LA BATTAGLIA DI LEPANTO

La battaglia di Lepanto.

[da: C. Castiglioni: Storia dei Papi, II vol. – UTET ed. Torino, 1957, impr.]

Una grave minaccia incombeva da oltre un secolo sul cattolicesimo e su tutta l’Europa cristiana, l’invasione turca. Pio V fu uno dei papi che più energicamente ed efficacemente diedero opera a sventare quella minaccia. Nel secondo mese del suo pontificato scriveva a Giovanni La Vallette, Gran Maestro de’ Cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme, per incitarlo a resistere in Malta che era assalita dai Turchi. Gli prometteva soccorsi da parte del re cattolico; metteva a disposizione per l’impresa 57.000 scudi d’oro e autorizzava il La Vallette a chiedere in Francia un prestito di 50.000 scudi d’oro, permettendo di garantirlo sulle commende di Francia e di Spagna. Il Gran Maestro poté così rinnovare tutte le fortificazioni di Malta, e costruirvi una cittadella ben munita. – Fallita la conquista di Malta, i Turchi si gettarono sull’arcipelago greco, e si impadronirono delle isole di Chio, di Nasso, di Andro e Ceo (1566). Navi turche comparvero anche nell’Adriatico e minacciavano Ancona. Pio V si affrettò ad inviare Truppe e artiglierie, e in brevissimo tempo allestiva anche un corpo di 4000 uomini per la difesa della costa. Non fidando nei soli mezzi terreni, il Pontefice invitava tutta la cristianità a supplicare i divini aiuti, ed indiceva il 21 luglio 1566 il giubileo per il buon successo della guerra contro i Turchi. –

 

Stendardo dell’armata cristiana

Pio V fu il campione della cristianità contro l’Islam. Per quanto fosse alieno per natura e per sentimento dalle armi e dalle guerre, se ne occupò con tutto l’animo, e non si dette pace finché non riuscì ad organizzare una lega di popoli cristiani contro il Turco. – Egli valutava la situazione reale meglio che non la stessa repubblica veneta, la quale si trovava in continui contatti coi Turchi. Venezia chiedeva al Papa aiuto e specialmente di danaro, ma Pio V era convinto che la repubblica da sola sarebbe stata impotente. Voleva ad ogni costo formare una lega quanto più larga possibile, mentre i Veneziani invece sembravano diffidenti e gelosi degli altri stati cristiani. – A Solimano il Magnifico era successo (1566) il figlio Selim II, brutto, piccolo, dedito ai vini e ai liquori, tanto che lo soprannominarono l’Ubbriacone. Odiava il nome « cristiano », e per quanto fosse molto lontano dall’avere la virtù militare del padre, vagheggiava di estendere ancor più il potere della Mezzaluna. Nel 1570 inviava una potentissima squadra ad impadronirsi dell’isola di Cipro. Dopo un’eroica resistenza di due mesi, la capitale Nicosia si arrendeva: vi perirono 15.000 cristiani, oltre 2000 che vennero ridotti in schiavitù (15 agosto 1570). I vincitori si dirigevano contro Famagosta, la seconda città dell’isola, che era governata da Marc’Antonio Bragadino. La ferocia dei Musulmani, per spaventare l’eroico difensore, gli aveva inviato la testa di Niccolò Dandolo, il governatore di Nicosia. Ma il Bragadino non si sbigottì, e incominciò quella memorabile resistenza, « che resterà sempre monumento di gloria negli annali militari ». Pio V, con l’opera sua insistente, nel frattempo stringeva in lega Venezia, Genova, il ducato di Savoia, il granducato di Toscana, Filippo II, nonché lo Stato pontificio e i cavalieri di Malta (maggio 1571). Purtroppo i collegati furono tardi nelle loro mosse; la Spagna diffidava di Venezia. Il visir Mustafà ebbe tempo di ridurre agli estremi la città di Famagosta, e il Bragadino, dopo due mesi di lotta accanita, venuti meno le munizioni e i viveri, dovette trattare la resa (2 agosto). L’ottenne onorevole: i soldati cristiani sarebbero stati trasportati su navigli turchi all’isola di Candia; libertà parimenti agli abitanti di Famagosta per espatriare, salva la vita, e libertà di religione a quanti volevano rimanere. – Ma il barbaro vincitore, appena ebbe nelle mani la fortezza, beffandosi dei patti sottoscritti, ordinò che i capi fossero trucidati, i soldati tratti in servitù e il popolo spogliato. Il Bragadino, dopo che l a soldataglia l’ebbe sfregiato in volto coi pugnali, fu gettato in prigione, dove fu tormentato in ogni guisa per undici giorni. Trascinato quindi sulla piazza della città, i carnefici lo denudarono, lo stesero su di una pietra e lo scuoiarono vivo. Il martire spirò mormorando le parole del salmo della penitenza: Miserere mei, Deus. La pelle del Bragadino fu riempita di paglia, e per volere di Mustafà sospesa come trofeo di guerra all’antenna della nave capitana. L’ultimo baluardo cristiano nel Levante era caduto. Alla ferale notizia pianse a calde lagrime il Pontefice, e con voce di rimprovero si rivolse ai collegati cristiani, che erano stati spettatori inerti della perdita dell’asilo di Cipro. – I Turchi, imbaldanziti per la vittoria, minacciavano di prendere l’offensiva su più vasta scala. Non c’era tempo da perdere; bisognava agire subito. La flotta cristiana contava 243 legni tra grandi e piccoli, con 1800 cannoni e 80.000 uomini. Comandante supremo era Don Giovanni d’Austria, fratello naturale di Filippo II; più della metà delle navi erano italiane. Al governo dell’ala destra fu posto il genovese Giovanni Andrea Doria, della sinistra il provveditore veneto Agostino Barbarigo, del centro il veneto Sebastiano Venier e Marc’Antonio Colonna romano. Vi erano anche Andrea Provana di Leynì con tre navi dei Savoia, il Commendatore dell’Ordine di Malta pure con tre navi, e molti nobili venturieri, Alessandro Farnese di Parma, il duca d’Urbino, Ettore Spinola, Giovanni Cardona, Onorato Gaetani e Michele Cervantes di Saavedra. Il sultano opponeva complessivamente 282 legni con 90.000 persone e 750 cannoni, al comando del Capudan-pascià Ali, del serraschiere Pertaù, del governatore di Alessandria d’Egitto Maometto Scirocco e del re di Algeri, Lucciali, il Tignoso, rinnegato calabrese.

– BARTOLOMEO SERENO (autore dei Commentari alla guerra di Cipro e della Santa Lega dei Prìncipi cristiani contro il Turco) si introduce a parlare della grandiosa vicenda, che domina incontrastata nella storia navale e religiosa dell’età moderna, con queste parole di sapore epico: « Nessun giorno fu mai tanto tremendo né tanto ricordevole e glorioso, dopo che Dio operò in terra l’umana salute, quanto il 7 ottobre 1571 ». Il Sereno prese parte alla battaglia combattendo sulla galea pontificia Curzolari, la mattina del 7 ottobre 1571. Era mezzogiorno, quando dalla nave di Ali partì il primo colpo; il sole splendeva alto sull’orizzonte; il mare in bonaccia; il vento taceva. Le due flotte distavano fra loro un tiro di cannone; per la vasta distesa del mare non vedevasi che una selva di alberature, dalle quali pendevano vele e bandiere dai colori più svariati. In breve ora il sole fu offuscato dal furibondo cannoneggiare delle due parti: le flotte vogarono a tutta forza l’una contro l’altra; si mescolarono in un furioso corpo a corpo. – La nave di Ali investì la nave ammiraglia dei cristiani: Sebastiano Venier mosse con la sua nave contro la capitana nemica; un fracasso orrendo per il cozzar delle armi, che dai ponti accostati scagliavano i combattenti. Maestosa e sublime era la figura del vegliardo di S. Marco, che, a capo scoperto, con una zagaglia in mano, elevato sulla corsìa della nave, incitava e dirigeva i suoi all’arrembaggio. Fu colpito da una freccia ad un piede, ma non si mosse; cadevano colpiti a morte davanti ai suoi occhi Giovanni Loredano e Caterino Malpiero, e il nipote Lorenzo Venier rimaneva ferito da tre frecce. Ali perdeva la vita, e la battaglia, durata poco più di cinque ore e ritenuta la più grande delle battaglie navali nei tempi antichi e nei moderni, l’ultima e più gloriosa battaglia della cristianità.

Giovanni d’Austria – M. Colonna – S. Vernier

All’ala sinistra, fronteggiando Maometto Scirocco, Agostino Barbarigo compi prodigi di valore. Una freccia nemica lo colpì all’occhio destro mortalmente, e cadde rovescioni sul ponte. Pregato a ritirarsi per medicare la ferita, non acconsentì, ma rizzatosi in piedi, continuò ad impartire gli ordini finché non vide debellata l’ala nemica che gli stava di fronte. Scese allora nella sua camera: estrasse con la propria mano la scheggia di ferro dall’occhiaia e si pose a giacere per morire. Quando gli annunciarono la vittoria dei cristiani, levate le braccia al cielo, ringraziò Iddio e spirò. La vittoria dei cristiani fu piena e completa; era costata loro ottomila vittime, ma al nemico ne uccisero più di venticinquemila; gli affondarono ed incendiarono ottanta galere oltre i semplici fusti; gli catturarono altri centodiciassette legni; e liberarono parecchie decine di cristiani, che erano addetti ai remi, come schiavi, delle navi nemiche. Sulla nave ammiraglia, all’ombra dello stendardo benedetto da Pio V e che recava l’immagine di Cristo crocifisso, si raccolsero i capitani attorno all’ammiraglio: Marc’Antonio Colonna, Don Giovanni d’Austria e Sebastiano Venier si baciarono l’un l’altro, fieri d’aver salvato in quella giornata l’Europa cristiana dalla Mezzaluna. – A coronare l’impresa e a completare la vittoria non rimaneva che drizzare le vele verso Costantinopoli, dove il panico era universale; là avrebbero potuto vendicare la memoria del Bragadino; ma Genova e la Spagna temettero che Venezia ne guadagnasse troppo, e non vollero saperne di navigare verso l’oriente. Presero la via del ritorno, a ricevere le felicitazioni di tutti i popoli, che tripudiavano alla notizia della strepitosa vittoria. –

Visione di S. Pio V

Il sommo Pontefice il giorno della battaglia, nel fervore della preghiera, ebbe la visione del trionfo cristiano, e stette in ansia alcuni giorni, perché la fausta notizia sembrava tardasse a giungere. Un messaggero veneto giunse a Roma a mezzanotte; il Papa l’accolse in quell’ora, e inginocchiatosi esclamò: « Iddio ha ascoltato la preghiera degli umili; queste cose vengono scritte per la posterità, ed i popoli futuri loderano il Signore ». Grandi feste furono celebrate a Venezia e a Roma, dove l’ammiraglio della flotta pontificia entrava a guisa di un antico trionfatore romano. Perché non si avesse coll’andar del tempo a perdere il ricordo della vittoria, Pio V introdusse nelle Litanie lauretane l’invocazione: Auxilium Christianorum, ed istituì la festa di Maria Santissima della Vittoria da celebrarsi il 7 ottobre, giorno della battaglia di Lepanto. E siccome attribuiva la vittoria a Maria Santissima invocata con la devozione del santo Rosario, il successore Gregorio XIII ordinò che in tutta la di ottobre. A Venezia, durante le feste di ringraziamento per l a conseguita vittoria, Paolo Paruta recitò l’orazione solenne a gloria e a suffragio degli eroi caduti per la patria e per la fede.

Che l’Auxilium Christianorum, per intercessione di S. Pio V ci liberi dalla barbarie musulmana odierna che ormai ci soffoca e vuole ancora una volta opprimere i Cristiani fin nelle proprie terre e nelle proprie abitazioni.

Vergine del Rosario, ora pro nobis!

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (6)

GNOSI E PLATONISMO -III-

Platone e sant’Agostino

[Elaborato dal volume di E. Couvert, “La gnose contre la foi”, cap. I]

In una esposizione sul “neoplatonismo” è necessario terminare con un attento esame dell’itinerario spirituale di Sant’Agostino. In effetti, un recente teologo, Gustave Bardy, ha potuto scrivere: « Di per sé il neoplatonismo non è necessariamente pagano e l’esempio di sant’Agostino che troverà ben presto nei libri neoplatonici la rivelazione delle qualità spirituali come la via più sicura verso il Cristianesimo, è sufficiente a dimostrarlo. » Non è possibile scrivere più falsamente una tanto manifesta contro-verità. Per tutto quanto in precedenza esposto, abbiamo dimostrato l’incompatibilità radicale, assoluta, che esiste tra platonismo e Cristianesimo. Noi abbiamo ugualmente dimostrato che i filosofi neoplatonici hanno costituito la loro scuola di pensiero come una “macchina da guerra” contro il Cristianesimo nascente [come in tempi recenti il modernismo gnostico-massonico contro la Chiesa Cattolica]. – Sfortunatamente Sant’Agostino è stato attirato dal neo platonismo e tutto il suo itinerario mostra con evidenza che ha dovuto rigettare tutte le tesi platoniche una dopo l’altra per restare fedele alla sua fede cristiana, man mano che l’approfondiva. Passiamo a verificarlo. Dopo un lungo soggiorno presso i manichei, Agostino ritorna alla fede cristiana della sua infanzia ed alla pratica religiosa sotto l’influenza di Sant’Ambrogio a Milano, del quale ascolta attentamente i sermoni e dopo una frequentazione personale con questo grande Vescovo. Simultaneamente Agostino ha scoperto la filosofia di Platone negli scritti neoplatonici. Egli ha letto allora i trattati di Plotino nella traduzione latina di Marius Victorinus che glieli ha direttamente messi tra le mani. Egli ha certamente letto anche Porfirio, come segnala Pierre Labriolle, benché questo autore fosse apertamente e tenacemente anticristiano. Questo fu per lui un abbaglio, una sorta di nuova conversione, simultanea al suo ritorno alla fede cristiana. Egli parla di queste opere con entusiasmo come se la loro lettura fosse una grazia divina. I libri “platonici” hanno acceso in lui  un “incredibile incendio” (etiam mihi de meipso incredibile incendium concitarunt). Egli crede che siano in accordo con la fede cristiana e ne spera luce. « Dopo aver letto qualche libro di Plotino, egli scrive nel “De Beata Vita”, e dopo averli comparati meglio con l’autorità di coloro che ci hanno trasmesso i divini misteri, io li ho gettati al fuoco » (“sic exarsit”). Tuttavia egli ha già notato qualche esitazione: era un peccatore, un uomo dall’immenso orgoglio colui che gli aveva messo in mano questi libri. Egli ha pure marcato una inquietudine: « Se io fossi stato dapprima formato alle tue Sante lettere e familiarizzato con la loro dolcezza, ed avessi in seguito incontrato gli scritti platonici, o essi mi avrebbero staccato dal solido fondamento della pietà, oppure, sarei rimasto meglio fondato in questa disposizione di salvezza, e non avrei creduto che queste sole opere potessero condurre allo stesso punto. » – Noi sappiamo dunque che Agostino non ha conosciuto le opere di Platone, ma le ha assorbite attraverso i filosofi neoplatonici, nella sistematizzazione che essi avevano fatto per erigere un ostacolo insormontabile all’espansione del Cristianesimo negli spiriti coltivati. Agostino crede di vedere anche in San Paolo degli elementi platonici, come quando ad esempio questi oppone la carne allo spirito, … – La prima difficoltà incontrata da Sant’Agostino nel platonismo, è la condanna della materia, della carne e del corpo, questo oscuro pessimismo, questo vero dualismo tra l’anima ed il corpo che i neoplatonici hanno sistematizzato; ma la dottrina cristiana del peccato gli ha aperto gli occhi. Ne “La città di Dio”, egli rimprovera a Platone ed a Virgilio di aver posto la causa del peccato nella carne invece che cercarla nell’anima: « Nam corruptio corporis quæ aggravat animam non peccati primi est causa, sed pœna, nec caro corruptilis animam peccatricem, sed anima peccatrix fecit esse corruptibilem carnem. » Egli incontra egualmente il dogma della resurrezione dei corpi, questo dogma così poco greco, scandalo per i platonici, che pretende che questo putridume, questo odioso carapace, sarà un giorno partecipe della visione beatifica, come ha detto San Paolo: « La riabilitazione della carne e la ricapitolazione di tutte le cose in Cristo. » Il desiderio che Plotino manifesta di evadere dal mondo sensibile e fuggire verso l’eterno gli sembra un errore sulla natura del mondo sensibile e manifesta un pessimismo o anche un dualismo che Agostino non ha compreso dall’inizio, ma che denuncerà più tardi, soprattutto ne “La città di Dio”. – La seconda difficoltà incontrata da Sant’Agostino nei platonici, è la concezione dell’ἔρως [eros], dell’amore platonico, un desiderio di bene per sé, determinato dalla ricerca del piacere personale, un amore dunque ripiegato su se stesso, che rifiuta il dono generoso, un amore puramente ascendente. Egli gli oppone l’ἀγαπη [agape], amore che diffonde il bene all’essere amato, movimento verso gli altri, rinunzia a se stesso, amore discendente, come quello di un padre verso i propri figli. Ed è a questa concezione dell’amore che Sant’Agostino applica la libertà: un amore che si dà, può anche rifiutarsi. È questa possibilità che rientra nella natura del dono, ed è la realizzazione di questa possibilità che costituisce il peccato. Il male non è nelle cose, né nella materia, né nell’insieme degli esseri creati, ma nel rifiuto del dono! Ed è questa l’antitesi del platonismo. – La terza difficoltà che incontra Sant’Agostino è la pretesa che i platonici avanzavano di poter con le proprie forze realizzare la loro divinizzazione. In effetti per Plotino, come per Platone, l’anima è di natura divina (θείον = teion), e possiede in sé medesima questa divinità d’origine, ma velata, oscurata dal corpo e dalla materia. La “teurgia” non è altra cosa che questa risalita verso gli astri, verso il cielo originario, è il “ritorno all’unità primordiale” dei nostri gnostici. Plotino propone un’estasi realmente divina. – Questa operazione di ritorno al divino è denunciata da Sant’Agostino  come un “incredibile orgoglio”: « Con una vanità stupefacente, essi hanno voluto essere felici quaggiù e fare essi stessi la loro felicità » (“Nec beati esse et a seipsis beati fieri mira vanitate voluerunt”). Egli condanna, nelle “Confessioni”, la ricerca della “visione curiosa” della divinità, perché essa comporta la pratica della magia e dunque necessariamente la mediazione dei demoni. Infine, come necessaria conseguenza, Sant’Agostino condanna, come pure nei platonici, il panteismo implicito in tutta la loro costruzione intellettuale. Ed in ciò le sue formule sono scuotenti: le creature conducono a Dio, non perché esse sono divine, ma per ciò che loro manca: « Io ho interrogato la terra, dice Agostino, ed essa mi ha detto: non sono io. Io ho interrogato i mari, gli abissi, i rettili dalle anime viventi, ed essi hanno risposto: noi non siamo il tuo Dio, cerca al di sopra di noi. Io ho chiesto al cielo, al sole, alla luna, le stelle: noi neppure siamo il Dio che tu cerchi”. « Io ho cercato, continua Agostino, ho cercato il mio Dio in tutti i corpi, sulla terra e nei cieli, ma non lo trovo. Ho cercato la sua sostanza nel’anima mia e nemmeno ve lo trovo; non mi resta nient’altro da indagare, se non Dio stesso”. Ecco un’affermazione solenne della trascendenza di Dio. In nessun’altra parte sant’Agostino sottolinea con tale fermezza la differenza fondamentale che oppone la sua fede a Plotino e a tutta la filosofia platonica. È sufficiente comparare queste affermazioni con quelle opposte, contenute ad esempio nel vangelo gnostico di Tommaso: « taglia il legno, io sono la, solleva la pietra e mi ci troverai … » o ancora a tale cantico moderno: « Egli è in ogni pietra … al centro della terra, nel fondo degli oceani, egli fa germogliare il grano, dirige i ruscelli, etc. »

