GREGORIO XVII: IL MAGISTERO IMPEDITO – CHIESA, FEDELI, MONDO (I)

GREGORIO XVII

IL MAGISTERO IMPEDITO:

CHIESA – FEDELI – MONDO

-I-

Ortodossia -III-

[Lettera pastorale del 5 agosto 1962; «Riv. Dioc. Genovese», 1962, pp. 208-248].

 

Fedeli all’impegno preso e al sacro dovere di tutelare in tempi di diffusa follia la purezza della vostra fede e la rettitudine del vostro sentire, eccoci a indirizzarvi, cari confratelli, una terza lettera sulla ortodossia. Essa ha un tema assai unitario, perché verte su stati d’animo, equivoci, errori e problemi dai quali potrebbe venire ed è già venuto gran danno alla Chiesa. Non dimentichiamo mai che la Chiesa, pur fatta di uomini, è nostra madre e che noi dobbiamo essere in piena comunione con essa, se vogliamo essere in piena comunione con Cristo. Prima di venire a trattare i singoli e gravi argomenti sui quali ci pare doveroso attirare la vostra attenzione, stimiamo necessario svolgere alcuni concetti generali.

Rapporto Chiesa — mondo

I rapporti tra la Chiesa e i fedeli sono stati determinati dallo stesso divin Fondatore in modo chiaro e definitivo. La Chiesa è gerarchica e questo significa che la obbedienza a Dio esiste solo se c’è la obbedienza alla Chiesa nei limiti fissati da Gesù Cristo. Questo rapporto non può legittimamente cambiare: ogni sua sostanziale alterazione significa scisma od eresia o tutti e due. Il discorso dei rapporti tra la Chiesa e il «mondo» non è così semplice. Apparirà più avanti la ragione per cui il rapporto è assai più complesso. Cominciamo a chiarire il significato nel quale si prende la parola «mondo». Data la possibilità, per essa, nello stesso linguaggio religioso od ecclesiastico, di più significati, si impone una determinazione netta del senso in cui viene assunta. Noi prendiamo qui il termine «mondo» nel senso di «comunità umana». Non usiamo intenzionalmente il senso di «comunità civile», perché restringerebbe il significato «universale» nel quale dobbiamo prendere il termine «mondo». Infatti esistono ancora comunità che non possono dirsi civili o pienamente civili e queste andrebbero fuori del nostro discorso. Il che non deve accadere: la comunità che non fosse ancora civile o molto civile avrebbe tutti i suoi diritti, per il fatto che è umana. Infatti non ci sarebbero diritti sul nostro pianeta, se non ci fossero uomini. Ma dove ci sono uomini, siano essi incolti o colti, educati o meno, ci sono anche diritti. – Coi termini «mondo» o «comunità umana» si definiscono «gli uomini in vita associata». Tale vita associata ha o dovrebbe avere per fine il bene comune terreno; poggia su di una organizzazione, consta di rapporti quali sono possibili e convenienti tra esseri dotati di intelligenza e libertà. Conseguentemente a tale duplice capacità, si perfeziona quanto può e gradualmente col diritto, con l’autorità e con la legge. La «comunità umana» è una società perfetta, la quale può articolarsi in elementi distinti – ancora «società perfette» – che sono i singoli Stati (per usare il linguaggio moderno). È per questo che il termine «comunità umana» può essere adeguatamente, ma propriamente usato per i singoli Stati o addirittura e semplicemente per lo « Stato ». Così nel nostro argomento il termine «mondo» può significare tanto la comunità degli uomini come la comunità degli Stati, come semplicemente lo «Stato». Dipenderà dal contesto decidere delle sfumature di riferimento. Precisato tutto questo, cerchiamo ora di richiamare il rapporto che Gesù Cristo ha messo tra la sua Chiesa e il mondo. Ecco gli elementi che determinano il rapporto:

a) Gesù ha voluto che la sua Chiesa fosse una vera e propria società universale, visibile. In tal modo essa non resta soltanto in fondo alle coscienze, ma si configura «nel» mondo;

b) Gesù ha voluto che la sua Chiesa avesse un «diritto» ed ha voluto che sorgente di tale «diritto» fosse solamente Lui, non pertanto gli uomini o la comunità della loro vita associata;

c) Gesù ha voluto che lo scopo della sua Chiesa, società visibile, fosse al di sopra ed oltre la «comunità umana», fosse cioè soprannaturale ed eterno e risolvesse al livello di «grazia» il problema fondamentale e totale dell’uomo. – Per la prima determinazione fatta da Gesù esiste dunque in questo mondo un’altra associazione, un’altra organizzazione, un’altra autorità, di natura tuttavia diversa, e la stessa «comunità umana» viene a far parte di una «comunità maggiore» che è la “communio sanctorum”, e in più si dilata al di là dei limiti del tempo. Per la seconda determinazione, viene concretamente chiarito come la unica sorgente di qualunque vero diritto non possa essere altri che Dio (e ciò serve a rassicurare gli uomini); viene precisato come il diritto umano abbia dei limiti (il che costituisce rimedio contro tutte le tirannie); sicché, l’esistenza di un indipendente diritto nella Chiesa, relativamente al suo campo specifico, funziona come garanzia, confronto e risorsa per la stessa libertà degli uomini. – Per la terza determinazione è posto il principio della autonomia nel rispettivo campo: infatti la «comunità umana» è volta al bene complessivo terreno, la società ecclesiastica è volta al bene definitivo soprannaturale ed eterno. Rimane un margine, a proposito di questa reciproca autonomia, che potrebbe teoricamente creare qualche difficoltà, ciò che rende necessarie alcune considerazioni ulteriori. Infatti ad un certo punto è logico che le ragioni superiori ed eterne prevalgano. Il fine della società ecclesiastica è più largo, più definitivo e più alto di quello della comunità umana. Le conseguenze sono chiare. La «comunità umana», anche prescindendo dalla rivelazione divina e da quanto Cristo ha stabilito, ha una radicale incompletezza della quale bisogna tener conto. Si tratta di questo: essa accompagna i suoi membri fino alla morte. Dopo, non può più nulla. Tuttavia nel non potere «più nulla» ha una precisa indicazione del suo dovere. Essa ed i suoi membri hanno nel pellegrinaggio terreno sufficienti ragioni (storicamente è chiaro) per sapere di una immortalità dell’anima, ossia di una sopravvivenza, ben maggiore del limitato tratto di tempo in cui si svolge la vita terrena. Dalla percezione di questi motivi sufficienti nasce ed è nato di fatto il più grave problema della vita di ogni uomo: provvedere nel modo più sicuro, durante il limitato presente, all’interminabile «poi». La soluzione di questo problema condiziona e condizionerà sempre la esistenza, la quantità e il modo di quel bene comune terreno al quale è volta la comunità umana. Infatti nessuno vivrà con serenità se non potrà pensare che ha provveduto al «dopo», tuttavia così oscuro e misterioso. Di fronte a questo «dopo» che campeggia su ogni evento, in ogni coscienza e su ogni ideale veramente civile, la comunità umana, che pur può avere una religione e con essa può protendersi verso l’ai di là, rimane monca ed incompleta. La radicale incompletezza impone un preciso atteggiamento (fondato nella inevitabile serietà del maggiore problema) verso la rivelazione divina. – La «comunità umana» non può fare nulla che impedisca ai suoi membri di provvedere alla eternità; non può rendere difficile nessuna via tendente alla risoluzione del grande problema; deve contrarre se stessa su quei margini oltre i quali potrebbe diventare ostacolo e distrazione od ingombrante impegno, rispetto al diritto dei suoi membri di provvedere al “dopo”. Ne nasce obiettivamente una situazione, anche giuridica, della quale tutti possono vedere il peso nella determinazione del rapporto tra la Chiesa e il mondo. – Tuttavia intendiamoci bene: se parliamo di radicale incompletezza della «comunità umana», non affermiamo questo riferendoci alla sua capacità giuridica di provvedere al proprio fine particolare (benessere terreno complessivo); lo affermiamo invece rispetto ad un problema sempre affiorante per i singoli e per la collettività e che sconfina dalle cose terrene. Vogliano o non vogliano gli uomini, il problema della eternità se lo trovano davanti sempre; le loro esperienze del tempo sono tutte fugaci e generalmente amareggiate dalla presenza di quel problema. Il quale non è affatto risolto con la furbizia laicista di non pensarci o di considerarlo come non esistente per la comunità. Esso è invece l’ombra di tutto. La comunità umana ha le sue successive «simpatie» che, come accade di tutte le simpatie, almeno in un certo senso la limitano. La simpatia del momento è la tecnica, figlia di una scienza del mondo materiale che rende più comoda la esistenza, più facile ed imperioso l’esercizio del potere, più maneggevole la pubblica opinione. E piuttosto ovvio che la nostra età, nelle favorevoli condizioni di conquista del cosmo, si senta attratta a vivere soprattutto di tecnica. Ma questa tecnica riguarda il mondo materiale, mentre nell’uomo rimane dirimente il mondo spirituale. Qui sta la questione ed il facile errore. Qui è la ragione per cui anche certi cristiani per bene finiscono, senza volerlo, col trovarsi sul piano dei materialisti (marxisti o no). La stessa scuola ha cominciato a scivolare sulla china della preferenza tecnica a danno della fondamentale istruzione ed educazione umanistica. Il punto è questo: ad un popolo incivile si può insegnare a costruirsi delle automobili nel giro di dieci anni; ma per insegnargli a «sentire» in modo elevato, ad avere una cultura, a saperla produrre e volgarizzare, sì da colorarne le proprie istituzioni e i propri costumi, possono occorrere secoli. Noi siamo esattamente a questo punto: la comunità umana potrà tecnicizzare in breve delle aree rimaste fino ad oggi smorte o inattive; ma non potrà nello stesso tempo civilizzarle intimamente. Anzi, con la sola tecnica acuirà il problema del contrasto che sorge naturalmente tra il molto progresso esteriore ed il poco o nullo progresso interiore. – È affiorata una delle tante debolezze che toccano la comunità umana e che ne possono turbare lo sviluppo e la pace. Perché abbiamo cominciato a recensirle? Perché esse servono a porre in termini «di fatto» e non soltanto in termini di diritto i rapporti tra la Chiesa e la comunità umana. – Riprendiamo ora il nostro cammino. In taluni punti la Chiesa si incontra con la comunità umana. Ne abbiamo detto il perché. Come si risolvono i problemi emergenti? In linea di dottrina la superiorità e maggiore comprensività del fine della Chiesa (eterno e soprannaturale) rispetto a quello della comunità umana (terreno e limitato), oltre a stabilire una gerarchia di valori, stabilisce pure per le materie miste e per l’aspetto morale di tutte le materie quale considerazione debba avere la società umana per la Chiesa. E lo stabilisce nettamente, inequivocabilmente, se si accetta la divina rivelazione. Accade di fatto che taluni Stati, per la loro storia, per la religione o non religione professata da parte della popolazione, per le ragioni politiche della parte dominante, non abbiano alcuna intenzione di riconoscere la rivelazione divina, dalla quale trae essenza e valore giuridico la Chiesa. Pertanto non hanno alcuna intenzione di inchinarsi a ragioni superiori, che essi non riconoscono. È difficile in cali casi iniziare un dialogo in sede di diritto, a meno che non ci si appelli alla esistenza di fatto di una popolazione cattolica, di una maggioranza o minoranza cattolica, la quale, in democrazia soprattutto, trasforma un fatto in un diritto efficace e considerevole. – Per taluni non avrà purtroppo peso che Gesù Cristo sia Dio, ma avrà peso che un certo numero di cittadini lo riconosca Dio. Tuttavia, se si tengono le considerazioni che sono state premesse, si comprende come, anche là ove è difficile un discorso in linea di diritto per la considerazione supereminente dovuta alla Chiesa, diventa più facile un discorso in linea «di fatto». Nessuna organizzazione al mondo ha incidenza sulle anime, sul loro orientamento morale, sulla loro educazione, sul loro equilibrio in pericolo di essere rotto dalla straripante crescita tecnica, come la Chiesa. Nessuna organizzazione religiosa ha in mano una dottrina sociale, che sia radicata nei suoi stessi supremi principi (e pertanto non occasionale o raccogliticcia) e che difenda l’uomo salvando l’equilibrio tra singolo e società, come la Chiesa. Effettivamente la situazione moderna permette di vedere che cosa valga l’individualismo protestantico (connesso con le sorgenti del medesimo protestantesimo). Non parliamo del rimanente. – La conclusione è questa: quando si parla di rapporti tra Chiesa e mondo, bisogna sempre badare ai principi dottrinali indefettibili stabiliti da Cristo, anzitutto. Ma bisogna anche, per una ragione pratica di accessibilità a chi quei principi non riconosce sufficientemente, badare ad una permanente ragione «di fatto».

Rapporto Chiesa – storia

Non si tratta di un pleonasmo. È vero che la storia appartiene alla comunità umana, almeno nel suo nucleo sostanziale, ma appartiene al «passato». Quando noi parliamo di comunità umana, parliamo di quella del «presente». Ecco perché è giustificato il trattare a parte il rapporto tra Chiesa e storia. Anche alla comunità umana accade quello che accade ai singoli uomini: quando una azione l’hanno compiuta, sfugge loro di mano, non è più oggetto della loro libertà. Entra nel corso degli avvenimenti e nessuno l’afferra più, arrivando anche ad impensabili effetti. La storia, nella quale la comunità ha giocato, tra le cose visibili, il ruolo di protagonista, le sfugge di mano ogni momento. – Il rapporto della Chiesa alla storia va recensito sotto diversi profili, tutti interessanti lo scopo del nostro scritto.

a) La Chiesa entra nella storia e passa per la storia con una invulnerabilità. La Chiesa è stata costituita da Cristo indefettibile: ciò significa che durerà, nella sua sostanza, identica a se stessa fino alla fine. Gli avvenimenti, in quella sostanza, non la potranno mai superare; dovranno aprirle un varco e se, nella singolare tenzone, qualcuno deve cedere e finire, questo non sarà la Chiesa. Con la Chiesa è dunque entrato un condizionamento nella storia. Abbiamo parlato di una invulnerabilità, non della invulnerabilità. Infatti sul margine degli uomini, delle fortune passeggere, delle vicende caduche, dei maggiori o minori frutti – salva la sostanza della sua costituzione, della sua vita e del tesoro che porta con sé – la Chiesa può patire tutte le vicissitudini ed incontrare tutte le persecuzioni. La invulnerabilità della Chiesa è dovuta ad un divino intervento e questo può deviare il corso di molti fatti.

b) La Chiesa entra nella storia e passa per la storia con in mano il più grande destino della storia stessa. Infatti è il regno di Dio che, posta la elevazione soprannaturale e la preminenza della incarnazione del Verbo su tutti gli avvenimenti, raccoglie le fila di tutto verso il momento escatologico. Quello che gioca in un tale confluire sorge da profondità, dunque, per noi abissali ed eterne.

c) La invulnerabilità sostanziale e l’essere la Chiesa portatrice di un destino supremo stabilisce i termini di confronto tra la stessa Chiesa e tutti gli altri avvenimenti, mai invulnerabili e mai, da soli e come tali, portatori di un destino eterno.

Tutto questo è la semplice esposizione di quanto ha stabilito Gesù Cristo e di quanto appare chiaramente dal complesso della rivelazione divina. Ciò non altera affatto i limiti delle umane competenze e la autonomia di quello che nella comunità umana ha il diritto di svolgersi entro la sua onesta libertà. Però stabilisce un modo di considerare la Chiesa, un rispetto per quello che in essa conta, un sommo apprezzamento della Provvidenza che in essa agisce, una indicazione circa le vie della saggezza anche negli affari meramente umani, una coscienza della sicurezza e della risorsa che essa, la Chiesa, rappresenta per tutto. In essa infatti l’elemento umano, libero e vario, mai sopprime o coarta nella sostanza l’elemento divino. Sicché la efficacia non manca mai, anche in mezzo a quei difetti che non dovrebbero meravigliare nessuno, se si tratta di uomini. – Questo solco aperto da Dio nella terra, e che nessuno potrà mai definitivamente interrompere o ingorgare, deve rendere pensosi tutti circa la singolare componente che entra così nei fatti umani e che può sommergere i corti disegni degli effimeri cicli.

La Chiesa è organismo vivo

Riteniamo di somma importanza che si abbia ben chiara la dottrina in proposito e che la si abbia rilevata su ogni altra considerazione relativa alla Chiesa, perché questa verità porta gravi conseguenze ed ha la possibilità di valorizzare modi di pensare fatui e fluttuanti. Ricapitolando semplicemente quello che risulta «certo» nella dottrina cattolica a proposito della Chiesa, ci chiediamo: quali sono gli elementi che, per volontà di Cristo, la rendono un organismo «vivo»? Non dimentichiamo che la «vita» è un movimento “ab intrinseco” e che non può essere affatto confusa con qualsivoglia movimento od automazione o motorizzazione o azione artificiale dal di fuori. – Ecco gli elementi che fanno la Chiesa «organismo vivo».

– La Chiesa è il corpo mistico di Cristo, per usare la figura assunta dallo stesso divin Salvatore (cfr. Gv. 15,1 sgg.), la vite della quale Egli è il tronco, gli altri i tralci e nella quale la linfa viene dalla vite ai tralci. La affermazione è chiara e netta. La profondità del suo contenuto attinge il mistero e l’ordine divino. La esposizione di questa verità richiede un discorso lungo, che non incombe in questo momento a noi. Qui basta ricordare che si tratta di una vita concreta, non astratta; precisa e non vaga; che, soprattutto, essa rende continuamente operante negli uomini e nei fatti, al di là di entrambi, un elemento superiore all’ordine umano, capace per noi di tutte le sorprese in tutti i rischi e in tutte le umane disfatte, capace anche più di frutti non computabili al solito metro degli ordinari avvenimenti. Si tratta del “mysterium Ecclesiæ”. Volerlo far svanire, in modo da rallentare — nel largo — tutte le briglie contro la umiltà, la obbedienza ed il sacrificio, è azione falsa e nefasta; volerlo precisare troppo con i nostri corti mezzi, e pertanto opporgli dei limiti e delle conformazioni piacevoli alla moda, è azione illegittima ed empia. Volerlo confinare in una regione in cui si fa a meno degli strumenti di cui ha bisogno la Chiesa «visibile», per chissà quali scopi, è deformare tutta l’opera di Gesù Cristo. Questo mysterium Ecclesiæ ha una conseguenza molto evidente: allorché si ragiona della Chiesa, se manca il riferimento ad una costante componente soprannaturale, il ragionamento stesso resta sempre inadeguato e facilmente erroneo.

– La Chiesa ha una efficacia (santificazione e salvezza eterna degli uomini), la quale, soprannaturale e divina, (grazia santificante, grazia attuale e doni dello Spirito Santo) è pure legata ad atti liberi di uomini. Ogni sacramento almeno in chi lo conferisce (p.e. nel caso del Battesimo) richiede una intenzione, che è quanto dire un atto libero. La efficacia dunque vitale della Chiesa passa anche attraverso atti vitali e liberi degli uomini.

– La efficacia della Chiesa non si ha solamente attraverso gli atti sacramentali, legati almeno in un certo limite al Sacramento dell’ordine, ma anche attraverso una azione di regime e di Magistero, la quale si attua con atti liberi di uomini. Che questo regime e questo Magistero sia assistito in modo da non essere mai essenzialmente lesivo della indefettibilità ed infallibilità della Chiesa è cosa che riguarda Iddio, ma non diminuisce mai né la libertà, né la vitalità degli atti umani. Se mai servirà a ricordare che dietro ogni facciata, bella o brutta che possa parere, ad un certo punto si troveranno sempre una ragione ed una garanzia divine, più grandi degli uomini che agiscono sulla scena della vita.

– La Chiesa deve trasmettere un messaggio a tutte le genti: quello evangelico. Qui abbiamo uno degli aspetti più tipici del suo carattere vivente. Attenti: questo messaggio non è fatto di quattro formule da ricantare materialmente fino alla fine dei tempi, come farebbe una radio perennemente accesa. No. Esso è fatto di verità eterne, assorbe verità naturali, cela ricchezze che possono essere via via dipanate, senza tradire o contraddire il messaggio stesso, e che hanno aspetti, nella loro sostanziale immutabilità, adatti alle congiunture di tutti i tempi che furono e che saranno. Il messaggio stesso, chiuso con l’ultimo Apostolo, senza mutare od arricchirsi di qualcosa che non contenga già almeno virtualmente, appare cosa vivente.

– Anche il modo con cui il messaggio è custodito e trasmesso alle genti appare con lo stesso saliente e singolare carattere. Esso ha una parte scritta, ma ha una tradizione orale, il cui mantenimento è assicurato tanto dalla esistenza della infallibilità che dalla garanzia di indefettibilità. Infatti il Magistero, non di pura e fredda ripetizione, ma di insegnamento (che è cosa ben più ricca) è nella Chiesa, così garantito eppur affidato ad uomini. In tal modo i chiamati alla redenzione, camminando per la Storia, portano sulle stesse mani loro il divino deposito e, attraverso la loro stessa azione, lo Trasmettono.

– Tutto è redatto alla unità vera e funzionale perché Cristo ha costituito un capo, Pietro, il quale si prolunga nei secoli attraverso il Pontefice Romano, munito d’ogni potere, assistito nel solenne insegnamento da un personale carisma di infallibilità, eppure sempre libero nel cangiante respiro della storia. Dietro a tutto quello di visibile che la Chiesa espone al mondo in mezzo al quale cammina, si leva universale, profonda e dirimente l’azione dello Spirito Santo. – Questa verità balza in modo impressionante da tutta la letteratura neotestamentaria e rovescia tutte le interpretazioni storicistiche, troppo umanistiche, scettiche o quasi, della vita nella Chiesa. L’azione dello Spirito Santo può certo anche diventare carismatica come lo fu il giorno della Pentecoste, ma non ha alcun bisogno di diventare esterna e miracolosa; anzi è sempre ordinariamente contenuta in quel discreto modo che lascia agli uomini la loro piena libertà e, se proprio lo vogliono, anche le loro distrazioni ed evasioni. In questa azione dello Spirito Santo, punto veramente fondamentale della rivelazione di Cristo, la Chiesa è sempre singolarmente e potenzialmente un organismo vivo e di una vita ben superiore alle forme note e forse trite per la semplice natura. Che la Chiesa sia organismo realmente, intimamente e soprannaturalmente vivo ha conseguenze di grave portata, che bisogna subito mettere nel giusto rilievo.

– La Chiesa rende testimonianza certa e sicura della verità e della via della salute in qualunque tempo, come in qualunque tempo è viva. Essa dunque rende testimonianza oggi, con lo stesso valore dell’evo subapostolico. Per sapere di una verità non occorre io interroghi età lontane, anche se questo è utilissimo e può essere necessario sotto altri profili; basta ascolti quello che la Chiesa fa e dice oggi.

– Non è ammissibile accettare che la Chiesa debba essere riportata a questa o a quell’altra epoca. Dire questo è ammettere che essa sia non un organismo vivo, della cui vita si è reso responsabile e garante Dio stesso, ma solo una preziosa mummia, interessante documento, da restaurarsi secondo schemi che solo l’archeologia (né la Rivelazione, né la grazia) procurerebbe. La Chiesa ha sempre bisogno di misurarsi anche con sforzo eroico sull’unico vero modello, Gesù Cristo. Ma questo non significa che essa sia in qualcosa morta e debba essere ridipinta dalla dubbia saggezza di uomini fantastici.

– La Chiesa, per questa sua vita di tale potenza e carattere, potrà trarre contingente vantaggio da tutte le culture, perché «omnia cooperantur in bonum» (Rm. VIII, 28), ma la considerazione di questa vita non può mettersi al livello assai inferiore di contingenti e non necessari apporti. Tanto meno potrà essere subordinata alle fisionomie contingenti e meramente umane di quelli. Essa sta al di sopra, il che significa non esistere alcuna ragione per cui una nascente chiesa africana od asiatica si senta in grado inferiore; come non esiste alcuna ragione per cui una chiesa europea debba credersi di grado superiore anche solo emotivamente parlando. Di superiorità giuridica non ne esiste veramente che una, quella della Chiesa Romana, perché è piaciuto a Dio per il ministero di Pietro affidare a quella l’episcopato del mondo.

Il Magistero ecclesiastico oggi

È un punto sul quale si possono confondere le idee per il facile influsso di quello che accade nel «mondo». Questo è portato dall’aria che spira a non riconoscere la esistenza di un potere vero e proprio, umano, in campo dottrinale, e si picca di rispettare la libertà di pensiero, in tale modo, anche se esercita nel sottobosco qualcosa che non è un magistero, bensì una suggestione ed allucinazione persuasiva a seconda che gli comoda. Odio al magistero, ma via aperta alla imbottitura delle teste. – In secondo luogo il «mondo» considera l’azione magisteriale come la procedura «per far capire qualcosa e portare al grado di saper pensare da sé», non come una trasmissione autorevole di principi certi. – Queste due caratteristiche del «mondo» rispetto a qualsivoglia «magistero» provengono da talune tare storiche, delle quali non abbiamo qui a discorrere; tuttavia hanno un certo fondamento, in quanto difficilmente il «mondo» riuscirebbe a mettere insieme la serietà sufficiente per instaurare un magistero propriamente detto. – Esso sfoglia i documenti, li ricerca, li custodisce, li critica, ci si diverte; ma sa benissimo che i documenti in sé sono cose inerti e possono anche essere morte. – Abituato così, diffonde intorno un senso critico coerente a questa situazione. Il «mondo», che non ha studiato bene teologia, non ha l’idea di un Magistero che sia vivo. La sua opposizione ad un Magistero vivo è fatta più di ignoranza che di cattiveria; però riesce a mettere in complesso di inferiorità anche chi, non bene edotto di tutto, si trova a meditare su questo fatto eccezionalmente interessante tra i fatti umani e riesce a comunicargli delle perplessità e delle mosse del tutto sbagliate. Noi scriviamo perché non vorremmo che questo accadesse tra di voi. Ed è pertanto che abbiamo parlato prima della Chiesa organismo «vivo» con un Magistero» che è «vivo». – Vi ricapitoliamo pertanto i concetti giusti in proposito, con quelle osservazioni che saranno del caso.

