità e dei suoi indefiniti diritti, il mito della libertà anche all’interno della coscienza, il mito della dignità, attenuando tutto ciò che è autorità e che risplende nella autorità. Questo modo è uguale agli altri, con la sola differenza che è insincero. Le fazioni, le correnti, sono quello che tutti sanno; ma sono anche una delle scappatoie più facili per sottrarsi allo spirito di obbedienza ed alla obbedienza stessa. Esse sembrano fornire buone ragioni per sottrarsi, con artificiali sembianze di saggezza, ad una dipendenza. La fazione politica riesce a minare la dipendenza a statuti, a patti, ad ogni cosa; basta semplicemente che in qualche momento sia predominante. E non è affatto difficile diventi predominante. – Correre la via della vita senza assolutamente impacci e remore, bere all’agitato mondo in rivolta contro ogni freno e legge, con l’impressione di tuffarsi nell’aria libera e inebriante, di correre veramente la cresta dell’onda, di rompere qualcosa per godere dello sconquasso come in una diabolica ma frenetica musica, è mito dorato di gioventù. I rotocalchi fotografano ogni settimana soprattutto questo diabolico mito dorato. L’estensione del mito è tale che anche i buoni si chiedono se per l’avventura non sono sciocchi a non seguirlo. Esso è il mondo, l’anima, tutto, assolutamente tutto, a rovescio. Come sogno pieno dura poco; ma le ombre di questo sogno possono accompagnare un’esistenza. Tutto questo tocca, sia pure in genere senza i colori più foschi ora ricordati, anche molti ecclesiastici e religiosi. – Il mito della disobbedienza ha un grande strumento suggeritogli dal metodo freudiano di dragare i fondi dei laghi per farne risalire tutto il pantano. Si parla di quello che è più umano e debole, che spoetizza; i particolari – appunto perché stralciati a piacimento da un contesto che li doterebbe d’altra interpretazione – prendono l’aspetto della miseria, della cattiveria, della meschinità, della passione e di tutti i prodotti e sottoprodotti della superbia. Abbiamo letto in diverse lingue vari rapporti, racconti, informazioni sul Concilio e non siamo stati affatto confortati da una simile letteratura, libertina quanto alla stima dei superiori e alla obbedienza verso i superiori. – Quando le firme, vere o mentite, erano di taluni, ci siamo chiesti a che punto era giunta la loro coscienza. Tutto hanno messo in piazza, tutto stralciato dall’insieme, tutto presentato nella luce falsa di uno scopo pregiudiziale. La verità, certo, è compromessa; ma l’educazione alla disistima, al disprezzo, alla rivolta, è fatta! – Ed ecco il controluce del mito della disobbedienza: la tirannia. Quando c’è la prevalenza, quando si è instaurato politicamente qualche «regime», allora è la dedizione folle alla piaggeria, alla adulazione, alla farsa delle adunate e delle acclamazioni alle regie di immortalità, alla delazione mortale, alla macabra orgia delle vendette. Questo secolo ha una bella collezione e la collezione continua. Tutto questo non parrebbe disobbedienza. No! Nasce sullo stesso tronco della disobbedienza. E fiore dello stesso mito, fatto, sì, a rovescio, ma egualmente testimone! – Il mito della disobbedienza ha la sua teoria. Non parlo della teoria positivista della necessità esterna, alla quale si riduce l’obbligo di obbedienza, e neppure di altre illustri teorie rivoluzionarie che sono talmente contraddittorie da imporre cose contraddittorie, nella sola variante di tempo; oggi insubordinazione rivoltosa, domani obbedienza cieca in clima di terrore. Parlo della teoria «felpata» espressa in termini rispettabili e apparentemente onesti. La teoria felpata procede così:

– democrazia soprattutto (ma certo che la democrazia è buona e può essere ottima, ma non viene prima nella guida morale degli uomini; basta metterla prima, perché l’ordine sia rotto);

– personalità anzitutto (può essere vero, se si considerano le cose in un campo ristretto soltanto, nel quale effettivamente il rispetto alla personalità viene per primo. Non è forse dedicata tutta al principio di rispettare la personalità umana la enciclica Rerum Novarum Ma non si scosta dal principio primo: che è Dio e la sudditanza a Lui);

– saggezza nella obbedienza (e chi può dire che la saggezza sia cosa di cui diffidare? Ma quando saggezza nella obbedienza significa, come generalmente significa, riserva di obbedire, subordinando al proprio personale giudizio la validità del comando e la saggezza della norma, allora la obbedienza vera è semplicemente morta);