L’illuminazione divina in Sant’Agostino

Resta un’ultima difficoltà con la quale si scontra S. Agostino: il problema dell’origine della conoscenza. Donde vengono le nostre idee? Certamente, Sant’Agostino, per fedeltà alla fede cristiana doveva rigettare la reminiscenza platonica, secondo la quale le nostre idee sono il ricordo di una vita antecedente nel mondo divino, questa preesistenza delle anime di cui Socrate si serviva per spiegare l’immortalità dell’anima nel Fedone. Egli doveva rigettare anche questa concezione della conoscenza secondo la quale le nostre idee sono innate in noi, e la percezione sensibile si contenta solo di risvegliare un’anima assopita, di eccitare lo spirito e di fare apparire, svelandola, una conoscenza già infusa in noi stessi. – Ma Sant’Agostino ha considerato la “rivelazione platonica”, questa nozione di una luce eterna e divina, cara a Platone come a Plotino, che risiede nel mondo delle idee. Evidentemente per lui, questo mondo non è niente altro che Dio stesso, e dunque questa luce divina, assoluta, immutabile, non può confondersi con quella della nostra anima mutevole ed incerta. – Nei “Libri platonici”, egli ha creduto di incontrare il Verbo eterno, esemplare della creazione, luce di Intelligenza, senza d’altra parte stupirsi di trovare questo termine “Verbo” in un pagano, cosa che sembrava implicare una certa conoscenza del mistero della Santa Trinità presso Platone (egli emette l’ipotesi che rigetta ben presto, che Platone avrebbe conosciuto il Profeta Geremia in Egitto!). – Similmente come l’eterno ed il divino sono la sorgente dell’essere nel platonismo, così Dio in San Agostino sarà regola di conoscenza e norma dell’azione. Con questa riflessione sulla verità, egli ha creduto di cogliere, a somiglianza dei neo-platonici, la presenza e l’azione illuminante di Dio nel fondo stesso del nostro spirito. – È  certamente all’azione del Verbo che egli pertanto collega esplicitamente l’illuminazione dello spirito e la regola della Verità. La verità non può essere recepita dall’esterno. Il titolo di maestro è un titolo usurpato dagli uomini: non c’è che un solo Maestro, che è Gesù-Cristo. Egli ci è interiore e presiede alla nostra attività spirituale (« Deus qui humanis mentibus nulla natura interposta præsidet ». Alcuna natura può interporsi tra Dio e la nostra anima. È nel santuario intimo dell’anima che l’uomo giudica e proclama la verità. Gli insegnamenti dell’esperienza non sono che “evocatori” di conoscenza fuori dalle profondità nascoste della nostra anima (« Remota et retrusa quasi in caveis abditioribus » ). – Io non ho ricevuto le idee da altri, io le ho riconosciute nel mio spirito e sono io ad averle sanzionate come vere … esse erano in me prima che io le apprendessi. Comprendere una verità è riconoscerla e dichiararla conforme al nostro ideale interiore, non è acquisire qualche cosa di nuovo, è ricondurre a chiara coscienza un’idea fin là implicita. “Se la mia anima restasse in se stessa, essa non vedrebbe nient’altro che se stessa, e vedendosi, non è che vedrebbe Dio … io entrerei nel mio interiore, egli continua, e vedrei anche con l’occhio della mia anima, pur disturbato, e al di sopra di questo stesso occhio, al di sopra della mia intelligenza, la luce immutabile. Essa non era al di sopra del mio spirito, come l’olio che resta superficialmente sull’acqua, come il cielo si estende al di sopra della terra. “Colui che conosce la verità, la conosce” “qui novit veritatem, novit eam”. – Sotto quale forma si esercita questa illuminazione divina nella nostra anima, è ciò che Sant’Agostino non spiega e non può … anche i filosofi scolastici discepoli di Sant’Agostino, cercano di supplire al silenzio del loro maestro. Secondo gli uni, Dio Creatore è anche il modello che esprime luminosamente e rappresenta espressivamente tutte le cose. Noi dobbiamo quindi considerarlo come uno specchio della creazione, come un libro vivente, posto naturalmente davanti al nostro sguardo intellettuale, nel quale possiamo leggere le prime anticipazioni della scienza e della morale. Da ciò questa conclusione: è Dio stesso che è il libro proprio e naturale dell’intelletto umano. La profezia conferma, si dice, questa spiegazione poiché vi è rappresentato di nuovo come seduto, tenente un libro che apre alla pagina che vuole, per lasciarci leggere il rigo o anche la parola che vuol mettere sotto il nostro sguardo. Se si suppone che l’anima possieda in sé l’insieme delle sue conoscenze allo stato innato, si ricade fatalmente nella reminiscenza platonica. Bisogna dunque ammettere, secondo altri, che l’intelligenza divina fornisce agli uomini le idee, secondo l’ordine dei loro bisogni. Così, come istantaneamente Dio può creare le cose, è possibile produrre nell’uomo una virtù propria, analoga a ciò che sarebbe un seme capace di generare immediatamente radici, tronco, foglie e altri semi che devono provenirne. La nostra facoltà di conoscere sarebbe tale che, per la minima eccitazione sensibile, potrebbe generare in sé istantaneamente le idee delle cose esteriori, applicarvisi spontaneamente per una sorta di mimetismo analogo a quello della scimmia e del camaleonte… attitudine innata alla produzione immediata ed indivisibile delle idee. Dio feconderebbe a loro modo di vedere, la nostra anima e con ciò svolgerebbe il ruolo di educatore ma intervenendo dall’esterno secondo la formula di Sant’Agostino “Deus lumen cordis mei et panis intus animæ meæ et virtus maritans mentem meam et sinum cogitationis meæ” (Confessioni). Questo metterebbe l’uno di fronte all’altro: Dio, ed una facoltà di conoscenza impotente ad agire da se stessa.

Tandem venit Thomas

Ed infine arriva San Tommaso d’Aquino. – La sua attitudine verso Sant’Agostino è molto interessante. Egli tratta sempre con grande rispetto questo “Padre della Chiesa”, referente obbligatorio di tutta la Scolastica del suo tempo. Egli conserva però tutta la sua libertà di spirito. Quando si trova di fronte ad un’affermazione che non può approvare, comincia con l’indagare nel testo tutto ciò che non può essere accettato per vero, dopo di ché rifiuta l’errore che potrebbe contenere questo testo contro chiunque pretendesse di interpretarlo diversamente. A tal proposito espone la sua risposta alla seconda interpretazione, che nei fatti è la vera risposta all’errore di Sant’Agostino. Così facendo, il rispetto della persona è salvo, ma l’errore è confutato. Sant’Agostino aveva già rigettato tutto il platonismo per il quale si era entusiasmato nella sua giovinezza e restava una sola difficoltà: il problema della conoscenza. La tesi dell’illuminazione divina era tutto ciò che poteva conservare, egli credeva, del pensiero neoplatonico. – « Dio è la vera luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo »: questo è assolutamente vero, di una verità lampante. Che la nostra intelligenza sia illuminata da Dio e tutta aperta all’influenza divina, è evidente, poiché essa è una intelligenza creata “ad immagine di Dio”. Ma come la nostra anima può essere illuminata, cioè informata dal mondo naturale degli esseri che ci circondano? … ecco la pietra di inciampo di tutto l’agostinismo! È Platone che è sempre tenuto d’occhio da San Tommaso, quando esamina un’affermazione di Sant’Agostino. Egli è il padre di tutti coloro che « rebus naturalibus proprias substrahunt actiones », che rifiutano cioè alle cose naturali le operazioni proprie, e San Tommaso denuncia il platonismo [erroneo] in Sant’Agostino: « Augustinus autem Platonem secutus quantum fides catholica patiebatur », … per il tanto che lo permetteva la fede cristiana, Agostino ha seguito Platone; vale a dire che egli ha rigettato Platone ogni volta che ha compreso la sua incompatibilità con la fede cristiana. – San Tommaso rettamente afferma che c’è negli esseri sensibili, composti di materia, un elemento di stabilità, ed ecco perché i sensi non si ingannano quando giudicano degli oggetti che gli sono propri. Non si può rifiutare all’anima razionale il principio attivo senza il quale quest’anima non saprebbe compiere la sua azione naturale. Ammettere che Dio sia l’unica Intelligenza che opera in tutti gli uomini, è supporre che Dio ha creato un’anima razionale incapace di usare la ragione. Così San Tommaso conclude: « Dio illumina le nostre anime intanto ché le ha dotate di luce naturale, grazie alla quale esse conoscono e che è quella dell’intelletto agente (cioè l’intelligenza quando opera). » Dio è presente in tutte le operazioni di ogni creatura e tuttavia ciascuna di esse resta la causa efficace della sua azione. Questa onnipresenza di Dio non priva le cose naturali delle proprie azioni. – Creare esseri incapaci di agire, senza il potere di trasmettere le une alle altre qualcosa della propria azione, private di ciò che nei fatti è di distinta natura, diminuirne la loro dignità, non è togliere qualcosa alla Gloria di Dio? San Tommaso non ha incontrato davanti a lui altra filosofia per insegnare che l’intelligenza creata sia la ragione sufficiente della conoscenza umana, essendo così eliminata ogni speciale illuminazione divina. Ma questa affermazione egli la sosterrà costantemente nel corso della sua vita e la Chiesa l’ha riconosciuta vera, consacrando il suo autore come il « Dottore comune » e « l’Angelo della Scuola ».

P. S.: Osservazione a proposito del neo-platonismo e S. Agostino:

Dom. – « Voi dite: “Sant’Agostino non si è mai staccato dal Platonismo completamente ed anche quando lo rigettava esplicitamente, ne restava impregnato.” Questa parola “impregnato” lascia intendere che tutta l’attività intellettuale di S. Agostino fosse intrisa di platonismo, cioè da una sorta di gnosi. In tali condizioni come potrebbe Sant’Agostino essere considerato Dottore della Chiesa? »

Risp.– [di E. Couvert (*) in: “La gnosi universale”] – « Sant’Agostino è “Dottore della Chiesa” ogni qualvolta insegna la Dottrina della Chiesa. Egli non è dottore della Chiesa quando insegna tutt’altro, cose discutibili o erronee. Scusate questa “lapalissata”! Quando Sant’Agostino insegna la trascendenza di Dio, egli è “dottore della Chiesa”; quando insegna l’illuminazione divina nella conoscenza naturale, non è più “dottore della Chiesa”, poiché questo insegnamento è falso. – L’etichetta “dottore della Chiesa” non conferisce a colui che la porta l’infallibilità né l’inerranza in “tutti” i suoi scritti. È questo il mio proposito nel capitolo citato. Quando io dico che gli scrittori ecclesiastici dei primi secoli sono “impregnati di platonismo” non dico che essi siano gnostici. In effetti essi sono ferocemente antignostici; ma il loro spirito resta ondeggiante, teso tra nozioni contraddittorie, mal comprese, difficilmente conciliabili, a partire dalle quali essi si sforzano di porre coesione nel raggiungerle ».

(*) [E. Couvert è un autore francese, gran conoscitore della “gnosi”, i cui principi e sviluppi temporali ha descritto in diversi suoi libri ed articoli con stile semplice, efficace, lucido e particolarmente chiaro. A lui siamo tutti debitori della comprensione dei fondamenti della gnosi e dei suoi mille tentacoli. La sua opera in questo è unica ed encomiabile, ma … resta una grave lacuna in tutti i suoi scritti, in particolare in quelli che dimostrano l’infiltrazione gnostica in quella che secondo lui è la Chiesa Cattolica [che confonde con la setta vaticana del “novus ordo”]. In questo purtroppo sposa l’eresia “gallicano-fallibilista”, da lui più volte giustamente attribuita ad altri, secondo la quale la Chiesa può essere, anzi è attualmente “maestra di errore” ed i “papi” recenti [quelli fasulli conciliari e post-conciliari] “dispensatori di veleno gnostico” in contraddizione con la teologia tomistica ed il Magistero di sempre! Proprio il suo immenso sapere e la sua mirabile sistematizzazione nell’ambito degli inganni gnostici, avrebbero dovuto fargli aprire facilmente gli occhi e comprendere la realtà della “Chiesa Cattolica eclissata e del Papa in esilio” [quello canonicamente vero], come profetizzato dalla Santa Vergine a la Salette già nel 1846. Speriamo che quanto prima riesca a collocare questa ultima tessèra nel suo mirabile mosaico, tessèra senza la quale, il mosaico stesso risulta monco ed opaco, perché non in perfetta linea  con il Magistero ecclesiastico, con la Tradizione apostolica e l’insegnamento evangelico di Cristo.]

 

 

 

GIOIE MONDANE

GIOIE MONDANE

[E. Barbier: I tesori di Cornelio Alapide – S.E.I. Ed. Torino, 1930]

– 1. Le gioie mondane sono vane. — 2. Le gioie mondane sono amare. — 3. Le gioie mondane sono pericolose e colpevoli; rendono schiavi e ciechi. — 4. Disgrazie di chi ama le gioie mondane.

1. Le gioie mondane sono vane. — « Ho stimato il riso un inganno, ed alla gioia ho detto: Perché cerchi di illudermi? » (Eccli. II, 2). Questa sentenza del Savio è fondata nella natura stessa delle gioie mondane, ed ha per conferma l’esperienza di tutti i secoli. E infatti, dove ripone il mondo il suo godimento? Nei beni, negli averi; ora che cosa sono le sostanze di questa terra? Nei diletti della voluttà, nelle gozzoviglie della tavola; ma che cosa sono questi piaceri, se non il profumo di una cosa che appena nato svanisce? Nella maldicenza, nella calunnia, nella vendetta, nei balli, nei teatri, nei festini; negli onori; ma che cosa sono tutte queste cose? Illusioni che abbagliano e talvolta ancora irreparabilmente accecano… Per grandi poi e soavi che siano, oltreché è dato a pochi di goderne, per quanto tempo anche a questi pochi durano?… Sono ombre, sono fantasmi che spariscono quando uno crede di raggiungerle; e chi si ostina a voler seguirle, si mette in uno spinaio di dove esce, quando pure n’esce, ferito e sanguinoso… – « Vanità è ogni gioia del secolo, scrive S. Agostino, con ardentissimi voti si desidera, e avutala, scompare senza che lasci traccia. Tutte queste allegrie mondane passano, svaniscono come fumo. Sventurati quelli che in esse mettono il cuore! ». – Le gioie mondane sono vuote…, insulse…; non hanno né realtà, né felicità, né consistenza, né durata, e chi gode di loro, gode del nulla (Amos. VI, 14). La serie delle allegrezze mondane è una tragedia che finisce appena cominciata, e che termina sempre col dispiacere, col pianto, con la morte. Udite di nuovo il figlio di S. Monica « Inutilmente piangono quelli che piangono per le cose vane; e ridono del loro danno, quelli che ridono delle cose vane. La sbagliano questi e quelli,  si rallegrano quando dovrebbero dolersi, ridono quando bisognerebbe piangere, simili a quei ragazzi che giuocano anche nel punto in cui i loro genitori stanno per spirare ».

2. Le gioie mondane sono amare. — Non si danno gioie mondane senza dolore e senza amarezza. L’amarezza le precede…, le accompagna…, le termina…; le gioie se ne vanno, l’amarezza resta. « Il riso è mescolato al pianto, dicono i Proverbi, e il sommo del gaudio si finisce nel colmo dell’angoscia » (Prov. XIV, 13). « Vedi e intendi, o uomo, dice Geremia, quanto funesta e amara cosa sia per te il distaccarti dal tuo Dio » (Ierem. II, 19). Chiunque abbia provato le dolcezze mondane, deve ripetere col medesimo Geremia: «Abbiamo avuto per bevanda il fiele, in pena di aver peccato contro il Signore. Ci aspettavamo pace e non abbiamo avuto giorno sereno; ci credevamo in sicurezza ed eccoci nel timore » (Ierem. VIII, 14-15). – Ah quanto è vero che Dio inebria i mondani di un vino di dolore (Psalm. LIX, 3), e li nutrisce di un pane di lacrime (Psalm. LXXIX, 6). – « Dio mescola l’amarezza alle gioie terrene, dice S. Agostino, per volgere l’uomo al desiderio di quella gioia, la cui dolcezza non è fallace e che solo in Dio si trova ». « Iddio, dice S. Gerolamo, porge agli amanti delle gioie mondane, un’acqua amara, l’acqua della maledizione: li abbevera di amarezza, acciocché apprendano per esperienza quanto sia duro l’avere abbandonato il Signore, ed avere irritato quel Dio che è la dolcezza per essenza» (Comment.). – La gioia mondana è una stilla di miele che si cangia in un mare di fiele… Osservate quello che accade al crapulone…, all’intemperante…, al vanitoso…, all’ambizioso…, ecc…

3. Le gioie mondane sono pericolose e colpevoli; rendono schiavi e ciechi — È noto che le gioie mondane generano la noia ed il rimorso… E ?…  sono pericolose e colpevoli… A quali pericoli infatti non espongono i piaceri de’ sensi, la sensualità, la gola, gli occhi poco modesti, le orecchie poco caste, la lingua mal frenata? A quanti rischi non espongono le vanità, l’amore del mondo, le danze, le famigliarità sospette, gli spettacoli?… Le gioie mondane sono colpevoli 1° per lo scandalo che si riceve…, per lo scandalo che si dà…; 2° per la disobbedienza alla legge di Dio… Né può essere altrimenti, poiché, come dice S. Gregorio, chi vive delle gioie del mondo, incatena i suoi sensi interiori, il suo spirito…, la sua anima, la sua intelligenza…, la sua memoria…, la sua volontà…, il suo cuore… (Homil. XXXVI in Evang.). Egli più non comprende le vere gioie…, le cose spirituali. Parlategliene, egli non v’intende più… non sente… Dio, religione, virtù, legge, doveri, tutto lo stanca e lo accascia… non vede e non sogna più nulla se non le frivolezze e le vanità…

4. Disgrazie di chi ama le gioie mondane. — È terribile la maledizione del Signore: « Guai a voi che vivete nel riso! » (Luc. VI, 25). Quindi l’apostolo S. Giacomo ci esorta a sentire e riconoscere la nostra miseria, a piangere e gemere,  il nostro riso non si cambi in lutto e la nostra gioia non si converta in mestizia (Iacob. IV, 9). Dicono i Santi Agostino, Basilio, Bernardo ed altri dottori che Gesù Cristo pianse sovente, ma non fu mai veduto ridere. « Nessuno, conchiude S. Gerolamo, può godere ad un tempo le gioie del mondo e le gioie di Dio, essere felice in questa terra e nel cielo, vivere a norma del secolo e conseguire il paradiso » (Ep. XXXV, ad Iulian.).