– Il magistero della Chiesa propone tutto il messaggio di Cristo, ma lo spiega, lo interpreta autoritativamente, lo applica, ne trae le ricchezze più recondite deducendo e svolgendo, rassicura sui dubbi, delucida le questioni che via via si possono presentare, si estende alle verità connesse anche se di ordine naturale. Tutto questo serve a manifestare successivamente, e senza alterare il messaggio, la inesauribile ricchezza in esso contenuta e la indefinita capacità di rispondere via via alle necessità delle anime in cammino verso la vita eterna. – Si compongono così due fatti singolari: la inalterabilità del messaggio di Cristo, che né si deforma né si appesantisce di elementi estranei al momento della Rivelazione, e il progresso dottrinale, che trae sempre dallo stesso identico tesoro e con quello che ne trae risponde alle esigenze della salute delle anime. Queste esigenze sono nella sostanza le stesse, ma hanno variazioni marginali. I due fatti singolari si possono comporre perché la Chiesa è un organismo vivente in cui agiscono uomini liberi, ma la cui anima sta nella azione dello Spirito Santo e nella vitale connessione con Cristo, Capo invisibile della medesima Chiesa. La ragione insomma della coesistenza di due elementi apparentemente tanto diversi sta in una vita, la quale affonda le radici nella eternità. Il carattere del «magistero vivo» si rivela non solo dalla sua intima essenza e dai suoi fondamenti, ma ancora dalla sua procedura. – Eccone gli elementi. Può essere solenne e ciò tanto nel Romano Pontefice da solo, quanto nella intera Chiesa docente, composta di tutti i Vescovi uniti col Romano Pontefice ed in quanto uniti col Romano Pontefice, come accade in un Concilio. Ma non esiste solo un magistero solenne. Se così fosse il magistero sarebbe certamente un magistero vivo, ma opererebbe, per ovvie ragioni, così raramente da essere un magistero il più delle volte dormiente. La vita sì, ma la vita manifestata a tratti. Conseguentemente il cammino delle anime troverebbe la propria strada illuminata solo in qualche tornante e troverebbe poi molte pericolose zone d’ombra. Le zone d’ombra sarebbero le facili foreste dei lupi rapaci. No.

Esiste un Magistero Ordinario.

Questo magistero ordinario appartiene a chi può esercitare il magistero ed alle stesse condizioni. Gesù ha mandato a predicare sempre. Gli Apostoli hanno predicato sempre. Il messaggio di Cristo è stato orale e per qualche tempo non ce ne fu altro. Da questo messaggio orale gli agiografi neotestamentari hanno tratto i loro documenti. L’ufficio magisteriale è chiarissimo nella Chiesa dei primi secoli. Dio ha permesso le persecuzioni dei primi tre secoli anche per dimostrare che, in tempi in cui era assai difficile e raro esercitare il Magistero solenne, poteva (per la vita di ogni giorno) bastare il Magistero ordinario. – La nostra attenzione si deve allora portare con maggiore impegno proprio su questo Magistero ordinario, sì da chiarirne la estensione ed il modo. Quale, dunque, la condizione perché si realizzi il Magistero Ordinario? La risposta è semplice. Poiché questo Magistero è stato da Cristo affidato a Pietro e alla Chiesa gerarchica come tale, esso si ha quando si può dire che Pietro o la Chiesa parlano. Si può dire che la Chiesa «parla» quando è unita ed è col suo capo, ossia quando esiste il consenso: questo consenso, per via esplicita od implicita, diretta od indiretta, è nella unione col Pontefice. Il consenso nella unione al capo è il «segno» che la Chiesa parla. Non si tratta di una verità creata da uomini, ma di una verità che è garantita attraverso uomini i quali, in quelle condizioni, beneficiano secondo la promessa del Salvatore della assistenza dello Spirito Santo. Basta quello che si è detto per valutare cosa significhi, anche per il Magistero Ordinario, la presenza e l’ufficio del Romano Pontefice, nonché degli strumenti dottrinali dei quali egli per la sua pienezza di potestà si serve e che sono ordinariamente nella Curia romana. – Sarebbe pertanto ben erroneo credere che la tranquillità dottrinale venga ai fedeli soltanto da un Magistero solenne, tanto raro e talvolta ostacolato da circostanze storiche. La piena e perfetta tranquillità dottrinale, il criterio certissimo della verità, lo si ha pure attraverso il Magistero Ordinario, il quale, come si è dimostrato, se non ha i caratteri esterni del Magistero solenne, ne raggiunge la stessa efficacia in definitiva e manifesta – per essere sempre in atto, ogni giorno – il carattere di «vita» della Chiesa. E per questo che prima di iniziare questo discorso abbiamo a lungo trattato della Chiesa «organismo vivo». – Prima di passare ad aspetti particolari del Magistero Ordinario riteniamo doveroso ribadire che esso sta soltanto, per sé, nel Papa e nella Chiesa gerarchica, che non è tale se non in quanto è unita con il Papa. Non sta dunque per sé altrove. Il Magistero ordinario non è, dunque, per sé affidato ai teologi, ai ricercatori di cose antiche, alle università, alle scuole. Vedremo quale autorità abbiano i teologi e per che via. Ma qui un principio deve essere ben chiaro: essi non sono i maestri o, se lo sono, lo saranno soltanto di riflesso. Principio di verità che li deve rendere bene attenti ed umilmente docili, perché nessuna presunzione riesce a dare loro quello che Cristo non ha dato. – Il Magistero Ordinario si attua in molti modi e non in uno solo, sia attraverso l’insegnamento diretto, sia attraverso atti che implicano in qualche modo un insegnamento. Ecco perché sarebbe inesatto volerlo stabilire solamente in base a documenti scritti. Ciò va notato per taluni ricercatori del tempo andato, i quali (per dimenticare questo) giungono talvolta a conclusioni meno perfette. Il Magistero Ordinario di un qualunque periodo storico non è detto debba apparire solamente attraverso scritti qualificati più o meno, dato che con è solamente con quelli che si esplica. Questa ampiezza di mezzi da ulteriormente l’idea di quanto sia vivo il magistero stesso. – Sorprende assai il vedere taluni studi, certo egregi, che nel ricostruire l’insegnamento teologico di un qualche periodo conoscono tutte le «fonti» qualificate, anche minime, e non tengono conto di quello che scaturisce dai fatti, anche più ampiamente considerati, ben oltre i documenti scritti. I quali talvolta non possono essere «letti» bene, se non in una cornice storica obiettiva, che li supera e che sa rendere tutto utile a tale effetto. Dobbiamo osservare come in materia teologica l’entusiasmo di certe ricerche patisca il danno non lieve della sopraddetta unilateralità. Abbiamo detto che il Magistero Ordinario si attua a talune condizioni e le abbiamo indicate. Può darsi il caso che si abbia un periodo in cui quelle condizioni non si attuano ancora per la soluzione di un dubbio o per una esigenza di chiarificazione o per la esposta ad un problema posto in maniera nuova da nuove circostanze. In tale caso si ha un «periodo di preparazione» in cui si fanno tentativi, discussioni, ricerche, si elaborano opinioni diverse, in cui l’autorità della Chiesa può intervenire — a scopo assicurativo, tentativo o difensivo – non solo in quanto maestra, bensì anche in quanto capace di guidare, reggere e fare pertanto leggi o decreti. Ciò spiega perché in tale «periodo di preparazione» si possano avere norme orientative di carattere assolutamente temporaneo, e cioè valevoli fino a che la questione non sia definitivamente e completamente chiarita nei termini che impegnano veramente e per sempre il Magistero ecclesiastico. Non c’è dunque da meravigliarsi di decreti che hanno in tale situazione un valore prudenziale. Basta del resto scorrere le cosidette «censure teologiche» che nei documenti ecclesiastici sono state usate a proposito di talune proposizioni: periculosa, temeraria, damnosa, haeresim sapiens, errori proxima, etc. Non si dimentichi che il Magistero Ordinario è vivo anche perché affidato a uomini i quali, esercitandolo, non cessano di essere limitati e di avere bisogno del tempo e dello studio; e che il carisma della infallibilità nella Chiesa non è legato alla ispirazione divina, anche se non la esclude, ma impedisce l’errore nella materia che è oggetto di infallibilità. – Il Magistero della Chiesa, solenne ed ordinario, riflette qualcosa sui teologi, questo può avvenire senza che la Chiesa sappia ed approvi; devesi invece ritenere per certo che, quando un tale consenso avviene direttamente od indirettamente consenziente la Chiesa docente, sola depositaria del Magistero, il consenso dei teologi, pur non costituendo per sé un Magistero Ordinario (i teologi non ne sono il soggetto), data la connessione con il soggetto vero del medesimo, diventa criterio certissimo di verità. – La «connessione» di cui abbiamo fatto parola, per la facilità odierna di pubblicare, per il facile indirizzo idealista, molto disimpegnato dai canoni della verità obiettiva, e per quello positivista, altrettanto disimpegnato dalle ragioni interne delle cose, implica oggi forse una maggiore sorveglianza che nel passato da parte dei Vescovi. Se noi scriviamo questa lettera è proprio per assolvere questo maggiore impegno. –  Un Magistero così articolato, e che può seguire fino alle ultime applicazioni o conseguenze o connessioni il contenuto immutabile della parola di Dio, può fare una certa impressione. E naturale che questo accada e tanto maggiore sarà la impressione quanto più si perderà il senso della verità obiettiva dopo le infiltrazioni filosofiche nell’abito culturale degli uomini. I quali, a forza di sentir confondere oggetto e soggetto, nonché di sentir semplicemente inventare invece di ricercare, hanno qualche volta perduto di vista l’elementare principio che la realtà e la verità obiettiva si identificano e che pertanto non si può giocare contro la verità obiettiva. – Quando esiste il senso della verità obiettiva non ci si meraviglia che, per quanto concerne la rivelazione divina, Cristo l’abbia protetta in tal modo. La meraviglia dipende da una triste malattia del tempo. E le malattie non sono né doni né vanti né glorie. L’esser il Magistero della Chiesa di una tale natura e di una tale lavabilità indica chiaro che la interpretazione della parola di Dio non può lasciarsi mai all’arbitrio del singolo, alla fantasia della moda, alla paura di chi, nell’apprendere dalla scienza umana qualcosa di nuovo, crede subito che crolli il mondo, crollino le idee ed i principi primi. – La Chiesa ha soprattutto da custodire la verità, perché essa illumina la via e promuove gli atti necessari a raggiungere la salvezza eterna. Infatti la fede, atto di intelletto col quale si accettano le verità rivelate da Dio, è il primo insostituibile passo verso la vita eterna. L’oggetto della fede, allora, va tutelato. Perché tutto questo discorso? Perché gli sforzi spesso incoscienti e subcoscienti di molti sono diretti proprio contro la latitudine del Magistero ecclesiastico ed hanno di mira di restringere l’oggetto della fede o di quanto si collega con la fede. Nella folle speranza che l’uomo sia più libero. Hanno dimenticato quello che è stato scritto: «La verità vi farà liberi…!» (Gv. VIII,32). [Continua…]

 

SAN RAFFAELE

 

San RAFFAELE ARCANGELO

24 OTTOBRE.

[I santi per ogni giorno dell’anno – Pia soc. S. Paolo, Alba – 1933]

La storia di questo Principe della milizia celeste, che dalla Chiesa ci viene proposto a guida nel viaggio per l’eternità, va congiunta con quella di Tobia narrata dalla Sacra Scrittura. Iddio, che è sempre buono, mandò un consolatore ai poveri Israeliti schiavi sotto il re di Assiria. Questi fu il pietoso Tobia, uomo educato nel timor di Dio, ammirato per la sua pietà e pazienza. Condotto in schiavitù cogli altri suoi connazionali, alla vista dei suoi fratelli oppressi, attendeva a consigliare gli afflitti, a fornire di cibi e vestimenta i bisognosi ed a seppellire i morti. La virtù di Tobia fu provata da gravi tribolazioni; fu tormentato dalla cecità e da altre sventure. Il santo vecchio pregò il Signore che lo chiamasse all’altra vita. Ma Dio volle conservarlo per fargli godere dolci consolazioni a mezzo di Tobiolo suo figlio. « Figlio mio, gli disse un giorno il padre, ti avviso che ho imprestato dieci talenti d’argento a Gabelo, che abita in Rages, città della Media. Eccoti la ricevuta: presentagliela ed egli ti restituirà il denaro. Ma siccome tu ignori la strada cerca qualche fedele amico che ti guidi ». Il figlio uscito di casa, s’imbatté in un giovane pronto a far viaggio. Ignorando che quegli fosse un angelo di Dio, «buon giovane, gli disse cortesemente, chi sei? Conosci la via che conduce nella Media? » – « Io sono israelita, mi chiamo Azaria, rispose, e conosco il cammino cui accenni ed ho dimorato molto con Gabelo in Rages. – Tobiolo allora, tutto lieto, dopo aver ricevuto il consenso e la benedizione paterna, partì coll’Angelo Raffaele, che sotto umane sembianze si offrì ad accompagnarlo. – Giunti al fiume Tigri, un pesce mostruoso assalì il giovanetto, e minacciava di divorarlo. L’Arcangelo lo rassicurò ingiungendogli di afferrare quel pesce, sventrarlo e cavargli il fegato che doveva servire di medicina al padre. Un viaggio cominciato con sì buoni auspici, non poteva non riuscire prospero e felice. Infatti l’Angelo non solo fece ricuperare al giovane il denaro, che egli stesso era andato a riscuotere, ma di più procurò che sposasse una ricca e virtuosissima donzella, di nome Sara, figliuola unica di Raguele, suo parente. Quindi ripresero il viaggio di ritorno, ansiosamente attesi dai vecchi genitori. Accolti a braccia aperte, il figlio estrasse il fiele del pesce ed unse gli occhi del padre che torto si riaprirono alla luce. E non solamente il vegliardo rivide il dolce aspetto del figliuolo, ma poté contemplare la sposa, ammirarne i pregi singolari e le moltissime ricchezze che aveva portato con sé. – Sparsa la notizia di questo fatto, i parenti di Tobia si radunarono per ringraziare il Signore e fare festa. Alla loro presenza il figlio enumerò i solenni benefici ricevuti dal compagno di viaggio che ancora lo stimavano per un uomo. Volendo poi in qualche modo ricompensarlo lo pregarono di volere accettare la metà delle sostanze che aveva loro ottenuto. L’Angelo allora si diede a conoscere e voltosi al vecchio Tobia disse: « Ora è tempo che io manifesti la verità. Quando tu seppellivi i morti e ti occupavi in pie opere e in fervorose preghiere, io tutto offrivo al Signore; io sono l’Angelo Raffaele, uno dei sette spiriti che stiamo di continuo alla presenza di Dio. Lodate dunque il Signore e raccontate a tutti le sue meraviglie ». – Ciò detto disparve ed essi rimasero bocconi a terra benedicendo Iddio.

FRUTTO. — Imitiamo Tobia nell’elargire ai poveri il superfluo, e meriteremo ancor noi la protezione di San Raffaele e la liberazione da tante disgrazie.

PREGHIERA. — Dio che desti il beato Raffaele Arcangelo, come compagno di viaggio al tuo servo Tobia, concedi a noi tuoi servi d’essere sempre protetti dalla sua custodia, e difesi dal suo aiuto. Così sia.

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (12), capp. XXII-XXIII

CAPITOLO XXII.

IMITATORI DEL BUON LADRONE NELL’ORIENTE

E NELL’OCCIDENTE.

Storia di Moisè capo d i ladri. — Sua conversione. — Suo apostolato presso i ladri. — Ei ne arresta quattro. — Loro conversione. Loro santità. — Egli stesso gran santo e celebre solitario, — Storia del commediante Gelasino. — Convertito in Eliopoli, e subitamente, in presenza di tutto il popolo, e nell’atto che eseguiva una sacrilega parodia. — Storia simile di S. Genesio commediante. — Suo discorso a Diocleziano ed ai grandi dell’Impero. — La stessa prontezza ed efficacia della grazia sulle peccatrici. — Storia della famosa cortigiana di Antiochia.

Rapida come il lampo, efficace come l’acqua del Battesimo, la misericordia, venendo a un’anima indegna, la rende degna di Dio, e produce azioni meritevoli di premio là dove non aveva trovato che colpe da punire. In prova di questo consolante prodigio, poniamoci a considerare il ladro, del quale ci facciamo a narrare la storia.  Nella Cronaca di Alessandria, sotto la data 28 Agosto, circa l’epoca di s. Antonio, si legge: « Nei deserti dell’Etiopia viveva un famoso masnadiere, chiamato Moisè. La grazia avendo fatto di questo novello Disma un cenobita di gran nome, ed uno dei santi più amabili tra tutti i santi della Tebaide, egli divenne Apostolo dei masnadieri, che infestavano quella regione. Egli ne ridusse a buona vita un gran numero che divennero monaci esemplari. Un giorno, quattro di quei malfattori si riunirono per saccheggiare il romitaggio di Moisè, ignorando che questi era stato una volta capo assassino. Àvevano forzata appena la porta, che Moisè si fa loro innanzi, e robusto come Sansone, li afferra, e quasi fossero un fastello di paglia, se li mette sulle spalle, li porta al monastero, ove giunto li getta a terra in mezzo ai suoi religiosi adunati intorno a lui. « I monaci gli domandano: Che volete voi fare di questi uomini che osarono aggredirvi? Certamente per espiare le ingiurie da esso lui fatte agli altri, Moisè si era proposto di non mai contristare chicchessia, e di non esigere la punizione di alcuno; perciò non rispose; e ritiratosi, i suoi monaci ebbero pietà di quegli sciagurati, e li posero in libertà. – « Venuti ben tosto a sapere che Moisè era stato un capo di ladri, e che era poi divenuto un santo anacoreta, furono a tal punto tocchi dalla grazia, che chiesero di esser ricevuti nel Monastero. Un tal favore venne loro accordato, e divennero cenobiti esemplari. Per incoraggiarsi, dicevano a se stessi: Se Moisè, ch’era sì gagliardo, e teneva il primo luogo tra i masnadieri, teme così Iddio, continueremmo noi più a lungo la nostra sciagurata condizione di vita, a rischio, se indugiamo ancora un istante a convertirci, di compromettere il grande affare della nostra salute? » [Vedi Pellade, Hist. Laus. Vita di S. Arsenio.] Quei ladroni ripetevano alla loro maniera la parola di Nostro Signore: « Che giova all’uomo guadagnar tutto il mondo, se poi perda l’anima sua? » Questa parola fece in essi quella salutare impressione che produrrà sempre in ogni uomo ragionevole. E se il nostro secolo volesse pur dirla a se stesso francamente e seriamente, di qual pace verrebbe a godere, e di qual miracoli non saremmo noi testimoni? Abbandoniamo ora le foreste e le montagne, ricoveri di assassini, per ritornarvi più innanzi, e seguiamo per poco la divina misericordia nelle città; e vediamola anche qui operare le stesse mirabili conversioni che nelle solitudini. La rapidità della sua azione ci apparirà, se è possibile, anche più miracolosa e più consolante. Nei deserti essa spiega la sua azione su nature brute e crudelmente malefiche; ma desse non hanno quella specie di malignità, che è il prodotto di una civiltà bastarda e corrotta, e che troppo spesso ai più stupendi tratti della grazia oppone una lorica di bronzo impenetrabile. Nelle città e sull’animo dei peccatori civilizzati ben altrimenti si passan le cose. L’antropofago dell’Oceania è men difficile a convertirsi di quello che sia il libertino e 1’empio dell’Europa. Cionondimeno la misericordia spira ove essa vuole, e nulla ad essa resiste. – I due commedianti Gelasino e Genesio ce ne offrono due memorabili esempi. Era il tempo della persecuzione di Valeriano, nella città di Eliopoli. Si davano degli spettacoli al popolo, e tutti i gradini dell’anfiteatro erano coperti di spettatori. Dopo le pugne degli uomini e delle fiere, venivano le rappresentazioni dei mimi, e dei pantomimi, lascivi ballerini, commedianti buffoni, destinati ad eccitare le grasse risa della moltitudine a vilipendio dei Cristiani. Vi ha nell’arena un ampio bacino ripieno di acqua tepida. Giunge la schiera che fa corteggio a Gelasino, uno degli attori, che coperto di lunga e candida veste, a derisione del battesimo cristiano, vien gittato nell’acqua. Appena immerso in essa, egli ben presto si leva gridando non per ischerno, ma sul serio: « Io son Cristiano. Io vidi nel bagno uno spettacolo di terribile maestà, e son Cristiano. » Il popolo montato in furore discende dai sedili nell’arena, trascina fuori dell’anfiteatro Gelasino e lo lapida sul momento. La sua bianca veste è imporporata del suo sangue, e l’anima vola al cielo adorna dei gigli dell’innocenza e della porpora del martirio. I Cristiani cui nessun pericolo intimidisce, accorrono a raccogliere le di lui reliquie, e le recano nel suo natio villaggio, ove gli edificano una chiesa. [Chronic. Alexandr., an. 369]. – Una conversione non meno subitanea, e forse più celebre a motivo della città nella quale avvenne, e degli spettatori che ne furono i testimoni, ebbe luogo sotto Diocleziano. (Parigi ha in questo momento la compagnia imperiale Giapponese dei comici del Taicun. Diocleziano, quest’altro Taicun di Roma, aveva pure la sua propria: poiché quasi tutti gl’imperatori si rassomigliano). In questa compagnia trovasi un istrione chiamato Genesio, e la storia dice che era famoso nelle parti buffe. Essendo un giorno al teatro Diocleziano stesso, Genesio che ben conosceva l’odio di lui contro i Cristiani pensò fargli cosa grata rappresentando sulla scena i misteri della loro religione. Egli comparve pertanto coricato su di un letto, e con voce quasi estinta diceva: « Amici miei, quanto è grave la mia infermità! Io sto per morire. Sento un peso enorme sullo stomaco. Non vi sarebbe modo di liberarmene e rendermi più leggiero? » Gli attori suoi compagni ch’erano intorno al suo letto, rispondevano: « Che vuoi tu che facciamo per alleviarti? Siamo noi forse segatori, o fabbri per ripassarti colla lima o con l’ascia ? » E queste insipide buffonate facevan ridere il popolo sovrano. Ma replicava Genesio: « Voi non intendete niente, non è questo quel ch’io domando. Siccome sento di esser vicino a finire, voglio morir Cristiano. E perché? replicano gli altri attori. Perché Iddio mi accolga nel suo paradiso, come un disertore dei vostri Dei. » Si fanno allora le viste di andare in cerca di un prete e di un esorcista. E i due attori che si avanzano a rappresentare quei sacri ministri, si seggono al capezzale del finto malato, e gli dicono: « Che vuoi tu da noi o figliuolo? e perché ci hai tu cercato? » Mutato tutto ad un tratto, come il Buon Ladrone, per un effetto miracoloso della grazia, Genesio risponde, non più per scherzo o per finzione, ma veramente sul serio e di tutto cuore: « Io vi ho fatto chiamare per ricevere, col mezzo del vostro ministero, la grazia di Gesù Cristo, perché rinascendo pel santo battesimo, venga mondato di tutti i miei peccati. » – Si procede allora a compiere le cerimonie del battesimo, e di una bianca veste si ricopre il neofita. Poi, alcuni soldati che fingonsi mandati dal prefetto di Roma, lo arrestano e fingono di maltrattarlo e percuoterlo, e lo conducono ai piedi dell’imperatore, il quale rideva all’eccesso per aver veduto in un modo sì naturale raffigurato tutto ciò che ordinariamente avveniva nelle cerimonie dei Cristiani, e nell’arresto dei martiri. E per continuare il giuoco, Diocleziano, fingendo di esser montato in furore, domanda a Genesio: « È egli vero che tu sei cristiano? » E Genesio risponde con queste precise parole: Augusto signore, e voi grandi dell’impero, ufficiali della casa di Cesare, cortigiani e cittadini tutti, ponete attenzione a quello ch’io son per dire. Io aveva in tale e tanto orrore i Cristiani, che il loro incontro era sempre per me di funesto presagio. Il loro nome stesso mi era odioso tanto, che fremeva al solo sentirlo ripetere, ed era per me un vero gaudio il poter insultare, anche in mezzo ai loro tormenti, quei che davano la lor vita per difesa e confessione di quel nome. I misteri dei Cristiani non mi parevano men degni di riso, che non lo fossero di disprezzo le persone. Ed è perciò che io volli appieno conoscere i loro riti per farne un soggetto di scherno, e divertire voi sul loro conto. Ma, cosa incredibile per voi e provata per me fino all’evidenza! – Al momento che l’acqua ha toccato il mio corpo, e che, alla rituale domanda se io credessi, ho risposto io credo: ho veduto discender dal cielo una schiera di Angeli sfolgoranti di luce che m’han circondato. Leggevano essi in un libro tutte le colpe che io ho commesse dalla mia infanzia in poi, quindi hanno immersa quel libro nell’acqua, nella quale io mi trovava ancora e ritiratolo, me ne hanno mostrato i fogli tutti bianchi al par della neve. Cesare, e voi Romani che qui mi ascoltate, voi che le tante volte avete applaudito alle profanazioni ch’io feci di questi misteri, voi dovete fin da questo momento venerarli meco e credere che Gesù Cristo è il vero Dio, la luce, la verità, la bontà per essenza, e pronto ad accogliervi e perdonarvi. » Diocleziano, vedendo che Genesio parlava sul serio, si accende di furore veramente imperiale, gli fa rompere addosso molti bastoni, e consegnollo a Plauziano, capitano della guardia pretoriana, il quale gli comandò di sacrificare agli Dei: al che Genesio rispose: Io non sacrifico. — Che gli siano lacerati i fianchi cogli unghioni di ferro, e sia bruciato con carboni ardenti. — Durante la crudele tortura, Genesio non cessa di ripetere: « Non v’ha altro Dio che il Dio dei Cristiani. Quando mi facessero morir mille volte per lui, io morrei mille volte con gioia. » – Terminava appena questa generosa e nobile professione di fede che Plauziano gli fece troncare il capo. Era il 25 Agosto dell’anno 286, alla presenza di tutto il popolo della gran Roma [D. Ruinart, Àct. des martyrs, t. I, 384]. – Io credo volentieri, diceva Pascal, a testimoni che si lasciano uccidere. Prova luminosa della nostra fede, la conversione di Genesio è soprattutto un attestato autentico di quella misericordia che scende fino al fondo dell’abisso per cercare il peccatore, e della rapidità colla quale lo trae da quel fondo. E poiché noi siamo sul teatro, non ne usciamo prima di aver contemplata un’altra meraviglia. Assistere a questi colpi di stato, pei quali il Dio d’ogni bontà strappa in un subito al demonio le più elette sue vittime nel luogo stesso ove questo le immola, vi ha nulla di più dolce al cuore? Se alcuna cosa fosse difficile a Dio, la conversione di cui andiamo a parlare, parrebbe offrire, nel gran numero delle iniquità, un ostacolo eccezionale all’azione della misericordia. Ascoltiamo l’eloquente espositore di questo avvenimento ch’ebbe per testimoni i cento mila abitanti di Antiochia. (Che nessuno, dice s. Giovanni Crisostomo, fosse egli pur caduto nel più profondo abisso del vizio, disperi mai della sua conversione; perocché è facile uscire dal baratro dell’iniquità. Che forse non avete voi mai udito parlare di quella meretrice che sorpassò tutte le altre per la sregolatezza della sua condotta, e che poi sorpassò tutti con 1’ardore della sua pietà? Io non parlo già di quella di cui si fa menzione nell’Evangelio, ma di Fenicia che ai nostri giorni portò lo scandalo all’estremo grado. – « Questa cortigiana era qui, ed occupava il primo luogo sulla scena. Il suo nome era su tutte le bocche, non solo in Antiochia, ma fin nella Cilicia e nella Cappadocia. Ella assorbì la fortuna d’un gran numero di persone, e spogliò molti giovani figli di famiglia. Corse voce ch’essa non solo servivasi della sua beltà, ma altresì di sortilegi e di pratiche diaboliche per sedurre le sue vittime, e stringerle nei suoi lacci: sedusse perfino il fratello dell’imperatrice, conciosiachè la potenza della sua seduzione era una vera tirannia. « Ma ecco che ad un tratto, io non so come, o meglio il so benissimo, ella ritrovasi del tutto cangiata. La grazia di Dio la visita, ed ella disprezza tutto, non cura le sue diaboliche attrattive, rinunzia ad ogni cosa mondana, e prende la via che mena al cielo. Benché nulla vi fosse di più impuro di lei quando compariva sulla scena, ora è modello incomparabile di castità, rivestita sempre di un cilizio che non lascia mai né la notte né il giorno. Dietro le premure di taluni, il prefetto volle richiamarla sulla scena, ed i soldati che inviò a cercarla, non mai poterono indurverla, né strapparla alle pie vergini che l’avevano accolta tra loro. – « Ammessa che fu ai santi misteri, ella di proposito si diede alla pratica di tutte le virtù, e morì dopo di aver purificata l’anima sua da ogni macchia dando tutti i segni di una gran santità. Giammai essa non volle rivedere neppur uno di quelli che da essa furono criminalmente amati e che venivano per visitarla. Si era chiusa in una cella, ove passò molti anni, come in un carcere. Così avviene che gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi. Abbiasi pure da noi un sì generoso coraggio, e nulla ci sarà di ostacolo a divenire grandi ed ammirabili cristiani. 1[In Matth. Homil. LXVII, Opp., t. VII, p. 750, n 3] – Possa questo esempio, se viene a conoscersi da qualcuna delle moderne Fenicie, parlare al loro cuore e farne venir fuori questa parola operante prodigi: Voglio pur io convertirmi; e perché non potrò io fare quel che han fatto altre mie pari? A me, come ad esse, la divina misericordia apre le braccia. Gettarmi in quelle, è salvarmi.