– niente piaggeria verso il superiore (giustissimo in sé. Ma, quando ciò significa: lesinargli tutto, anche quello che si dà ai cani, perché nessuno possa pensare che si sia dei devoti della autorità, dei profittatori di situazioni, dei codini etc …, allora si considera il superiore come un «male da contenere» attraverso la propria giusta severità. Così si può arrivare alla asfissia del superiore e alla palliata completa rivolta). – Basta una intelligenza mediocre, basta un po’ di debolezza, basta una qualunque passione, perché tale teoria trovi posto persino in mezzo ad atteggiamenti mistici. Ma è solo la capitolazione al mito della disobbedienza. Questa è la situazione, dalla quale, cari confratelli, dovete difendere voi e i giovani che vi sono affidati. Diciamo: difendere voi e loro, non diciamo: difendere l’autorità (anche se possiamo legittimamente dirlo), perché come vedrete appresso, l’obbedienza è in favore dell’obbediente e la disobbedienza è già di per se stessa un castigo del disobbediente. Al «mito» si oppone la realtà, ossia la verità. Vogliate riflettere ad alcune proposizioni che sottoponiamo appresso.

– L’obbedienza trova la sua ultima radice nel volere divino. Si obbedisce perché Dio vuole si obbedisca. Davanti a questa verità si capisce che motivo dell’obbedienza non è né il valore né la benevolenza, né la saggezza di coloro ai quali si obbedisce. Il motivo è la intrinseca moralità dell’obbedire, in ultima analisi è la conformità al volere divino.

– Dio ha formulato la legge naturale e quella positivo-divina. Ma esse non sono l’unico strumento per il quale arriva a noi la divina volontà, soprattutto nel dettaglio concreto e minuto. Ci sono le conseguenze dell’uno e dell’altra, ad esempio la legge ecclesiastica e la legge civile. Ci sono le persone, gli statuti, le norme, le azioni contrattuali, le situazioni, dalle quali, per giusta connessione e derivazione alle sorgenti prime della legge, giunge a noi la norma generale e la norma singola. Questo collegamento rende molti fatti e persone umane portatori legittimi della volontà divina. Naturalmente potranno accadere casi nei quali tali portatori si mettano fuori della legittimità di comandare in genere e in dettaglio. In tal caso non saranno più portatori legittimi della volontà divina. Ma tale caso non si presume mai, che si presume il contrario, mentre esso dovrà essere dimostrato, applicando le norme ordinarie della teologia morale. In sostanza: non si obbedisce mai puramente ad un uomo, ma si obbedisce solamente a Dio. E ciò basta a insinuare il carattere serio, interiore della obbedienza. Diciamo interiore, perché Dio è signore e giudice anche dell’interno dell’uomo. E si capisce come esiste anche una obbedienza intellettuale (la fede lo è di fatto), purché esista una autorità legittimata a questo. Dio può chiedere perfettamente tale obbedienza. E ovvio che l’obbedienza non ammette la riserva di verifica se il comando sia saggio. Tale riserva oltraggia il motivo ultimo per cui solamente si obbedisce: «è Dio che vuole si obbedisca. – Ci si potrebbe fermare qui. È detto quanto occorre. Ma non possiamo dispensarci dal proporre alcune altre riflessioni integrative, che servono a costruire la profonda filosofia della obbedienza.

– L’obbedienza diventa merito davanti a Dio, anzi diventa amore. Lo stesso Redentore ha insegnato… «non chi dice Signore, Signore, ma chi fa la volontà del Padre…» (Mt. VII, 21).

– L’obbedienza ha merito tanto più grande e tanto più realizza l’amore di Dio, quanto più sono invisibili le ragioni per le quali diventerebbe ovvia a chiunque una obbedienza, quanto più costa il ricevere la norma da persone indigeste, inferiori, etc. In tutta la economia divina è norma generale, proprio per aumentare il valore del merito, inserire dei «medi» ed allungare le distanze. Non è forse vero che noi amiamo Dio veramente quanto amiamo i fratelli anche se sono in sé odiosi? – L’obbedienza, per questo, al di sopra ed al di fuori della saggezza di chi comanda, ha sempre una soprannaturale saggezza, perché si adegua alla saggezza superiore divina ed al piano della Provvidenza. Che si adegui ad una soprannaturale saggezza è certo, perché si adegua al volere di Dio. Poiché si adegua al volere di Dio, si adegua al piano della Provvidenza e pertanto giunge sempre ad un buon fine, anche se potrebbe apparire difettosa la prudenza ed intelligenza di chi ha comandato. Dio non chiede che si dia prova di hrbizia nell’obbedire, ma prova di amore al di là di ogni furbizia. Chi disobbedisce potrà anche dar prova di intuizione e prudenza ed ottenere meglio uno scopo; ma, poiché in definitiva non si adegua alla volontà di Dio, sbaglia certamente. La Provvidenza non aiuta la disobbedienza, ed il suo piano ultimo è per dar ragione alla verità ed il bene. Questo è il motivo per cui chi disobbedisce ha sempre da temere: ha messo l’errore e la giustizia vendicativa sulla sua strada. Il che vale tanto più quando la disobbedienza è ad una autorità sacra, la quale trae il suo valore da una soprannaturale positiva costituzione.