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (10), capp. XVII-XIX

CAPITOLO XVII.

CARITÀ DEL BUON LADRONE.

Carità del Buon Ladrone grande quanto la sua fede e la sua speranza.— Amore del Buon Ladrone per Nostro Signore. — Egli dimentica totalmente se stesso per non pensare che a lui. — Bei passi di S. Gregorio Magno, di S. Bernardino da Siena, e del B. Amedeo. — L’amore lo fa parlare. — Coraggio eroico nelle sue parole. — Amore del Buon Ladrone pel suo compagno di supplizio. — Oggetto di eterna ammirazione. — Passo del venerabile Beda. La corona dell’edifizio è la carità.

Non meno della fede e della speranza questa virtù risplende di una luce incomparabile nel Buon Ladrone. La carità tende all’unione; amare non è che unire. Allorquando i pensieri di una persona son pure i nostri pensieri; le affezioni sue, nostre affezioni; nostri i suoi interessi, i suoi dolori, le sue gioie, le sue speranze, la sua vita, noi possiamo dire che l’amiamo. Ora la carità ha due braccia; con uno abbraccia Dio, e coll’altro il prossimo. Col primo si appoggia a Dio per innalzarsi fino a lui; col secondo si attacca al prossimo per innalzarlo fino a Dio, ultimo termine, riposo e premio di ogni amore. Con questa nobile operazione la carità conduce tutte le cose all’unità. Se, qual noi l’abbiamo definita, questa virtù brilla ad un tratto in un’anima; se ella si appalesa con opere che riecheggiano un coraggio eccezionale, un coraggio più forte che la morte, è dessa eroica. Sarà egli necessario aggiungere che la carità di s. Disma riveste questi gloriosi caratteri? Nessun viaggiatore raggiunge d’un salto la cima di un’alta montagna, né il sole spande in un tratto sul mondo i suoi torrenti di luce. Avviene il medesimo nel mondo morale: nessuno si innalza alla perfezione in un batter d’occhio: Nemo repente fit summus. La perfezione è prezzo di lunghi sforzi, e di duri combattimenti. Alcuna volta Iddio dispensa da questa legge provvidenziale, e si vede, benché raramente, qualche anima arrivare in breve tempo al colmo della perfezione. In prima fila di queste anime privilegiate dalla grazia figura il Buon Ladrone. Nel rapido corso di pochi momenti egli acquista ad un grado eroico la regina delle virtù, la carità. Ciò che in una gran macchina è la ruota maestra, la quale mette in movimento tutte le ruote secondarie; e ciò che in un ammasso di paglia è la scintilla ardente che consuma quanto può essere consumato, la carità lo fu nell’anima di Disma. – « I chiodi, dice s. Gregorio, gli teneano confitti alla croce i piedi e le mani, e non aveva di libero che il cuore e la lingua. Ispirato da Nostro Signore egli offre tutto ciò che ha di libero; il cuore per ottener la giustizia, la lingua per ottener la salute. Per sentenza dell’Apostolo, tre sopraeminenti virtù hanno sede nel cuor dei fedeli, la fede, la speranza e la carità; di tutte tre, una grazia subitanea ricolmò il Buon Ladrone, che le serbò sulla croce. » Gli altri Padri, e fra questi s. Bernardino da Siena, parlano come s, Gregorio. « Tutto ciò che il Buon Ladrone possiede, dice il serafico predicatore, lo consacra a Gesù, qual sacrificio di perfetto amore. Inchiodato alla croce, non può far uso né dei piedi, né delle mani; ma consacra a di lui servizio le due cose di cui può disporre, il cuore e la lingua. Il cuore come un profumo del più soave odore bruciato dal fuoco della carità; la lingua come organo del suo amore. » [Serm. in Parasce., 53, c. II.] – Che dirò io ancora ? « O fenice, esclama il beato Amedeo, più soavemente odorosa del cinnamomo, del balsamo, e del nardo; la sola tua vista è più grata al re che tutti i profumi. [Homil. In obit. Virg.]. La carità che consuma il cuore di Disma, fa muovere la sua lingua. E qui essa mostrasi, s’egli è possibile, anche più eroica. Dal momento che il Buon Ladrone ha riconosciuto la divinità e la innocenza di Nostro Signore, ha compreso la causa dei suoi patimenti. La ragione dei suoi dolori (egli dice a se stesso) è nei delitti de’ peccatori; e chi vi sarà più abominevole di me? Egli è per me che fino alla feccia beve 1’amaro calice; egli è per salvar me dalle eterne pene dell’inferno ch’è tutto coperto di piaghe; egli è per farmi felice con esso Lui che dà la sua vita. [S. Max. Homil. 1 De S. Latr.]. E il suo amore prorompe in parole eroicamente coraggiose. Dimenticando i suoi propri tormenti, Disma non vede che quelli di Gesù. La causa di lui diviene la sua. Egli si fa suo apologista, proclama altamente la sua innocenza, e per questo non teme di affrontar l’odio di tutta la Sinagoga.8 [S. Basil. Seleuc., Orat. in Bibl. PP.] – « No (grida egli) Gesù Nazareno non ha fatto alcun male: Hic autem nihil mali gessit. Anna, Caifa, pontefici, sacerdoti, seniori del popolo, Pilato, e voi tutti che lo avete condannato a morte, qual delitti avete a rimproverargli? È forse un misfatto l’avervi predicato l’amor di Dio e degli uomini? aver risanato i vostri infermi, risuscitato i vostri morti, convertito i peccatori, consolato gli afflitti, nutriti i poveri, liberati gli ossessi? Sarà egli per tutto questo che voi l’avete colmato di oltraggi, coperto di piaghe, di sputi, e condannato al più infame dei supplizi? Io ed il mio compagno siamo ben colpevoli, ma Gesù di Nazareth è innocente: Hic autem nihil mali gessit. » Tutte queste dure verità ed altre ancora sono compendiate in queste due parole: egli non è colpevole. – Tutti i secoli hanno ammirato il coraggio che fece dire quelle verità ad una Sinagoga fremente. « Esaminiamo attentamente, dice un dotto e pio cenobita, qual uomo fosse questo ladrone, per tema che ignorando noi la ragione della sua speranza, non avessimo a cadere nella presunzione. Tutti gli amici, i prossimi e i seguaci del Salvatore, i suoi parenti ed anche i suoi propri discepoli privilegiati tra tutti gii uomini, vedendolo sotto il peso di tanti strazi, di tante umiliazioni, di tanti obbrobri, si erano dispersi, come mandrie di pecore, delle quali sia scomparso il pastore. Il discepolo prediletto di Gesù egli pur era fuggito, e Pietro così ardente lo seguiva da lungi. Tutti avevano dimenticato i miracoli che tante volte avevano veduto operati dal loro Maestro, e la potenza di operarne eglino stessi. Ed ecco che questo Ladrone, in mezzo a tanti oltraggi e miserie, che dissi mai? in mezzo ai tormenti della croce e le angosce della morte, riconosce per suo Dio quello che non aveva mai conosciuto, e con piena fiducia domanda soccorso e pietà a Colui, che pareva averne per se medesimo sì gran bisogno. Quale mai fra gli Apostoli mostrò egual coraggio? Tutti fuggono da colui che vivo avevano confessato; ed il Ladrone che vivo lo aveva negato, moribondo lo confessa. » La carità, dicemmo poc’ anzi, ha due braccia. Con uno ha Disma abbracciato Nostro Signore; con l’altro egli cerca di prendere il suo compagno per darlo al Dio Redentore; e dopo averlo avuto complice dei suoi delitti, averlo compagno nell’eterna sua felicità. Disma si fa missionario. Siccome il timore è il principio della sapienza, sua prima cura è di risvegliarlo nell’anima del suo discepolo. « Nemmen tu, gli dice, temi Dio: Neque tu times Deum? Al pari di me, tu vai a morire, ed a tutti i nostri passati delitti, non temi di aggiungerne un nuovo, insultando questo giusto e bestemmiandolo? Tu dunque non temi quel Dio che tra pochi momenti ti giudicherà ? » Quindi lo prende dal lato del suo amor proprio. « Tu l’insulti trovandoti nello stesso supplizio? Qui in eadem damnatione es? Come mai non vedi che gli insulti che a lui rivolgi, cadono su te e su me, poiché siamo tutti tre nella medesima condizione? Non abbiamo noi pene abbastanza, alle quali non possiamo sottrarci, perché sia d’uopo aggiungerne altre ancora? Quando pure il nostro compagno di supplizio fosse colpevole, l’insultarlo sarebbe viltà; ma egli è innocente, e l’insultarlo è delitto. Anzi Egli e più che innocente; è la stessa innocenza, egli è Dio. Egli muore per te, come per me. Egli è pronto a perdonarti. Quale accecamento ti trattiene dai riconoscerlo? Rientra in te stesso, ed i patiboli che separano l’uno dall’altro i nostri corpi, riuniranno le nostre anime nella gloria. » [S. Chrys., De Cruce, apud P. Orilia, p. 179.]. – Sappiamo come profittasse il cattivo ladrone dell’ardente carità di Disma; la quale fu tanto più meritoria in quanto che non ricevé la sua ricompensa in questo mondo, e per esercitarla ebbe egli d’uopo di un coraggio eroico. Procurando di convertire il suo compagno, si faceva l’apologista di Nostro Signore, il predicatore della sua divinità, e il pubblico accusatore di tutta la Sinagoga. A qual raddoppiamento di oltraggi, di scherni e di tormenti lo esponeva un siffatto ardimento? Per comprenderlo, bisognerebbe avere piena conoscenza dell’odio profondo degli Ebrei per Nostro Signore. Checché ne sia, la tradizione ci fa sapere che per il suo coraggio ebbe Disma il privilegio, che a lui pel primo rompessero le gambe; sicuramente per ridurre più presto al silenzio quella voce accusatrice. « E chi dunque, esclama il venerabile Beda, potrà ritenersi dall’ammirare l’eroica carità del Buon Ladrone : Quis hujus latronis animum non miretur? » [In Luc., XXIII, c. VI.] Non ci basti di ammirarlo, ma ciascuno di noi, nella sua condizione, si sforzi di imitarlo.

CAPITOLO XVIII.

PRUDENZA E GIUSTIZIA DEL BUON LADRONE.

Virtù necessarie alla canonizzazione. — La prudenza. — Che cosa sia. — Essa fu eroica nel buon Ladrone. — Testimonianze di S. Gregorio Nisseno,diS. Giovanni Crisostomo, di S. Lorenzo Giustiniani. — Giustizia del buon Ladrone. — Giustizia rapporto a Dio, e rapporto al prossimo. — Parole dell’Ab. Goffredo di Vendome.

Fra tutti i santi, il cui numero vince quello delle stelle del firmamento, il Buon Ladrone è il solo che abbia la gloria di essere stato canonizzato ancor vivo, e canonizzato da Nostro Signore Gesù Cristo in persona. Oggi sarai meco in paradìso, tal si fu il decreto della sua canonizzazione. Un tal decreto suppone la pratica in grado eroico delle tre teologali virtù, fede, speranza, e carità, non che delle quattro virtù cardinali, prudenza, giustizia, fortezza, e temperanza. Noi vedemmo già le tre prime risplendere in Disma di una luce tale da adombrare la fede, la speranza e la carità stessa degli Apostoli. Ma portò egli allo stesso grado di eroismo le quattro ultime? Si, è questa l’importante questione che ci resta da discutere. Secondo il principe della teologia, la prudenza è la buona consigliera di tutta la vita umana; della vita del tempo e della vita dell’eternità. [1. 2. q. 57, art. 4 ad 3.1]. Per esser buona, deve essa dirigere la vita del tempo alla vita dell’eternità, e far servir una all’acquisto dell’altra. Ogni altra prudenza è prudenza terrena, animale, diabolica; può ben diriger l’uomo a far acquisto di ricchezze e di terrene dignità, ma fomentando in lui il desiderio dei beni passeggeri, gli fa perder di vista il suo ultimo fine, e lo porta ad una irreparabile infelicità. Di questa falsa prudenza aveva Disma in tutta la sua vita seguito i biasimevoli consigli. Ancora un poco, e sarebbe caduto nel baratro che essa gli aveva scavato sotto i piedi. In un subito la vera prudenza discende nel convertito del Calvario, e noi la vediamo risplendere della stessa luce che la fede, la speranza, e la carità. Essa fa splendida mostra di sé nella resipiscenza per la quale rientra in se stesso, nella confessione dello sue colpe, e nella preghiera che volge ai Salvatore. Egli non può più illudersi: ben comprende che prossima è la sua fine, e vede che non gli restano se non pochi istanti di quella che volgarmente si chiama vita; ma che invece è una continua morte. Senza indugio ei rivolge il pensiero all’acquisto della vera vita, di quella che incomincia al di là del sepolcro. La divina prudenza che lo illumina, gli fa conoscere i mezzi onde conseguire il suo fine. « Tu ben lo sai, » gli dice; Colui che pende crocifisso al tuo fianco, è il Figlio di Dio, fatto uomo per redimere il genere umano. Chiedendogli la tua eterna salvezza, entri nelle sue vedute. Nè ti sgomentino i tuoi misfatti; perché per grandi che siano, la sua misericordia è ancora più grande. Vedi quant’è mai buono; ei prega pei suoi crocifissori, benché essi per nulla lo invochino. E potrà egli rigettare chi non 1’ha crocifisso, e lo invoca? Ricorri dunque a questo Dio eh’è la stessa bontà, e che ripone ogni sua gloria nel perdonare. » – Disma presta orecchio a sì consolante invito, e con un atto ben lontano da ogni regola di prudenza umana domanda la sua salvezza a quello cui bestemmiava poc’anzi. « L’accorto Ladrone, dice S. Gregorio Nisseno, vede un tesoro, e con sagacia profitta dell’occasione, ed afferra questo tesoro il quale è niente meno che la vita eterna. Nobilissimo e lodevolissimo uso dell’arte di rubare. » [Orat, de 40 Martyr].Né qui si arresta l’eroica prudenza del nostro santo. Egli ha conosciuto che innanzi di chieder grazia e misericordia, bisogna cominciare da dove è necessario che cominci ogni peccatore, che vuol esser perdonato, dall’umile confessione dei propri falli. « Egli è ben giusto, esso dice, che io sia inchiodato a questa croce; io non ho che quanto mi merito. » – Ascoltiamo il Bocca d’oro dell’Oriente, S. Giovanni Crisostomo, che esalta questo tratto di esimia prudenza. « Osservate la sua completa confessione. Nessuno lo spinge a far ciò, né vi è costretto; ma spontaneamente, e da se stesso egli pubblicamente confessa le sue iniquità dicendo: Il mio compagno ed io, giustamente siam condannati, e riceviamo il degno compenso dei nostri misfatti. Questi poi (Gesù) non ha fatto alcun male. Né osa dire al riconosciuto innocente: Sovvengati di me nel tuo regno, prima di essersi colla confessione scaricato del peso delle sue colpe. Quanto è grande il poter della confessione! Il Ladrone si confessa, e la confessione gli apre il paradiso. Ei si confessa, e tanta è la sua fiducia che, dopo una vita di masnadiere, non esita a chiedere un regno. » Ed il modo con cui lo domanda è un nuovo tratto della prudenza che lo ispira. Disma desiderava ardentemente la felicità del cielo; ma come domandarla? Con eroica umiltà invero erasi fatto suo proprio accusatore; e con egual coraggio, egli solo erasi fatto l’avvocato del Salvatore Gesù. Ma posso io perciò credere, diceva a se stesso, che dopo una vita d’iniquità, continuata fino a questo punto, mi sia dato il regno dei cieli per quelle mie poche parole? È forse Iddio sì prodigo del suo regno, che lo dia per sì poco? » Tali erano, è facile a comprendersi, i pensieri che ispiravano a Disma l’enormità dei suoi falli, e l’immensità del favore al quale agognava. La prudenza venne a porre un termine alle sue perplessità. « Chiedi poco, gli disse, ed otterrai molto. Il tuo Dio non e sì piccolo da rimeritare il poco col poco. Egli è magnanimo di cuore perché ha cuore di un Dio. Magnanimo, apre la mano, e dà colla generosità di Colui che tutto può: buono, Egli si compiace nel sorpassare i voti di coloro che lo invocano. » – Docile a questa voce, Disma chiede a Nostro Signore non più che un ricordo. Memento mei E qual domanda più modesta? « Non osa egli dire, osserva S. Lorenzo Giustiniani: dammi il cielo, fammi partecipe della tua gloria; ma dice solo: Ricordati di me. Egli peccatore, egli contaminato di delitti fino al fondo del cuore, egli ladro ed assassino si riconosceva indegno di entrare nel regno eterno, ove, per il lume della grazia, sapeva che Gesù andava trionfante a regnare. » – La speranza del Buon Ladrone non fu delusa. Or ora noi vedremo in qual magnifica ricompensa si trasformò il divino ricordo da esso implorato. Imitiamo pur noi una si prudente modestia. L’umiltà è il più sicuro mezzo di attirare sul nostro capo i più copiosi tesori della divina bontà. Fin qui abbiamo considerata la prudenza del buon Ladrone. Facciamoci ora a rilevare la sua giustizia. Questa seconda virtù cardinale comunemente vien definita: Una ferma volontà di rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto: a Dio, cui tutto è dovuto; al prossimo, cui pur molto è dovuto. Considerata sotto questo duplice punto di vista, la giustizia brilla del più vivo splendore negli ultimi atti dei Buon Ladrone. Relativamente a Dio, la vera e perfetta giustizia consiste nel rendergli i quattro omaggi che gli son dovuti: omaggio di lode a causa delle sue infinite perfezioni: omaggio di riconoscenza per i suoi benefizi; omaggio di soddisfazione per i peccati commessi; omaggio di dolore per le sue grazie neglette. – Dopo quello che abbiam detto, sarebbe superfluo il dimostrare come Disma adempisse a questi quattro grandi doveri. Nondimeno per affezione a questo santo, troppo poco conosciuto e troppo poco invocato, ne diremo qualche cosa. Conosciuta che egli ebbe appena la divinità del Salvatore, la proclama, la loda, la difende; si accusa spontaneamente, confessa di aver meritata la morte in espiazione dei delitti commessi: soffre senza mormorare i dolori atroci della crocifissione, riconosce Gesù per autore d’ogni bene, e lo prega con una fiducia imperturbabile. Or verso Dio, non ha il Buon Ladrone adempiuto a ogni giustizia? e considerate le circostanze di tempo e di luogo nelle quali trova vasi, non v’ha adempiuto con un eroismo che sarà l’ammirazione dei secoli? Rispetto al prossimo, la sua giustizia non fu meno perfetta. Ai Giudei che ingombravano il Calvario, ai pontefici, ai sacerdoti, ai seniori del popolo che insultando e crollando il capo passavano e ripassavano innanzi al crocifisso Signore, Disma era obbligato di dire la verità. E questa egli dice loro senza rispetto umano, ed a rischio di attirarsi un raddoppiamento di torture. Col proclamare la divinità di nostro Signore egli si sforza di farli rientrare in se stessi, convertirli, e di preservarli dalle pene di questo mondo e dai castighi dell’altro. Per quanto è in lui, procura di ritrarre dall’eterna perdizione il suo compagno, esercitando verso di lui la carità di un amico e di un fratello. Qual santo, qual martire, nei dolori della malattia, o nelle angosce della morte, ha mostrato maggiore zelo per la gloria di Dio e la salute del prossimo, maggior grandezza d’animo, e più grande eroismo?