CAPITOLO XXIII.

IMITATORI DEL BUON LADRONE NELL’ORIENTE

E NELL’OCCIDENTE.

(Continuazione.)

Il mandriano della Tracia. — Suoi atti di brigantaggio. — Vani sforzi per arrestarlo. — Condotta ammirabile dell’Imperatore Maurizio. — Il brigante convertito. — Sua malattia, sua penitenza, sua morte, suo giudizio . — Racconto del medico. — Il giovane ladro di Cluny. — Audace brigante. — Suo incontro Con S. Odone. — Sua conversione. — Sua santità. — Eroismo della sua penitenza. — Sua morte preziosa.

Ritorniamo sulle montagne per veder la misericordia proseguire ad operare le subitanee sue meraviglie tra i privilegiati clienti del Buon Ladrone. S. Anastasio del monte Sinai, dopo di aver riportato la conversione del Ladrone di s. Giovanni, si esprime così: «Questo fatto è tanto più degno di fede, in quanto che non è il solo. Noi lo vedemmo prodursi ai Calvario, ove, di un famoso masnadiere, una sola parola di fede bastò a fare un gran santo. Noi 1’abbiamo di poi riscontrato in un gran numero d’insigni peccatori, e particolarmente nel famoso brigante dell’età nostra, sotto il regno dell’imperator Maurizio; ed eccone la storia. « Un capo di masnadieri aveva fissata la sua dimora sulle frontiere della Tracia. Animoso e forte come un leone, crudele come una tigre, egli aveva rese impraticabili quelle strade. Un gran numero di soldati e di arcieri non avevano potuto con tutti i loro strattagemmi riuscire ad arrestarlo. Il pio Imperatore, essendone stato informato, chiamò a se uno dei suoi giovani ufficiali, e togliendosi dal collo le sante Reliquie che vi portava appese: Va’ gli disse, a recar questo dono al capo dei briganti. « Il messaggero adempì la sua commissione: e il masnadiere non appena si ebbe in mano quelle Reliquie, che colpito come da una potenza divina si sentì in un subito mutato. Di lupo crudele diviene un mansueto agnello, e va a gettarsi ai piedi dell’Imperatore, cui fa la confessione di tutti i suoi delitti. Pochi giorni dopo è colto da febbre violenta, e trasportato all’Ospedale di s. Sansone. Là sul letto dei suoi patimenti volgevasi egli ai suoi pietosi infermieri, e loro confessava i suoi falli, non cessando mai di ripetere questa preghiera: Mio benigno Signore, io non vi domando nulla di nuovo. Siccome voi faceste risplendere la vostra misericordia su di un ladro che mi precedette, spandetela pure su di me che sono un ladro come lui. Accogliete le lacrime ch’io verso su questo letto di dolori ove tra poco morirò. Fate che esse valgano a cancellare la sentenza della mia condanna, e passate la spugna della vostra misericordia sulle mie colpe, che sono al di là d’ogni immaginazione. – « Per lunghe ore questo ladrone penitente continuò a ripetere le stesse parole, asciugandosi le lacrime fino all’ultimo respiro. Al momento ch’ei morì, il valente medico di quell’ospedale dormiva profondamente nella propria casa; ed appunto nell’ora della morte di quel ladro, vide in sogno una folta schiera di Etiopi che accerchiavano il letto del moribondo. Nelle loro mani avevano molte carte, ove erano scritte le iniquità del ladro. Ma bentosto sopravvennero due personaggi coperti di bianca veste; gettarono gli Etiopi in una bilancia tutti quei documenti della reità del moribondo, ed il piatto di quella discese fino al basso, mentre l’altro montò in alto. I due angeli di luce si dissero allora: Non abbiamo noi dunque nulla da mettere per contrappeso ? — Che potremmo aver mai, rispose un d’essi, se dieci giorni non son passati ancora da che cessò egli di commettere omicidi e furti, ed abbandonò la sua caverna? Qual buona opera possiamo noi chiedergli? – « Avendo parlato così fra loro, parve che colle mani cercassero nel letto del moribondo per vedere di trovare alcuna cosa di buono; e venne loro trovato il fazzoletto, del quale il ladro si era servito per asciugarsi le lacrime. Ecco il suo fazzoletto, disse l’uno degli Angeli: mettiamolo nell’altro piatto con la misericordia di Dio: questo sarà pur qualche cosa. Ma non appena vi fu posato quel cencio che il piatto discese al fondo, e le carte ch’erano nell’altro bacino disparvero. Allora gli Angeli d’una sola voce gridarono: Viva la misericordia di Dio! E presero e seco loro portarono l’anima del fortunato ladrone; mentre gli Etiopi confusi si ritirarono fuggendo. – « Intanto il medico di buon mattino si recò a fare la sua visita, e trovato il ladro ancor caldo, prese il suo fazzoletto bagnato di lacrime; ed informato dai malati vicini al suo letto delle preghiere e delle lacrime del defunto, corse all’Imperatore, e gli narrò quanto era avvenuto. Ascoltato con emozione il racconto dal pio Monarca, il medico soggiunse: Sire, rendiamo grazie a Dio. Noi conoscevamo già un Ladrone salvato sulla croce dal confessar che ei fece la divinità del Salvatore: or sotto il vostro impero abbiamo visto un altro ladrone salvato per la confessione dei suoi falli, e per le lacrime del suo pentimento. Simili fatti sono ben consolanti, quanto innegabili: ciò nondimeno, la prudenza esige che, pensando all’ora terribile della morte, noi la preveniamo con una vita penitente! » [Orat. in ps. VI, vers. fin.]. – Così per il Ladrone del Calvario quattro parole, e per costui alcune lacrime bastarono ad espiare una vita d’iniquità. E perché no? La misericordia di Dio non è meno pronta della tentazione. Se un solo istante basta per cadere nel peccato mortale e perder l’anima la più santa, perché mai un istante non deve bastare a convertire il più gran peccatore? – Rassicurati da questa consolante certezza, passiamo dall’Oriente all’Occidente, dai secoli antichi a quelli più prossimi al nostro, e vedremo che la divina misericordia non invecchia, e che la sua azione non conosce ostacoli, e non si arresta a qualsiasi impedimento. Uno de’più gloriosi e più amabili nostri compatrioti, s. Odone, abate di Cluny, essendo un giorno in viaggio, s’incontrò in una banda di masnadieri. Alla vista del suo volto esprimente la bontà e serenità dell’animo suo, ed al suono della sua voce dolce al pari del miele, uno di quei ladri intenerito e compunto cade ai suoi piedi, e a bassa voce lo scongiura ad aver pietà di lui. – « Che vuoi, figlio mio? gii domanda l’uomo di Dio. — Voglio ritirarmi nel vostro Monastero, risponde il giovine masnadiere. —Conosci tu qualcuno in questo paese? Io son conosciuto da tutti i nobili e da tutti gli sfaccendati e libertini. » Da ciò appare che lo sciagurato appartenesse ad una distinta famiglia. « Va’ dunque, replicò il santo, e domani verrai a trovarmi accompagnato da uno dei notabili abitanti della contrada. » Egli fece quanto gli era stato comandato, e il domani si presenta al Monastero con uno dei più nobili abitanti. Rivoltosi a quel gentiluomo, Odone gli disse: « Conoscete voi questo giovine? Qual fu il tenore della sua vita, e quali sono i suoi costumi? — Io lo conosco, rispose quel signore, per un insigne brigante: Latronem imprimis insignem. — Figlio mio, disse allora il santo all’assassino, cambia condotta, e poi vieni, e sarai accolto nel monastero. — Padre mio, rispose il giovine, se tu oggi mi respingi, domani sarò perduto, e Dio ti domanderà conto dell’anima mia. » – Mosso a compassione il santo abate, consentì alla sua entrata nel monastero; ed egli, dopo le usate prove del noviziato, professò e fu dato a compagno del Cellerario con ordine di essergli subordinato ed obbediente in ogni cosa. E poiché non sapeva leggere gli fu forza di sostenere un doppio carico, imparare cioè a leggere e lavorare. Egli però si mostrò tanto animoso nel compiere l’uno e l’altro dovere, che con una mano aiutava il Cellerario e con l’altra teneva il Salterio. Ben tosto il Signore fu contento del suo fervore e lo chiamò a sé. – Vicino a morte, fece pregare il santo abate Odone di venire a visitarlo, volendo parlargli a solo. Venne il santo e gli disse: « Figlio mio, hai tu forse commesso qualche peccato dopo la tua professione religiosa? Sì, padre mio, rispose l’infermo, ho commesso un fallo. Senza la vostra permissione, ho dato la mia tonaca ad un povero che era nudo, e nel guardaroba ho presa una corda di crini. — E che ne hai fatto? Me ne cinsi i lombi per reprimere la voracità del mio appetito. » — Sorpreso e intenerito l’uomo di Dio, volle toglierli un sì duro legame; ma sciogliendolo e ritirandolo, con la putredine sen venne appresso la carne alla quale aderiva quel cinto. – Senza punto commuoversi, né lamentarsi, il moribondo si fece a dire: « Nella scorsa notte, Padre mio, mi vidi trasportato in sogno nel cielo. Incontro a me venne una Signora, sfolgorante di luce e di un’ammirabile maestà, ed appressatasi mi disse: Mi conosci tu? No, io risposi. Io sono, Ella soggiunse, la Madre della misericordia. Ed io le dissi: o Signora che mi comandate Voi? Ed Ella riprese a dire: Fra tre giorni, alla tal ora tu verrai qui. » Giunse infatti il giorno e l’ora indicata, ed il religioso morì, a contestare con certezza la verità della sua visione. E fu da quel momento che il beato Odone prese l’abitudine di chiamare la Beatissima Vergine, Madre della misericordia: Mater Misericordiæ. Una anche questa delle affettuose invocazioni a Maria, della quale dai più s’ignora l’origine prodigiosa. [Vit, S. Odon ap. Sur., t. VI.]

UN’ENCICLICA AL GIORNO TOGLIE IL MODERNISTA APOSTATA DI TORNO: “QUANTA CURA”

“QUANTA CURA”

ENCICLICA

DI PIO IX PONTEFICE MASSIMO

DATA ADDÌ VIII DICEMBRE MDCCCLXIV
del suo pontificato l’anno XIX

Leggendo la “Quanta Cura”, e di seguito il “Syllabo” degli errori, che pubblicheremo, a Dio piacendo, la prossima domenica, si ha un effetto strano, è come guardare in uno specchio d’acqua, un placido laghetto, nel quale si riflette un paesaggio alpino. Si vedono le nuvole che attraversano il cielo, le cime alte dei monti, gli alberi e la rigogliosa natura con tante specie vegetali, ma … tutto al contrario, tutto capovolto, ciò che è in alto, lo si vede in basso, ciò che è più alto, lo si vede ancor più in profondità. È la sovversione totale della dottrina modernista, ribaltata in toto rispetto alla Dottrina Cattolica. È come ascoltare un disco che gira al contrario, i suoni e le parole capovolte, la prima nota diventa l’ultima, l’ultima sillaba diventa la prima … una contro-sinfonia, una partitura tonale che diventa un dodecafonismo delirante … l’inversione totale!  Nella setta vaticana attuale tutto è capovolto: si proclama tutto ciò che si legge nell’Enciclica e nel Syllabo degli errori, salvo la premessa: si condanna! Qui invece si proclama, si promulga! La setta modernista vaticana ha così confezionato e ci propina fin dalle sue sorgenti, scaturite dal conciliabolo di fine secolo XX, il c.d. Vaticano II [si, … quello scomunicato latæ sententiæ già mezzo millennio prima dalla bolla “Exsecrabilis” di Papa Piccolomini], un contro-syllabo, come giustamente diceva uno degli antipapi attuali, un “illuminato” teologo [illuminato dal fuoco sinistro di lucifero evidentemente”]. Tutto è simile, ma invertito, come nel bel paesaggio alpino riflesso nelle acque del placido lago! E a parlarne in giro, .. solo un bimbo ormai ha il coraggio di dire: “… ma il re è nudo”, … però nessuno lo vuole dire per non vedersi additato come retrogrado, fondamentalista, antiprogressista, antiquato avversario della modernità! È come la Chiesa ribaltata, invertita, … come molti dei suoi falsi funzionari, ma la Chiesa non può essere invertita, ribaltata, ma “eclissata” sì, e se quella che appare non è la Chiesa, “ipso facto” è la sinagoga di satana! Così come, se la salvezza è sulle vette dei monti, sulle nubi, nel cielo, l’inversione è la perdizione nelle acque del lago, lo strapiombo nello stagno della dannazione, … lo comprende bene anche il bimbo di cui sopra. Solo i sapienti e gli “illuminati” teologi non lo comprendono, a meno che … non siano essi pure parte di un piano che mira a sovvertire tutta l’umanità chiamata al banchetto celeste, sprofondandola così non nel fresco lago alpino, ma nello stagno, … di fuoco, la dove sarà pianto e stridore di denti. È così lampante: sovvertire la divina dottrina, ribaltare i dogmi della fede Cattolica di sempre, impugnare la verità conosciuta, quella della Tradizione apostolica, resa nota dalle Sacre Scritture, applicata mediante il Magistero infallibile di Pietro e dei suoi successori ininterrotti fino alla fine dei tempi, sovvertire la Divina Rivelazione, rompere l’unità temporo-spaziale della “Chiesa di Cristo”, cos’è se non l’opera del “nemico” di Dio e degli uomini, del “signore dell’universo”, insediatosi al posto di Dio Uno e Trino, come  “abominio della desolazione” sui sacri altari a farsi adorare, il falsario ed omicida baphomet-lucifero servito dai suoi adepti, che oggi vediamo pure tra i vestiti di porpora, con talare nera, rossa, e finanche di bianco imbiancati … come i sepolcri di evangelica memoria?!? Le cose saranno ancor più chiare nel leggere il “Syllabo” di quelli che nella Chiesa Cattolica di sempre sono considerati errori dottrinali, eresie manifeste, mentre oggi sono la “costituzione modernista”, in auge presso gli apostati della setta vaticana usurpante. – In questa lettera Papa Mastai colpisce diversi bersagli … le false e perverse opinioni, tra cui la peggiore: “il naturalismo” di stampo gnostico-massonico, madre di tutte le eresie; e poi l’indifferenza religiosa, per cui anche le  religioni false e le sette scismatiche pseudo-cristiane portano alla salvezza, odierno cavallo di battaglia della setta massonico-modernista del Vaticano; l’idea totalmente falsa del “sociale governo” [quello che oggi governa tutte le nazioni un tempo cristiane], la libertà di coscienza e di culto, “idolo” di tutti i mezzi di informazione attuali, compresi i falsi sedicenti cristiani], …”libertà della perdizione” la chiama il Santo Padre, con la conseguente corruzione dei giovani, la profanazione del giorno del Signore, [oggi non se ne parla neanche più, tanto è radicata la barbara abitudine nei bruti, anche nei bruti in talare variopinta che anticipano le loro false e sacrileghe funzioni alla sera prima per poter permettere l’affluenza ai teatri, agli spettacoli indecenti, e ai centri commerciali … servi sciocchi di un padrone che li schiaccerà, appena logori o minimamente dissidenti, come luridi vermi!]; il clero [quello “vero” cattolico], privato di diritti civili, la disconoscenza dei diritti di Dio e della Regalità di Cristo nella società civile, l’usurpazione dei diritti e delle possessioni della Chiesa, il dominio delle sette e delle conventicole, mattoni della “sinagoga di satana”, etc. L’Enciclica si completa poi con il “Syllabo” degli errori, con i principali 80 errori dell’epoca segnalati da Sua Santità, di cui discuteremo ancora, così come vedremo in futuro altri “Syllabi”, ad es. di S. Pio X e di Pio XII. Ma non precorriamo i tempi, godiamoci ora questa lettera, “pietra miliare” del Magistero infallibile di tutti i tempi, certi di navigare in un’arca sicura, come quella di Noè, in mezzo al diluvio modernista che copre già i monti e sta raggiungendo le nubi oramai … “Quanta cura ac pastorali vigilantia Romani Pontifices …”

A tutti i venerabili fratelli
patriarhi, primati, arcivescovi e vescovi
che hanno la grazia e la comunione
della Sede Apostolica

PIO PAPA IX.

VENERABILI FRATELLI,
salute ed apostolica benedizione.