– L’obbedienza dona il completamento agli uomini, perché permette ci si completi con l’altrui saggezza ed esperienza. Questo «completamento» va meditato bene, anche se non è l’aspetto maggiore della virtù e dello spirito di obbedienza. Il bimbo che obbedisce sommerà la inesperienza ed ingenuità propria colla esperienza e la conoscenza altrui; il bimbo che non obbedisce sommerà solo le carenze proprie aprendo le porte a tutte le carenze altrui. Il discepolo che apprende obbedendo e non affidandosi alla presunzione otterrà lo stesso risultato. Anche se in questo mondo esistono leggi ingiuste, sciocche e superate o dannose, in via generale la legge deve presumersi frutto di una collettiva esperienza e l’osservarla, sotto questo profilo, aumenta la saggezza e la prudenza di chi la osserva.

— L’obbedienza dona il più costoso esercizio di volontà. L’esercizio aumenta la caratura della volontà ed è questa che fa gli uomini forti.

— L’obbedienza è il sostegno della responsabilità, che è la lima di chi la porta; perché è quando si ha la fortuna di obbedire che non si resta nel dubbio e nella colpa: la obbedienza manleva.

— L’obbedienza, finalmente, è la custode del diritto, della concordia e della pace. Questioni che nessun accordo può sistemare si chiudono fecondamente con l’obbedienza. Il mito della disobbedienza è un inganno: questa affermazione è conseguenza di quanto detto fin qui. Se la obbedienza è nella verità dell’«ordine», la disobbedienza è per natura sua nella linea dell’errore e pertanto dell’inganno. La obbedienza sola mette sul piano della Provvidenza: è per questo che la disobbedienza mette sulla via sbagliata. Che cosa significa la via sbagliata? Ogni «no» che si dice a Dio nella vita sposta su un angolo erroneo il lato che la delimita; per la nuova ampiezza d’angolo la via è diversa da quella che dovrebbe essere. Le infinite risorse della divina bontà e la penitenza possono rimediare; ma potrebbe accadere che il rimedio non si effettui. I nostri atti ci seguono: non sappiamo fin dove arrivi il loro svolgimento. Potrebbe superare di molto la nostra vita. La coscienza non può essere impunemente tranquilla, quando ha violato la linea dell’ordine divino. Allorché si tratta di disobbedienza alla Chiesa, la cosa diviene più grave, perché Dio ratifica il comando della Chiesa (cfr. Mt. XVIII,18). Quando le cose portano in qualche modo la firma di Dio, al di là di quella superna sanzione può stare il disordine di tutto: «Vir obœdiens loquetur victorias» (Prov. XXI, 28). – In conclusione, obbedire non è una vergogna: è un ordine, è verità, è saggezza, è acquisto, è merito ed amore. Domani sarà gloria. Occorre più forza per obbedire, che non per disobbedire. In genere la disobbedienza è l’arma dei deboli come la bugia; la obbedienza è l’espressione dei forti. Sarebbe un errore sottovalutare questo aspetto anche puramente umano dell’obbedienza e della disobbedienza. Tutto conduce a concludere che il mito della disobbedienza ha con sé la nemesi della sua stolta impudenza. Si noti bene che noi non abbiamo parlato direttamente di disobbedienza o di obbedienza; abbiamo parlato di un mito. La disobbedienza è un peccato, il mito della disobbedienza è una stortura patologica permanente, anche quando c’è apparenza di obbedienza, Perché io posso aver le arie di osservare tutto il diritto canonico, ma, se si ha nell’anima il mito con tutto quello di fantastico, irreale e magari demoniaco che il mito porta seco, la interpretazione del diritto canonico sarà alterata, come tutto risulterà alterato. È pertanto sul mito irrompente dappertutto, che potrebbe sedurre anche voi, che noi abbiamo attirato la vostra attenzione. ».[In questa magistrale esposizione il Santo Padre enuncia il principio al quale ha ispirato la sua vita di Papa “prigioniero”. Ecco il principio per cui, obbedendo pure ai falsi papi, Gregorio XVII obbediva a Dio stesso ed alla Sua volontà che, seppure umanamente incomprensibile al momento, era sempre “volontà divina” inaccessibile alla mente umana limitata al solo ambito spazio-temporale della sua breve vita – è sicuramente così che la Chiesa di Cristo, proprio per l’ubbidienza a Dio del Sommo Pontefice “impedito” ed “esiliato”, potrà perpetuarsi, anzi si è già perpetuata secondo la promessa evangelica, ad onta delle azioni sataniche distruttive degli gnostici modernisti, dei marrani della quinta colonna, delle sette massoniche e dei “disobbedienti” sedevacantisti e fallibilisti gallicani, di coloro che odiano Dio e tutti gli uomini, degli ignavi pastori “cani muti, rosicchianti l’osso e con la testa nella ciotola di lenticchie”! – ndr. -]