CAPITOLO XIX.

FORTEZZA E TEMPERANZA DEL BUON LADRONE

La fortezza definita da S. Tommaso. — La Magnanimità, la Fiducia, la SiCurrezza, la Pazienza, la Perseveranza, la Longanimità, l’ Umiltà, la Mansuetudine figli e della Fortezza. — Tuttesi riuniscono nell’anima del Buon Ladrone. — ErOìsmo dei loro atti. — Ammirazione dei Padri della Chiesa.

Operare e soffrire è tutta la vita umana. Per l’una cosa e per l’altra, la fortezza è necessaria. E ben a ragione S. Tommaso la definisce: « Una disposizione dell’anima, che si tien salda nel bene, contro gli assalti delle passioni e contro le difficoltà dell’operare.» – Come tutte le altre virtù, la fortezza trae l’essere suo dalla carità, e per dir meglio, essa è la stessa carità, che per Dio soffre di buon grado le contraddizioni e i dolori. La misura della fortezza di Disma è quella appunto della sua carità. Or noi l’abbiam veduto, la sua carità fu eroica. Queste poche parole potrebbero bastare per l’elogio del nostro Santo. Ciò nondimeno esaminiamo qualcuno degli atti ammirabili con che fa egli conoscere qual sia la fortezza che lo avvalora, « La fortezza, dice s. Bonaventura, è madre di una bella e numerosa famiglia. Sono sue figlie la magnanimità, la fiducia, la sicurezza, la pazienza, la perseveranza, la longanimità, l’umiltà e la mansuetudine. » [De quat. Vir. Card., in fin.]. – La magnanimità. — La magnanimità suppone l’esistenza delle sue sorelle, ed essa è il loro ornamento, la loro gloria, il loro mantello reale. Nobile e generosa, essa dà loro la mano, e comunicando ad esse le sue qualità, fa loro intraprendere con coraggio, proseguire con calma, sopportare con fermezza, e compiere con una semplicità sublime le più ardue cose e le più contrarie alle inclinazioni della natura. La magnanimità brilla di un vivo splendore nel Buon Ladrone. Con un coraggio tranquillo, una costanza a tutta prova, ed una sublime semplicità che non si smentiscono un momento, egli intraprende, egli solo contro tutti, la difesa di Nostro Signore, la conversione dei Giudei, e la santificazione del suo sventurato compagno. Nelle stesse disposizioni, egli soffre, non solo i tormenti della croce, ma l’onta ancora,e la ignominia, necessarie conseguenze di quel barbaro genere di morte. Ma egli fa qual cosa anche di più eroico, se ciò che più costa all’amor proprio dell’uomo è il confessarsi colpevole. Se il mondo dell’età nostra si allontana ognor più dal Cristianesimo, non dobbiam attribuirlo né alla incredulità, né alla corruttela dei costumi, né alle iniquità che ne sono la conseguenza, sì bene all’abbandono del tribunale della penitenza. Ah! se tutti i peccatori volessero confessarsi, la faccia della terra sarebbe ben presto rinnovata. Ma che cosa mai impedisce il confessarsi? L’orgoglio. Abbiamola debolezza di peccare, ma non il coraggio di confessarci colpevoli. Qual grande esempio dà su tal punto il Buon Ladrone! Confessarsi a voce bassa, e non essere inteso da alcuno, fuorché da Nostro Signore non gli basta: calpestando l’orgoglio, e il rispetto umano, ad alta voce egli si confessa reo alla presenza di tutto un popolo. La fiducia e la sicurezza. — Che queste dolci figlie della Fortezza avessero scelto per lor santuario il cuore del nostro Santo, ne è prova la conoscenza che abbiamo di queste virtù. « La fiducia, dice s. Agostino, agogna a grandi cose, e le attende con una certezza che da nulla è scossa. » E s. Tommaso aggiunge: « La sicurezza è la perfetta quiete dell’anima, che ha dato bando ad ogni timore. » li perdono istantaneo di tutta una vita di brigantaggio materiale e morale; quindi il cielo per ricompensa di un pentimento di poche o re come mai misurar la grandezza di simili pretensioni? Aspettarsi questi incomprensibili favori con una sicurezza che già si rassomiglia al possesso, tanto è dessa inaccessibile al dubbio! non è questo l’eroismo della virtù? La pazienza. — « Al dire di s. Bonaventura, la pazienza è una virtù che fa sopportare senza alterarsi tutte le ingiurie e tutte le avversità. » Quanto l’’illustre difensore di Gesù crocifìsso tenevasi certo della felicità dell’altra vita, altrettanto ei mostravasi paziente in soffrir le pene di questa. La flagellazione aveva fatto a brani la sua carne; i chiodi gli avevano traforato mani e piedi; i dolori di Nostro Signore erano divenuti i suoi; egli soffriva al di là di quello che possa immaginarsi; nondimeno tace ogni lamento. Nel ricordarsi dei suoi passati trascorsi egli attingeva un’eroica pazienza, e si contentava di dire: 1’ho meritato. Nos quidem juste. Noi ammiriamo i martiri che lietamente morivano in mezzo ai tormenti; ma potevano dire almeno: Io non l’ho meritato. Immensa consolazione, la cui mancanza dà il maggior rilievo alla forza eccezionale della pazienza del Buon Ladrone. La perseveranza e la longanimità. — Conservare nel loro stato di perfezione le diverse virtù che siam venuti enumerando, e conservarle così fino al giorno indeterminato che deve coronarlo, e conservarle senza che l’anima perda per un solo istante la sua serenità, la sua calma: tale si è il compito di queste altre due figlie della fortezza, la perseveranza, e la longanimità. – Dal momento in cui Disma è entrato nella gloriosa carriera della santità, non si smentisce un sol istante; nulla lo arresta nella sua corsa. L’occhio e il cuore fissi al cielo, ei resta irremovibile Della eroica sua pazienza, nell’eroica sua fiducia, non fa alcun caso dalle pene che soffre, e ch’è disposto a soffrire fin che a Dio piaccia. Egli infatti le sopporta fino al momento, in cui la sua anima benedetta riceve la corona dei confessori e la palma dei martiri. L’umiltà e la mansuetudine. — Fin qui abbiam veduto le figlie primogenite della fortezza adornare l’anima del Buon Ladrone, imprimendole quel nobile carattere di grandezza che dà più alto rilievo a tutte le sue virtù. Or ecco le loro minori sorelle che vengono a dar l’ultima mano alla perfezione di quell’anima eletta. Nella santa Scrittura Nostro Signore, il modello divino dell’ umanità, è chiamato successivamente Leone della tribù di Giuda, Agnello di Dio. Come Leone, è la forza; come Agnello è la mansuetudine. La unione di queste due virtù fa la perfezione. Nella difesa del Salvatore, Disma si mostrò forte come un leone: or ecco che va a mostrarsi umile e mansueto come un agnello. Umile, ei si confessa reo e meritevole del supplizio: umile, ei non ha alcuna fiducia in se stesso, e tutto aspetta dall’infinita bontà del Dio delle misericordie, che muore al suo fianco: un semplice ricordo è tutto quello che osa domandargli. – Dolce come un agnello, esso è al macello. Già feroce, violento, crudele al di là di quanto può dirsi, sopporta senz’aprir la bocca ad alcun lamento, le ingiurie degli spettatori, la vergogna del suo supplizio, i dolori fisici e morali, la cui intensità non ha nome, perché non ha misura di confronto. Si direbbe che un altro soffre in sua vece; tanto è tranquillo, tanto pare insensibile. – Conchiudiamo con le parole di un gran Cardinale. « Volete voi vedere un miracolo della potenza divina? Venite a contemplare Disma nella maestà della sua fortezza. Tutto il Collegio Apostolico, il fior della grazia, abbandona smarrito il divino Maestro, e prende la fuga: solo il Buon Ladrone, in mezzo ai Giudei frementi e minacciosi, rimane impavido e dichiara la innocenza del Signore: prodigio di fortezza. Egli non arrossisce di confessarsi pubblicamente colpevole, e meritevole della gravissima pena che soffre: altro prodigio di fortezza. » [Godofr. Vindocin., card. S. Prisa.*, Serm, x, De S. Latr.] Ma riserbiamo una parte della nostra ammirazione per un’altra virtù del beato Disma. La temperanza. — Che cosa è un uomo temperante? S. Agostino risponde : « Uomo temperante è quegli che in mezzo alle coso caduche e passeggere di questa vita, segue la regola tracciata nell’ antico e nel nuovo Testameuto. Questa regola consiste nel non amare e non desiderare alcuna di quelle cose per se stessa, ma per usarne, quanto il riecheggiano i bisogni della vita, e l’adempimento del proprio dovere, colla moderazione di un usufruttuario, e non colla passione di un amante. » – Quindi è che moderare le passioni dell’anima tenendole egualmente lontane dal troppo e dal troppo poco, è in generale l’ufficio della temperanza. Suo principale esercizio si è di reprimere la più imperiosa delle passioni del cuore umano, l’orgoglio. Ora la esperienza c’insegna che l’orgoglio ondeggia sempre tra la presunzione e lo scoraggiamento. Per lunghi anni schiavo di questa passione, vedete ora come il nostro Santo se la pone sotto i piedi. Grande acume avrebbe colui che scoprisse la menoma traccia o di scoraggiamento o di presunzione nel convertito del Calvario. Egli è sul punto di morire; nel suo passato vede un’ intera vita di delitti meritevoli della pena capitale; davanti a se un giudice inesorabile che l’attende sulla soglia dell’eternità. Credete voi forse che questo doppio pensiero lo getti nella disperazione? Nulla affatto. Con l’umile confessione delle sue reità egli ha vinto l’orgoglio; ed il vinto orgoglio ha dato luogo nel suo cuore alla fiducia. Ma la coscienza del perdono non gl’ispira forse qualche sentimento di personale ambizione, non lo rende presuntuoso nelle sue parole e nelle sue pretensioni? Sarebbe errore il crederlo. L’amore perfetto di che è infiammato per nostro Signore ha bandito dal suo animo l’orgoglio, e l’orgoglio altro non è che egoismo. Vero è che Disma chiede il paradiso, ma ben più per la gloria di Gesù che per la sua propria. Il suo amore, già lo vedemmo, non è un amor mercenario. Egli è un amore talmente spoglio di ogni personale interesse che lo fa degno di entrare immediatamente nel soggiorno della beatitudine. Egli domanda il cielo, ma con una modestia che tutti i Padri della Chiesa han decantato, e che tutti i secoli ammirano: Memento mei! Ricordati di me! Il precedente saggio ci ha permesso di riconoscere nel Buon Ladrone le sette virtù, il cui eroismo è necessario per la canonizzazione dei santi. Ciò che ne rileva la singolarità luminosa, si è di vederle nascere in un batter d’occhio in quell’anima di masnadiere. La potenza della grazia e la bontà di Dio furono mai tanto ammirabili e degne di riconoscenza? Ammirabile è questo grande Iddio, quando nel primo giorno della creazione lo sentiamo dire: « Sia fatta la luce, e la luce fu fatta. » Ammirabile, quando ad ognuna delle sue parole vediamo piene di vita uscire dagli abissi del nulla le innumerevoli creature, che popolano la terra, l’ aria, il mare. Ammirabile in tutti i prodigi che nella vita del popolo Ebreo, manifestano con meraviglioso splendore la sua sovrana autorità su gli elementi. Ma quanto il mondo delle anime supera in dignità quello de’corpi, altrettanto le meraviglie di Dio nell’ordine della grazia, sono superiori alle sue meraviglie nell’ordine della natura. Se dunque le bellezze visibili ai nostri occhi corporei ci rendono estatici di ammirazione, e giungono talora a commuovere fino a delirio la mente ed il cuore, in qual estasi non debbono rapirci le bellezze che si fan visibili agli occhi della fede? Tra tutte, domanderemo noi, havvene forse una che star possa al confronto con la subitanea, radicale, eroica conversione del Buon Ladrone? Sappiamo dunque ammirarla, ed ammirandola amare quel Dio che la operò.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (5)

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (5)

GNOSI E PLATONISMO -II-

Il recupero e la sistematizzazione del paganesimo antico.

[Elaborato dal volume di E. Couvert, “La gnose contre la foi”, cap. I]

I filosofi neoplatonici, Porfirio, Giamblico, Ierocle ed il loro allievi, come quelli della scuola di Alessandria, cercano di sforzarsi di conciliare il monoteismo dei filosofi greci con il politeismo popolare, per dare a quest’ultimo una veste ragionevole. Gli dei del paganesimo, essi ci dicono in sostanza, costituiscono una catena incalcolabile di esseri intermediari le cui perfezioni decrescono in proporzione al loro allontanamento dal Principio creatore. « Nel V secolo della nostra era, scrive J. Denis (Storia delle teorie e delle idee morali dell’antichità), si può dire che tutti i pagani illuminati, benché si ostinassero a conservare la nozione degli dei e dei demoni, non riconoscessero più che l’Essere supremo. Secondo Giamblico, questa credenza è un sentimento necessario, innato in noi, inseparabile dall’essenza della nostra anima che è unita a Dio come il raggio all’astro. » – Così questi filosofi si oppongono fortemente a Cicerone. Quest’ultimo infatti, nel suo “De Natura Deorum” si è sforzato di applicare la sua intelligenza agli dei del politeismo ed ha dato della religione popolare del suo tempo un giudizio particolarmente chiaro: egli ha contestato la molteplicità degli dei, le loro imperfezioni; egli ha mostrato, con qualche esitazione ed incertezza senza dubbio, che Dio non poteva essere che Uno, Perfetto, e che le incoerenze della mitologia erano indegne di una intelligenza ragionevole. Per questo fu pure soggetto alle censure dei neo-platonici. Arnobio ci segnala che « un gran numero di persone si allontanarono dai libri che Cicerone aveva scritto su queste questioni, che li rifuggivano e rifiutavano ogni approccio nella lettura di cose che violavano i loro pregiudizi. Essi arrivarono a dichiarare che il senato dovrebbe dovuto emettere un decreto di annientamento contro queste opere in cui la religione cristiana trovava conferme e che annullavano perciò l’autorità delle tradizioni antiche. Ma sopprimere gli scritti di Cicerone, voleva significare far sparire dei testi già ampiamente presentati al pubblico: non è questo difendere gli dei, ma temere la testimonianza della Verità! » Infine i neo-platonici vanno a costituire un “corpo” dottrinale con elementi eterocliti, ma cementati da una simbologia sistematizzata per opporla alla dottrina cristiana. Essi se ne servirono come di una “macchina da guerra” molto efficace contro i polemisti cristiani. J. Simon, nella sua tesi sui commentari del Timeo di Platone di Proclo, espone bene il loro metodo: « … è lo scopo confessato degli Alessandrini mostrare, nei sistemi più antichi, i germi della loro filosofia e presentarli come una dottrina rivelata dagli dei ai saggi dei tempi antichi e trasmessa senza alterazione fino ad essi, sotto le forme più diverse. Ermes è il primo anello di questa catena d’oro. Gli antichi sacerdoti egiziani, i teologi ed i poeti della Grecia, i discepoli di Pitagora e di Platone ne sono gli anelli, fino alla scuola di Alessandria ed a Proclo. Le stesse dottrine che i teologi dell’Egitto e della Grecia hanno espresso con dei miti e Pitagora con simboli, Platone le rivela senza veli … la scuola di Alessandria, venuta per ultima, abbraccia tutti i metodi in un unico sincretismo! Suo compito principale è quello di estrapolare l’Unità delle dottrine in mezzo a queste apparenti diversità ed insegnarle al mondo con la triplice autorità della religione, della storia, della ragione. » Ecco che cosa c’è di notevole! Bisognerebbe a questo punto rappresentare i filosofi neoplatonici non come dei pensatori avidi di verità, perduti nella contemplazione delle essenze eterne: no, affatto! Poiché essi furono combattenti accaniti di una vera guerra di Religione. Da tali filosofi, tutti gli argomenti e tutti i mezzi furono messi in azione contro i Cristiani, per distruggere la nuova Religione che essi chiamavano “malattia”. È sufficiente leggere “La reazione pagana” di Pierre de Labriolle per convincersene. Si capirà che il loro insegnamento segue da vicino quello degli gnostici, ma se ne distingue per una argomentazione razionale che si appella all’intelligenza, mentre gli gnostici pretendevano di insegnare le stesse dottrine imponendole però come una iniziazione segreta e con il ricorso ad una mitologia delirante che poteva sì soddisfare il desiderio di meraviglioso e di mistero di certe anime, ma necessariamente finiva per respingere spiriti dotati di obiettività e di buon senso.