Con quanta cura e pastorale vigilanza i Romani Pontefici Predecessori Nostri, eseguendo l’ufficio loro commesso dal medesimo Cristo Signore nella persona del Beatissimo Pietro Principe degli Apostoli e il carico di pascere gli agnelli e le pecore, non mai abbiano tralasciato di nutrire diligentemente l’universale gregge del Signore con le parole della fede, e di imbeverlo della salutare dottrina, e di rimuoverlo dai pascoli attossicati, a tutti ed a Voi in ispecialità, o Venerabili Fratelli, è chiaro e manifesto. Ed in vero i predetti Nostri predecessori, dell’augusta Religione cattolica, della verità e della giustizia difensori e vindici, della salute delle anime sommamente solleciti, niente mai ebbero più a cuore quanto con le loro sapientissime Lettere e Costituzioni scoprire e condannare tutte le eresie e gli errori, i quali contrariando la divina nostra fede, la dottrina della Cattolica Chiesa, la onestà dei costumi e la eterna salute degli uomini, spesso eccitarono gravi tempeste, e funestarono in miserabile modo la cristiana e la civile repubblica. Per lo che i suddetti Predecessori Nostri con apostolica fortezza continuamente resistettero alle nefande macchinazioni di uomini iniqui, che schizzando come i flutti di procelloso mare la spuma delle loro fallacie, e promettendo libertà mentre che sono schiavi della corruzione, con le loro opinioni ingannevoli e con i loro scritti perniciosissimi, si sono sforzati di sconquassare le fondamenta della Cattolica Religione e della civile società, di levare di mezzo ogni virtù e giustizia, di depravare gli animi e le menti di tutti, di sviare dalla retta disciplina dei costumi gl’incauti, e massimamente la imperita gioventù, e di guastarla miseramente, di arreticarla nei lacci degli errori e per ultimo di strapparla dal seno della Chiesa Cattolica. – Intanto, siccome a Voi, Venerabili Fratelli, è ben noto, subito che per un arcano consiglio della divina Provvidenza, non certo per verun Nostro merito, fummo innalzati a questa Cattedra di Pietro, vedendo Noi con estremo dolore del Nostro animo la orribile procella sollevata da tante prave opinioni, e i gravissimi e non mai abbastanza lacrimabili danni che da tanti errori ridondano nel popolo cristiano, per ufficio dell’apostolico Nostro Ministero, seguendo le vestigia illustri dei Nostri Predecessori, alzammo la voce Nostra, e con parecchie Lettere Encicliche divulgate per la stampa e con le Allocuzioni tenute nel Concistoro e con altre apostoliche Lettere condannammo i principali errori della tristissima età nostra, e stimolammo la esimia vostra episcopale vigilanza, ed ammonimmo con ogni nostro potere ed esortammo tutti i figliuoli della Cattolica Chiesa a Noi carissimi, che avessero in sommo abominio la infezione di una peste così crudele, e la fuggissero. Specialmente poi con la Nostra prima Lettera enciclica dei 9 novembre dell’anno 1846 a Voi scritta, e con le due Allocuzioni, delle quali l’una fu tenuta da Noi nel Concistoro del dì 9 dicembre l’anno 1854, e l’altra in quello del dì 9 giugno l’anno 1862, condannammo le mostruose enormità dell’opinioni che segnatamente in questa nostra età dominano, con grandissimo danno delle anime e con detrimento della stessa civile società, le quali non pure avversano soprammodo la Chiesa cattolica e la salutare sua dottrina e i venerandi suoi diritti, ma altresì la sempiterna natural legge da Dio scolpita nei cuori di tutti e la retta ragione, e dalle quali presso che tutti gli altri errori traggono origine. – Ma quantunque non abbiamo lasciato di proscrivere spesso e di riprovare i più capitali errori di questa fatta, nulla di meno la causa della cattolica Chiesa, e la salute delle anime a Noi divinamente commessa, e il bene della stessa umana società riecheggiano al tutto che di nuovo eccitiamo la vostra pastorale sollecitudine a sconfiggere altre prave opinioni, che dai predetti errori scaturiscono come da fonte. Le quali false e perverse opinioni tanto più sono a detestarsi, quanto che mirano in ispecial guisa a fare che sia impedita e rimossa quella salutare forza che la Cattolica Chiesa, per istituzione e mandato del suo divino Autore, deve liberamente esercitare fino alla consumazione dei tempi, non meno verso i singoli uomini, che verso le nazioni, i popoli e i supremi lor Principi; e che sia tolta di mezzo quella mutua società e concordia di consigli tra il Sacerdozio e l’Impero, che sempre riuscì fausta e salutare alle cose tanto sacre come civili. Imperocché molto bene sapete, Venerabili Fratelli, che in questo tempo non pochi si trovano, i quali, applicando al civile consorzio l’empio ed assurdo principio del naturalismo, secondochè lo chiamano, osano insegnare «l’ottima ragione della pubblica società e il civile progresso richiedere che la società umana si costituisca e si governi senza aver nessun riguardo alla Religione, come se ella non esistesse, o almeno senza fare alcun divario tra la vera e le false religioni». E contro la dottrina delle sacre Lettere, della Chiesa e dei santi Padri, non dubitano di asserire «ottima essere la condizione della società, nella quale non si riconosce nell’Impero il debito di reprimere con pene stabilite i violatori della Cattolica Religione, se non in quanto lo domanda la pubblica pace.» Con la quale idea di sociale Governo, assolutamente falsa, non temono di caldeggiare l’opinione sommamente ruinosa per la Cattolica Chiesa e per la salute delle anime, dal Nostro Predecessore Gregorio XVI di venerata memoria chiamata delirio, cioè «la libertà di coscienza e dei culti essere un diritto proprio di ciascun uomo, che si ha da proclamare e stabilire per legge in ogni ben costituita società, ed i cittadini avere diritto ad una totale libertà che non deve essere ristretta da nessuna autorità o ecclesiastica o civile, in virtù della quale possano palesemente e pubblicamente manifestare e dichiarare i loro concetti quali che si sieno, ossia con la voce, ossia coi tipi, ossia in altra maniera.» E mentre ciò temerariamente affermano, non pensano e non considerano che essi predicano la libertà della perdizione, e che «se alla umana persuasione sempre sia libero il disputare, non mai potranno mancar quelli che ardiscono resistere alla verità, e confidare nella loquacità dell’umana sapienza, mentre quanto la cristiana fede e sapienza debba evitare questa nocevolissima vanità, lo conosce dalla stessa istituzione del Signor Nostro Gesù Cristo.» – E poiché dove dalla civile società sia stata rimossa la Religione, e ripudiata la dottrina e l’autorità della divina Rivelazione, anche lo stesso germano concetto della giustizia e dell’umano diritto si copre di tenebre e si perde, ed in luogo della giustizia vera e del diritto legittimo si sostituisce la forza materiale, quindi si fa chiaro il perché alcuni, spregiando affatto e nulla valutando i principii certissimi della sana ragione, ardiscano proclamare «la volontà del popolo, manifestata per l’opinione, pubblica come essi dicono, o per altra guisa, costituire una sovrana legge, sciolta da qualunque divino ed umano diritto, e nell’ordine politico i fatti consumati, per ciò stesso che sono consumati, avere vigor di diritto.» Ma e chi non vede e non sente pienamente, che una società d’uomini sciolta dai vincoli della religione e della vera giustizia, niun altro proposito può certamente avere, fuorché lo scopo di acquistare e di accumulare ricchezze, e niun’altra legge nelle sue operazioni seguire, fuorché una indomita cupidigia di servire alle proprie voluttà e comodità? Per questo codesti uomini, con odio veramente acerbo, perseguitano le Religiose Famiglie, comeché benemerite al sommo della cosa cristiana, civile e letteraria, e vanno dicendo che elleno non hanno alcuna ragione di esistere, e con ciò fanno plauso ai trovati degli eretici. Perocchè, come sapientissimamente insegnava Pio VI, nostro Predecessore di venerata memoria, «l’abolizione dei regolari lede lo stato di pubblica professione dei consigli evangelici, lede una maniera di vita commendata nella Chiesa siccome consentanea all’apostolica dottrina, lede gli stessi insigni fondatori che veneriamo sopra gli altari, i quali, non ispirati che da Dio, stabilirono queste società». Ed affermano altresì empiamente doversi togliere ai cittadini ed alla Chiesa la facoltà «di potere pubblicamente erogare limosine per motivo di cristiana carità», e doversi abolire la legge «che per ragione del culto divino proibisce le opere servili in certi determinati giorni», pretessendo con somma fallacia che quella facoltà e legge contrastano coi principii dell’ottima economia pubblica. Né contenti di allontanare la Religione dalla pubblica società, vogliono rimuoverla eziandio dalle private famiglie. Imperoché, insegnando e professando il funestissimo errore del Comunismo e Socialismo, dicono che «la società domestica o la famiglia riceve dal solo diritto civile ogni ragione di sua esistenza; e che però dalla sola legge civile procedono e dipendono tutti i diritti dei parenti sui figli, massimamente quello di procurare la loro istituzione ed educazione». Colle quali empie opinioni e macchinazioni cotesti fallacissimi uomini intendono principalmente di eliminare dalla istituzione ed educazione la dottrina salutifera e la forza della Cattolica Chiesa, acciocché i teneri e flessibili animi dei giovani vengano miseramente infetti e depravati da ogni fatta di errori perniciosi e di vizii. Conciossiachè tutti quelli, i quali si sono sforzati di perturbare le cose sacre e le civili, e sovvertire il retto ordine della società e cancellare tutti i diritti divini ed umani, rivolsero sempre i loro disegni, studii e conati ad ingannare specialmente e corrompere l’improvvida gioventù, come sopra accennammo, e nella corruttela della medesima riposero ogni loro speranza. Per la qual cosa non cessano mai con modi d’ogni guisa nefandi di vessare l’uno e l’altro Clero, da cui, come splendidamente viene attestato dai certissimi monumenti della storia, tanti gran vantaggi derivarono nella cristiana, civile e letteraria repubblica; e spargono che «esso Clero, come nemico del vero e utile progresso della scienza e della civiltà, deve esser rimosso da ogni ingerenza ed esercizio nella istituzione ed educazione dei giovani.» – Altri poi, rinnovando le prave e tante volte condannate invenzioni dei novatori, ardiscono con insigne impudenza di sottomettere all’arbitrio dell’autorità civile la suprema autorità della Chiesa e di questa Sede apostolica, a lei comunicata da Cristo Signore; e negare ad essa Chiesa e ad essa Sede tutti i diritti che ella ha intorno alle cose che appartengono all’ordine esteriore. Perciocchè costoro non si vergognano di affermare che «le leggi della Chiesa non obbligano in coscienza, se non quando vengono promulgate dalla potestà civile; che gli atti e decreti dei Romani Pontefici, spettanti alla Religione e alla Chiesa, hanno bisogno della sanzione e dell’approvazione, o almeno dell’assenso del potere civile; che le Costituzioni apostoliche, colle quali son condannate le clandestine associazioni, sia che in esse si esiga, sia che non si esiga il giuramento di mantenere il segreto, e con le quali son fulminati di anatema i loro seguaci e fautori, non hanno vigore in quelle contrade dove siffatte associazioni si tollerano dal civile governo; che la scomunica inflitta dal Concilio di Trento e dai Romani Pontefici a coloro i quali invadono ed usurpano i diritti e le possessioni della Chiesa, si appoggia alla confusione dell’ordine spirituale col civile e politico, per promuovere il solo bene mondano; che la Chiesa non deve niente decretare, che possa astringere le coscienze dei fedeli, in ordine all’uso delle cose temporali; che alla Chiesa non compete [p. 12]il diritto di raffrenare con pene temporali i violatori delle sue leggi; che sia conforme alla sacra teologia ed ai principii del diritto pubblico ascrivere e vendicare al governo civile la proprietà dei beni che si posseggono dalle Chiese, dalle Famiglie Religiose e dagli altri luoghi pii». Né arrossiscono di apertamente e pubblicamente professare il pronunciato ed il principio degli eretici, da cui nascono tante perverse sentenze ed errori, che cioè «la potestà ecclesiastica non sia per diritto divino distinta ed indipendente dallo potestà civile, e che questa distinzione ed indipendenza non possa mantenersi senza essere invasi ed usurpati dalla Chiesa i diritti essenziali di essa civil potestà». Né possiamo passare sotto silenzio l’audacia di quelli, i quali, intolleranti della sana dottrina, contendono che si possa, senza peccato e iattura della professione cattolica, negare l’assenso e l’obbedienza a quei decreti e giudizii della Sede apostolica, l’obbietto dei quali si dichiara che riguarda il bene generale della Chiesa e i suoi diritti e la sua disciplina; purché essi non tocchino i dommi della fede e dei costumi». Il che quanto grandemente si opponga al domma cattolico della piena potestà del Romano Pontefice, divinamente conferitagli dallo stesso Cristo Signore, in ordine a pascere e reggere e governare la Chiesa universale, non è chi apertamente e chiaramente non veda ed intenda. Noi dunque, in tanta perversità di depravate opinioni, ben ricordevoli del Nostro apostolico ufficio e massimamente solleciti della santissima nostra religione, della sana dottrina e della salute delle anime, a noi commesse da Dio, e del bene della stessa umana società, stimammo dover nuovamente elevare la Nostra apostolica voce. Pertanto, tutte e singole le prave opinioni e dottrine, nominatamente espresse in queste Lettere, colla Nostra [p. 13]autorità apostolica riproviamo, proscriviamo e condanniamo; e vogliamo e comandiamo che esse siano da tutti i figliuoli della cattolica Chiesa tenute per riprovate, proscritte e condannate. – Ma, oltre di queste, Voi ottimamente sapete, o Venerabili Fratelli, che nel presente tempo altre ancora di ogni genere empie dottrine vengono disseminate dagli odiatori di ogni verità e dottrina in pestiferi libri, libelli e giornali, sparsi per tutto il mondo, coi quali essi illudono i popoli e maliziosamente mentiscono. Né ignorate come anche in questa nostra età si trovino di quelli che, mossi ed incitati dallo spirito di Satana, pervennero a tanta empietà da non paventar di negare con scellerata procacia lo stesso Dominatore e Signor nostro Gesù Cristo ed impugnare la sua divinità. E qui non possiamo astenerci dal commendare con massime e meritate lodi Voi, o Venerabili Fratelli, i quali in nessun modo tralasciaste di elevare con tutto zelo la vostra voce episcopale contro tanta nequizia. – Pertanto, con queste Nostre Lettere ritorniamo a volgere con tutto amore il nostro discorso a Voi, che, chiamati a parte della nostra sollecitudine, ci siete di sommo conforto, allegrezza e consolazione, in mezzo alle massime Nostre angosce, per l’egregia religione e pietà onde siete segnalati, e per quel meraviglioso amore, fedeltà ed osservanza, onde, stretti a Noi ed a quest’apostolica Sede con cuori concordissimi, vi sforzate di adempiere strenuamente e diligentemente al vostro gravissimo ministero episcopale. Ed in verità dall’esimio vostro zelo pastorale Ci aspettiamo che, assumendo la spada dello spirito che è la parola di Dio, e confortati nella grazia del Signor Nostro Gesù Cristo, vogliate con rinforzate cure ogni giorno più provvedere che i fedeli commessi alla vostra sollecitudine «si astengano dalle erbe nocive che Gesù Cristo non coltiva perché non sono piantagione del Padre». Né mancate d’inculcar sempre agli stessi fedeli che ogni vera felicità ridonda negli uomini dall’augusta nostra Religione e dalla sua dottrina e pratica, e beato essere quel popolo il cui Signore è il suo Dio. Insegnate «che sul fondamento della fede cattolica sussistono i regni, e nulla è sì mortifero, sì vicino al precipizio, sì esposto a tutti i pericoli, come il credere che questo solo ci possa bastare, di avere cioè ricevuto, quando nascemmo, il libero arbitrio, e non domandare più altro al Signore; questo è dimenticare il nostro fattore, ed abiurare, per mostrarci liberi, la sua potenza». Né lasciate parimente d’insegnare «che la reale podestà non fu data solamente pel reggimento del mondo, bensì massimamente per il presidio della Chiesa; e nulla vi è che ai Principi e ai Re possa recare maggior profitto e gloria, quanto, siccome un altro sapientissimo e fortissimo Nostro Predecessore S. Felice inculcava a Zenone imperatore, il lasciare che la Chiesa Cattolica… si serva delle sue leggi, e il non permettere che alcuno si opponga alla sua libertà… Giacché è certo che sarà loro utile che, quando si tratta della causa di Dio, si studino, secondo la legge sua, non di anteporre ma di sottoporre la regia volontà ai sacerdoti di Cristo». – Ma se fu sempre necessario, o Venerabili Fratelli, ora specialmente, in mezzo di sì grandi calamità della Chiesa e della società civile, in tanta cospirazione di avversarii contro il Cattolicismo e questa Sede Apostolica, e fra sì gran cumulo di errori, è assolutamente indispensabile che ricorriamo con fiducia al Trono della grazia per ottenere misericordia e trovar grazia con aiuto opportuno. Perciò giudicammo di eccitare la devozione di tutti i fedeli, affinché insieme con Noi e con Voi, con ferventissime ed umilissime preci preghino e supplichino senza intermissione il clementissimo Padre dei lumi e delle misericordie; e nella pienezza della fede sempre ricorrano al Signor Nostro Gesù Cristo, che ci redense a Dio nel Sangue suo; e il suo dolcissimo Cuore, vittima della sua ardentissima carità verso di Noi, caldamente e continuamente implorino perché coi vincoli del suo amore tutto tiri a se stesso, e tutti gli uomini infiammati del suo santissimo amore camminino rettamente secondo il Cuor suo, in tutto piacendo a Dio, e fruttificando in ogni buona opera. Ed essendo, senza dubbio, più grate a Dio le preghiere degli uomini, se questi a lui ricorrano coll’animo mondo da ogni macchia, perciò credemmo di aprire con apostolica liberalità i celesti tesori della Chiesa commessi alla dispensazione Nostra, perché gli stessi fedeli più caldamente accesi alla vera pietà e lavati dalle macchie dei peccati nel Sacramento della Penitenza, con più fiducia volgano a Dio le loro preghiere e conseguano la sua grazia e misericordia. – Dunque con queste Lettere, coll’autorità Nostra apostolica, a tutti e singoli i fedeli del mondo cattolico di ambo i sessi concediamo l’Indulgenza plenaria in forma di Giubileo per lo spazio solamente di un mese, fino a tutto il futuro anno 1865, e non più oltre, da stabilirsi da Voi, Venerabili Fratelli, e dagli altri legittimi Ordinarii, nello stesso modo e forma in cui al principio del Sommo Nostro Pontificato lo concedemmo colle apostoliche Nostre Lettere in forma di Breve del giorno 20 di novembre dell’anno 1846, e mandate a tutto il vostro Ordine episcopale, le quali cominciano Arcano divinæ Providentiæ consilio, e con tutte le stesse facoltà, che colle dette Lettere da Noi furono concesse. Vogliamo però che si osservino tutte quelle cose che sono prescritte nelle dette Lettere, e quelle si eccettuino che dichiarammo essere eccettuate. E ciò concediamo, non ostanti le cose contrarie qualunque siano, ancorché degne di speciale ed individua menzione e derogazione. E perchè sia tolto ogni dubbio e difficoltà, abbiamo disposto che vi si mandi copia delle stesse Lettere. – «Preghiamo, Venerabili Fratelli, dall’intimo del cuore e con tutta l’anima, la misericordia di Dio, perché Egli stesso disse: La mia misericordia non disperderò da loro. Domandiamo e riceveremo; e se vi sarà dimora e tardanza nel ricevere, poiché gravemente peccammo, battiamo, perché a chi batte verrà aperto, purché alla porta si batta con le preghiere, coi gemiti e con le lacrime nostre, colle quali bisogna insistere e durare; e se sia unanime la nostra orazione… ciascuno preghi Dio non per sé solamente, ma per tutti i fratelli, siccome il Signore ci insegnò a pregare». E perché il Signore più facilmente si pieghi alle Nostre e Vostre preghiere e di tutti i fedeli, con ogni fiducia adoperiamo presso di Lui come interceditrice l’Immacolata e Santissima Vergine Maria, Madre di Dio, la quale uccise tutte le eresie nell’universo mondo, e Madre amantissima di tutti noi «è tutta soave… e piena di misericordia… a tutti si offre esorabile, a tutti clementissima; e con un certo ampissimo affetto ha compassione delle necessità di tutti», e come Regina stante alla destra dell’Unigenito Figliuolo suo il Signor Nostro Gesù Cristo in manto d’oro, e circonvestita di varietà, nulla è che da Lui non possa impetrare. Domandiamo ancora l’aiuto del Beatissimo Pietro Principe degli Apostoli e del suo Coapostolo Paolo e di tutti i Santi che fatti già amici di Dio pervennero al celeste regno, e coronati posseggono la palma, e sicuri della loro immortalità sono solleciti della nostra salute. [p. 17]. – Infine, pregando con tutto l’animo da Dio sopra di Voi l’abbondanza di tutti i doni celesti, come pegno della singolare Nostra benevolenza verso di Voi, con ogni amore impartiamo l’apostolica Benedizione, che viene dall’intimo del Nostro cuore, a Voi stessi, Venerabili Fratelli, ed a tutti i Chierici e Laici Fedeli commessi alle vostre cure.

Dato da Roma, presso S. Pietro, il giorno 8 di dicembre dell’anno MDCCCLXIV, decimo dopo la dommatica Definizione dell’Immacolata Concezione della Vergine Maria Madre di Dio.

Del Pontificato Nostro l’anno decimonono.

PIO PAPA NONO.

DOMENICA XX dopo PENTECOSTE

Incipit
In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Dan III:31; 31:29; 31:35
Omnia, quæ fecísti nobis, Dómine, in vero judício fecísti, quia peccávimus tibi et mandátis tuis non obœdívimus: sed da glóriam nómini tuo, et fac nobíscum secúndum multitúdinem misericórdiæ tuæ. [In  tutto quello che ci hai fatto, o Signore, hai agito con vera giustizia, perché noi peccammo contro di Te e non obbedimmo ai tuoi comandamenti: ma Tu dà gloria al tuo nome e fai a noi secondo l’immensità della tua misericordia.]
Ps CXVIII:1
Beáti immaculáti in via: qui ámbulant in lege Dómini.
[Beati gli uomini di condotta íntegra: che procedono secondo la legge del Signore.]

Omnia, quæ fecísti nobis, Dómine, in vero judício fecísti, quia peccávimus tibi et mandátis tuis non oboedívimus: sed da glóriam nómini tuo, et fac nobíscum secúndum multitúdinem misericórdiæ tuæ. [In  tutto quello che ci hai fatto, o Signore, hai agito con vera giustizia, perché noi peccammo contro di Te e non obbedimmo ai tuoi comandamenti: ma Tu dà gloria al tuo nome e fai a noi secondo l’immensità della tua misericordia.]

Oratio

Orémus.
Largíre, quǽsumus, Dómine, fidélibus tuis indulgéntiam placátus et pacem: ut páriter ab ómnibus mundéntur offénsis, et secúra tibi mente desérviant.
[Largisci placato, Te ne preghiamo, o Signore, il perdono e la pace ai tuoi fedeli: affinché siano mondati da tutti i peccati e Ti servano con tranquilla coscienza.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Ephésios.
Ephes V:15-21
Fratres: Vidéte, quómodo caute ambulétis: non quasi insipiéntes, sed ut sapiéntes, rediméntes tempus, quóniam dies mali sunt. Proptérea nolíte fíeri imprudéntes, sed intellegéntes, quae sit volúntas Dei. Et nolíte inebriári vino, in quo est luxúria: sed implémini Spíritu Sancto, loquéntes vobismetípsis in psalmis et hymnis et cánticis spirituálibus, cantántes et psalléntes in córdibus vestris Dómino: grátias agéntes semper pro ómnibus, in nómine Dómini nostri Jesu Christi, Deo et Patri. Subjecti ínvicem in timóre Christi.

Omelia I

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV – Omelia XV.– Torino 1899]

 “Badate adunque, o fratelli, come procediate circospetti, non da stolti, ma come saggi, ricomperando il tempo, perché corrono giorni tristi. Il perché non siate imprudenti, ma studiatevi di conoscere qual sia la volontà del Signore. Non vi inebriate di vino, nel quale è dissolutezza, ma riempitevi di Spirito Santo, parlando a voi stessi con salmi ed inni e cantici spirituali, cantando e salmeggiando nei vostri cuori al Signore; rendendo grazie del continuo, per ogni cosa al Dio e Padre, nel nome del nostro Signore Gesù Cristo, sottomettendovi gli uni agli altri nel timore di Cristo „ (Agli Efesini, V, 15-21).