I falsi “cristi” pagani

Il primo strumento di guerra contro il Cristianesimo che i filosofi neo-platonici utilizzarono, fu quello di forgiare, come si fa con le monete, tutta una serie di falsi “cristi” da opporre all’unico Vero Cristo. Porfirio, Giamblico, Ierocle avevano letto i Vangeli e letti avidamente, si potrebbe dire quasi con una lente di ingrandimento. Essi ne hanno cercato contraddizioni, incoerenze almeno apparenti, per rivolgerle contro gli apologisti cristiani. Essi discussero circa la genealogia di Gesù, i miracoli, la nascita verginale, le tenebre del Venerdì santo, la “sedicente” Resurrezione, etc. Ma nello stesso tempo comprendevano la forza dirompente dell’insegnamento di Gesù. Essi ne ammiravano la bellezza morale, la semplicità benevola, la penetrazione psicologica. Essi conclusero allora che non ci si poteva opporre alla nuova Religione solo con la persecuzione violenta e legalizzata, ma che bisognava recuperare le anime attirate da essa presentando un equivalente di pressoché pari degnità nel paganesimo. Era difficile imbiancare gli dei pagani e togliere loro l’aureola di volgarità e di grossolanità, di violenza e di adulterio … bisognava trovare di meglio. Fortunatamente essi avevano Pitagora, la cui vita era quasi leggendaria e sul quale non si sapeva granché; trovarono poi un pagano, poco conosciuto in giro, con il nome di Apollonio di Tyane, sul quale egualmente era possibile ricamare senza eccessivi sospetti. Non si trattava di “confezionare” degli dei, ma degli “inviati”, degli “intermediari” divini dell’Essere supremo, o meglio ancora attribuire loro la maggior parte delle azioni e dei miracoli di Gesù. Fu questa un’operazione ben riuscita, che ancora oggi inganna qualche erudito ( … oggi forse tra gli ultimi discepoli del neo-platonismo!?)

Apollonio di Tyane

La vita di Apollonio di Tyane fu scritta da Filostrato su richiesta di Julia Domma, moglie dell’imperatore Settimo Severo, una siriana, figlia di un sacerdote del sole. Settimo Severo stesso era uno gnostico e venerava nel suo larario Abramo, Pitagora, Gesù, Apollonio, etc. . Filostrato conosceva i Vangeli e da essi ne copia scene, personaggi, ritratti, avvenimenti e fatti miracolosi. Secondo lui, Apollonio è salito al cielo dopo essersi fatto riconoscere dai suoi discepoli. Questi stava per divenire, secondo la parola del Renan: « una reincarnazione divina che si osò comparare a Gesù ». Ma Filostrato era molto abile… egli intanto non nomina mai il Cristianesimo, si accontenta di dare al suo personaggio delle apparenze “cristiche”, spesso artefatte. Si ritrovano nella sua vita pure diversi episodi che altri scrittori avevano già attribuito a Pitagora. Egli sarà onorato come un essere divino da Settimo Severo ed Aureliano, gli si disegna pure un’aureola di modestia e di saggezza per opporlo a Gesù che si è preteso “con orgoglio”, di essere Figlio di Dio ….  « Ierocle, ci dice Lattanzio, tentava di sminuire l’importanza dei miracoli del Cristo, senza tuttavia negarli e voleva dimostrare che Apollonio ne aveva compiuti di simili e ancor di più grandi. Ci stupiamo che abbia passato sotto silenzio Apuleio, del quale altri citano comunemente tanti prodigi! “Ma perché, o testa folle, nessuno adora Apollonio come un dio con il quale tu sarai punito eternamente dal Dio vero”. Se il Cristo era un mago, perché ha compiuto dei prodigi, Apollonio si è mostrato ancora più abile, perché secondo Filostrato, nel momento in cui Domiziano si disponeva a punirlo, egli sparì subito dal tribunale, mentre il Cristo, si lasciò prendere e appendere alla croce! Tal polemista Ierocle, ha forse voluto incriminare l’orgoglio del Cristo per essersi mostrato come un dio al fine di far venir fuori la modestia di Apollonio che, taumaturgo più grande, non ha rivendicato affatto la sua deificazione. » Anche i cristiani furono attirati da questa immagine posticcia, fabbricata di Apollonio e gli riservarono delle simpatie. Sant’Agostino ci racconta: « Chi non sorrideva nel vedere i nostri contraddittori pagani, comparare o preferire al Cristo: Apollonio, Apuleio ed altri abili maghi? Ed era più sopportabile che essi comparassero tali uomini che non i loro dei; perché bisogna confessare che Apollonio era preferibile molto più che certi personaggi dediti all’adulterio come quello che essi chiamano Juppiter. »

Pitagora

Apollonio di Tiane aveva scritto una vita di Pitagora, della quale non ci resta nulla. Per questo, Giamblico si sforzò di introdurre nella sua “Vita di Pitagora” un gran numero di scene evangeliche. Secondo lui Pitagora sarebbe nato da una vergine, sarebbe fuggito in Egitto, avrebbe costituito un gruppo di dodici discepoli, naturalmente di pescatori, avrebbe fatto numerosi miracoli ad imitazione di Cristo; infine si sarebbe librato nell’aria. « I pitagorici, dice Porfirio, ponevano Pitagora nel numero degli dei, e tutte le volte che volevano rivelare agli altri i segreti della loro scienza, giuravano sul quaternario, come se invocassero Pitagora come un dio. » [Nota sul quaternario sacro: La piramide è la rappresentazione figurata di questo quaternario. « In effetti, dice Ierocle, nel quaternario si vede la prima piramide; la sua base triangolare suppone il numero tre e la sommità che la conclude impone l’unità ». Nella piramide i triangoli sono in numero di quattro, di modo che, vista di lato, la piramide è il triangolo dei nostri franco-massoni e, vista dall’alto, è il quadrato degli gnostici. Noi sappiamo già che per la gnosi, il male è in Dio la perfezione del bene, che satana fa parte integrante della divinità … egli è quella “particella” di divinità che ha insegnato agli uomini che erano divini. È notevole constatare oggi quanto i poteri massonici dilaganti si affannino a posizionare piramidi sulla sommità di torri ed in luoghi pubblici. È questo appunto il “marchio di satana” nel nostro mondo paganizzato]. – « Per venerazione del loro maestro, dice ancora Giamblico, i pitagorici non nominano Pitagora, temono di servirsi del suo nome come di quelli degli dei. Essi lo citano chiamandolo “l’inventore del quaternario”. » Da qui viene che quando giurano per lui, non lo nominano mai, ma dicono semplicemente: “io giuro per lui medesimo, per colui che ha trasmesso alla nostra anima il sacro quaternario”. Essi si inchinano davanti al suo nome dicendo: « Il maestro ha detto » o semplicemente « egli ha detto »; « Vivente, aggiunge Giamblico, i suoi discepoli lo chiamavano divino; quando morì lo citavano dicendo: “questo uomo”, e mai lo nominavano con il suo nome.» “Il maestro” parlava ai suoi novizi nascosto da una tenda. I neo-platonici hanno anche riscritto la vita di Socrate, di Ercole, di Mitra (Matreya presso gli indù), di Elios riprendendo scene, ritratti e fatti miracolosi dai Vangeli. Se vogliamo proseguire la nostra inchiesta al di fuori dei movimenti neo-platonici, troveremo simili plagi nella vita leggendaria di Budda e di Krishna. – Per concludere, riportiamo questa affermazione di Gaston Boisser. « A partire da Marco Aurelio, il paganesimo tentò di riformarsi sul modello della religione che lo minacciava e che esso combatteva. »

L’anima secondo i neo-platonici

E partiamo ancora da Platone: « È solo la nostra anima, egli dice nelle “Leggi”, che costituisce ciò che noi siamo. Il nostro corpo non è che un’immagine che accompagna ciascuno di noi … la nostra vera persona è una sostanza, immortale di sua natura, che si chiama anima. » – « Fintanto che viviamo quaggiù, dice ancora nel “Fedone” noi ci avvicineremo il più possibile nel sapere che, a seconda della misura dei nostri mezzi, noi non avremo alcun commercio con il corpo se non per assoluta necessità, per non permettergli di riempirci della sua natura propria, ma noi lavoreremo per purificarci affinché Dio stesso venga a liberarci. » Sono questi i testi che i neoplatonici utilizzano abbondantemente, soprattutto Giamblico e Ierocle. Ascoltiamoli:  Ierocle, nel suo commentario dei “Versi d’oro” di Pitagora, scrive: « Ciò che tu fai, ciò che tu in effetti sei, è la tua anima. Il tuo corpo non è tuo; esso è presso di te e le cose esteriori sono presso di te, cioè presso il tuo corpo. Grazie a questa distinzione non confonderai mai queste diverse nature; tu saprai scoprire qual è l’essenza dell’uomo non considerando mai come te stesso né il tuo corpo, né le cose esterne e, non curandotene come la tua vera persona, eviterai di cadere in un amore troppo grande per il corpo e per le ricchezze. » – « Lo scopo della filosofia di Pitagora, scrive Dacier, nella sua “Vita di Pitagora”, era liberare dai legami del corpo lo spirito, poiché solo senza il corpo è possibile vedere ed apprendere alcunché; infatti, come ha detto per primo, è lo spirito solo che vede e che intende, essendo tutto il resto cieco e sordo. » – Da questa citazione si vede che i neoplatonici si sono accontentati di spingere alle estreme conseguenze gli insegnamenti di Platone. Ma il senso comune ci insegna, nel corso dell’esistenza, esattamente il contrario. Il nostro corpo è proprio noi stessi, e la nostra anima è il principio di animazione del corpo. Che cos’è un’anima che non anima un corpo, essa non è più un’anima … non è assolutamente nulla! – Platone pretende che noi ci avvicineremo al sapere solo rinunciando al corpo. Giamblico ci assicura che solo lo spirito vede ed intende. Ma il senso comune ci dice esattamente il contrario. Il neonato, alla nascita, ignora tutto. Prende conoscenza del mondo con i suoi occhi, le sue orecchie, etc. Questa presa di conoscenza è difficile, lenta, ardua, passa attraverso numerosi errori, diversi falsi. C’è bisogno di una educazione molto sostenuta perché il bambino giunga ad una visione razionale delle cose. Questa è l’esperienza comune dell’umanità. Platone pertanto sottolinea con qualche formula restrittiva l’assurdità della sua tesi: « se non si è nella assoluta necessità! ». Ma è nel corso della vita che questa necessità si impone. Noi siamo un corpo animato. È il nostro corpo che si muove, agisce, pensa, vede, salta, etc. proprio perché c’è una forma animante, che si dice un’anima. Non si può rettificare questa anima e farne una sostanza. Una sostanza [sub stantes] è ciò che “si tiene sotto” per sostenere l’essere intero. – E sono gli stessi neoplatonici che ce lo dicono con l’incoerenza delle loro fervide immaginazioni. Essi affermano che l’anima esiste fin dall’eternità prima della generazione fisica … affermazione gratuita, assoltamente insostenibile. Come può un principio di “essere”, concepirsi senza l’essere che l’anima? Impossibile! Così essi immaginano un sembiante di corpo, qualche cosa di solido, di consistente, una sostanza insomma per portare questa anima alla generazione. Essi non possono concepire un’anima sospesa nel vuoto. Essi sono realisti malgrado se stessi … ci dicono: « Tutte le anime [è Proclo che parla] prima di “cadere” nella generazione erano anteriormente degli uomini. Essi avevano un veicolo in rapporto con la loro natura, un veicolo invisibile, indefettibile, eterno, come prodotto immediato di una causa immobile. Questo veicolo non è altro che un corpo immortale, è unito all’anima e la dispone, con la sua presenza, ad unirsi poi ad un corpo mortale. È l’intermediario che la avvicina all’involucro materiale che bisognerà subire ..» Pitagora lo chiama “carne spirituale”, “corpo luminoso”, “veicolo dell’anima”. È certo allora la prova che l’anima non è una sostanza, perché necessita di un supporto anche nel mondo divino. E che cos’è questo veicolo immortale che non veicola più niente quando l’anima è caduta in un corpo mortale? Non è dunque più un veicolo del tutto, supporto divenuto inutile, sostanza vuota … ! La Fede Cattolica ci insegna tutt’altro. Il nostro corpo fa parte integrale di noi stessi, costituisce la sostanza del nostro essere. È l’uomo intero, corpo ed anima che sarà salvato o dannato. La Chiesa insegna anche la resurrezione dei corpi, « tempio dello Spirito Santo » … si dice. Quale scandalo! Questo putridume, questo carapace, questa prigione, etc. etc., sarà anch’essa partecipe della visione beatifica. Ecco un dogma della Fede Cattolica che si oppone completamente alla filosofia di Platone, di modo che non può esserci alcuna conciliazione possibile tra le due! – La nostra anima, essendo un principio di animazione del nostro corpo, non è un principio intercambiabile, capace di animare qualsiasi corpo. La nostra anima è quella che dà la forma corporea al nostro essere, essa è dunque la “forma stessa del nostro corpo”, non quella del nostro vicino. Il suo ruolo proprio è quello di animare un corpo, anche nell’eternità, e le è assolutamente impossibile passare da un corpo all’altro, perché allora non sarebbe più la stessa forma, ma un’altra forma, dunque un’altra anima! La reincarnazione è pertanto un assurdo! – Da questo si denota la difficoltà che c’è nel far coabitare negli spiriti le verità della Fede Cattolica con le tesi di una filosofia di radice platonica: esse si scontreranno sempre, ed è il problema che ha sempre avvelenato gli spiriti, fino alle grandi sintesi scolastiche. – Ma continuiamo: « Ni portiamo, dice Epitteto, un dio con noi e noi lo ignoriamo! Noi non riflettiamo che lo profaniamo con azioni malvagie e pensieri impuri! Noi non oseremo fare quel che facciamo davanti ad un vano simulacro, alla presenza di Dio stesso, in presenza del “dio” che c’è nella nostra coscienza, cioè pensare le cose più vergognose che facciamo senza arrossire. Oh! Come conosciamo male la celeste dignità della nostra natura! » – “Noi siamo divini”, dicono i neoplatonici, ma … noi non lo sappiamo. Ma se non sappiamo che portiamo in noi un dio, come possiamo affermarlo? È una pretesa gratuita, inverificabile. Da dove ci viene questa ignoranza. – Santo Ireneo non esita ad interpellare Platone su questo soggetto in un’epoca in cui tutti gli spiriti coltivati lo veneravano: « Platone fece intervenire la “bevanda dell’oblio” … senza fornire la minima prova. Egli dichiarò perentoriamente che le anime entrando in questa vita sono “abbeverate” dall’oblio … prima di entrare nei corpi … “e se la bevanda dell’oblio è sufficiente, dato che è stata bevuta per cancellare il ricordo, come tu sai, o Platone, poiché anche la tua anima è presente in un corpo, che prima di entrare in questo corpo, essa è stata abbeverata da un demonio con il “rimedio dell’oblio”? Se tu ti ricordi del “demone” della bevanda e dell’entrata, tu devi sapere anche tutto il resto. Se tu invece lo ignori, il demonio allora non è veritiero, né il resto di questa teoria relativa alla bevanda dell’oblio … » – “Noi siamo divini”, dicono i neoplatonici, ma noi non ci comportiamo secondo modi divini: … cattive azioni, pensieri impuri, etc. Il testo di Epitteto si pretende moralizzatore; ma nei fatti è contraddittorio ed assurdo. Se noi siamo divini, come possiamo comportarci così? Per la nostra natura divina, l’immoralità è impossibile, ma se essa è invece possibile, dunque noi non siamo divini … – Ma esiste un’altra conseguenza imprevista che gli gnostici moderni malignamente pensano di sviluppare e risolvere. Noi arrossiamo nel fare cose vergognose davanti alle statue degli dei, vani simulacri, ci dice Epitteto, ed ha ragione! Noi non arrossiamo davanti a dio che è in noi, che è noi-stessi. Ma certamente! Per arrossire bisogna trovarsi davanti a qualcuno che ci giudichi secondo il suo criterio di giudizio, al quale propriamente noi aderiamo almeno esteriormente. Ma se Dio è in noi, costituendo la nostra natura celeste, noi non abbiamo più osservatori esterni a noi stessi; noi diventiamo interamente liberi dei nostri atti. È il nostro giudizio che diventa allora criterio supremo del Bene e del Male. Per un essere divino, tutto è bene e non c’è alcuna vergogna possibile! La psicanalisi moderna, volendo decolpevolizzarci, non fa che adottare le tesi di Platone portate alle loro estreme ed assurde conseguenze. Questa enorme contraddizione tra la nostra natura, sedicente divina, ed il nostro comportamento così mediocre, resterà la pietra di inciampo dei platonici e degli gnostici che li seguono.