La Chiesa in questa Domenica ci chiama nuovamente a meditare alcune sentenze della lettera di S. Paolo, scritta ai fedeli di Efeso. Io non so quante volte, lungo l’anno, ci si proponga a considerare qualche tratto di questa lettera, ma certo sono moltissime, benché la lettera sia tra le più brevi, e ciò a ragione. Nell’ultima parte di questa lettera l’Apostolo ha condensato tante e sì mirabili massime di morale evangelica, che nulla di meglio; è una miniera ricchissima di verità pratiche, che tornano acconce ad ogni stato e ad ogni classe di persone. Era dunque ben naturale che la Chiesa ci conducesse frequentemente in questa miniera, e ci invitasse a cavarne l’oro purissimo delle più sante verità. Io mi studierò di aprirvi questa miniera, di scavarvi l’oro delle verità che vi si nascondono, sceverarlo dalla terra e dalla scoria che lo copre, e voi studiatevi di riceverlo e custodirlo gelosamente. – Nei versetti precedenti, S. Paolo, sull’esempio di Cristo, ha caldamente esortato i fedeli a guardarsi da ogni cupidigia, a non lasciarsi sedurre, a separarsi, essi, figli della luce, dai figli delle tenebre e a rendere frutti a Cristo, ruggendo e riprendendo le male opere, ch’egli chiama opere di tenebre, e, continuando sempre il suo metodo, che è quello d’indicare il male da fuggire e poi suggerire il bene da praticare, per via di sentenze concise e chiarissime, dice: ” Badate, fratelli, come procediate circospetti. „ La nostra vita è un cammino, che comincia dalla culla e termina sull’orlo della tomba; è un cammino alcuna volta piano e netto, più spesso ripido, seminato di sterpi e di spine, infestato da ladroni e assassini, costeggiato da dirupi e precipizi; le insidie e i pericoli sono senza numero. Per correre questo cammino sì aspro e sì pieno di lacci, senza cadere, si richiede aver sempre l’occhio aperto, e badar bene dove mettiamo il piede, affine di non inciampare: “Videte quomodo caute ambuletis — Badate come procediate circospetti. „ Sicuramente i nemici interni ed esterni e la naturale nostra debolezza ci creano tante difficoltà e pericoli, che è assai difficile non cadere; ma che sarà poi se cammineremo senza cautela e quasi a caso? Se noi terremo sempre gli occhi sopra noi stessi, se veglieremo sui nostri pensieri e sui nostri affetti; se peseremo le nostre parole e porremo ben mente ad ogni nostro atto; se staremo in guardia quanto alle compagnie, alle amicizie, alle letture, insomma a tutto ciò che ne circonda, noi eviteremo moltissime colpe e acquisteremo la perfetta signoria sopra noi stessi, e opereremo non da stolti, ma sì da prudenti, come vuole l’Apostolo: Videte quomodo caute ambuletis, non quasi insipientes. – Allorché una cosa ci sta molto a cuore, noi la ripetiamo, e S. Paolo ripete qui la sua raccomandazione, cioè di camminare od operare circospetti, non da stolti, ma da saggi, sed ut sapiente», dove la parola saggi è il contrapposto di stolti, ed è la ripetizione di circospetti. Questa circospezione e saggezza, sì efficacemente inculcata dall’Apostolo, deve manifestarsi in particolar modo in una cosa, che tosto si accenna. Uditela: ” Redimentes tempus — Ricomperando il tempo. „ Il cielo è una mercede, che si dà soltanto a chi lavora: è la mietitura, che si fa soltanto da chi ha seminato. Ma dove si lavora? dove si semina? Qui sulla terra! Quando si lavora e quando si semina? In questa giornata della vita presente, nel tempo. Allorché cala la notte, e le tenebre coprono la faccia della terra, nessuno può lavorare, e allora comincia il riposo. Similmente allorché la morte stende sopra di noi il nero suo velo, si chiude lo stadio del tempo e comincia la eternità interminabile, non possiamo più lavorare, e cessa il periodo di vita, in cui possiamo meritare. Ora può accadere (e troppo frequentemente accade) che molti si trovino già presso alle porte della eternità, sul finire della vita, dopo avere malamente sciupato il loro tempo e con le mani quasi vuote di meriti. Costoro che devono fare se hanno senno? Ciò che fa il viaggiatore, il quale, avendo perduto gran parte del suo tempo in discorsi inutili e in sonno non necessario, studia il passo e procura di riguadagnare il tempo inutilmente speso. Gli Efesini, ai quali l’Apostolo scriveva, per la maggior parte dovevano essere stati Gentili, ed erano entrati nella Chiesa già molto innanzi negli anni. Il tempo per loro perduto nella idolatria e nelle brutture del paganesimo era molto: quello che rimaneva era breve. Qual cosa più naturale quanto l’esortarli ad affrettarsi, e con la frequenza e col fervore delle buone opere ricuperare il tempo perduto, e così in qualche modo mettersi a pari con quelli che avevano speso santamente tutta la loro vita? – Dilettissimi! Uno sguardo alla nostra vita. Ben è vero che noi abbiamo ricevuta la fede col santo Battesimo prima ancora che ne potessimo avere coscienza; ma (siamo sinceri) nella nostra vita qua e là non vi sono molti intervalli, e fors’anche lunghi, nei quali ci arrestammo sulla via e facemmo getto d’un tempo prezioso? Non è egli vero che vivemmo mesi e mesi (e a Dio non piaccia), anni e lustri in peccato? Quello, o cari, è tutto tempo miseramente perduto per il cielo, e Dio stesso nella sua onnipotenza non potrebbe fare che non sia perduto. Eppure possiamo ripararne la perdita, non già col far sì che ritorni il tempo perduto, ma col far uso migliore di quello che ci resta, simili all’operaio, che nelle due ultime ore del giorno può fornire il lavoro che altri fornisce appena in quattro. È questo il ricomperare il tempo, che S. Paolo predica agli Efesini. E perché avessero nuovo e più forte sprone a ricomprare ciò che per negligenza avevano perduto, l’Apostolo aggiunge una ragione speciale, dicendo: ” Perché ì tempi volgono tristi Quoniam dies mali sunt. „ I tempi tutti sono cattivi, perché brevi per ciascun uomo, incerti, pieni di lotte, di pericoli, di tentazioni, di dolori, di mali d’ogni guisa; è vero, essi hanno anche la loro porzione di beni, che si alternano; ma la misura dei mali quasi sempre soverchia quella dei beni. I tempi poi, nei quali l’Apostolo scriveva la sua lettera, erano miserrimi sopra tutti: persecuzioni sanguinose, tirannie, delle quali non abbiamo nemmeno l’idea; basti sapere che imperava Nerone; corruzione spaventosa, schiavitù, ignoranza dei primi principi della morale, guerre atrocissime e continue. Aveva ben dunque ragione S. Paolo di esclamare: ” I tempi corrono tristi! „ Quale la conseguenza? L’ha detto sopra: quella di usare a bene di tempi sì cattivi. Come? Soffrendo con pazienza, con costanza e con rassegnazione tanti mali, e così volgendo in guadagno pel cielo le calamità della terra. — ” In questo, continua l’Apostolo, voi mostrerete il vostro senno — Propterea nolite fieri imprudente» — se farete di conoscere qual sia la volontà del Signore — Intelligentes quæ voluntas Dei.  I mali che ci travagliano, così sembra ragionare il nostro Apostolo, sono grandi, e i tempi sono infelici; io vi dico di farne tesoro e con il soffrirli generosamente, riguadagnare quelli malamente perduti. Ma voi direte: Questi mali, che si aggravano sopra di noi, vengono dalla malizia degli uomini. No, risponde Paolo: se avrete la vera sapienza dei figli di Dio, comprenderete che è Dio quegli che così vuole. Come ciò? domanderete voi. Ve lo spiego. Tutto ciò che accade sulla terra è voluto da Dio o da Lui permesso: ciò che è bene è certamente voluto da Dio, che è la stessa bontà, e non è mestieri provarlo; ciò che non è bene, ma è male, e al male conduce, non è voluto da Dio, ma da Dio permesso e tollerato. E poiché è cosa manifesta che Dio potrebbe, nella sua onnipotenza, impedire il male, ne segue che se avviene, avviene perché lo permette, e lo permette perché anch’esso entra nei grandi disegni della sua sapienza e della sua misericordia. Lo permette per farci conoscere e sentire la nostra debolezza, per fiaccare il nostro orgoglio, per obbligarci a levare a Lui supplichevoli le nostre mani e invocare il suo aiuto, per staccarci dall’amore di questo mondo, per darci modo di esercitare la pazienza, la carità, la prudenza, la fortezza, per acquistare meriti, per renderci simili al Figliuol suo, fatto uomo, Gesù Cristo. Allorché dunque i mali della vita presente si addensano sopra di te, o fratel mio, e ti senti per poco schiacciato, non lagnarti, non far ingiuria a Dio e alla sua provvidenza, dicendo: Perché mi abbandonate, o Signore? Nei mali che ti opprimono, e in quelli che ne sono strumenti e ministri, vedi la mano paterna di Dio, che opera o che lascia fare, e sappi che tutto è volto a tuo bene. Non fermare l’occhio sulla mano del tristo che ti percuote, ma in Dio, che potendo arrestare questa mano, la lascia percuotere. L’infermo che geme e si dimena dolorosamente sotto il ferro del chirurgo, che recide il membro cancrenoso, non si sdegna col medico pietosamente crudele, ma lo ringrazia. Ecco ciò che voleva insegnare l’Apostolo allorché esclamava: “Sono giorni tristi, ma non vogliamo essere dissennati, anzi riconosciamo che anch’essi sono voluti da Dio, e volgiamoli a nostro vantaggio. „ – S. Paolo, continuando la sua esortazione morale, scrive: ” Non vi inebriate di vino, nel quale è dissolutezza — Nolite inebriavi vino, in quo est luxuria. „ Ubriachezza! Questa parola sì brutta e sì vergognosa per l’uomo ragionevole, e più brutta e più vergognosa assai per il Cristiano, come quella di lussuria, non si dovrebbe nemmeno pronunciare. Eppure più volte comparisce sotto la penna del grande Apostolo! “Non vi ubriacate. — Gli ubriachi non possederanno il regno dei cieli. — L’uno ha fame e l’altro è ubriaco. „ Sono sentenze dell’Apostolo, e provano come anche nei primi giorni della Chiesa, tra gli stessi discepoli degli Apostoli, il turpissimo vizio della ubriachezza non fosse ignoto. E ai nostri giorni, o carissimi? Che avviene sotto i nostri occhi? Qual vituperoso spettacolo vediamo noi quasi ogni giorno, e particolarmente nei giorni consacrati a Dio? Uomini, giovani, vecchi, e perfino talvolta donne, avvinazzati per le vie, barcollanti, schiamazzanti, presentare in se stessi il miserando spettacolo del più schifoso degradamento morale! Genitori ubriachi e i bambini senza pane, coperti di luridi cenci, piangenti per la fame e per il freddo! E sono uomini, e sono cristiani costoro? L’ubriachezza toglie all’uomo ciò che lo differenza dalla bestia: la ragione. Vedetelo, il miserabile, mal reggersi in piedi, barcollare e cadere! La lingua va articolando parole e accenti che nessuno intende; guarda e non vede; or ride stupidamente ed or minaccia; or prega ed ora insulta e bestemmia; attacca brighe con tutti, provoca risse e peggio, oggetto di compatimento e di orrore, di scherno e di disprezzo, disonore della famiglia, tormentatore di chi è costretto a vivere con lui, scialacquatore, distruggitore d’ogni cosa, finisce anzi tempo una vita di scandalo; eccovi l’ubriaco! – Ma l’Apostolo, in questo luogo, da conoscitore profondo della natura umana, col vizio detestabile dell’ubriachezza ne congiunge un altro come conseguenza naturale, ed è la dissolutezza: ” Non vi ubriacate di vino, nel quale è dissolutezza — In quo est luxuria. „ Dissolutezza e ubriachezza sono inseparabili; lo videro gli stessi pagani, e ne sono autorevolissimi testimoni Cicerone, Seneca ed altri. Ma noi non abbiamo bisogno dell’autorità di sapienti pagani; udite S. Girolamo: “Dove è intemperanza e ubriachezza, ivi signoreggia la libidine… Io non riputerò giammai casto l’ubriaco… Dica chiunque ciò che vuole, io parlo secondo la mia coscienza: io so che a me fece danno l’interrompere l’astinenza, e mi giovò il ripigliarla.” (Ep. Tit.) — L’ubriachezza è propria dei buffoni e dei mangiatori, ed un ventre pieno di vino ci lascia veder tosto la spuma della libidine. „ Bando adunque, o cari, all’intemperanza, bando all’ubriachezza che ci fa meno che uomini, che è il flagello della famiglia e della società: Nolite inebriari vino, in quo est luxuria. – Non è pago l’Apostolo di ciò che ha detto per tenere lontani i suoi cari dal vizio detestabile dell’ubriachezza: dopo il vizio da fuggire, suggerisce il bene da fare, come è suo costume: “Non inebriatevi di vino, ma siate ripieni di Spirito Santo — Sed implemini Spiritu Sancto. „ Cioè fate in modo che la grazia di Dio, che è il dono per eccellenza dello Spirito Santo, riempia le vostre menti e i vostri cuori e ridondi anche nei vostri corpi. Il vino riscalda i corpi, esalta gli spiriti, annebbia la ragione, porta l’uomo ai piaceri sensuali, lo fa simile ai bruti; la grazia divina riempie l’anima d’un fuoco puro e sacro, la eleva sopra se stessa, rischiara la sua mente, le fa gustare le caste delizie del cielo, la fa simile agli Angeli. Ecco il vino sacro, di cui potete inebriarvi: Implemini Spiritu Sancto. E quando sarete ripieni di questo vino sacro della grazia divina, le vostre anime gioiranno, i vostri cuori esulteranno, sarete inondati d’una santa letizia, e sentirete il bisogno di sfogarla tra voi stessi e nelle vostre radunanze, “cantando salmi ed inni e cantici spirituali, salmeggiando nei vostri cuori al Signore. „ – Allorché l’uomo è compreso da sublimi verità, da gagliardi sentimenti umani, e più ancora se divini, sente il bisogno irresistibile di sfogarli col canto e con la musica: il canto e la musica sono naturali all’uomo, come lo sono il pianto ed il riso (S. Girolamo distingue gli inni e i salmi e i cantici, e dice, che negli inni si celebrano la grandezza, la bontà e le perfezioni di Dio, e mette nel numero degli inni quei salmi, ai quali è premesso o aggiunto l’alleluja: i salmi, secondo lui, sono quelli che si riferiscono alla morale; i cantici poi celebrano le bellezze e le armonie dell’universo). Il canto è uno sfogo naturale degli affetti interni, e in pari tempo giova mirabilmente ad alimentarli ed a crescerli. S. Agostino narra, che allorquando, dopo la sua conversione, entrava in chiesa e udiva il popolo cantare a pieno coro i salmi, si sentiva tutto commuovere e versava copiose lacrime. E chi di noi non si sente fortemente commosso e intenerito allorché ode la gran voce del popolo, che canta le litanie della Vergine, il Miserere od il Pange lingua? S. Paolo esortava i suoi cari Efesini ad innalzare a Dio inni e salmi e cantici spirituali: e perché non faremo altrettanto noi pure? E qui un mesto pensiero, o carissimi, si affaccia alla mia mente. Alle nostre orecchie giungono, e spessissimo, i cantici degli operai nelle loro officine e lungo le vie, e dei contadini sparsi pei campi. Che canti son questi? Ah! certo non sono cantici spirituali, come li voleva S. Paolo: Canticis spiritualibus — ; non sono le lodi di Dio o della Vergine benedetta; sono cantici profani, forse liberi, fors’anche osceni che rivelano un cuore abbietto o corrotto, che accendono e dilatano una fiamma impura. Che le vostre labbra non si imbrattino mai di queste canzoni, che, come e forse più dei discorsi cattivi, corrompono i costumi: Corrumpunt bonos mores colloquia prava. Come starebbe bene che nelle nostre campagne ritornasse il costume, che S. Girolamo ricorda usato nella villetta, dov’egli viveva! “In questa villetta di Cristo, così il santo, tutto è semplicità, tutto è silenzio, fuorché il canto dei salmi. Dovunque ti volgi, il contadino che ara, tenendo l’aratro, canta alleluja (La parola Alleluia è composta di Allelu- e –ia, abbreviazione di Jehovah, e vuol dire Vìva Jehovah, viva Dio.); il mietitore che suda, si richiama coi salmi, e il vignaiuolo, che con la curva falce pota la vite, canta qualche strofa di Davide. Questi sono i canti nella campagna; queste, come suol dirsi, le canzoni d’amore, questo il fischio dei pastori, queste le armi dell’agricoltura (Epist. 17 ad Marcellam). „ Nè vi sfugga, o cari, quella espressione di S. Paolo riguardante il modo d’innalzare a Dio gli inni, i salmi ed i cantici: “Salmeggiando e cantando nei vostri cuori al Signore. „ Con queste parole egli ci ricorda che le nostre preghiere, le nostre lodi, i nostri ringraziamenti a Dio, non devono risuonare soltanto sulle nostre labbra, ma devono sgorgare dai nostri cuori, cosa che troppo facilmente per molti si dimentica. Gesù Cristo, ammaestrando la povera Samaritana, tra le altre cose, le disse: “I veri adoratori adoreranno in spirito e verità… Dio è spirito, e perciò conviene che quelli che l’adorano, l’adorino in spirito e verità, cioè spirito vero „ (S. Giov. IV, 23, 24). Come è l’anima tua, o cristiano, quella che fa vivere e muovere il tuo corpo, cosi dev’essere l’anima tua che fa cantare la lingua e lodare Iddio. Se la mente ed il cuore non accompagnano la tua lingua, che valore possono avere le tue preghiere e le tue lodi? Nessuno, perché manca ciò che le fa degne di Dio e di te, la mente e il cuore: sarebbero come le preghiere e le lodi di chi sogna o delira. Tu incontri un uomo che ti saluta ed inchina cortesemente, e ne va lieto. Se tu leggessi nel suo cuore e vedessi ch’egli ha ciò fatto senza saperlo, senza porvi mente, te ne terresti tu onorato? Non credo. Come vuoi tu dunque che torni accettevole a Dio la tua preghiera, la tua lode, se vede ch’essa si riduce ad un movimento di lingua, ad un suono materiale, e che il tuo cuore non vi ha parte alcuna? Il tuo canto non differisce da quello dell’augelletto che saluta il nuovo giorno. “Non è la voce, ti dice S. Agostino, quella che Iddio vuole, non è la corda della cetra, ma il tuo cuore. „ Allorché pertanto pregate e lodate Iddio, almeno a principio, con la voce levate a Lui il vostro cuore, secondoché vuole lo stesso Apostolo in altro luogo, scrivendo: ” Io salmeggerò con lo spirito, salmeggerò con la mente „ (I. Cor. XIV, vers. 15). “Rendendo grazie del continuo, per ogni cosa, a Dio e Padre, nel nome del Signor nostro Gesù Cristo. „ La nostra vita, ad ogni istante è un continuo beneficio di Dio: ogni respiro, ogni battito del nostro cuore è suo dono; suo dono il cibo che ci nutre; suo dono la bevanda che ci disseta; suo dono il sole che ci illumina e ci riscalda; suo dono l’aria che respiriamo, tutto il nostro essere, tutto ciò che è in noi e fuori di noi, è suo dono, puro suo dono. È dunque dover nostro essere grati a tanto donatore, ringraziarlo di tanti benefici. Ma come farlo debitamente noi che siamo creature sì miserabili? Abbiamo Gesù Cristo; come Dio Egli è uguale al Padre e al Santo Spirito; come uomo è fratello nostro; Egli è il nostro capo, il nostro mediatore: il nostro ringraziamento presentato per le sue mani è degno di Dio: ringraziamolo adunque per suo mezzo: In nomine Domini nostri Jesu Christi. – La nostra Epistola si chiude con questa raccomandazione bellissima, che esprime a meraviglia l’indole della legge evangelica: “Siate soggetti tra voi nel timore di Cristo. „ Ogni società, sia grande, sia piccola, intanto può conservarsi e prosperare, in quanto è bene ordinata, ed è bene ordinata in quanto ogni membro rimane al suo posto, e rimane al suo posto osservando l’ubbidienza. Togliete l’ubbidienza ed ogni cosa è turbata: le famiglie si dividono, la società va in rovina. Ed è questa ubbidienza che S. Paolo raccomanda, dicendo: “Siate soggetti tra voi — Subditi invicem. „ L’ubbidienza, perché sia secondo verità e giustizia, deve prestarsi dagli inferiori ai superiori, e così senza dubbio ha da intendersi la sentenza apostolica. Ma perché dire: “Siate soggetti tra voi, ad invicem, „ come se il dovere dell’ubbidienza fosse imposto a vicenda, cioè in guisa che ciascuno debba ubbidire a ciascun altro, senza badare a chi tiene l’autorità? Certamente il comando dell’Apostolo: “Siate soggetti, „ importa che si debba ubbidire dagli inferiori ai superiori, ed è questa la vera ubbidienza; ma io penso che l’Apostolo volesse insinuare in bel modo ciò che forma una cotale appendice dell’ubbidienza, e ch’egli in altro luogo espresse felicemente in questa frase: “Reputandovi gli uni agli altri superiori nella umiltà. „ Ai superiori noi dobbiamo l’ubbidienza; agli eguali ed agli inferiori dobbiamo rispetto, piacevolezza, cortesia e condiscendenza, che sono alcunché di simile alla ubbidienza. E perché dobbiamo ubbidire ad altri, che infine sono uomini come noi, e, può essere, anche inferiori a noi? Perché così vuole Iddio, perché così comanda Gesù Cristo, e ubbidendo a quelli che tengono il suo luogo, ubbidiamo a Lui stesso: a disubbidendo loro, a Lui disubbidiamo. E come non temere di rifiutare l’ubbidienza a Gesù Cristo? Ecco perché S. Paolo, dopo aver detto: “Siate soggetti, „ soggiunge: “nel timore di Cristo. „ Così si eleva l’autorità che comanda, e con l’autorità si eleva e si nobilita l’ubbidienza, e tutto si riporta a Gesù Cristo, a Dio, al quale sia onore e gloria per tutti i secoli.

Graduale
Ps CXLIV:15-16
Oculi ómnium in te sperant, Dómine: et tu das illis escam in témpore opportúno.

Aperis tu manum tuam: et imples omne ánimal benedictióne. [Tutti rivolgono gli sguardi a Te, o Signore: dà loro il cibo al momento opportuno. V. Apri la tua mano e colmi di ogni benedizione ogni vivente.]

Allelúja.

Ps CVII:2
Allelúja, allelúja
Parátum cor meum, Deus, parátum cor meum: cantábo, et psallam tibi, glória mea. Allelúja.
[Il mio cuore è pronto, o Dio, il mio cuore è pronto: canterò e inneggerò a Te, che sei la mia gloria. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia   sancti Evangélii secúndum Joánnem.
R. Gloria tibi, Domine!
Joannes IV:46-53
In illo témpore: Erat quidam régulus, cujus fílius infirmabátur Caphárnaum. Hic cum audísset, quia Jesus adveníret a Judaea in Galilæam, ábiit ad eum, et rogábat eum, ut descénderet et sanáret fílium ejus: incipiébat enim mori.
Dixit ergo Jesus ad eum: Nisi signa et prodígia vidéritis, non créditis. Dicit ad eum régulus: Dómine, descénde, priúsquam moriátur fílius meus. Dicit ei Jesus: Vade, fílius tuus vivit. Crédidit homo sermóni, quem dixit ei Jesus, et ibat. Jam autem eo descendénte, servi occurrérunt ei et nuntiavérunt, dicéntes, quia fílius ejus víveret. Interrogábat ergo horam ab eis, in qua mélius habúerit. Et dixérunt ei: Quia heri hora séptima relíquit eum febris. Cognóvit ergo pater, quia illa hora erat, in qua dixit ei Jesus: Fílius tuus vivit: et crédidit ipse et domus ejus tota.
[In quel tempo: Vi era a Cafàrnao un certo regolo, il cui figlio era malato. Avendo udito che Gesú dalla Giudea veniva in Galilea, andò da lui e lo pregò perché andasse a sanare suo figlio, che stava per morire. Gesú gli disse: Se non vedete miracoli e prodigi non credete. Gli rispose il regolo: Vieni, Signore, prima che mio figlio muoia. Gesú gli disse: Va, tuo figlio vive. Quell’uomo prestò fede alle parole di Gesú e partí. E mentre era già per strada, gli corsero incontro i servi e gli annunziarono che suo figlio viveva. Allora domandò loro in che ora avesse incominciato a star meglio, e quelli risposero: Ieri, all’ora settima, lo lasciò la febbre. Il padre allora riconobbe che quella era l’ora stessa in cui Gesú gli aveva detto: Tuo figlio vive. E credette lui e tutta la sua casa.]

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. III -1851-]

(Vangelo sec. S. Giovanni IV, 46-53)

Mal esempio dei Genitori.

Quant’è mai grande la forza del buon esempio! Un padre, come ci narra l’odierna evangelica storia, col suo credere a Gesù Cristo, trae con l’ardore del suo esempio alla fede di Gesù Cristo medesimo tutta la sua famiglia. Era questo un piccolo Re, il cui figlio giaceva gravemente infermo a Cafarnao. Vedendo inutili tutti gli umani rimedi, ebbe ricorso al Consolator degli afflitti, partì da Cafarnao, e Lo raggiunse in Cana sui confini della Galilea, e prostèso a Lui dinanzi “Signore, disse, tengo un figliuolo in pericolosa infermità, compiacetevi venirlo a risanare, e a consolare il più addolorato di tutti i padri”.-  “Se non vedete miracoli, Gesù rispose, voi non credete”. – “Ah Signore, soggiunse il padre, venite per pietà che ogni momento d’indugio può esser fatale al figlio moribondo”. – “Andate, disse allora il Salvatore, che il figlio vostro è vivo e sano e salvo”. Credette alle sue parole il genitor consolato, e nel tornarsene a casa ecco alla metà del cammino i suoi servitori spediti ad apportargli la lieta notizia, che il figlio aveva ricuperata in un istante la sanità. Interrogati dell’ora in cui la febbre l’aveva lasciato, e in udir che ieri all’ora settima cessata la febbre era uscito di pericolo, comprese essere precisamente quell’ora stessa, in cui il divin Redentore detto gli aveva che il suo figliuolo era vivo e risanato. In vista di questo prodigio abbracciò la fede di Gesù Cristo, e trasse col suo esempio alla stessa fede tutti di sua famiglia, numerosa di alti e bassi ufficiali, d’ordini diversi di servitori, essendo egli un piccolo Re da Erode Tetrarca costituito Principe e Governatore di tutta la Galilea. “Credidit ipse, et domus eius tota”. – Tant’è la forza del buon esempio! Ma ancor più grande è la forza dell’esempio cattivo. “Un poco d’assenzio, dice S. Gregorio Nisseno, basta a rendere amara una notabile quantità di miele, ma una notabile quantità di miele non può far dolce l’assenzio”. E più facile distruggere che edificare. Quanta rovina adunque recherà ai propri figli l’esempio malvagio dei genitori! Per impedirlo io prendo a dimostrarvi le perdite inconsolabili, che fanno i genitori col mal esempio. Pérdono l’autorità sopra dei figli, perdono i figli e perdono sé stessi. Tre perdite che abbracciano il temporale e l’eterno interesse, tre punti che meritano la vostra più seria applicazione.

I. L’autorità è in tutto il suo vigore, quando ne hanno il dovuto concetto i subalterni; ma ohimè quando decade, se nei soggetti autorevoli trovano gli inferiori di che adontarsi, e scoprono che riprendere! Veniamo al pratico. Entro col mio pensiero in una casa di questo mondo, e v’entro nell’ora in cui marito e moglie sono tra loro in aspra contesa. Vomita il primo le più infami e contumeliose parole, aguzza l’altra la lingua come un serpente; crescono le ingiurie, crescono gli insulti a vicenda. La tempesta non finisce in tuoni. Alle imprecazioni, alle bestemmie succedono colpi, percosse, duri e villani maltrattamenti. Oh Dio! e tutto ciò in presenza dei figli che piangono, che alzano stridi e clamori. Che casa è questa, ove abita il demonio della più arrabbiata discordia? Che scuola è questa in cui dai figliuoli s’apprende l’immodesto parlare, lo scostumata procedere, l’ira, la contumelia, lo spirito d’odio e di vendetta? E qual concetto può avere la povera famiglia di un padre bestiale, d’una madre viperina? Perduta la stima si perde necessariamente l’autorità tanto necessaria per la buona educazione. Lo scandalo che date, o incauti genitori, vi chiude la bocca: non potete più correggere la vostra prole di quei misfatti, dei quali voi siete più rei. – Allorché Caino stese a terra impiagato e morto Abele suo innocente fratello, Iddio acremente rimproverandolo, “il sangue del tuo germano, gli disse, dalla terra, su cui è sparso, alza voci e clamori che giungono al cielo”. –  “Sanguis fratris tui clamat ad me de terra” (Ge. IV, 19). Così abbiamo dal sacro testo; ma il sacro testo non dice che Adamo aprisse bocca a correggere il crudel fratricida. E perché? Risponde Teodoreto, che Adamo, come uomo intelligente, ben prevedeva le amare risposte del figlio uccisore, se l’avesse rimproverato; e perciò il suo delitto, il mal esempio, l’obbligò a rigoroso silenzio. “Come! detto gli avrebbe probabilmente Caino, voi mi riprendete per l’uccisione d’un uomo, mentre voi avete uccisa tutta l’umana generazione! Mi rimproverate per la morte di mio fratello, voi che avete dati a morte più dannevole tutti i vostri figli che sono e che saranno sino alla fine del mondo? Io poi ho peccato per un movimento d’insidia, per un trasporto di collera, e voi solo per il gusto meschino di un vilissimo pomo”. Tutti questi acerbi rimbrotti si aspettava Adamo, perciò si tacque, vedendosi spogliato d’autorità per correggere. – Così avviene tutto dì. Quel padre ha un figliuol giocatore che nel giuoco perde il tempo, lo studio, il danaro, il buon nome. Vede la necessità di correggerlo, ma come può, s’egli giorno e notte ha le carte e i dadi alla mano? Con qual animo, dice S. Gregorio Magno, pretenderà medicar l’altrui piaga colui che porta in faccia la stessa medesima piaga? “Qua præsumptione mederi properat, qui in facie vulnus portat?” (Pur. 2 Past. C. 9). Quella madre sa ed osserva che la propria figlia è libera, nemica del ritiro, che tratta, che parla, che ride, che si trattiene con tutti; ma come impedire questi pericolosi disordini se essa tiene un’eguale condotta? Quell’altro padre vorrebbe i suoi figli dediti alla pietà, frequenti alla Chiesa, alla parola di Dio, ai santi Sacramenti; ma come avvisarli o punirli per la loro indevozione, se egli mai non si lascia vedere in Chiesa o in casa a piegar le ginocchia in qualche pubblica o privata preghiera? Ma diamo che dai genitori si correggono i viziosi figliuoli: che autorità  e forza potrà avere la riprensione, se quel che si pronunzia con la parola si distrugge con l’opera?