Caduta e reintegrazione nei neo-platonici

Partiamo sempre ancora di Platone; « l’ardente desiderio, ci dice Ierocle, di colui che vuole fuggire questo pascolo di infelicità, è accelerare la venuta ai pascoli della verità. Se egli non vi arriva, la caduta delle sue ali lo precipita in un corpo terrestre e lo priva della perpetua felicità. Platone si accorda con noi con quanto dice sul soggetto di questa discesa: “Quando l’anima, impotente nel seguire gli dei, non può arrivare alla contemplazione e, dandosi all’infelicità, perde le sue ali e cade sulla terra, allora una legge divina gli prescrive di venire ad animare il corpo di un essere mortale” » (Estratto di Fedro). L’anima umana è un “genio” decaduto (δαίμων=daimon) che è dovuto scendere sulla terra per espiare i peccati commessi. « Gli antichi teologi ed indovini, scrive Filolao, in Clemente d’Alessandria (Gli Stromati), attestano che è la punizione di certe colpe a legare l’anima ai corpi ed a seppellirla come in un sepolcro. » La vita è una punizione e la morte una liberazione. Ma come è possibile che questa nostra anima, “genio” divino, portata da un “carro luminoso”, un “corpo spirituale” etc., abbia potuto commettere la minima colpa, non essendo corrotta né degradata dalla materia prima per poter così cadere su questa terra di infelicità ed in questa prigione-carapace? Poteva dunque la celeste dignità della nostra natura divina convenire ad un’anima difettosa ed impura? C’è una incoerenza enorme, praticamente delirante! Ed infatti i nostri filosofi platonici hanno evitato di spiegarci di quale colpa o difetto si tratti, dove questa sia stata commessa e perché, e chi abbia deciso la sua sorte e con quale criterio! Tutto questo è pura invenzione alla quale nulla corrisponde di reale. Ed andiamo a vedere a quali conseguenze stravaganti conducono tali presupposti. – Secondo Proclo: « La preghiera non è invocazione agli dei per ottenere dei favori, ma essa è essenzialmente pura senza comportare speranze: è lo slancio dell’anima virtuosa verso il “divino” [cioè un’astrazione impersonale!], sorgente di ogni perfezione. Ciò che procede dagli dei, distinguendosene, non è affatto separato. In virtù dell’affinità che la unisce ancora al suo principio, essa tende a ritornarvi e l’atto di amore e di intelligenza che la riporta verso un dio, … questa è la preghiera. L’essenza della preghiera  è il convergere dell’anima verso la divinità; il suo effetto immediato è una maggior virtù, mentre il suo termine supremo è l’assorbimento in Dio! Gli uomini si ingannano stranamente, essi immaginano che Dio si ritiri da essi o che se ne avvicini e che la forza della preghiera sia quella di attirarlo o farlo scendere ad essi. Dio è presente sempre in tutto, Egli è intimo alle nostre anime, o piuttosto le nostre anime sono in lui. Quando crediamo che si avvicini a noi con la virtù, l’amore e la preghiera ci avvicinino a lui e ci uniscono più intimamente alla sua pura essenza con la parte della nostra anima che più gli somiglia. Dio non discende verso l’anima, ma è l’anima che si eleva fino a lui. » Ecco un bell’esempio di disprezzo della Provvidenza. La divinità è presentata dai neoplatonici come pura essenza, impassibile, immobile, senza personalità (« il divino »). Le nostre anime ne sono delle “particelle” cadute, decadute. Ma esse sono divine ed appartengono a questa essenza per loro natura. Esse sono dunque compiute in se stesse ed hanno la forza, la virtù di risalire alla loro sorgente. Non c’è bisogno di una forza soprannaturale, inviata da Dio per “elevare” la nostra natura ad un ordine che la oltrepassa. La nostra anima si eleva da sola, senza aiuto, senza “grazia”, con movimento proprio: è una reintegrazione, un ritorno all’Unità. – Gli uomini si ingannano, ci dice Proclo, quando immaginano di attirare Dio e farlo discendere a loro con la preghiera. Ma questo “errore” [sempre secondo Proclo] è invece comune a tutta l’umanità, è inscritto nella nostra natura umana! Ogni uomo comprende bene di essere debole e spesso impotente, legato ad una vita di difficoltà, ostacoli, sofferenze di ogni tipo, e che ha bisogno di un aiuto. – Dire che la divinità suprema è impassibile, impersonale, indifferente verso l’infelicità, è incitare alla disperazione ed al suicidio: è uccidere la virtù della Speranza. Infatti la nostra preghiera è sempre un appello al soccorso; essa presuppone un Dio personale, capace di piegarsi verso di noi, di accondiscendere alle nostre suppliche. Ecco l’insegnamento della Fede Cattolica. Essa è radicalmente opposta al platonismo ed alle sue successive derivate elucubrazioni.  – Infine, il ritorno alla divinità è presentato dai nostri filosofi, come una deificazione. Una teurgia! Una operazione che ci rimette in contatto con l’Essere superiore, che ci riunisce all’Essenza e all’Anima universale, come dice Plotino. Essa era praticata in riti segreti, magici, nel corso dei quali il “teurgo” sentiva di divenire Dio. Profonda illusione! È facile credersi divino nell’euforia di una cerimonia esaltante, magari sotto l’effetto di droghe [in realtà trattasi di evocazione diabolica!]. La ricaduta nel quotidiano è il segno manifesto che questa deificazione non ha avuto mai luogo realmente. È la stessa teurgia di sempre praticata oggi dagli occultisti satanisti, dai fattucchieri, dai falsi veggenti ed in massa dai franco-massoni, soprattutto ecclesiastici (… quelli della falsa chiesa, la sinagoga di satana).

Una scena di teurgia

Come sentire la natura divina del nostro essere? Non è sufficiente sentirsi divino, occorre averne il sentimento positivo, se non si vuol vivere nell’illusione. Giamblico ce ne da la risposta nel suo “Trattato sui misteri”, quel Giamblico, che Marinus di Napoli chiamava il “divino Giamblico”, il grande taumaturgo neo-platonico del IV secolo! Egli ci descrive la possessione dell’essere umano da parte del “divino”: « Il teagogo [colui che fa apparire la divinità, che la rende presente tra gli uomini … oggi diremmo: il medium!] vede il soffio discendere ed entrare in lui e ne percepisce la grandezza e la qualità. Colui che lo riceve vede apparirgli davanti l’immagine del fuoco. Talvolta questa immagine è visibile a tutti gli assistenti, all’arrivo ed alla dipartita del “dio”. Per questo se ne può determinare esattamente la veracità, la potenza e soprattutto il rango, e coloro che conoscono questa scienza possono dire al soggetto “invaso” di quanto sia capace di dire la verità, quale potenza possa dispiegare e quali atti possa compiere. » – Più avanti Giamblico prosegue: « Il teurgo, con la potenza delle cose ineffabili, non comanda più agli esseri cosmici come un uomo usando di un’anima umana ma, come presumendosi nel rango degli dei, portando minacce superiori alla propria essenza … Usando tali parole egli fa conoscere nella sua estensione, nella sua qualità e nella sua maniera, la potenza che gli dà l’unione con gli dei, che gli è stata procurata dalla conoscenza dei simboli ineffabili … » – Siamo qui in pieno rituale magico, in piena scienza occulta, propria di ogni esoterismo. – Ecco un esempio rimarchevole di conversione neo-platonica: “L’imperatore Giuliano l’Apostata fu allievo del grammatico Libanius. Quest’ultimo lo mise in rapporto con Massimo di Efeso e questi ci racconta la sua conversione al neo-platonismo. Presso di lui, il giovane Giuliano non fu conquistato che dallo splendore del “Vero”: « Fu così, egli dice, che Giuliano incontrò degli uomini imbevuti della dottrina di Platone, sentì parlare degli dei e dei demoni, ed apprese che cos’è l’anima, da dove essa viene, dove va, ciò che la fa decadere, ciò che la eleva, ciò che la definisce, ciò che la esalta, ciò che per essa sono la cattività e la libertà, come può evitare l’una e raggiungere l’altra. Allora rigettò le menzogne alle quali egli aveva creduto [il Cristianesimo, evidentemente]  fino ad allora ed installare nella sua vita lo splendore della Verità come se in un gran popolo si ristabiliscono delle statue di dei precedentemente oltraggiati ed fangati – Questo non è totalmente falso: Massimo stesso fu un filosofo autore di un commentario delle “Categorie” di Aristotele, ma non fu solamente questo; egli fu anche un teurgo e noi vedremo che il passo definitivo di Giuliano nella sua conversione inversa, non si ebbe solo per l’amore della “Verità”, ma innanzitutto e soprattutto per l’impazienza di “sentirsi” divino e di ricevere in se stesso una forza sovrumana. Uno dei suoi maestri, Eusebio, gli raccontò un giorno una seduta meravigliosa in cui apparve Massimo, il cui prestigio e le relazioni intime con gli dei facevano allora l’ammirazione dei suoi devoti. – « Io fui convocato, già da tempo, con diversi amici da Massimo, al tempio di Ecate. Egli così reclutò numerosi testimoni presso di lui. Quando avemmo salutato la “dea”, Massimo esclamò: !Sedetevi, miei amici, guardate bene cosa sta per succedere e vedete se io non sono superiore agli altri uomini.” Noi ci sedemmo tutti. Allora Massimo bruciò un grano di incenso, cantò da se stesso non so quale inno e spinse così lontano la sua esibizione che improvvisamente l’immagine di Ecate sembrò sorridere e poi ridere a voce alta. Siccome noi sembravamo emozionati,  Massimo ci disse: “che nessuno di voi si turbi”. In un istante le torce che la dea teneva davanti alle sue mani, si illuminarono”. Egli non aveva finito di parlare che già il fuoco brillava sulle torce. Noi ci retraemmo, colpiti momentaneamente dallo stupore davanti a questo teatrale apparir di meraviglie, e ci domandammo se avessimo veramente visto queste belle cose. “Ma, aggiunse Eusebio, non vi stupite di alcun fatto del genere, non più di quanto mi stupisca io stesso, e credete che non c’è purificazione che non proceda dalla ragione”. Allora il divino Giuliano si alzò e: “Addio, disse, immergetevi nei vostri libri; voi mi rivelate l’uomo che io cercavo”. » Eusebio credeva di allontanare il suo allievo dalla magia, ma fu l’effetto contrario a prodursi; l’attrazione della potenza soprannaturale e divina, fu più decisiva degli scritti filosofici nella conversione neo-platonica di Giuliano. – San Ippolito ci racconta nei “Philisophoumena” come si procedeva per persuadere gli spiriti semplici e creduloni che fosse veramente apparso il “dio”: « Ecco come il teurgo fa apparire la divinità in tracce di fuoco. Dopo aver disegnato su di un muro la sagoma che si vuol mostrare, se ne sparge segretamente la superficie con una miscela composta da porpora laconiana e bitume di Zante; poi, fingendo un delirio estatico, si avvicina al muro una torcia fiammante, per cui la miscela prende fuoco producendo una grande luce. » Infine Giuliano divenne imperatore ed il neo-platonismo regnò sull’impero; ma non fu per molto tempo. – Ai suoi amici in lacrime intorno al letto sul quale stava per dare l’ultimo respiro, egli rimproverò la loro debolezza: « È una umiliazione per tutti noi, disse, che voi piangiate un principe la cui anima sta per tornare verso il cielo e confondersi con il fuoco delle stelle. » Il silenzio cadde intorno a lui; egli ne approfittò per iniziare con Prisco e Massimo un dialogo sulla vita futura e sulla nobiltà infinita dell’anima … Fu con gioia che rese la sua anima al “suo dio” che lo aveva per un certo tempo imprigionato in un corpo mortale.

 

 

 

FESTA DEGLI ANGELI

FESTA DEGLI ANGELI

[J. J. Gaume: “Catechismo di perseveranza”, vol, 4, Torino 1881]

Devozione all’Angelo custode.

Ci resta a parlare dell’Angelo custode. E primieramente ditemi, o uomini, chiunque voi siate, conoscete voi cosa alcuna più acconcia per dare al figlio di Adamo, a questo fanciullo che striscia nella polvere, che bagna colle sue lacrime il sentiero della vita, che la percorre, si direbbe quasi il rifiuto degli esseri, che si sente trascinato dal peso di una natura corrotta versa quanto vi ha di vile e di abbietto; conoscete voi cosa alcuna più idonea a nobilitarlo ai suoi occhi e a renderlo rispettabile e sacro agli occhi altrui, come questa festa dell’Angelo custode? Figlio della polvere, gli dice la Chiesa in quel giorno, ricordati che tu sei figlio dell’Eterno. Il monarca dei mondi ha deputato verso di te un principe della sua corte, e gli ha detto: Va, prendi per mano il figlio mio, veglia su tutti i suoi passi, fammi conoscere i suoi bisogni, i suoi desideri, i suoi sospiri; ogni giorno veglia al suo fianco accompagnandolo, e sta la notte in piedi al capezzale del suo letto. Prendilo su le tue braccia, ond’ei non percuota il piede contro le pietre. Egli è affidato alle tue cure, tu lo ricondurrai sulle tue braccia ai piedi del mio trono, nel giorno ch’io avrò destinato, per introdurlo nel mio regno, suo immortale retaggio. – Ed ecco tutto ciò che ne dice, insieme a mille altre cose, il culto all’Angelo custode. – Riparatrice universale, madre affettuosa, la Chiesa cattolica poteva forse trascurare di raccomandarlo? Oh! no; essa nulla ha negletto per rendere palese e, se è passibile, sempre presente la credenza dell’Angelo custode. Dalla cuna sino alla tomba; ella ci parla del principe della corte celeste, che veglia a difesa del nostro corpo e dell’anima nostra, che vede tutte le nostre azioni, e che ne rende conto al Dio del cielo, padre e giudice di tutti gli uomini.

Festa degli Angeli custodi. —

Né tutto ciò ha bastato alla sua sollecitudine, poich’ella ha di più instituito una festa particolare per onorare gli Angeli custodi dei figli suoi. Fu Ferdinando d’Austria, poi imperatore, quegli che ottenne al principio del secolo decimo settimo dal pontefice Paolo V, che s’istituisse l’uffizio dell’Angelo custode, e che ne fosse celebrata la festa Propagata ben presto per tutta la Chiesa, questa commovente solennità non è più da quell’epoca stata interrotta. E infatti i motivi che abbiamo di celebrarla non sono sempre forse gli stessi, vale a dire sempre potenti, sempre numerosi, sempre cari alle anime virtuose? Sembra perfino, che quanto più c’inoltriamo nella vita e quanto più il mondo cammina verso il suo fine, più ancora divenga imperiosa la ragione di onorare gli Angeli. Ogni giorno della nostra esistenza e dell’esistenza del mondo, non è forse testimone di qualche nuovo beneficio degli Angeli custodi? E forse ché questi nuovi benefizi non sono eziandio nuovi titoli alla nostra gratitudine e alla nostra devozione? Per adempiere a’ doveri che ci sono imposti verso il nostro Angelo custode, bisogna, dice san Bernardo, rendergli un triplice omaggio; quello del rispetto, quello della fiducia e quello della devozione. Gli dobbiamo il rispetto per la sua presenza, la devozione per la sua carità, la fiducia per la sua vigilanza. Penetrato adunque di rispetto, cammina sempre con circospezione, rammentandoti continuamente che sei in presenza degli Angeli incaricati di guidarti in tutti i tuoi passi. In qualunque luogo tu sia e per quanto ti sembri nascosto, abbi rispetto al tuo Angelo custode. Oseresti tu fare davanti a lui ciò che non osereste fare in presenza di un uomo? Né solamente noi dobbiamo rispettare il nostro angelo tutelare, ma dobbiamo anche amarlo, perché egli è un custode fedele, un vero amico, un protettore potente. Malgrado l’eccellenza della sua natura, la carità l’induce ad incaricarsi della cura di difenderci e di proteggerci; ed egli veglia alla conservazione dei nostri corpi, ai quali i demoni hanno talvolta il potere di nuocere. Ma come descrivere ciò che opera per le anime nostre? Ei c’istruisce, c’incoraggia, ci esorta interiormente, ci avverte dei nostri doveri per mezzo di rimorsi segreti. Egli esercita verso di noi l’officio che esercitava verso i Giudei quell’angelo che li conduceva nella Terra promessa; ei fa per noi ciò che fece Raffaello pel giovine Tobia: egli ci è guida sicura in mezzo ai pericoli di questa vita. Da quali sentimenti di gratitudine, di rispetto, di docilità, di fiducia non dobbiamo esser noi compresi verso il nostro angelo custode! Potremmo noi ringraziare abbastanza la divina Misericordia dell’inestimabile dono che ella ci ha fatto? – Tobia, riflettendo ai favori segnalati che aveva ricevuti dall’angelo Raffaello, dice a suo padre: « Quale ricompensa potremo noi dargli che sia proporzionata ai beni di cui ci ha ricolmi? Ei mi ha condotto in perfetta salute, egli stesso è andato a riscuotere il nostro denaro da Gabelo, ei mi ha ottenuto la donna che ho sposata, ha da lei scacciato il demonio, ha confortato suo padre e sua madre, mi ha liberato dal pesce che voleva ingoiarmi, ha reso a te stesso la vista, e per sua cagione ci troviamo nell’abbondanza di ogni bene; che potremo noi dunque dargli che stia in bilancia con quello che egli ha fatto per noi? » [Tob. XII], Tobia e i suoi genitori, animati dalla più viva riconoscenza, si prostrarono con la faccia per terra per ben tre ore, e benedissero Dio. Procuriamo di entrare nei medesimi sentimenti. « Amiamo, dice san Bernardo, amiamo teneramente in Dio gli Angeli, quegli spiriti beati, che saranno un giorno nostri compagni e nostri coeredi nella gloria e che sono presèntemente nostri tutori e nostri custodi. Siamo devoti e riconoscenti verso simili protettori; amiamoli, onoriamoli quanto ne siamo capaci ». Noi dobbiamo inoltre avere una dolce fiducia nella protezione del nostro Angelo custode. « Per quanto deboli noi siamo, prosegue san Bernardo, per quanto sia meschina la nostra condizione, per quanto grandi siano i pericoli che ci attorniano, nulla dobbiamo temere sotto la protezione di tali custodi… Ogni volta che qualche tribolazione o qualche violenta tentazione verrà ad assalirvi, implorate il soccorso di colui che vi custodisce, che vi guida, che vi assiste in tutte le vostre pene». Ma per meritarne la protezione, dobbiamo prima di tutto odiare il peccato; anche i peccati veniali contristano l’angelo custode. « Come il fumo, dice san Basilio, pone in fuga le api, e il fetore i colombi, così l’infezione del peccato fa fuggire l’angelo che ha la cura di custodirci». La lascivia specialmente è vizio che gli spiriti celesti hanno immensamente in orrore: gli Angeli chiedono vendetta contro di noi a cagione dello scandalo che diamo ai giovinetti. « Io, dice il Signore, spedisco il mio Angelo affinché cammini dinanzi a voi, vi custodisca per via, e vi faccia entrare nella terra ch’io vi ho preparata. Rispettatelo, ascoltatene la voce, e guardatevi bene da disprezzarlo, perché egli non vi perdonerà in conto alcuno quando peccherete, e perché il mio nome è in lui; ma se voi udite la sua voce e fate tutto quanto io vi dico per sua bocca, io sarò il nemico dei vostri nemici, e affliggerò coloro che affliggono voi. Il mio angelo camminerà innanzi a voi, e v’introdurrà nella terra che vi ho preparata.

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io vi ringrazio di avere inviato i vostri angeli per custodirmi; fatemi grazia ch’io medesimo sia Angelo davanti a voi, per la purità del mio cuore e per la prontezza ad adempire la vostra santa volontà. Mi propongo d’amar Dio sopra tutte le cose e il prossimo come me stesso, per amor di Dio, e in prova di questo amore, io reciterò ogni giorno fervorosamente una preghiera al mio angelo custode.

Breve novena

I. – O mio buon Angelo Custode, aiutatemi a ringraziare l’Altissimo per essersi degnato di destinarvi alla mia custodia. Angele Dei.

II. – O Principe celeste, degnatevi d’impetrarmi il perdono di tutti i disgusti che ho dato a voi ed a Dio, non curando le vostre minacce e i vostri consigli. Angele Dei.

III. – O amoroso mio Tutore, imprimete nell’anima mia un profondo rispetto per voi, onde non abbia mai più l’ardimento di far cosa che vi dispiaccia. Ang.Dei.

IV. – O pietoso mio Medico, insegnatemi i rimedii, ed aiutatemi a guarire dai mali abiti e da tante altre miserie che opprimono l’anima mia. Angele Dei.

V. – O fedele mia Guida, impetratemi forza per superare tutti gli ostacoli che s’incontrano nel cammino della virtù, e per soffrire con vera pazienza le tribolazioni di questa vita. Angele Dei.

VI. – O Intercessore possente presso Dio, ottenetemi la grazia d’ubbidire prontamente alle vostre sante inspirazioni, e di uniformare la mia volontà in tutto e sempre a quella di Dio. Angele Dei.

VII. O purissimo Spirito tutto acceso d’amor di Dio, impetratemi questo fuoco divino, ed insieme una vera devozione alla vostra augusta Regina e mia buona Madre Maria. Angele Dei.

VIII. O invitto mio Protettore, assistetemi per corrispondere degnamente al vostro amore ed ai rostri benefici, e per adoperarmi con tutte le forse a promuovere il vostro culto. Angele Dei.

IX. – O beato Ministro dell’Altissimo, ottenetemi nella sua infinita misericordia ch’io giunga un giorno a riempire una delle tante sedi lasciate vuote pel cielo dai ribelli vostri compagni. Angele Dei

Inno all’Angelo Custode

Tu che fra i santi Spiriti

Fra gli Angioli del ciel

Sei di guida fedel

Lucido specchio;

Accogli i miei desir,

E benigno al mio dir

Porgi l’orecchio.

Ta dall’esordir dei secoli

Prima dell’uom creato,

Prima dell’uom beato

In ciel regnasti,

E del motor sovrano

L’onnipotente mano

Accompagnasti.

Allorachè dall’orrido

Caos traeva il suol,

Il mar, la luna, il sol,

La notte e il giorno.

Allor che empiea di belle

Rifolgoranti stelle

Il suo soggiorno.

.- Tu difensor magnanimo

Dello stellato imper,

Col Cherubino alter,

Entrasti in guerra;

Ed, infiammato il cor

D’insolito valor,

L’hai steso a terra,

.- Fu allor che dall’Altissimo

L’eccelsa tua virtù

Rimeritata fu!

Su nell’Empireo

Ove ti stai qual Re,

Cui gli astri sotto i piè

Ruotano in giro.

.- Di là clemente e provvido

A me spiegasti il vol,

Onde da questo suol

Scortarmi al cielo;

Appena il sommo Dio

Vestì lo spirito mio

Del mortal velo.

.- Tu del mio ben sollecito,

Meco sedesti in fascio

A mitigar le ambascie

Ed i tormenti;

E il labbro fra i sospir

Reggesti a profferir

I primi accenti.

.- I primi dì svanirono,

La gioventù sen venne

E il braccio tuo mi tenne

Allor più forte;

Onde il nemico invan

Stese ver me la man,

Le sue ritorte.

.- Poiché per vie difficili,

Sparse di spine e sassi,

Sempre sicuri i passi,

A me reggesti;

E il mondo ingannator,

Col divin tuo favor,

Spregiar mi festi.

.- Che se talvolta incauto

Lungi n’andai da te.

Se sdrucciolai col pie,

Caddi nel laccio,

Non mi lasciasti no,

Ma il tuo mi sollevò

Pietoso braccio.

.- Tu rattenesti i fulmini

Dell’eternal vendetta,

E l’ignea sua saetta

Invan si accese;

.- Talché, fra tanti error,

Dell’Eterno il furor

Non mai mi offese.

.- Quando assalito è il debole

Mio sen di forze ignudo,

Tu sei l’invitto scudo,

Il mio soccorso:

Onde, se teco io son,

Dell’infernal Dragon

Non temo il morso.

.- Ah, chi potrà le laudi

Degne di te cantar?

Chi ben potrà esaltar

La tua virtute,

Se in sì difficil mar

Propizio sai guidar

L’alme a salute?

.- Nell’ansie dello spirito

Consolator mi sei;

Tu ne’ perigli miei

Sei difensore.

.- Nulla poss’io quaggiù,

Se non mi porgi tu

Lena e vigore.

.- Deh, se così benefica

E’ ognor la tua pietà’,

Se tanto in amista

Meco ti strigni,

A me rivolgi ancor

Sul letto del dolor

Gli occhi benigni.

.- E fa che, sciolta l’anima

Dal suo corporeo vel,

Teco a regnare in ciel

Voli all’istante;

Anzi non stiasi in questa

Atra prigion funesta

A lungo errante.

.- E quando il formidabile,

Suon dell’ argentea tromba

Mi trarrà dalla tomba

Al gran Giudizio,

Tu siami per pietà,

Ver l’alta Maestà

Sempre propizio.

.- Ma, che potrò poi renderti

Per tanti tuoi favor,

Se non mostrarti un cor

Grato e sincero?

Poiché non v’ha mercé

Che degna sia di te

Nel mondo intero.

.- Tu accogli le mie fervide

Preci e i miei sospir,

E benigno al mio dir

Porgi l’orecchio.

Tu che fra i cori del ciel

Sei guida fedel

Lucido specchio.

.- Dunque a te ognor sia laude

Che in la magion suprema

Hai d’immortal diadema

Il crin fregiato;

Sempre sia laude a te.

Che siedi in ciel qual Re

Sempre beato.

[G. Riva; Manuale di Filotea, XXX ed. Milano, 1988]

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE GLI APOSTATI E SCISMATICI DI TORNO: AD APOSTOLORUM PRINCIPIS [S.S. Pio XII]

A pochi mesi dalla morte di Papa Pacelli, Pio XII, l’ultimo Pontefice canonicamente eletto a potersi esprimere liberamente da vero successore di S. Pietro e Vicario di Cristo, prima dell’usurpazione massonica del 26 ottobre dell’anno 1958, il Santo Padre scriveva ai fedeli della Cina questa provvidenziale lettera Enciclica che rappresenta la pietra tombale di tutti i falsi vescovi mai-consacrati, o consacrati illegittimamente, e quindi sacrilegamente, come è ben specificato nella stessa enciclica. Sappiamo infatti che tutto il movimento pseudo-tradizionalista odierno è fondato sulle sabbie mobili delle consacrazioni false [come quelle di Lefebvre], o illegittime e sacrileghe [come quelle di Thuc e Lienart], semplicemente perché, oltre alle altre numerose anomalie condannate da anatemi vari, non sono mai state autorizzate dalla Sede Apostolica, come da elementare norma canonica. Tutto il castello di sabbia degli eretici e scismatici sedevacantisti, o dei sedeplenisti fallibilisti e disobbedienti “fai da te”, frana miseramente, investito da questa placida onda marina che lo riduce infallibilmente ad un cumulo di fandonie teologiche. La situazione dei lefebvriani [apriamo una piccola doverosa parentesi] e dei loro sostenitori a vario titolo [tra i quali spiccano alcuni sapientoni sedicenti “canonisti”, ai quali piace giocare al “piccolo teologo deficiente”, dandosi aria da gran “saputi” e tirandosi dietro un nugolo di ammiratori fanatici ed irragionevoli]  è addirittura comica, diremmo fantozziana. Essi infatti sanno molto bene che il loro “santino” … o santone, Marcel è stato non-ordinato prete da un massone 30° cavaliere kadosh, un pluriscomunicato da bolle ed encicliche varie – almeno una decina -,  ma per ingannare i predetti fanatici, spostano l’obiettivo sulla sua invalida consacrazione vescovile. Sono talmente insensati da dire tra l’altro  che anche se, ammesso e non concesso [ma è evidente!], che Lienart fosse un massone scomunicato che non poteva trasmettere Sacramenti nè tantomeno Ordini lecitamente, c’erano però altri due vescovi co-concelebranti, di cui uno era sicuramente Vescovo [mentre l’altro sappiamo già che discendeva dalla stessa linea di Lienart]. Ora noi chiediamo a questi soloni: ma la Chiesa ha deciso che fosse necessaria la presenza di tre Vescovi ad una consacrazione vescovile, solo per un criterio probabilistico … su tre ce ne sarà uno sicuramente valido, cioè secondo una probabilità matematica! … o non abbia imposto in quel momento la partecipazione “attiva” di tre veri Vescovi per motivi dottrinali e teologici? Il Codice Canonico [C.J.C. 1917] recita ai cann. 953 e 954: “La consacrazione episcopale è riservata al Santo Pontefice e un Vescovo non può farla senza mandato apostolico. Il consacrante sarà assistito da altri due Vescovi eccetto dispensa”. Da questo si evince la mala fede totale di squallidi personaggi autoreferenziali e pieni di inganno! Ma sorvolando su questa “imbecillità teologica”, teniamo a sottolineare che il signor Lefebvre non solo non è mai stato vescovo, ma non è mai stato prete, per cui non aveva le credenziali per poter essere consacrato Vescovo validamente, anche se al posto dei probabili “compagni di loggia” ci fossero stati veri Vescovi canonicamente validi! [Lienart era cavaliere kadosh fin dal 1924, la non-ordinazione di Lefebvre avvenne il 21-9-1929]. Tutti gli altri “figliocci” del Marcel sono ovviamente preti da carnevale  e squallidi vescovi, anche se molti di loro si sono riciclati imboscandosi in parrocchiette, istituti e chiesiuole varie, o fantastici monasteri disneyani, tutti rigorosamente senza missione canonica, ed infischiandosi allegramente della giurisdizione e del mandato Apostolico, quindi felicemente scomunicati e pronti per “l’arrosto eterno”. Chiusa la doverosa parentesi, passiamo a leggere con grande attenzione l’enciclica …  “non si provvede ai bisogni spirituali dei fedeli con la violazione delle leggi della Chiesa” … questo vale soprattutto per coloro che si appellano ad un fantasioso “stato di necessità” da loro dichiarato tale ma senza averne alcuna autorità; attenzione pure a questa espressione profetica della “Chiesa eclissata” e della Gerarchia in esilio: “Ed è veramente doloroso che, mentre zelanti pastori soffrono tante tribolazioni, si prenda proprio occasione dai loro dolori per insediare ai loro posti dei pastori falsi, per sovvertire l’organizzazione gerarchica della Chiesa, per ribellarsi all’autorità del Romano Pontefice”… pensiamo al Santo Padre GREGORIO XVIII ed alla Gerarchia Cattolica sparsa sui cinque continenti come ai tempi delle catacombe romane! Ma come allora, le catacombe attuali testimonieranno della fede eroica dei pochi Cristiani [pusillus grex], fedeli al messaggio evangelico ed alle leggi ecclesiastiche, sparuti agnelli al seguito dell’unico “vero” Pastore, il Vicario di Cristo in terra … et non prævalebunt!

LETTERA ENCICLICA

AD APOSTOLORUM PRINCIPIS

ESORTAZIONI E NORME
PER LA CHIESA CATTOLICA IN CINA (1)

Quando, presso il venerato e glorioso sepolcro del principe degli apostoli, sotto le volte maestose della Basilica Vaticana, il Nostro immediato predecessore di s.m., il sommo pontefice Pio XI, or sono trentadue anni, conferiva la pienezza del sacerdozio «alle primizie e ai germogli novelli dell’episcopato cinese»,(2) così effondeva i sentimenti di intima gioia di cui in quel solenne momento era pervaso il suo cuore: «Siete venuti, venerabili fratelli, a vedere Pietro; che anzi da lui avete ricevuto il pastorale, del quale farete uso per intraprendere viaggi apostolici e radunare le pecorelle. E Pietro con amore ha abbracciato voi, che fornite non piccola speranza di portare ai vostri concittadini la verità evangelica».(3) – L’eco di queste parole ritorna alla mente e al cuore Nostri, venerabili fratelli e diletti figli, in quest’ora di afflizione per la chiesa nella vostra patria. Non fu certo riposta invano, allora, la speranza del grande pontefice, se una schiera di nuovi pastori e di araldi dell’evangelo, se un rigoglioso fiorire di sempre nuove opere di apostolato – pur in mezzo a molteplici difficoltà – tennero dietro a quel primo manipolo di vescovi che Pietro, vivente nel suo successore, aveva inviato a reggere quelle elette porzioni del gregge di Cristo. E Noi, quando avemmo più tardi la gioia di erigere la sacra gerarchia nella Cina, facemmo Nostra e aumentammo quella speranza e vedemmo dischiudersi ancor più larghe prospettive per il dilatarsi del regno divino di Gesù Cristo.

La persecuzione – Due precedente lettere

Ma pochi anni dopo, purtroppo, oscuri nembi si addensarono nel cielo, e per queste comunità cristiane, alcune delle quali già di antica evangelizzazione, ebbero inizio giorni funesti e dolorosi. Vedemmo i missionari, tra i quali era un gran numero di zelanti arcivescovi e vescovi, e lo stesso Nostro rappresentante, costretti ad abbandonare il suolo della Cina; e il carcere o privazioni o sofferenze d’ogni genere riservate a vescovi, a sacerdoti, a religiosi e a religiose e a molti fedeli. – Allora fummo costretti a levare la voce accorata per esprimere il Nostro dolore per l’ingiusta persecuzione, e, con la lettera enciclica Cupimus imprimis(4) del 18 gennaio 1952, avemmo cura di ricordare, per amore della verità e nella consapevolezza del Nostro dovere, che la chiesa cattolica non può considerarsi estranea, e tanto meno ostile, ad alcun popolo della terra; che essa, nella sua materna sollecitudine, abbraccia in un solo amplesso tutti i popoli; e non cerca potere o influenza terreni, ma, con tutte le sue forze, dirige gli animi di tutti al conseguimento del cielo. Soggiungevamo che i missionari non curano gli interessi di un particolare paese, ma, venendo da ogni parte del mondo e uniti come sono da un unico divino amore, hanno di mira solo la diffusione del regno di Dio; la loro opera, quindi, lungi dall’essere superflua o nociva, è benefica e necessaria per aiutare lo zelante clero cinese nell’apostolato cristiano.

Nella successiva enciclica Ad Sinarum gentem (5) del 7 ottobre 1954, di fronte a nuove accuse rivolte contro gli stessi cattolici cinesi, proclamavamo che il cristiano non è, né può essere, secondo a nessuno nel vero amore e nella vera fedeltà alla sua patria terrena. E poiché si era diffusa nel vostro paese l’ingannevole dottrina detta delle «tre autonomie», Noi in virtù del Nostro universale magistero, ammonimmo che essa, sia nel significato teorico, sia nelle applicazioni pratiche, che i suoi fautori sostenevano, era inaccettabile per i cattolici, in quanto mirava alla separazione dall’unità della chiesa.

Testimonianze di fedeltà

Ed ora dobbiamo rilevare che presso di voi, in questi ultimi anni, le condizioni della chiesa sono venute peggiorando. È vero e questo Ci è motivo di grande conforto nella presente tristezza che di fronte al prolungarsi della persecuzione non sono venuti meno in voi l’intrepida fermezza nella fede e l’ardente amore verso Gesù Cristo e la sua chiesa; fermezza e amore che avete dimostrato in numerosissime maniere, di cui – anche se solo una piccola parte è nota al mondo – riceverete un giorno il premio eterno da Dio.

L’«Associazione patriottica»

Ma nello stesso tempo è Nostro dovere denunciare apertamente – e lo facciamo con profonda pena – il nuovo e più insidioso tentativo di sviluppare e di portare alle estreme conseguenze il funesto errore che Noi così chiaramente avevamo riprovato. Infatti, con un piano che si rivela accuratamente disposto, è stata fondata presso di voi una «associazione patriottica», alla quale i cattolici con pressioni di ogni genere sono costretti ad aderire. Questa – come è stato detto più volte – avrebbe lo scopo di unire il clero e i fedeli nel nome dell’amore della patria e della religione per propagare lo spirito patriottico, difendere la pace tra i popoli e al tempo stesso cooperare alla «costruzione del socialismo» già stabilito nel paese, nonché aiutare le autorità civili ad applicare la cosiddetta politica di libertà religiosa. Ma è ormai anche troppo chiaro che, sotto queste espressioni di pace e di patriottismo che potrebbero trarre in inganno gli ingenui, il movimento che si dice patriottico propugna tesi e promuove iniziative che mirano a ben precisi scopi perniciosi.

Gli scopi dell’«Associazione patriottica»

Sotto il falso pretesto di patriottismo, infatti, l’associazione vuole gradualmente condurre i cattolici a dare l’adesione e l’appoggio ai principi del materialismo ateo, negatore di Dio e di tutti i principi soprannaturali. – Sotto il pretesto di difendere la pace, la stessa organizzazione fa propri e diffonde falsi sospetti e accuse contro molti ecclesiastici, contro venerandi pastori, contro la stessa sede apostolica, attribuendo loro insani propositi di imperialismo, di acquiescenza e complicità nello sfruttamento dei popoli, di preconcetta ostilità verso la nazione cinese. – Mentre da una parte si afferma che è necessaria una assoluta libertà religiosa, e si proclama di voler facilitare le relazioni tra l’autorità ecclesiastica e la civile, di fatto l’associazione pretende che la chiesa, posposti e trascurati i suoi diritti, rimanga del tutto sottoposta alle autorità civili. I membri sono quindi spinti ad accettare e giustificare ingiusti provvedimenti come l’espulsione dei missionari, l’incarceramento dei vescovi, di sacerdoti; di religiosi e religiose, di fedeli; sono parimenti costretti ad acconsentire alle misure prese per impedire pertinacemente la giurisdizione di tanti legittimi pastori; sono indotti a sostenere principi che ripugnano all’unità e all’universalità della chiesa e alla sua costituzione gerarchica, nonché ad ammettere iniziative intese a sovvertire l’obbedienza del clero e dei fedeli ai legittimi ordinari, e a staccare le varie comunità cattoliche dall’unione con la sede apostolica.

Metodi di violenza e di oppressione

Per diffondere e imporre più facilmente i principi di tale «associazione patriottica», si ricorre ai più differenti mezzi di oppressione e di violenza: una propaganda rumorosa e tenace con la stampa; una serie di convegni e di congressi, ai quali si costringono a intervenire – con lusinghe, con minacce e con inganni – anche coloro che non avrebbero intenzione di parteciparvi, mentre quanti coraggiosamente si levano nelle discussioni a difendere la verità sono soverchiati e anzi addirittura tacciati di nemici della patria e del nuovo ordine. Sono inoltre da ricordare quei fallaci «corsi di indottrinamento» a cui sono costretti sacerdoti, religiosi e religiose, alunni di seminari, fedeli di ogni ceto e di ogni età, e che, per mezzo di interminabili lezioni ed estenuanti dibattiti, rinnovantisi talora per settimane e per mesi, esercitano una violenza di ordine psicologico, che mira a strappare una adesione la quale molte volte quasi nulla più ha in sé di umano. Senza dire della tattica intimidatoria, esercitata con ogni mezzo, subdolo o palese, in ogni ambiente privato o pubblico; delle confessioni forzate e dei campi di «rieducazione»; delle umilianti sessioni di «giudizio popolare», dinanzi alle quali si è osato trascinare perfino vescovi venerandi.  Contro tali metodi che violano i più fondamentali diritti della persona umana e conculcano la sacra libertà di ogni figlio di Dio, non possono non levarsi, insieme con la Nostra, le proteste dei fratelli di fede e di tutte le persone oneste del mondo intero per l’offesa arrecata alla stessa coscienza civile.