II. Se non che il perdere col mal esempio l’autorità di correggere è il meno: quello che monta incomparabilmente di più, è la lacrimevole perdizione degli scandalizzati figliuoli. La prima scuola, solete voi dire, è quella dì casa. Gli esempi domestici fanno più d’impressione che gli stranieri. La tenera età è più disposta a copiare l’immagine del vizio che della virtù. La gioventù non ha bisogno di sprone per gettarsi alla strada della dissolutezza, e la corrotta natura pendente al male trova nei mali costumi dei genitori come una specie di guarentigia a impunemente seguirli. Di Abia, figlio di Roboamo, dice la divina Scrittura che camminò in tutti i peccati di suo padre, “ambulavit in omnibus peccatis patris sui” (III Re, XIII, 3). Notate la frase: le scelleratezze del proprio padre furono per lui come tante pedate impresse sulla polvere o sull’arena, sulle quali camminò come l’empio suo genitore, “ambulavit in omnibus peccatis patris sui”. – Se poi al mal esempio tacito s’aggiungesse l’espresso, poveri figli! Così non fosse, come odono sovente di bocca del padre o della madre certe massime affatto opposte a quelle del santo Vangelo. “Non ti far pecora, o figlio, ma come cane mostra e adopera i denti contro chi t’offende”, ché tanti riguardi! è un codardo che non sa vendicarsi e farsi portar rispetto”. – “Bisogna farsi ricchi per essere rispettati e temuti. Chi ha danaro ha tutto, e può far di tutto”. – “La coscienza è per chi la teme, e chi la teme sarà sempre povero”. Oh Dio! oh Dio! che diabolica scuola! Non vi credo capaci, uditori miei cari, di questo linguaggio pestifero, scandaloso, anticristiano, contentatevi invece ch’io vi metta sott’occhi un altro scandalo indiretto, a cui non si bada gran fatto. – Per meglio spiegarmi premetto quel che di Gerosolima diceva piangendo il Profeta Geremia. Paragona egli quell’infelice città ad uno struzzo nel deserto, “Filia populi mei crudelis quasi struthio in deserto” (Theren. IV, 3)). Osserva Plinio, e con esso altri indagatori della natura (checché ne dica qualche viaggiatore) che lo struzzo nei deserti dell’Africa  e dell’America lascia cader le sue uova in sull’arena, e le abbandona. La provvidenza si cura delle medesime, e di giorno col calore del sole, e di notte col calor mantenuto nella sottoposta arena fa che le uova si schiudano e fuori  saltellino i piccoli struzzoli che sull’arena stessa trovano l’opportuno alimento. La divina provvidenza non vuol fare altrettanto a riguardo dei figli vostri: a voi, alla vostra cura li ha commessi, or che sarà se voi li abbandonate? E appunto da questo abbandono nascono quegli scandali indiretti non conosciuti, e perciò più pericolosi e dannevoli. Torme di fanciulli si vedono a trastullar tutto il dì in mezzo alle piazze e alle contrade, abbandonati a sé stessi, come tanti struzzoli, e vanno intanto imparando sconce parole e maliose azioni, e il padre trascurato e la madre indifferente non badano che a levarsi il fastidio d’averli intorno. Fatti più adulti si lasciano in maggior libertà, vanno, vengono di giorno, di notte, praticano compagni malvagi, contraggono amicizie sospette: l’ozio che insegna ogni malizia, il giuoco che dissipa lo spirito, il libero conversare che corrompe il costume, formano la giornaliera occupazione. Tanti disordini, gli scandali che danno, gli scandali che ricevono, vanno tutti a carico dei genitori, che per una insensata trascuratezza hanno ad essi lasciata la briglia sul collo. Che dirò delle figlie anch’esse abbandonate come struzzoli nel deserto? Col pretesto di divozione si lasciano andare liberamente a certe novene, che cominciano avanti l’aurora, a certe feste di chiese rurali, a campagne, a passeggi, a festini …. Adagio, è vero, ma sono accompagnate da quel nostro parente uomo onesto, da quel nostro parente uomo dabbene. Peggio, io vi rispondo, e vel ripeto, peggio! Se quel tal uomo avesse nome, fama ed apparènza di libertino, non gli affidereste la vostra figlia, e non fidandovi, voi e la figlia vostra non correreste alcun rischio. Per lo contrario, col fidarvi non siete sicuri, potete esser traditi. Si fidò Giacobbe, e concesse a Dina sua figlia un’innocente curiosità, e Dina fu rapita, fu disonorata, ed egli ferito dal più acèrbo dolore. Il mal esempio dato, il mal esempio non impedito rovina i figliuoli, ed è finalmente causa lacrimevole dell’eterna perdita dei genitori.

III. Il Faraone, per politica di stato fece gettare nell’acque del Nilo tutti appena nati i maschi degli Ebrei. Erode per gelosia di regno, fece trucidare in Betlemme e nei suoi contorni tutti i bambini dai tre anni in giù per assicurarsi nella strage di tutti la morte di uno solo, il nato Re d’Israele. Or questi uccisi bambini furono veduti da S. Giovanni nel divino suo Apocalisse, sotto l’altare di Dio, e uditi alzar al cielo voci e clamori, gridando vendetta: “Usquequo Domine, … non vindicas sanguinem nostrum?” (cap. VI, 10). Fino a quando, o Signore, tarderete a vendicare il sangue innocente?- Ora io dico così: tanto i primi fanciulli sommersi nel Nilo, quanti i secondi trucidati da Erode son salvi: i primi  come circoncisi e figli d’Abramo: i secondi non solo sono salvi, ma santi e martiri dalla Chiesa venerati sugli altari; e pure domandano a Dio vendetta. Or che sarà se i figliuoli scandalizzati dai genitori piomberanno all’inferno? Se invece di essere affogati in un fiume, saranno immersi in uno stagno di fuoco inestinguibile? Se invece di aver sofferto il taglio momentaneo della spada di Erode, si troveranno per sempre sotto la spada inesorabile della divina Giustizia? Vendetta, grideranno allora a più alta voce, vendetta contro i nostri padri, contro le nostre madri,  che dopo averci data la vita temporale ci hanno tolta con gli esempi malvagi la vita spirituale ed eterna: vendetta contro coloro che non ci hanno dato la vita … se non per darci una doppia morte. – Padri e madri, volete dire che la giustizia di Dio sarà sorda a queste lamentevoli voci? E se le ascolta, come fuor di dubbio le ascolterà, che sarà di voi, che sarà dell’anime vostre? Voi siete perduti. Se foste causa della perdita dell’anima d’uno a voi straniero, dovreste temere la perdita della vostra; quanto più dovrà crescere il vostro timore e se per vostra disavventura foste cagione della perdita dei figli vostri? Miei dilettissimi, se la coscienza vi rimprovera il mal esempio dato, e le omissioni apportatrici di scandalo alla vostra prole, altro rimedio non trovo per liberarvi da tanto pericolo, che pentimento sincero riguardo al passato, e riparo nell’avvenire ai dati scandali col buon esempio.

Credo …

Offertorium
Orémus
Ps CXXXVI:1
Super flúmina Babylónis illic sédimus et flévimus: dum recordarémur tui, Sion.
[Sulle rive dei fiumi di Babilonia ci siamo seduti e abbiamo pianto: ricordandoci di te, o Sion.]

Secreta
Cœléstem nobis præbeant hæc mystéria, quǽsumus, Dómine, medicínam: et vítia nostri cordis expúrgent. [O Signore, Te ne preghiamo, fa che questi misteri ci siano come rimedio celeste e purífichino il nostro cuore dai suoi vizii.]

Communio
Ps CXVIII:49-50
Meménto verbi tui servo tuo, Dómine, in quo mihi spem dedísti: hæc me consoláta est in humilitáte mea.
[Ricordati della tua parola detta al servo tuo, o Signore, nella quale mi hai dato speranza: essa è stata il mio conforto nella umiliazione.]

Postcommunio

Orémus.
Ut sacris, Dómine, reddámur digni munéribus: fac nos, quǽsumus, tuis semper oboedíre mandátis.
[O Signore, onde siamo degni dei sacri doni, fa’, Te ne preghiamo, che obbediamo sempre ai tuoi precetti.]

IL MAGISTERO ORDINARIO INFALLIBILE

S. S. GREGORIO XVII:

“IL MAGISTERO IMPEDITO”

IL MAGISTERO ORDINARIO INFALLIBILE

[«Renovatio», III (1968), fasc. 2, pp. 151-152.]

Alcuni episcopati nazionali hanno fatto oggetto di loro lettere collettive il magistero della Chiesa nei suoi diversi aspetti e rapporti. Questi venerandi documenti mettono il dito sul punto più interessante e necessario della teologia moderna, che è anche il più insidiato. Infatti, col Magistero pienamente rispettato, la Chiesa nella sua missione ha consistenza ed efficacia; messo in dubbio o in qualche modo diminuito o taciuto il Magistero, tutto volge verso il relativismo, quindi verso il disordine e la dissoluzione della unità nella fede e nel resto. E la grande alternativa del nostro tempo. Noi sappiamo che la Chiesa non verrà mai meno e che, pertanto, la affermazione di quella alternativa non significa la possibilità d’un suo decadimento, ma solo la possibilità di un suo tormento. La saggezza degli uomini deve cercare di evitarglielo. – Riteniamo di dover «focalizzare» questo argomento. Il punto più importante, non in sé, ma in ordine alla vita della Chiesa è quello del magistero ordinario infallibile. Ed ecco perché. – La verità rivelata viene via via a confronto con affermazioni opposte e mutevoli, con atteggiamenti devianti, con interpretazioni alternative. – Deve essere pertanto difesa ed insegnata «tutti i giorni» ed in modo adatto ai fatti ed alle contraddizioni, che via via si succedono. Se questo insegnamento non fosse continuo, fedele ed opportuno, la vita religiosa oscurata dalle male interpretazioni non potrebbe reggere. La Chiesa ha il dovere di questo insegnamento continuo. Non lo può fare con le sole definizioni del magistero solenne. Queste si hanno qualche volta in un secolo e, per gli uomini effimeri, cento anni sono troppo lunghi. Il dovere più immediato e necessario la Chiesa lo compie adunque col magistero ordinario (CJC, 1323; D.S. 1792). Proviamoci a pensare ad una Chiesa che si trovi innanzi a interpretazioni esplosive del suo sacro deposito e che debba attendere mezzo secolo, un secolo per vedersi risolvere una questione da un atto ex cathedra o da un concilio. Nel frattempo tutto languirebbe e la unità sarebbe impossibile. Questa ipotesi non si verifica perché esiste il magistero ordinario. Questo è la necessaria dieta di tutti i giorni. Per vivere non basta la medicina della occasione straordinaria, occorre invece il pane quotidiano. Questo magistero ordinario, quando è “universale” – il che implica che sia con e sotto il Romano Pontefice – è definitivo e irreformabile, ossia è infallibile (CJC 1323). Infatti non ha importanza che i vescovi siano o no uniti sotto uno stesso tetto: l’unione morale, incredibilmente facilitata dai contatti moderni, rende fungibilissima a distanza la prerogativa del collegio episcopale, unito al Papa. Questo è il punto. – Non si comprende la compiacenza con cui questo tema essenziale della vita della Chiesa venga facilmente messo in sordina. La unione morale universale dei vescovi col Papa può farsi in tanti modi e questi modi sono destinati a crescere per la tecnica moderna, non a diminuire. – Il carisma della infallibilità è il carisma della vera pace di tutti i credenti. Proviamoci a pensare per un momento che questi avessero ragione di temere che una affermazione fatta oggi dal Magistero Universale Ordinario potesse essere smentita domani. A chi potrebbero credere? Quale diverrebbe la saldezza della loro fede? La fede ha bisogno della infallibilità e ne ha bisogno tutti i giorni. Oggetto del magistero ordinario infallibile è tutto il deposito della rivelazione divina. – Ma non ci si può fermare qui. Vi sono verità e fatti che sono talmente connessi con la verità rivelata da non potersi rettamente intendere questa, se non fossero dal divino carisma garantiti fermamente anche quelli. – La Chiesa si è servita di questo potere circa le verità «connesse» in modo solenne. La infallibilità goduta nel magistero solenne è la stessa di quella goduta nel magistero ordinario. – Se si cambiassero alcune verità non rivelate, ma necessariamente connesse, cambierebbe il contenuto della Rivelazione, si perderebbe in questa variazione perenne il senso stesso della verità, la Chiesa anziché essere indefettibile sarebbe mutevolissima e rinnegherebbe se stessa più volte in un secolo. – [I grassetti sono redazionali]

LA GNOSI TEOLOGIA DI sATANA (9): UN CANCRO NEL SENO DELLA CHIESA -III-

GNOSI TEOLOGIA DI sATANA (9)

LA GNOSI: UN CANCRO NEL SENO DELLA CHIESA -III-

La franco-massoneria, maestra di gnosi

La franco-massoneria è la congregazione militante della gnosi. Tutti i maestri dell’ordine, sapienti nella scienza massonica lo hanno incessantemente detto e ridetto. Per convincersene è sufficiente esaminare i loro scritti, i loro manuali di base, i rituali ed istruzioni dei diversi gradi. Ma è necessario sbarazzare queste opere classiche della F:.M:. da tutti i “pasticci” e gli “impiastri” simbolici o allegorici che rendono la lettura così stancante, quasi irritante per una intelligenza ordinaria. Così infatti scopriremo la sostanza del loro insegnamento e saremo stupiti di ritrovarci in un “paese” di nostra conoscenza, largamente esplorato

1° LA DIVINITA’ MASSONICA

La F:. M:. è una super-religione: « La massoneria, dice Albert Pike (“morale e dogma”), insegna ed ha conservato in tutta la sua “purezza” i principi fondamentali della vecchia fede primitiva, che sono la base sulla quale poggia ogni religione. Tutte le religioni esistite finora hanno avuto un fondo di verità e tutte lo hanno ricoperto di errori. Le verità primitive insegnate dal Redentore furono più rapidamente corrotte, mescolate ed unite a delle leggende quando furono insegnate ai primi uomini ». – Così « la massoneria, afferma il Dr. Mackey, non ha alcuna pretesa di prender posto tra le religioni del mondo, intese come sette o sistemi particolari di fede o di culto, per cui distinguiamo, ad esempio, il Cristianesimo da giudaismo … ». –  Essa dunque è la religione universale (e dunque eminentemente cattolica, ma non romana, perché quest’ultima è la religione particolare dei Romani, dunque una setta infestata dal microbo e le corruzioni del paese e del clima romano). Essa non chiede ai suoi iniziati che l’adesione a due verità fondamentali: la credenza nell’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima; ma bisogna ben comprendere quello che la “scienza” massonica intende per questo. Albert Pike ci mostra « Dio come Padre infinito di tutti gli uomini … »; « La natura, egli aggiunge, intendendo con questo termine la totalità degli esseri, ecco ciò che è potente, attivo, saggio e buono. La Natura trae da se stessa la propria vita, è stata, è e sarà la causa della sua esistenza, lo spirito dell’universo e la sua stessa provvidenza. Certamente c’è un piano ed una volontà, dalle quali proviene l’ordine, la bellezza e l’armonia della natura … ». Ci si può domandare come un essere (la natura) potrebbe essere causa di se stessa e dunque agire prima di esistere? Ma ai massoni la logica poco importa! – « Dio, aggiunge Albert Pike, è l’anima vivente, pensante, intelligente dell’universo, il permanente, l’immutabile di Simon Mago, l’uno di Platone, etc. » (Si vede che il sapiente in “scienza” massonica conosceva i buoni autori e si riferisce ad essi come ai suoi maestri!). – Egli precisa ancora: « Mentre l’indiano ci dice che Parabrahma, Brahm e Paratma compongono la prima trinità, che l’egiziano adora Ramon-Ra, Neith e Phta (Toht o Hermes) ed i pii Cristiani credono che il Verbo abiti nel corpo mortale di Gesù il Nazareno, la massoneria inculca la sua antica dottrina e nulla più … Secondo la cabala, Dio e l’Universo non sono che un’unica cosa. Secondo Pitagora, Dio era uno, una sola sostanza, le cui parti continue si prolungavano attraverso l’universo senza separazione. Pitagora fa così dell’universo un Grande Essere, intelligente come l’uomo, una immensa divinità avente in sé ciò che l’uomo ha in se stesso, il movimento, la vita, l’intelligenza. Tale è, Fratello mio, il vero Segreto Reale ». Noi riconosciamo qui la dottrina dell’emanatismo, essenziale alla gnosi. Ma è necessario precisare che il riferimento a Pitagora si applica alla setta dei neo-pitagorici, quella che ha composto i “Versi d’oro” di cui abbiamo parlato. – Il vero nome di questa divinità massonica, è “Jehowah”, il tetragramma sacro, la “parola persa” base del dogma e dei misteri massonici. Jehowah, altra forma della parola Yhavé nella Bibbia, procede per emanazione, si estende, emette delle parti di se stesso in uno spazio vuoto preparato per riceverlo. – meglio ancora, dicono i nostri sapienti di massoneria, Jehowah è l’uomo stesso, l’Adam-Kadmon, l’Archetipo (oggi diremmo il prototipo) dell’umanità, la prima emanazione della divinità, il “Figlio di Dio”. Così è l’umanità che ha creato Dio, dice il F:. Pike, e gli uomini credono che Dio li faccia a sua immagine, perché essi lo fanno alla loro ». Noi comprendiamo bene con questa formula che la “divinità” massonica si crea essa stessa estendendosi sotto le forme umane che son le più perfette emanazioni del Grande Essere. – Ma non confondiamo! Il “Jehowah”, divinità massonica non ha niente a che vedere con il “Jehowah” della Bibbia, l’altro nome di Yahvé, quello del Dio Creatore. In effetti « la divinità dell’Antico Testamento, dice ancora Pike, sempre in “morale e dogma” è dappertutto rappresentato come l’autore diretto del male, dispensatore agli uomini degli spiriti cattivi ed ingannatori (tra parentesi, si tratta degli Angeli e dei Profeti) … il Dio dell’Antico Testamento e di Mosè è degradato al livello delle umane passioni … è una divinità violenta, gelosa, vendicativa, tanto quanto incerta e irresoluta; essa comanda degli atti odiosi e rivoltanti di crudeltà e di barbarie … ». L’odio per il Dio creatore è la pietra fondante, il carattere specifico di tutta la gnosi, ed è una blasfemia! La F:.M:. l’ha adottata e presa a prestito dalla gnosi.

2° L’ANIMA UMANA

« L’anima umana, dice sempre Albert Pike, è di natura divina, avendo tratto la sua origine in una sfera più vicina della divinità e ad essa ritornante quando è sbarazzata della spoglia del corpo, non potendovi tornare che purificata da tutte le sozzure del peccato che si sono, per così dire, incorporate alla sua sostanza in seguito alla sua unione con il corpo. Il massone che possiede il “segreto reale” può insegnare che l’anima, quando sarà spogliata dalla materia che la circonda e che l’ha soggiogata, quando si sarà sbarazzata della ganga che la deforma, ritroverà la sua vera natura e si eleverà per gradi, mediante la “scala mistica delle sfere” (sono gli eoni dei nostri gnostici) per riguadagnare il suo primitivo soggiorno, il suo luogo di origine. » Ogni commento indebolirebbe la forza di tali affermazioni [di una gratuità ed imbecillità disarmante!] che sono ricopiate direttamente sulle opere gnostiche.

3° IL GRANDE ARCHITETTO DELL’UNIVERSO

La massoneria si è proposta come fine la ricostruzione del tempio di Gerusalemme, cioè la ricostruzione dell’umanità. Perché ricostruire? Se non perché il primo demiurgo, Yahvé, aveva perso la sua creazione? Ricostruire l’umanità per il massone consapevole e profondamente iniziato, è realizzare il ritorno all’Unità delle anime disperse nei corpi, è un ricomporre la divinità primitiva, completarne la pienezza: questa è la “Grande opera”. Così l’iniziazione costituisce uno “shock illuminante”, con la sua iniziazione l’illuminato « apre gli occhi », vede infine nella sua religione le corruzioni che ne hanno deformato la rivelazione primitiva e « penetra nella verità dopo avere errato tra gli errori, tutto coperto dalle sozzure del mondo esterno e profano … ». – Occorre dunque purificare l’umanità e ricostruirla secondo il piano di un architetto divino. Che l’iniziato prenda il suo grembiule, si armi di compasso, di cazzuola, di squadra e triangolo e si metta al lavoro: « il nostro lavoro costituisce il nostro culto. – Ma per fare questo bisogna procedere con ordine; bisogna conoscere la scienza della geometria. Il fratello iniziato è un costruttore del Tempio dell’umanità, gli serve un architetto, un Grande costruttore, un Grande geometra: « il grande architetto dell’universo » … – « questi è un sovraintendente, agli ordini del quale noi dobbiamo lavorare come operai ». Certo, egli è divino, così come l’uomo dopo la sua illuminazione attraverso il rito dell’iniziazione; ma non è la divinità totale, lo “Jehowah”. – « Il F:.M:. dice Oswald Wirth, nel suo “libro del maestro” si guarda bene dal definire il grande architetto dell’universo e lascia a ciascuno dei suoi adepti piena libertà di farsene un’idea conforme alla sua fede o alla sua filosofia. Badiamo bene di non cedere a questa pigrizia dello spirito che confonde il grande architetto degli iniziati, con il Dio dei Credenti. » – Ecco dunque ciò che è chiaro: non bisogna soprattutto definire la natura di questo architetto e non dargli un nome che permetterebbe di identificarlo. – Ma i veri iniziati, i “Maestri del sublime segreto”, coloro che hanno penetrato più profondamente i misteri della grande arte reale, conoscono bene il suo nome. « Il “serpente” dice Oswald Wirth, nel suo “libro dei compagni”, ispiratore di disobbedienza, di insubordinazione e di rivolta, fu maledetto dagli antichi teocrati, mentre era in onore tra gli iniziati. Questi stimano in effetti che non si potrebbe avere niente di più sacro delle aspirazioni che ci portano ad avvicinarci progressivamente agli déi considerati come potenze coscienti, incaricate di difendersi dal caos e di governare il mondo, rendere simile alla divinità: tale era l’oggetto degli antichi misteri. Ai giorni nostri il programma di iniziazione non è mutato affatto. – Così dunque il serpente è chiamato dai grandi iniziati a sbrogliare il caos di un mondo fatto male da un demiurgo maldestro, per ricostruirlo secondo un piano perfetto, quello del grande tempio e dell’umanità e così … « noi giungeremo a realizzare l’ultima parla del progresso, l’uomo, sacerdote e re di se stesso, che non si risolleverà se non con la sua volontà e la sua coscienza ». (Ragon: “Corso filosofico”). – Come sia possibile che un uomo dotato di un minimo di intelligenza e razionalità possa prendere semplicemente in considerazioni tali imbecillità demenziali, deliri gratuiti e senza alcun fondamento né lontanamente dimostrabili o evidenti, è certamente il mistero più grande del nostro mondo “progredito”, chiara evidenza di un uomo superbo ed orgoglioso che, pur di ribellarsi a Dio, è disposto a bere veleno di ogni tipo, a prostituirsi nell’animo e sottostare a fandonie, favole, filosofie astruse ed indimostrabili propinate da psicopatici dediti a culti satanici, al contatto continuo con il “serpente ingannatore” di cui si compiacciono, onde trascinare adepti negli eterni abissi infernali.

LA PENETRAZIONE MASSONICA NELLA SOCIETA’ CRISTIANA

La domanda che si posero inizialmente i rivoluzionari per distruggere la società cristiana fu questa:  « Come penetrare in questa società e poco a poco distruggerne le strutture politiche e sociali, poi le convinzioni religiose? » Bisognava dunque dapprima sedurre l’opinione Cattolica facendo ad essa assorbire dei principi distruttori presentati come delle idee positive; occorreva in seguito allontanare la diffidenza o l’ostilità delle autorità politiche e religiose (Re e Papi), da qui la politica del segreto ed il rispetto almeno apparente delle convinzioni cristiane. Bisognava pazientemente sostituire senza mai manifestarlo un pensiero, deformato da falsificazioni successive, progressive ma insensibili, al pensiero cristiano. Era necessario pure ottenere una tolleranza ufficiale delle logge e delle conventicole, organizzando un reclutamento iniziale difettoso, perché impregnato ancora di mentalità cristiana, ma già adatto a ricevere qualche germe nuovo. – Così la “Costituzione massonica” di Anderson afferma i principi che essa vuol distruggere,  preparandone le deformazioni. Essa proclama l’esistenza di Dio, il rispetto della Religione, ma si dichiara filosofica e progressista! Essa afferma che il suo scopo è la « ricerca della verità e la libertà di coscienza »; è questa un’assurda contraddizione: come cercare la verità se si deve rispettare qualunque religione? Come conservare la libertà di coscienza se si deve professare l’esistenza di Dio? Si cominciano a preparare le onde di assalto alla Chiesa Cattolica! La tolleranza non può combinarsi con il rispetto di tutte le religioni, poiché ce ne sono alcune intolleranti. La ricerca della verità suppone la soppressione di tutti i dogmi religiosi, poiché essi sono immutabili e sono già delle verità acquisite. I Papi condannano la F:.M:.? Essi manifestano così la loro intolleranza e la loro attitudine provocatoria! La F:.M:. nel contempo prepara la cecità dei poteri politici [oggi dilagante in tutte le nazioni del mondo]. Bisognava quindi darsi una facciata piacevole, mondana per allontanare ogni diffidenza ed ottenere così l’autorizzazione ad esistere, condizione assolutamente necessaria per agire efficacemente su di una popolazione profondamente Cristiana, la cui educazione religiosa ne aveva, nel corso dei secoli, impregnato l’anima.    

1° – La F:.M:. è una società di educazione rivoluzionaria.

Non era possibile per i dirigenti dare direttamente degli ordini ed esigere l’obbedienza senza svelarsi e rendersi vulnerabili. Bisognava allora procedere altrimenti. Tra tutti coloro che aderivano alle logge, occorreva operare una selezione: gli uomini onesti e pacifici si autoeliminavano man mano: sia per il disgusto di riti bizzarri e stupidi, sia per indifferenza: la porta di uscita era aperta e spalancata: era sufficiente ascoltare un insegnamento un po’ più inquietante per ottenere la fuoriuscita degli iniziati rimasti relativamente onesti: era questa una prima forma di epurazione allorché la F:.M:. si preparava ad un’azione più incisiva e fortemente rivoluzionaria. Le fuoriuscite venivano poi compensate da nuove reclute, restando così in attività gli ambiziosi, gli insoddisfatti, gli arrampicatori; era allora possibile “rinforzare” e rincarare la dose con un insegnamento più “filosofico, progressista e illuminato”. Si inculcava soprattutto la convinzione che essi lavoravano in vista del progresso dell’umanità e che erano i campioni di un “ordine nuovo”, liberati alfine dalle vecchie virtù d’abitudine considerate. – I dirigenti massonici hanno sempre utilizzato ed utilizzano due metodi rimarchevoli per ottenere questa “educazione rivoluzionaria”:

a) La doppia gerarchia. 1° – Una gerarchia amministrativa ufficiale che sostiene un apparato istituzionale relativamente anodino, 2° – una gerarchia segreta: quella degli alti gradi nella quale gli iniziati non sono eletti dalla base, ma cooptati dai gradi superiori. I gradi amministrativi eletti sono rinnovati annualmente e democraticamente: essi sono l’immagine stessa dei nostri moderni governi che sono facciata per gli allocchi e i creduloni. Gli alti gradi sono ottenuti con la selezione vigorosa dei più convinti “ideologicamente”, e sono conferiti a vita.

b) I “cerchi interni” ove si pratica la dinamica di gruppo. In ogni loggia od “officina”, agisce un piccolo numero di aderenti, circa una ventina: circolazione libera e frequente degli alti gradi nel corso delle sedute di retrologgia, che si svolgono sempre secondo un carattere religioso per imporre, anche agli scettici, un certo sacro timore reverenziale. Ora, prima della seduta di un’officina o di una loggia, gli alti gradi si sono già riuniti tra loro; essi hanno messo a punto lo svolgimento dei dibattiti, le idee dominanti da far penetrare negli spiriti e poi da far adottare. Essi si ritrovano in due o tre tra la massa dei fratelli non iniziati, non hanno ordini precisi o consegne da impartire, ma “suggeriscono”, propongono delle formule e delle decisioni da adottare. Gli altri “fratelli”, non iniziati ai gradi superiori, credono di essere giunti essi stessi “spontaneamente” alle decisioni che poi adottano. È questa la “dinamica di gruppo”. – Ecco quali sono le idee essenziali che resteranno negli spiriti dei semplici fratelli: la F:.M:. è sacra, le sue origini si perdono nella notte dei tempi. Il suo simbolismo è oscuro, equivoco, ma la “leggenda di Hiram” permette di invertire, ribaltare il senso della Bibbia: Caino diventa un odiosamente calunniato, vittima della gelosia di Abele, un ancestre di tutti i grandi inventori della storia, addirittura il padre della “civilizzazione, del progresso, dei lumi”. – La tolleranza è la grande virtù del fratello iniziato: si è pure soppresso il G:. A:. D:. L:. U:. [grande architetto dell’universo] per non urtare la coscienza di coloro che non credono all’esistenza di Dio [come gli antipapi attuali che non benedicono – e meno male, perché in realtà maledico – in quanto tra gli astanti potrebbe esserci qualche non credente!] . Tra tutte le opinioni che si scontrano, il fratello può difendere le une, ma deve accettare la vicinanza delle altre e rispettarle. – Questa tolleranza è predicata fino al fanatismo, come vediamo tra l’altro anche nella “sinagoga di satana” attuale, la setta vatican-massonica del “novus ordo” che si è insidiata nei sacri palazzi della Chiesa Cattolica; i “fratelli” moderati sono denunciati per la loro mollezza nei confronti della tolleranza [evviva la libertà di coscienza unidirezionale ed intollerante, questa!]. Così gli uomini più dolci pian pianino diventano fanatici; questa idea della tolleranza deve essere un’arma incessantemente rivolta contro la Chiesa intollerante. Si rispetta il “Cristiano sincero”, il Cristiano “illuminato”, si fustiga al contrario il Cristiano chiuso sul suo dogma, il Cattolico di ferro”, incapace di aprire il suo spirito ai “lumi” della nuova società, insomma “l’integralista”, il “fondamentalista”, … dunque il nemico da abbattere. E così il “fratello”, il “figlio della vedova” è pronto a passare all’azione. La sua educazione rivoluzionaria è praticamente completata! –

2° – La F:.M:. è una scuola di preparazione all’azione.

Dopo cinquanta anni di questa educazione, bisogna passare finalmente all’azione. In effetti nel corso di una prima generazione di iniziati, si è operata una notevole selezione. Nella generazione successiva, la maggior parte degli iniziati si sono alfine preparati  all’«ODIO» della civiltà cristiana e della Fede Cattolica perché si possa sperare una rivoluzione con qualche chance di successo e senza troppe agitazioni, soprassalti ed opposizioni all’interno della società massonica. – Arriva il giorno “X”, quello della Rivoluzione: gli uomini sono pronti; la F:.M:. ha concluso la sua opera educativa. Essa si mette “in sonno”, sfuggendo così alle conseguenze di un eventuale fallimento. I “fratelli” costituiscono delle “società di azione rivoluzionaria”: i giacobini, i teofilantropi, la carboneria, la lega dell’insegnamento, l’Eteria greca, la Feniana irlandese, i “giovani turchi”. Restano dei circoli confidenziali, delle influenze individuali scrupolosamente coperte, per ricordare ai fratelli esitanti ciò che ci si aspetta da loro. Al momento del passaggio all’azione rivoluzionaria, una moltitudine di fratelli apre gli occhi: i principi inculcati conducono a ciò che non si voleva: sarà la fuga dei fratelli disillusi. Resteranno solo i violenti, gli ambiziosi. L’ultima epurazione è completata! La rivoluzione finirà nelle mani dei “puri”, degli spiriti completamente illuminati. Infine si deve abbattere l’ “infame”!

3° – La F:.M:. è una “contro-Chiesa” camuffata

Tra gli alti gradi massonici esiste quello dei “rosa+croce, il 18° grado. – L’iniziato che ha superato questo grado è necessariamente prigioniero del suo odio contro la Chiesa Cattolica [solo per inciso ricordiamo che tra gli illustri rosa+croce moderni si annoverano personaggi del calibro di A. Roncalli, G.B. Montini, A. Bugnini, A. Lienart, … l’elenco è lungo!]. Come provocare quest’odio antireligioso: con il far praticare all’iniziato dei gesti, pronunziare davanti a testimoni delle parole che possono disgustare ogni uomo onesto e di buona fede. Da questo momento l’iniziato è prigioniero di ciò che sta per compiere; egli è “ostaggio” degli altri iniziati, testimoni definitivi della sua profanazione [cfr. in exsurgatdeus.org//messa nuova: liturgia rosa+croce?; Il grado è descritto nei dettagli da mons. L. Meurin nel suo celeberrimo libro: “Franco-massoneria, sinagoga di satana”]. Il rito di iniziazione al grado rosa+croce è una odiosa profanazione della Santa Messa [profanazione oggi riprodotta nella falsa e blasfema messa della setta del novus ordo, introdotta dal massone A. Bugnini e dall’”illuminato patriarca” G. B. Montini, l’antipapa sedicente Paolo VI]. Questo grado comprende il segno d’ordine detto del “Buon Pastore”, una parola “de passe”, il motto sacro: “Emmanuel” [il dio-fuoco è con noi] al quale si risponde “pax vobis” [la pace di coscienza sia con voi]. Addirittura il “motto perduto e ritrovato” per i rosa+croce è INRI, interpretato però cabalisticamente in: igne natura renovatur integra, la natura intera è rinnovata col fuoco … di lucifero, ovvio …]. – Poi si svolge la “Cena” rosacrociana: pane e vino sulla tavola.  Il maestro delle cerimonie dichiara: « che questo pane ci mantenga in forza e salute », poi « che questo vino, simbolo dell’intelligenza elevi il vostro spirito ». Ancora: “prendete e mangiate, datene da mangiare a colui che ha fame”. “Prendete e bevete, datene da bere a colui che ha sete”. Poi c’è il “sacrificio dell’agnello” coronato di spine e con i chiodi alle zampe, decapitato e con zampe mozzate date al fuoco. Infine: “Tutto è consumato, ritiriamoci in pace …”. – Il testo massonico dice: « Il cavaliere rosa+croce è un apostolo. Il suo apostolato gli comanda di porre l’amore per l’umanità spinto all’estremo sacrificio, sul frontespizio dell’opera che persegue … una storia anche abbreviata della croce la cui origine si perde nella notte dei tempi … il punto cruciale così determinato dalla croce è l’asse della ruota universale delle cose, generata dalla rivoluzione della croce intorno al punto di intersezione delle sue branche, immagine dell’evoluzione del “gran tutto” … luogo di incontro di valori estremi o opposti, questo punto cruciale è anche il mediatore ed è assai curioso notare che il nome egiziano di questo mediatore è “Krist”, che significa “Il possessore del segreto”. – Dopo una tale iniziazione ed una tale profanazione della Santa Messa, si può ben comprendere lo stato dello spirito di un vescovo F:.M:. che celebra l’ufficio religioso, pensiamo ad esempio al F:.M:. Talleyrand, fino ai più recenti, A. Roncalli, G. B. Montini, A. Bugnini, A. Lienart, S. Baggio, e tantissimi altri, che a citarli tutti non basterebbero i volumi di un’intera enciclopedia!

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (8): Un cancro nel seno della CHIESA II

LA GNOSI, UN CANCRO NEL SENO DELLA CHIESA -II-

LE DEFICIENZE E LE INCONGRUENZE DELLA GNOSI

1° Il Panteismo

Negli insegnamenti degli gnostici, c’è una cascata di incoerenze che conducono a conclusioni prive di ogni senso ed i primi apologisti cristiani, i Padri della Chiesa non hanno mancato di far risaltare con le loro argomentazioni le incongruenze della loro dottrina. Sant’Ireneo, ad esempio, nel suo « Adversus Hæreses », si ripropone di confutare tutto il loro sistema. Ecco come Mons. Freppel riassume il suo argomentare: « O voi separate Dio dal mondo, o confondete Dio ed il mondo, e nell’uno e nell’altro caso, distruggete la vera nozione di Dio. Se ponete la creazione al di fuori da Dio, nel senso che questa esiste indipendentemente da Lui, qualunque nome diate a questa materia eterna, che la chiamiate “vuoto”, “Caos”, “Tenebre”, poco importa: voi limitate l’Essere divino, ne circoscrivete l’ambito di attività praticamente in modo da negarlo! Dio non può esistere che a condizione di essere infinito, di racchiudere in sé l’universalità degli esseri e non ce n’è uno che possa esistere da se stesso o sfuggire alla sua potenza di Essere sovrano. Voi avete un bel dire che il mondo potrebbe essere stato formato da Angeli e da qualche altra potenza secondaria (qui il Demiurgo, Yahvé), delle due cose, l’una: o essi hanno agito contro la volontà del Dio supremo, o in obbedienza ad un suo comando. Nella prima ipotesi voi accusate Dio di impotenza; nel secondo caso, voi siete ricondotti, vostro malgrado, alla dottrina cristiana, che vede gli Angeli semplici strumenti della volontà divina. Dunque, o ammettete la creazione, o rinunciate per sempre a trovare il vero Dio. » In questa prima alternativa, gli gnostici sono condannati ad inventarsi, il loro “pleroma”, privo di ogni potere, il gran “Tutto” indicibile, inconoscibile, incosciente, impersonale. La creazione del mondo materiale sarebbe una catastrofe maldestra di una divinità inferiore, che ha voluto manifestare la sua indipendenza e la propria volontà agendo all’insaputa della Divinità-Pleroma. È il caso di Yahvé. « Ma se al contrario voi ponete la creazione in Dio, in modo tale che essa si riduca ad un puro sviluppo della sua sostanza (si tratta dunque di Emanazione), entrate in una via ancor più inestricabile. Allora tutto ciò che nella creazione è imperfetto e impuro ricade su Dio stesso, la cui sostanza diviene la loro. Voi dite che il mondo è il frutto dell’ignoranza e del peccato (il peccato di Yahvé), il risultato di una incoerenza o di una caduta del Pleroma, una degenerazione progressiva dell’Essere o, secondo la vostra metafora preferita, “una macchia sulla tunica di Dio”; ma non vedete che in questa confusione dell’infinito con il finito, è la natura stessa che decade, che degenera, che è intaccata dal vizio e dall’imperfezione? È possibile alterare più gravemente la nozione di Dio? Voi non potete sfuggire a questa conseguenza se non tornando al dogma cattolico della Creazione che, benché sia misterioso, racchiude l’unica soluzione ragionevole, perché distingue perfettamente ciò che non deve essere separato né confuso. » Tale fu l’insegnamento di Sant’Ireneo. Si vedrà più avanti come essa resti pertinente anche nei confronti del panteismo moderno professato ad esempio da Hegel ed dai Marxisti, o più recentemente dal modernista novus ordo come è evidente tra l’altro in una sedicente pseudo-enciclica gnostico-anticristica e demenziale anticattolica, che ingannevolmente richiama il cantico di San Francesco d’Assisi. In effetti se il mondo e Dio non fanno che un solo Essere, bisogna introdurre in questo mondo divino il movimento, gli accidenti, le imperfezioni, il male: il panteismo sarà necessariamente evoluzionista [l’evoluzionismo, non è una teoria scientifica, anche perché non ha ricevuto mai nessuna conferma da chicchessia, né da ricercatori, né da veri scienziati, anzi biologi e genetisti hanno dimostrato da tempo l’assoluta impossibilità che il materiale genetico possa modificarsi in organismi accoppiabili in tempi brevi e con mutazioni multiple contemporanee che, nel calcolo delle probabilità, non hanno praticamente alcuna possibilità di verificarsi; esso è bensì una “filosofia” di carattere gnostico panteistica, portata avanti dalle logge e dalle conventicole massoniche e dai suoi adepti che vengo opportunamente presentati dai mass media [anch’essi gestiti dalla quasi totalità dai “grembiulini” a scacchi], come grandi scienziati senza averne alcun titolo dimostrabile, e che vengono, per conferire loro lustro, insigniti da roboanti premi, fregi, medaglie e prebende che ingannano i poveri “allocchi” e “babbei” che credono ancora alle fandonie spacciate per libera scienza sperimentale o teorica che sia].

2° Il problema del male

Sant’Agostino ci racconta come egli fosse vissuto dieci anni tra i manichei, che furono gli gnostici del suo tempo: « Io credevo allora che non siamo noi che pecchiamo, ma è la nostra natura “estranea” che pecca in noi  (nescio quam aliam in nobis peccare naturam) … mi piaceva molto credere che io non fossi mai colpevole … ero ben contento di giustificarmi e di respingere la mia colpa su non so quale principio da me distinto, benché fosse in me (et accusare nescio quid aliud, quod mecum esset et ego non essem), ed il mio peccato era tanto più incurabile quanto più credevo non peccatore …  » . Ora io non sapevo quale principio fosse in me, per cui non ero io, ma Dio la fonte dei miei peccati: « C’è nel cielo una causa inevitabile che fa peccare (inevitabilis causa peccandi: è Venere, Saturno o Marte che vi hanno fatto fare tale azione, volendo così che l’uomo sia esente da ogni colpa e che questa sia anzi rigettata su Colui che ha creato i cieli e gli astri … Ora chi è Costui se non Voi, mio Dio! » (culpandus sit autem cæli et siderum creator et ordinator).  – Si vede da questo passaggio, estratto dalle “Confessioni”, quale uso avessero fatto gli gnostici dell’astrologia. Io non so chi sia che pecca in noi, è Dio, dunque un “altro”, il grande colpevole. Tuttavia gli gnostici affermano simultaneamente che il nostro “pneuma”, puro spirito, è una fiammella divina e che pertanto esso è perfetto, incapace di qualunque colpa. – C’è in questo una incoerenza fondamentale a proposito della essenza divina. Se la sorgente del male è nella divinità, non si comprende come l’uomo, pretendendo di raggiungere questa pienezza divina che gli gnostici chiamano il “pleroma”, sfuggirebbe al male che si sforza poi di rigettare su Dio! Poscia non si vede come un essere divino supposto buono per natura, ad esempio Yahvé, il Creatore, avrebbe potuto produrre un cattivo effetto, ad esempio la materia. Questo attribuire il male alla divinità non solo non risolve la difficoltà, ma non fa che rimandare il problema e renderlo insolubile. Da dove viene dunque che il Creatore abbia voluto questa caduta delle anime nella materia? Le spiegazioni date dagli gnostici sono esitanti, fantasiose: opera maldestra, accidente, catastrofe … e non possono certamente soddisfare uno spirito che persegua un minimo di coerenza. Sant’Agostino ha impiegato del tempo per sfuggire alle attrattive degli gnostici; ma egli ha finito con abbandonare le loro idee quando comprese, in seguito alle frequentazioni col vescovo manicheo Faustinus, che questa difficoltà restava presso di loro senza risposta. Tertulliano ha fornito una risposta molto interessante a questo problema nel formidabile: “Trattato contro Marcione”, celebre gnostico di Roma e discepolo poco fedele del manichei. Ecco come egli riassume l’obiezione degli gnostici, che è poi sempre la stessa, anche nei moderni increduli: « Se il vostro Dio è buono, poiché aveva la prescienza ed il potere di impedire il male, perché ha sofferto che l’uomo, sua immagine e somiglianza, o piuttosto sua stessa sostanza per l’origine divina della sua anima (qui si riconosce l’idea dell’anima “fiammella divina”, cara agli gnostici) si è lasciato sorprendere dal demonio ed infedele è caduto nella morte? Se la bontà consisteva nel non volerla come tale, la prescienza nel non ignorare l’avvenimento, la potenza nel tenerla lontana, mai si sarebbe giunti a quanto non poteva avvenire con queste tre condizioni della maestà divina. Poiché questo è invece successo, è certo dunque che la bontà, la prescienza, il potere del vostro Dio, sono delle vane chimere. La caduta sarebbe stata possibile se Dio era come voi lo fate? Essa è sopraggiunta, e dunque il vostro Dio non ha né bontà, né prescienza, né potere. ». Il problema è posto in tutta la sua acuità e l’argomentazione blasfema è rimasta invariata fino ai nostri giorni. Ecco la risposta di Tertulliano, essa è ammirevole: « Mai Dio è così grande se non quando sembra piccolo allo sguardo degli uomini. Mai più misericordioso che quando la sua bontà si cela; mai più indivisibile nella sua unità che quando l’uomo percepisce due o più principi (ad esempio i manichei)… se si chiede a qual titolo è Dio, bisognerà necessariamente iniziare dalle opere che precedono l’uomo (marchiamo bene il senso di questa necessità; è l’uomo che fa così un processo a Dio secondo il proprio giudizio; ma occorre invece innanzitutto cercare al di sopra di lui il criterio del suo giudizio) affinché la bontà di Dio rivelata da Lui stesso e poggiante da allora su una base indistruttibile, ci fornisca un mezzo per apprezzare l’ordine e la saggezza delle opere successive (noi diremmo oggi un “criterio di giudizio” distinto dal nostro giudizio, nel qual caso noi non saremmo giudici e parte in causa). Dapprima, questo vasto universo con il quale si è rivelato, il nostro Dio, lungi dall’aver mendicato ad altri, l’ha tratto dal suo fondo, l’ha creato da se stesso (è la risposta agli gnostici che presentano Dio come una divinità inferiore, utilizzante le anime “fiammelle divine” eterne, per racchiuderle nella materia). – La prima manifestazione della sua bontà fu dunque il non permettere che il vero Dio restasse eternamente senza testimoni! Cosa vuol dire? … se non chiamare in vita delle intelligenze capaci di conoscerlo. C’è in effetti un bene paragonabile alla conoscenza ed al possesso della Divinità? (e non è in effetti questa tutta la ragione di essere gnostici visto che propongono tale scopo all’esistenza?). Benché questo bene sublime fosse senza chi lo apprezzasse, in mancanza di elementi ai quali manifestarsi, la prescienza di Dio contemplava nell’avvenire il bene che doveva nascere e lo affidò alla sua infinita bontà che doveva disporre l’apparizione di questo bene, che non ebbe niente di precipitato, nulla che somigliasse ad una bontà fortuita, niente che si tingesse di una rivalità gelosa e che bisogna datare dal giorno in cui cominciò ad agire. (Tutto questo corrisponde agli gnostici che affermano che Yahvé creò la materia per accidente, senza riflettere alle conseguenze catastrofiche della sua fantasia, o ancora per vanità, per mostrare la sua potenza alle altre divinità. Si vede come Tertulliano conoscesse bene i suoi avversari e sapesse all’occorrenza, rendere loro la pariglia.). È essa [la divina bontà] che ha fatto l’inizio delle cose: essa esisteva dunque già prima del momento in cui si mise all’opera: da questo momento, nacque il tempo, del quale gli astri ed i corpi luminosi fanno la distinzione, la concatenazione e le diverse rivoluzioni. Vi serviranno dei segni, Ella disse, per supportare i tempi, i mesi, gli anni (tutto questo in risposta agli gnostici che, fedeli discepoli degli astrologi, pretendevano che i pianeti fossero delle divinità inferiori e talvolta malefiche). Così non c’era alcun tempo prima dei tempi per Colui che ha fatto i tempi. Nessun inizio per Colui che ha creato un inizio. Così non avendo avuto un inizio e non essendo sottomessa alla misura dei tempi, non si può non vedere nell’infinita bontà divina che una durata immensa ed infinita; non si può considerarla come improvvisa, accidentale, provocata ad agire (come la bontà di una divinità capricciosa, capace in altri momenti di volontà malefica), essa non ha niente che possa offrire una rassomiglianza con il tempo; essa è eterna, uscita dal seno di Dio e di conseguenza considerata come infinita e pertanto, degna di Dio. – Se è vero che la bontà e la saggezza divina caratterizzano il dono fatto all’uomo, perdendo di vista la prima regola della bontà e della saggezza, non andiamo a condannare una cosa dagli accadimenti, né decidere ciecamente che l’istituzione è indegna di Dio perché l’istituzione è stata viziata nel suo corso, ma piuttosto entriamo nella natura del Fondatore che ha dovuto procedere così: poi in ginocchio davanti alla sua opera, rivolgiamo i nostri sguardi più in basso. – Senza dubbio, quando si trova, fin dai primi passi la caduta dell’uomo, senza aver esaminato su quale piano egli sia stato concepito, non è che troppo facile imputare all’architetto divino ciò che ci è accaduto, perché i piani della saggezza ci sfuggono (Gli gnostici dicevano che Yahvé era un architetto maldestro, “demiurgo”). –  Ma dal momento che si riconosce la sua bontà fin dall’inizio delle sue opere, essa ci persuade che il male non è potuto emanare da Dio, ma la libertà dell’uomo, di cui si presenta a noi il ricordo, si offre come la vera cagione del male commesso (è per questo che gli gnostici ed i nostri moderni psicanalisti di sforzano di negare l’esistenza di questa libertà, perché questa implica una responsabilità). – Con questo, tutto si spiega. Tutto è salvato dal lato di Dio, vale a dire l’economia della sua saggezza, le ricchezze della sua potenza e del suo potere. Tuttavia ti sei sentito in diritto di esigere da Dio una grande costanza ed una inviolabile fedeltà alle sue istituzioni, affinché essendo ben stabilito il principio, tu possa cessare, o Marcione, di chiederci se questi avvenimenti possano padroneggiare sulla volontà divina. – Una volta convinto della costanza e della fedeltà di un Dio buono, costanza e fedeltà che si deve appoggiare su opere piene di saggezza, tu non ti stupirai che Dio, per arrestare nella loro immutabilità i piani che aveva arrestato, non abbia contrariato degli avvenimenti che non voleva affatto. In effetti se originariamente Egli aveva rimesso all’uomo la libertà di governarsi da se stesso, ed è stato degno della sua maestà suprema nell’investire la creatura di questa nobile indipendenza, punto che abbiamo dimostrato, di conseguenza aveva rimesso a lui anche il potere di usarne. Quando si accorda una facoltà si cerca di vincolarne o limitarne l’esercizio? – L’argomentazione di Tertulliano è rimarchevole in tutti i punti. Che l’uomo non si faccia dunque giudice e parte in causa: occorre invece un criterio di giudizio universale, anteriore al caso da risolvere: questo sarà la perfezione del mondo senza l’uomo. Dopo aver compreso bene la natura di un essere intelligente, se ne deduce che egli padroneggi i suoi atti. Questa maestria è nello stesso tempo libertà e responsabilità, le due facce di una stessa realtà con tutte le loro conseguenze. E soprattutto l’uomo non abbia da chiedere a Dio di modificare il suo piano della creazione solo perché egli non ne ha fatto un buon uso: questo sarebbe per lui imporre la volontà propria in seguito ai suoi errori; come se un colpevole, deferito ad un tribunale, volesse obbligare il giudice a modificare la legge per adattarla al nuovo stato di fatto creato dal suo reato (è quello che vediamo oggi: le leggi moderne non sono più l’espressione di un ordine oggettivo delle cose, ma della pratica corrente divenuta abitudine codificata). – Questa implicazione del libero arbitrio suppone, per essere pienamente probante, che non si faccia errore sulla libertà. In effetti, secondo la filosofia del senso comune, la volontà è sottomessa all’intelligenza, la quale è sottomessa alla conoscenza, la quale a sua volta è sotto la dipendenza totale della realtà. – Così, esiste un ordine oggettivo delle cose e la nostra volontà può trovarsi allora in opposizione con questo ordine: e questo è il male. Perché noi conosciamo, possiamo pensare un ordine diverso da quello che ci è stato dato; noi teniamo sotto un certo rapporto una distanza con il reale che ci offre un gioco, un margine di indeterminazione nella nostra volontà. – Per ottenere una piena libertà che sia una indipendenza totale dal creato reale, i filosofi moderni vanno a porre la volontà alla fonte dell’intelligenza. Così l’uomo diviene padrone del reale, e decide egli stesso del bene e del male. Ben presto, egli affermerà che il male non esiste. Di colpo l’uomo sarà libero ed irresponsabile. – Noi vedremo questo procedere del pensiero eretico, da parte degli gnostici, che rifiutano la libertà per rigettare la responsabilità, passando per gli psicoanalisti che negano l’esistenza del male, sopprimendo di colpo la responsabilità e così liberando le pulsioni, fino ai marxisti che deificano l’uomo e ne fanno il “creatore”, il motore della storia!