Il cristiano e l’amore per la patria

Poiché, come dicevamo, è nel nome del patriottismo che tali misfatti si compiono, è Nostro dovere qui ricordare a tutti, ancora una volta, che è proprio la dottrina della chiesa che esorta e spinge i cattolici a nutrire un sincero e profondo amore verso la loro patria terrena, a prestare l’ossequio dovuto, salvo il diritto divino naturale e positivo, alle pubbliche autorità, a dare il loro contributo generoso e fattivo ad ogni intrapresa che conduca ad un vero, pacifico e ordinato progresso, ad un genuino bene della patria comunità. La chiesa mai si è stancata di inculcare ai suoi figli l’aurea norma ricevuta dal suo divin Fondatore: «Date dunque a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio» (Lc 20,25); massima che si fonda sul presupposto che nessun contrasto può esistere tra i postulati della vera religione e i veri interessi della patria. – Ma bisogna subito aggiungere che se il cristiano, per dovere di coscienza, deve rendere alle autorità umane quello che loro spetta, non può l’autorità umana reclamare dai cittadini un ossequio nelle cose in cui esso è dovuto a Dio e non a lei stessa; tanto meno può esigere una loro obbedienza incondizionata quando intende usurpare i sovrani diritti di Dio, ovvero costringe i fedeli ad agire in contrasto con i loro doveri religiosi, o a staccarsi dall’unità della chiesa e dalla sua legittima gerarchia. Allora il cristiano non può che rispondere, serenamente ma fermamente, come già san Pietro e gli apostoli ai primi persecutori della chiesa: «Bisogna obbedire a Dio, più che agli uomini» (At 5,29).

La sede apostolica romana e il popolo cinese

Con enfatica insistenza, i fautori del movimento pseudo­patriottico parlano ognora di pace e proclamano che i cattolici devono militare in favore di essa. Parole, per sé, apparentemente ineccepibili: chi infatti non dovrebbe esser lodato se non colui che prepara il cammino della pace? Ma la pace, voi ben lo sapete, venerabili fratelli e diletti figli, non è fatta di espressioni verbali, non è una formalità esteriore, suggerita magari da tattica occasionale e contraddetta da gesti o iniziative che, anziché ispirarsi a sentimenti pacifici, dispongono gli animi a risentimenti, odi o avversioni. La vera pace deve fondarsi sui principi di giustizia e di carità insegnati da Colui che della pace si fregia come di un titolo regale «Principe della pace» (Is 9,6); la vera pace è quella auspicata dalla chiesa, pace stabile, giusta, equa e ordinata – tra gli individui, tra le famiglie, tra i popoli – che, nel rispetto dei diritti di ciascuno e specialmente di quelli di Dio, congiunga tutti col vincolo di una reciproca e fraterna collaborazione. – E in tale pacifica prospettiva di armoniosa convivenza di tutte le nazioni, la Chiesa desidera che ogni popolo abbia il proprio posto di dignità; la chiesa che, seguendo sempre con simpatia le vicende storiche della vostra patria, non da oggi sinceramente auspicava – con le parole auguste del Nostro predecessore – «che siano pienamente riconosciute le legittime aspirazioni e i diritti di un popolo che è il più numeroso della terra, popolo di antica cultura, che conobbe periodi di grandezza e di splendore, e al quale, ove si mantenga nelle vie della giustizia e dell’onore, un grande avvenire non può mancare».(6)

Arbitrarie limitazioni del magistero pontificio

Al contrario, secondo le notizie trasmesse dalla radio e dalla stampa, non mancherebbero taluni, purtroppo anche tra il clero, che osano insinuare il sospetto e l’accusa di una malevolenza che sarebbe nutrita dalla Santa Sede verso il vostro paese.  – E partendo da questo falso e offensivo presupposto, ardiscono anzitutto limitare di loro arbitrio l’autorità del supremo magistero della chiesa, asserendo che vi sarebbero questioni ­ come quelle sociali e economiche – nelle quali ai cattolici sarebbe lecito di non tener in alcun conto gli insegnamenti dottrinali e le norme impartite da questa sede apostolica. Opinione, è appena il caso di dirlo, assolutamente falsa ed erronea, perché – come avemmo occasione di esporre qualche anno fa a un’eletta accolta di venerabili fratelli nell’episcopato – «la potestà della Chiesa non è affatto circoscritta al dominio delle “cose strettamente religiose”, come si suol dire, ma ad essa appartiene tutto il campo della legge naturale, come pure l’insegnamento, l’interpretazione e l’applicazione di questa, in quanto ne viene considerato il fondamento morale. Infatti, per disposizione divina, l’osservanza della legge naturale si riferisce a quella via, seguendo la quale l’uomo deve tendere al suo fine soprannaturale. In questa via la chiesa è, pertanto, guida e custode degli uomini, per quanto riguarda il fine soprannaturale».(7) È la stessa verità già sapientemente illustrata dal santo Nostro predecessore Pio X, nell’enciclica Singulari quadam del 24 settembre 1912, quando osservava che «tutte le azioni del cristiano sottostanno al giudizio e alla giurisdizione della Chiesa, in quanto sono buone o cattive dal punto di vista morale, cioè in quanto concordano o contrastano col diritto naturale e divino».(8)  – Inoltre, dopo aver proclamato tale arbitraria limitazione, costoro, mentre a parole dichiarano di voler obbedire al romano pontefice nelle verità da credere e – così usano esprimersi ­ nelle norme ecclesiastiche da osservare, giungono poi a tale audacia da ricusare obbedienza a chiari e precisi provvedimenti e disposizioni della Santa Sede, ai quali attribuiscono immaginari secondi fini di ordine politico, quasi tenebrosi complotti rivolti contro il loro paese.

Un grave atto di ribellione

Una prova di tale spirito di ribellione alla chiesa, un fatto gravissimo che è causa di indicibile e profonda amarezza per il Nostro cuore di padre e di Pastore universale delle anime, è quanto dobbiamo menzionare qui appresso. Da qualche tempo, con insistente propaganda, il movimento cosiddetto patriottico va proclamando un preteso diritto dei cattolici di eleggere di propria iniziativa i vescovi, asserendo che tale elezione sarebbe indispensabile per provvedere con la dovuta sollecitudine al bene delle anime, e per affidare il governo delle diocesi a pastori graditi alle autorità civili in quanto non si oppongono agli orientamenti ideologici e politici propri del comunismo. – Anzi, abbiamo appreso che già si è proceduto a non poche di tali abusive elezioni e che, inoltre, contro un esplicito e severo monito diretto agli interessati da questa sede apostolica si è perfino osato di conferire ad alcuni ecclesiastici la consacrazione episcopale.

Dottrina circa l’elezione e consacrazione dei vescovi

Di fronte a così gravi attentati contro la disciplina e l’unità della chiesa, è Nostro preciso dovere di ricordare a tutti che ben altri sono la dottrina e i principi che reggono la costituzione della società divinamente fondata da Gesù Cristo nostro Signore.  – I sacri canoni infatti chiaramente ed esplicitamente sanciscono che spetta unicamente alla Sede Apostolica giudicare circa l’idoneità di un ecclesiastico per la dignità e la missione episcopale(9) e che spetta al romano pontefice nominare liberamente i vescovi.(10) E anche quando, come in certi casi, nella scelta di un candidato all’episcopato, è ammesso il concorso di altre persone o enti, ciò avviene legittimamente solo in virtù di una concessione – espressa e particolare – fatta dalla sede apostolica a persone o a corpi morali ben determinati, con condizioni e in circostanze ben definite. Ciò premesso, ne consegue che vescovi non nominati né confermati dalla Santa Sede, e anzi scelti e consacrati contro le esplicite disposizioni di essa, non possono godere di alcun potere né di magistero né di giurisdizione; perché la giurisdizione viene ai vescovi unicamente attraverso il romano pontefice, come già avemmo occasione di ricordare nella lettera enciclica Mystici corporis: «I Vescovi … in quanto riguarda la loro diocesi, sono veri pastori che guidano e reggono in nome di Cristo il gregge assegnato a ciascuno. Mentre fanno ciò, non sono del tutto indipendenti, perché sono sottoposti alla debita autorità del romano pontefice, pur fruendo dell’ordinaria potestà di giurisdizione che è comunicata loro direttamente dallo stesso Sommo Pontefice».(11) Dottrina che avemmo occasione di richiamare ancora nella lettera Ad Sinarum gentem a voi successivamente diretta: «La potestà di giurisdizione, che al Sommo Pontefice viene conferita direttamente per diritto divino, proviene ai vescovi dal medesimo diritto, ma soltanto mediante il successore di san Pietro, al quale non solamente i semplici fedeli, ma anche tutti i vescovi devono costantemente essere soggetti e legati con l’ossequio dell’obbedienza e con il vincolo dell’unità».(12)  – E gli atti della potestà di ordine, posti da tali ecclesiastici , anche se validi – supposto che sia stata valida la consacrazione loro conferita – sono gravemente illeciti, cioè peccaminosi e sacrileghi. Tornano al proposito quanto mai ammonitrici le parole del divino Maestro: «Chi non entra nell’ovile per la porta, ma vi sale per altra parte, è ladro e brigante» (Gv 10,1); le pecorelle riconoscono la voce del loro vero pastore, e lo seguono docilmente, «ma non vanno dietro a un estraneo, anzi fuggono da lui: perché non conoscono la voce degli estranei» (Gv 10,5). – Sappiamo bene che, purtroppo, per legittimare le loro usurpazioni, i ribelli si richiamano alla prassi seguita in altri secoli; ma tutti vedono che cosa mai diverrebbe la disciplina ecclesiastica se, in una questione o nell’altra, fosse lecito a chiunque di rifarsi a disposizioni che non sono più in vigore, in quanto la suprema autorità ha, da diverso tempo, disposto altrimenti. Anzi, proprio il fatto di appellarsi a una diversa disciplina, lungi dallo scusare l’operato di costoro, è prova della loro intenzione di sottrarsi deliberatamente alla disciplina che vige e che debbono seguire: disciplina che vale non solo per la Cina e per i territori di recente evangelizzazione, ma per tutta la chiesa; disciplina che è stata sancita in virtù di quella universale e suprema potestà di pascere, di reggere e di governare, che fu conferita da nostro Signore ai successori dell’apostolo Pietro. È ben nota, infatti, la solenne definizione del concilio Vaticano: «Fondandoci sulle chiare testimonianze della sacra Scrittura, e in piena armonia con i precisi ed espliciti decreti sia dei Nostri predecessori, i romani pontefici, sia dei concili generali; rinnoviamo la definizione del concilio ecumenico di Firenze, secondo la quale tutti i fedeli debbono credere, che “la santa sede apostolica e il romano pontefice esercitano il primato in tutto il mondo; che il medesimo pontefice è il successore di san Pietro, principe degli apostoli, è il vero vicario di Cristo, il capo di tutta la chiesa, il padre e il dottore dei cristiani; che a lui, nella persona di san Pietro, è stata affidata da nostro Signore Gesù Cristo la piena potestà di pascere, reggere e governare la chiesa universale “. Pertanto insegniamo e dichiariamo che la chiesa romana, per divina disposizione, ha la potestà ordinaria di primato su tutte le altre, e che tale potere di giurisdizione del Romano Pontefice, di carattere veramente episcopale, è immediato; e che i pastori e i fedeli, di qualunque rito e dignità, sia singolarmente presi, sia tutti insieme, sono tenuti al dovere di subordinazione gerarchica e di vera obbedienza verso di essa, non soltanto nelle cose della fede e della morale, ma anche in quelle che si riferiscono alla disciplina e al governo della chiesa, diffusa nel mondo intero; talché, conservata così l’unità della comunione e della fede col romano pontefice, la chiesa di Cristo sia un unico gregge sotto un unico sommo pastore. Questo è l’insegnamento della verità cattolica, dal quale nessuno può scostarsi senza perdere la fede e la salvezza».(13)  – Da quanto vi abbiamo esposto consegue che nessun’altra autorità, che non sia quella del supremo pastore, può revocare l’istituzione canonica data a un vescovo; nessuna persona o assemblea, sia di sacerdoti sia di laici, può arrogarsi il diritto di nominare vescovi; nessuno può conferire legittimamente la consacrazione episcopale se prima non sia certa l’esistenza dell’apposito mandato apostolico.(14) Sicché, per una siffatta consacrazione abusiva, la quale è un gravissimo attentato alla stessa unità della chiesa, è stabilita la scomunica riservata in modo specialissimo alla sede apostolica, in cui automaticamente incorre non solo chi riceve l’arbitraria consacrazione, ma anche chi la conferisce.(15)

Insussistente pretesto

Che dire infine del pretesto addotto dagli esponenti dell’Associazione pseudo-patriottica, quando vorrebbero giustificarsi invocando la necessità di provvedere alla cura delle anime nelle diocesi prive della presenza del loro vescovo? – È evidente, anzitutto, che non si provvede ai bisogni spirituali dei fedeli con la violazione delle leggi della Chiesa. In secondo luogo, non si tratta – come si vorrebbe far credere – di diocesi vacanti, ma spesso di sedi episcopali, i cui legittimi titolari o sono stati espulsi, o languono in prigione, oppure sono impediti, in vari modi, di esercitare liberamente la loro giurisdizione; dove inoltre sono stati ugualmente imprigionati o espulsi o comunque estromessi quegli ecclesiastici che i legittimi pastori – in conformità con le prescrizioni dei diritto canonico e con speciali istruzioni ricevute dalla Santa Sede – avevano designato a sostituirli nel governo diocesano. – Ed è veramente doloroso che, mentre zelanti pastori soffrono tante tribolazioni, si prenda proprio occasione dai loro dolori per insediare ai loro posti dei pastori falsi, per sovvertire l’organizzazione gerarchica della Chiesa, per ribellarsi all’autorità del Romano Pontefice.  – E si arriva a tal punto di arroganza da voler imputare uno stato di cose così lacrimevole e miserando, che è provocato da un preciso disegno dei persecutori della Chiesa, alla stessa Sede Apostolica; mentre tutti sanno che questa, per gli ostacoli frapposti alla libera e sicura comunicazione con le diocesi della Cina, si è trovata e si trova nell’impossibilità di procurarsi – ogni volta che occorra – le appropriate informazioni che sono indispensabili, per il vostro paese come per qualunque altro alla scelta di candidati idonei per la dignità episcopale.

Invito a conservarsi intrepidi nella fede

Venerabili fratelli e diletti figli, vi abbiamo manifestato fin qui le Nostre preoccupazioni per gli errori che si tenta di insinuare in mezzo a voi, e per le divisioni che si creano, affinché. illuminati e sostenuti dall’insegnamento del Padre comune, vi possiate conservare intrepidi e incontaminati nelln fede che tutti ci unisce e ci salva. – Ma ora, con tutta l’effusione dell’affetto, vogliamo dirvi quanto Ci sentiamo vicina a voi. Le vostre sofferenze fisiche e morali, specialmente quelle sopportate dagli eroici testimoni di Cristo – tra cui sono alcuni venerandi fratelli Nostri nell’episcopato – Noi le portiamo nel cuore e, giorno per giorno, le offriamo, con le preghiere e le sofferenze di tutta la chiesa, sull’altare del nostro divin Redentore.  – State saldi e riponete la vostra fiducia in lui: «gettando in lui ogni vostra sollecitudine, poiché egli ha cura di voi!» (1 Pt 5,7). Egli vede i vostri affanni e le vostre pene; egli soprattutto accoglie l’intima sofferenza e le lacrime segrete che tanti di voi – pastori, sacerdoti, persone religiose e semplici fedeli – versano al vedere lo scempio che si vorrebbe fare delle vostre comunità cristiane. Queste lacrime e queste pene, insieme col sangue e le sofferenze dei martiri di ieri e di oggi, saranno il pegno prezioso del fiorire della chiesa nella vostra patria, quando grazie alla potente intercessione della Vergine santa, regina della Cina, giorni più seren torneranno a risplendere sul vostro cielo. – In questa fiducia, con molto affetto nel Signore, a voi e al gregge affidato alle vostre cure, in auspicio di celesti grazie e a testimonianza della Nostra speciale benevolenza, impartiamo la benedizione apostolica.

Roma, presso San Pietro, 29 giugno, nella festa dei santi apostoli Pietro e Paolo, dell’anno 1958, XX del Nostro pontificato.

PIO PP. XII

(1) Pius PP. XII, epist. enc. Ad Apostolorum Principis [Esortazioni e norme alla chiesa cattolica in Cina nelle presenti angustie; La persecuzione e due precedenti lettere pontificie; Testimonianze di fedeltà alla chiesa; L’«Associazione patriottica»: suoi scopi; Metodi di violenza e di oppressione; Il cristiano e l’amore di patria; La Santa Sede e il popolo cinese; Arbitrarie limitazioni dei magistero pontifício; Un grave atto di ribellione; Dottrina della chiesa circa l’elezione e la consacrazione dei vescovi; Insussistente pretesto; Invito a conservarsi intrepidi e saldi nella fede.]

(2) AAS 18(1926), p. 432.

(3) Ibidem.

(4) AAS 44(1952), p. 153ss.; EE 6/1977ss.

(5) AAS 47(1955), p. 5ss; EE 6/1098.

(6) Cf. Pius XI, Nuntium ad Delegatum Apostolicum in Sinis, 1 aug. 1928: AAS 20(1928), p. 245.

(7) Sermo ad Patrum Cardinalium Collegium et Episcopatum, 2 nov. 1954: cf. AAS 46(1954): pp. 671-672.

(8) AAS 4(1912), p. 658; EE 4/364.

(9) Can. 331 § 3.

(10) Can. 329 § 2.

(11) Litt. enc. Mystici corporis, 29 iun. 1943: AAS 35(1943), pp. 211-212; EE 6/191.

(12) Epist. enc. Ad Sinarum gentem, 7 oct. 1954: AAS 47(1955), p. 9; EE 6/1106.

(13) Conc. Vat. I, sess.IV, c. 3: Coll. Lac. VII, p. 484; COD 814.

(14) Can. 953.

(15) cf. S.S. Congregatio S. Officii, Decretum, 9 apr. 1951: AAS 43 (1951), 217-218.