Il segreto iniziatico

Negli gnostici c’è ancora una incongruenza o una deficienza di gran peso: la pratica del segreto. « Noi deteniamo, essi affermano, la chiave della salvezza. È sufficiente “conoscere” per raggiungere la perfezione, per essere sbarazzati di ogni sentimento di colpevolezza. Noi possediamo il mezzo infallibile per discolpare gli uomini. » E tuttavia questo mezzo essi lo conservano segreto; essi lo riservano a dei privilegiati: i Perfetti, gli “eletti”, i “Catari”, vale a dire i “puri”, coloro che hanno realizzato l’unità perfetta,, che hanno ricevuto l’illuminazione, i “monoicoi”, i “monaci”, essi solo capaci e degni di una tale “scienza”. –  La difficoltà qui, resta senza risposta al riguardo del semplice buon senso. Quando si possiede un tale bene, lo si vuole naturalmente condividere con gli altri. La “Buona Novella” si urla sui tetti a meno che non si sia prigionieri di un orgoglio assurdo: comunicando ad altri la propria scienza in effetti, non la si perde; al contrario diffondendola intorno a sé, ci si ingrandisce, non fosse altro che per la riconoscenza e la stima che se ne ricave, oltre alla gioia che si prova nel condividere con gli altri le proprie convinzioni. – Per questa difficoltà, qualche apologista cristiano fa notare che gli gnostici rifiutavano di diffondere i propri scritti perché la lettura dei loro testi, sì oscuri ed indigesti, rischiava di nuocere alla loro reputazione ed allontanare così da questa setta molte anime. Certo! Tuttavia io penso che bisogna cercare altrove il vero motivo di questo segreto. « Larvateus prodeo »: questo è la divisa del serpente. « Io avanzo mascherato.  » Per essere adorato, satana deve coprirsi con la maschera della propria divinità. Egli è “scimmia di Dio”. È una posizione molto scomoda per un essere, seppur angelico, che desidera ricevere gli omaggi degli altri. Se il serpente gettasse la sua maschera e si presentasse ciò che realmente è, “omicida e menzognero”, egli vedrebbe allontanare da sé gli uomini con orrore e disprezzo. – Egli sa bene che le dimostrazioni di adorazione che riceve dai suoi fedeli si indirizzano realmente a Dio, ma egli le ha fraudolentemente deviate su di lui, come avviene oggi nella falsa messa della setta vaticana del “novus ordo”, rito blasfemo che è da molti considerato ancora un rito cattolico. Ora, il serpente vuole essere adorato per se stesso. Ecco la ragione di essere di una setta iniziatica. – La maggior parte degli uomini si allontanano progressivamente da questa setta man mano che ne vedono l’orientamento. – Coloro che vogliono raggiungere la perfezione, i veri “eletti del dragone”, avranno, non so per quale aberrazione del comprendonio, riconosciuto veramente il serpente ed a lui allora indirizzano, in tutta “cognizione”, i loro omaggi. Ma essi saranno, in senso proprio, posseduti, non liberati. Ecco perché gli gnostici si sforzano di inculcare ai loro neofiti l’odio verso Dio Creatore. È la condizione preliminare indispensabile ad ogni conoscenza demoniaca. I differenti stadi dell’iniziazione, i diversi gradi massonici ad esempio, sono destinati a selezionare per eliminazioni successive tutti coloro che non sono adatti a questa conversione all’inverso. satana è colui che conosce. Quando Adamo ed Eva ebbero mangiato del frutto dell’albero della conoscenza (della “gnosi”), i loro “occhi si aprirono”. Tertulliano aggiunge nel suo “trattato contro Marcione”: « Ma se Adamo disobbedisce, non intende però blasfemare contro il Creatore; egli non censura l’Autore del quale aveva provato fin dall’inizio tutta la bontà e che costrinse ad essere giudice severo per una sua volontaria prevaricazione. Questo fu un colpo! Adamo non era che un novizio in fatto di eresia ». Egli non ha voluto utilizzare la conoscenza acquisita ergendosi contro Dio; egli fuggì da Dio con gran vergogna. Fu una grande delusione per il serpente! … ecco perché poi egli ha sempre cercato di preparare delle anime capaci di « comportarsi da blasfemi contro il Creatore ». È questa tutta la ragion d’essere delle società segrete e principalmente delle società massoniche.

[… Continua]

SANTA MARGHERITA M. ALACOQUE

Santa Margherita Maria Alacoque.

La discepola del Sacro Cuore.

Si manseritis in sermone… discipuli mei eritis.

(Giov., VIII, 31).

[G. Lardone: “Fra gli astri della Santità Cattolica“; S.E.I. ediz. Torino 1928]

Il Maestro Divino, volendo che la fiamma di carità si diffondesse per tutta la terra e ardesse fino alla fine dei secoli si elesse dei cooperatori che inviò all’evangelizzazione del mondo. Ecco dapprima gli Apostoli che chiamò dal campo e dal lago, che istruì con particolari attenzioni, ed ai quali conferì i poteri di battezzare, di insegnare, di perdonare. Ed ecco ancora i discepoli che raccolse da ogni condizione sociale, che volle uditori dei suoi discorsi e testimoni dei suoi miracoli ed inviò ad evangelizzare ed operare prodigi nelle contrade cui diveniva insufficiente il ministero apostolico. Dal numero dei discepoli fu assunto il successore di Giuda… furono eletti i primi diaconi… e fu precisamente un nucleo di discepoli che ad Antiochia diede origine al nome “cristiano” (Atti, X I , 26). Attendevano al discepolato non solo uomini e giovani, ma ancora quelle sante donne, reclutate per la maggior parte in Galilea, che accorsero a Gesù, lo servirono nelle sue peregrinazioni ed ebbero la forza di salire con Lui al Calvario. Mirabile stuolo questo, che emerge con un’aureola luminosa, tra le figure della Redenzione, e ci prova fino a qual punto nel cuore muliebre può grandeggiare la fiamma dell’amore: mirabile stuolo che per fortuna non è scomparso più mai dalla Chiesa di Dio! Quante discepole hanno coadiuvato gli Apostoli! A quante San Paolo faceva pervenire le sue lodi ed i suoi saluti! Quante hanno assistito i martiri, i pontefici, i confessori, i santi! Di quante il Cuore adorabile di Gesù si servì per le più alte missioni in mezzo alla cristianità! Noi celebriamo oggi appunto la solennità di una di queste discepole… di S. Margherita Maria Alacoque, l’umile visitandina di Paray le Monial, la quale, assunta all’onore del discepolato di Cristo, ebbe una sua specifica missione, quella di dare impulso decisivo alla devozione verso il S. Cuore di Gesù. Guardiamo a questa discepola dell’amore: troveremo nella di lei vita tre fasi ben distinte che potremo definire: 1° la vocazione all’amore, 2° le rivelazioni dell’amore, 3° lo zelo per la diffusione per l’amore. Se la discepola del S. Cuore doveva svolgere nella Chiesa una missione provvidenziale era conveniente che Gesù la preparasse al grande compito come un giorno aveva preparato i discepoli del Vangelo. E la preparazione si svolse dapprima nel tepido nido d’una famiglia cristiana della media borghesia del secolo XVII. Quinta tra i figli di Claudio Alacoque, giudice ordinario di Terran e Verosvres, e di Filiberta Lamin, nacque a Lautecour in Borgogna, il 22 luglio 1647. Essendo una preordinata dalla grazia non è a stupire che i favori celesti venissero ben presto ad adornarne l’anima eletta: tanto che ella poteva esclamare più tardi: « Oh mio unico amore, quanto vi devo essere grata d’avermi prevenuta fin dalla mia infanzia, rendendovi padrone e signore del mio cuore, sebbene sapeste quanta resistenza vi avrebbe fatto. Appena seppi conoscere me stessa Voi mostraste all’anima mia la bruttezza del peccato, il che mi impresse tanto orrore da rendermi tormento insopportabile ogni minima macchia » (Vita e opere, tom. II, p. 29). – Per quanto di carattere vivace reprimeva di botto nell’infanzia ogni scatto appena le si diceva che avrebbe offeso il Signore: e, quasi divinando la bellezza della castità si sentiva continuamente spinta a dire, pur senza comprenderle appieno, queste parole: « Oh mio Dio, vi consacro la mia purità, vi fo voto di perpetua castità » (ivi, p. 30). Altra caratteristica della sua infanzia fu l’amore al patimento ed alla solitudine. Naturalmente portata al piacere trovava la forza di vincersi con l’esercizio della mortificazione, per esempio, stando nel freddo e con le ginocchia nude sul pavimento per tutta la Messa. Amava ritirarsi in un boschetto di querce posto a duecento metri dalla casa d’onde poteva scorgere la piccola chiesa di Verosvres, e subiva, senz’avvedersene, il fascino di quella placida natura che ritrovava pure al castello di Corcheval, quando vi dimorava con la madrina, Signora di Fautrières. Il dolore, questa voce provvidenziale con cui l’amante Divino scende alle predilette, venne ben presto ad abbattersi sopra di lei. Non aveva che otto anni e mezzo quando una malattia di petto le rapì, in pochi giorni, il padre integro e probo, uno di quei cristiani antichi che aveva voluto segnare con la croce tutti i suoi atti di notaio: e non potendo la madre provvedere all’educazione di tutta la famigliola, Margherita fu posta nell’istituto delle religiose Urbaniste di Charolles dove imparò ben presto a leggere e a scrivere e venne ammessa alla prima Comunione. « Questa Comunione, scrisse poi, (ivi, pag. 30) cosparse di tanta amarezza per me i piaceri ed i divertimenti, che non potevo più gustarne nessuno ». – Era già posseduta dallo Spirito divino, il quale però doveva ancora farla passare per molti crogiuoli. Appena undicenne fu colpita da una malattia non ben determinata, reuma o paralisi, che la tenne per circa quattro anni stesa su un letto di dolori: non poteva camminare né muovere le membra, ed il suo corpicciuolo smagrito pareva un scheletro. Ci volle una promessa alla Vergine per guarire da quel male: poiché appena fatto il voto di consacrarsi a Maria, Margherita ricuperò la salute. Ai dolori fisici successe in lei, quattordicenne, una crisi morale che la portò ad amare soverchiamente la libertà e la dissipazione, al punto che in tempo di carnevale, insieme con altre ragazze, si mascherò per vana compiacenza (ivi, 38): ma ritenne di poi questo fatto come una gran colpa e la pianse per tutta la vita. Anche le persecuzioni non le dovevano mancare, e tanto più dolorose in quanto le provenivano dai parenti, i Delaroches i quali avevano preso a governare i poderi ed a comandare in casa della vedova Alacoque, e contro di cui non potevano reagire, né sua madre sovente inferma, né ella stessa così giovane e di carattere così timido, né i suoi due fratelli, i quali, vivendo fuori di famiglia, non erano al corrente delle persecuzioni domestiche. Quanto penava la santa fanciulla nel non poter sollevare la madre inferma per causa dell’indifferenza e dell’avarizia dei suoi interessati tutori! Ma il buon Dio la sosteneva dandole una conformità perfetta con i suoi supremi voleri. Così questa fanciulla tra i sedici e i diciassette anni si sentiva sempre più attratta verso il suo Gesù: amava l’orazione, e nella preghiera trovava luce e conforto: domandava con incantevole semplicità al Signore di istruirla nelle sue vie, e, nei momenti di maggior dolore si rifugiava presso al Tabernacolo d’onde Gesù spargeva nel suo cuore le gioie più dolci e l’incanto più soave. Tre grandi desideri le agitavano oramai l’anima ardente: il desiderio di unirsi sempre più a Dio con l’orazione, il desiderio di soffrire, ed il desiderio di comunicarsi. Era Gesù che li aveva deposti nel cuore di lei, mentre stava per trasportare la tenera sposa nei tabernacoli santi. – Maturava difatti la vocazione religiosa, ma sempre attraverso spine dolorosissime. Per sottrarsi alla servitù dei Delaroches, sua madre, dopo la morte del fratello Giovanni (1663) rapitole a soli 23 anni, proponeva a Margherita diversi ottimi partiti di matrimonio, e la scongiurava di accettare o l’uno o l’altro. Memore della promessa fatta alla Vergine, la giovane è incerta se ascoltare la madre o seguire le chiamate dello Sposo, finché la grazia divina operava in lei e le dava il coraggio di eleggere la vita religiosa. A nulla valsero le presentazioni di nuovi pretendenti, a nulla le nuove persecuzioni dei Delaroches, a nulla le opposizioni del fratello Cristoforo divenuto per il matrimonio capo della famiglia, a nulla le incomprensioni del padrino Antonio Alacoque, curato di Verosvres. Con le moltiplicate penitenze, con l’accettare dalle mani del Signore una nuova malattia, ricevendo con fervore la S. Cresima a ventidue anni, ella sapeva sostenere la fiera lotta per la vocazione contrastata. – Finalmente un’occasione propizia spuntò: un religioso Francescano fu a Verosvres a predicare il Giubileo concesso nel 1670 da Papa Clemente X. A Lui Margherita aprì il suo cuore ed il religioso si interpose presso il fratello e le ottenne il permesso di abbracciare la vita religiosa. Elesse la Visitazione e fra i monasteri quello di Paray-le-Monial nel quale fece ingresso il 20 giugno 1671. Fu allora che una letizia soprannaturale la inondò di tale e tanta felicità, che ella appena posto piede nel chiostro esclamò: « È qui che Dio mi vuole » (ivi, pag. 54). – Nel monastero si sentì subito perfettamente a suo agio: ansiosa di possedere il segreto della scienza divina, esperimentò ben presto che lo Sposo celeste voleva riprodurre in lei l’immagine della sua vita in terra. Pertanto la purificò da ogni macchia, da ogni inclinazione per le creature e le infuse tale fervore che formava l’ammirazione delle altre religiose. – Vestita il 25 agosto 1671, non fu ammessa a pronunciare i voti che il 6 novembre 1672. Ma fin dal noviziato frequenti erano le comunicazioni dirette con cui Gesù se le manifestava, per guidarla ne le più ardue vie della perfezione. Fu anzi Gesù che le disse allo spirare dell’anno di noviziato: « Di’ alla tua Superiora che non vi è nulla a temere nell’ammetterti: che rispondo Io per te, e se lei mi reputa solvibile Io mi rendo tua cauzione (ivi, pag. 60). – Alla sera della professione, rientrata nella sua celletta e riandando le gioie della giornata, rilesse ancora una volta il foglio su cui aveva scritto le sue risoluzioni, parte delle quali vennero vergate col sangue; e che terminavano: « Io sono sempre del mio Diletto, sua schiava, sua serva, e sua creatura, poiché Egli è tutto mio: e sono la sua indegna sposa, Suor Margherita Maria, morta al mondo. – Tutto di Dio e niente mio: tutto a Dio e niente a me: tutto per Dio e niente per me » (ivi, p. 188). Come rispondeva bene alla chiamata divina e come era progredita già alla scuola del Maestro che le parlava all’anima e la predisponeva alle sublimi rivelazioni dell’amore.

— LE RIVELAZIONI DELL’AMORE.

Seguiamo la discepola nell’arca santa. Vi prova subito le pure gioie che le provengono dal contatto con lo Sposo: ma esse passano rapide per cedere anche qui il posto a dolori cocenti. Il Maestro prende possesso di tutto il suo essere, ma non lo fa che per distenderla sulla croce. Eccola deputata all’infermeria: ma posta a lato dell’infermiera ufficiale, Suor Caterina Agostina Marest, carattere impetuoso e faccendiero, Dio solo sa quanto Suor Margherita dovette soffrire. Eppure ella amò quelle sofferenze: specialmente quando Gesù sua guida perenne, le domandò se fosse contenta di soffrire tutte le pene meritate per i peccati suoi e per le consorelle. Gesù l’assicura che è ben padrone di darle i suoi doni in abbondanza ma, siccome le Superiore e le consorelle se ne allarmano, le impone di non far nulla di quanto le comanda senza il voluto consenso. Per unirsi sempre più a Lui, ella ha gran desiderio della comunione tanto che scrive: « Se pure dovessi camminare sopra il fuoco a piedi nudi, mi sembra che questa pena non mi costerebbe niente in confronto della privazione di questo bene (ivi, p. 149 e 134). – È così che va bene innanzi in quelle che i mistici chiamano “grazie di unione”. La vigilia di un giorno di comunione ella domandò a Nostro Signore di unire il proprio cuore al suo Cuore divino, senza però comprendere appieno in qual maniera quell’unione si potesse effettuare e come il niente potesse unirsi all’Essere. Allora « nella parte più sottile ed alta dell’intelletto » ella vide il Cuore di Dio fatto uomo più risplendente del sole e d’una grandezza infinita. Un piccolissimo punto nero pareva fare ogni sforzo per avvicinarsi a quella luce affascinante ed entrarvi, ma senza potervi giungere. Allora il Cuore divino lo attirava Egli stesso a sé, e, mentre quell’atomo oscuro tutto s’illuminava al contatto radioso, la Santa udiva queste parole: « Inabissati nella mia grandezza e bada a non uscirne mai, perché se ne uscirai non ne entrerai più » (ivi, pag. 129). Se questi ed altri favori, rinnovandosi ogni giorno, mettevano in apprensione le Superiore, specialmente la madre di Saumaise, disponevano la discepola del Sacro Cuore a rendersi sempre più idonea a ricevere le grandi rivelazioni che oramai stavano per incominciare. Esse non dovevano manifestarsi che a poco a poco. – Negli anni 1672 e 1673 si svolge per la santa un’alba lenta e calma: dapprima è un accenno ripetuto alla piaga del costato: « Ecco la piaga del mio costato, per farvi tua dimora attuale e perpetua » (Vita ed opere, tom. I, p. 70): poi sono alcune rappresentazioni allegoriche del Sacro Cuore di cui si accenna agli abissi, che è paragonato al libro della vita, che è detto ferito dai peccati degli uomini. – Nel 1674 e 1675 invece è il gran giorno, in cui Gesù rivela alla diletta l’amore del suo Cuore per gli uomini in generale e per lei in particolare, e gli atti determinati che richiede in riconoscenza di tanto amore. Fu nel coro delle religiose, in ginocchio dietro la grata, d’innanzi al SS. Sacramento esposto che Suor Margherita Maria vide per la prima volta (27 dicembre 1672 ovv. 1673?) N . Signore scoprire le meraviglie del suo Cuore adorabile. Lo racconta la nostra in una mirabile pagina autobiografica… « Essendo io d’innanzi al SS. Sacramento, perché avevo trovato un po’ di tempo libero… mi trovai tutta investita da quella divina presenza, ma tanto fortemente che dimenticai me stessa e il luogo ove stavo e mi abbandonai a quello spirito divino, lasciando il mio cuore in balìa alla forza del suo amore. Egli mi fece riposare a lungo sul suo petto ove mi svelò le meraviglie dell’amore e i segreti inesplicabili del cuore che mi aveva tenuti occulti fino a quel momento, in cui lo scoprii per la prima volta. Ma fu in modo così reale e sensibile da non lasciarvi luogo ad alcun dubbio per gli effetti che questa grazia produsse in me che pure temo sempre di ingannarmi circa le cose che dico avvenire in me. Ed ecco come mi sembra sia andata la cosa. Egli mi disse: Il mio cuore è così appassionato d’amore per gli uomini e per te in particolare che non potendo più contenere in sé le fiamme della sua ardente carità, è mestieri che le espanda per mezzo tuo, e si manifesti loro, per arricchirli dei preziosi tesori che Io ti scopro e che contengono le grazie santificanti e salutari necessarie per ritrarli dall’abisso di perdizione: e ti scelgo come un abisso di indegnità e di ignoranza per il compimento di così grande disegno, affinché tutto sia fatto da me ». Poi, dopo averle richiesto il cuore per deporlo nel suo Cuore adorabile, conchiuse: « E per prova che la grazia a te fatta or ora non è una immaginazione ed è fondamento di quelle che ancora devo farti, sebbene ti abbia rimarginata la piaga del costato, il dolore vi ti resterà per sempre; e, se finora tu hai preso soltanto il nome di mia schiava, ti dò ora quello di discepola diretta del mio Cuore » (ivi, tom. II, pag. 70). – Il Maestro dava in tal modo una prova autentica del proprio intervento e le forniva il mezzo per provarlo alle Superiore ed a coloro che in seguito avrebbero dovuto dare il loro giudizio autorevole. Ma non si fermò qui. – Ogni primo venerdì del mese le si mostrava a guisa di un sole splendente i cui raggi cadevano sul di lei cuore e tutto l’essere sembrava ridursele in cenere. Di due di quelle manifestazioni ella serbò particolare ricordo. « Un giorno, racconta, questo divin Cuore mi fu rappresentato in un trono di fiamme più raggiante di un sole e trasparente come il cristallo, con quella sua piaga adorabile, cinto di una corona di spine che significavan le punture fattegli dai nostri peccati; e al di sopra una croce che significava il dolore e il disprezzo che ebbe a sostenere in tutto il corso della vita e della sua santa passione. (Lett. al P. Croiset – Vita ed op., tom. II, pag. 587). – Altra volta: « Essendo esposto il SS. Sacramento dopo essermi sentita tutta concentrata nel mio interno mediante un raccoglimento straordinario dei miei sensi e delle mie potenze, Gesù Cristo, mio dolce Maestro, si presentò a me tutto folgorante di gloria, con le cinque piaghe splendenti come cinque soli, e dalla sacra umanità uscivano fiamme da ogni parte, ma sopratutto dal suo petto adorabile che pareva una fornace: e questo essendosi aperto, mi scoprì il suo tutto amante ed adorabile Cuore che era la sorgente viva di quelle fiamme (Vita ed opere, tom. II, pag. 71). La più celebre rivelazione si fissa ordinariamente al 21 giugno 1675 ( HAMON, Vita). Così la racconta la Santa nella lettera scritta per ordine del P. De la Colombière. « Trovandomi d’innanzi al SS. Sacramento in uno dei giorni dell’ottava di sua festa, ricevetti dal mio Dio straordinarie prove dell’amor suo e provai desiderio di corrispondergli in qualche modo e di rendergli amore per amore. Ed Egli mi disse: Tu non mi puoi rendere maggiore contraccambio che con fare ciò che tante volte ti ho chiesto. Poi, scoprendosi il divin Cuore: Ecco, proseguì, quel Cuore che ha amato tanto gli uomini e che nulla ha risparmiato (per convincerli del suo amore) fino a struggersi e consumarsi per loro amore: ma per ricompensa non riceve dalla maggior parte (degli uomini) che ingratitudini per le loro irriverenze e i loro sacrilegi e per le freddezze e i disprezzi che essi hanno per me in questo Sacramento d’amore. E ciò che mi è ancor più sensibile, si è che sono gli stessi cuori a me consacrati che così mi trattano… Perciò Io ti domando che il primo venerdì dopo l’ottava del SS. Sacramento sia dedicato ad una festa particolare ad onore del mio Cuore, facendo in quel giorno la Comunione ed offrendogli una riparazione d’onore con un’ammenda onorevole per riparare gli oltraggi ricevuti mentre è esposto sugli altari ». Ecco la luce piena: alla manifestazione diretta del suo Cuore carneo e al lamento delle sconoscenze degli uomini, Gesù unisce il mandato di diffondere la devozione al suo Cuore e di riparare con una festa liturgica apposita da istituirsi tra l’ottava del Corpus Domini. La discepola è perfettamente illustrata nello spirito ed ardente nel cuore per attendere alla nobile missione di far conoscere e far amare l’amore.

— ZELO PER LA DIFFUSIONE DELL’AMORE.

Di quali mezzi ella potrà disporre? È ancora il Cuore divino che li fornisce, prendendoli sempre dalla sua croce. Le rivelazioni dell’amore sono contrariate per ben quindici anni nel monastero di Paray-le-Monial, e per più di un secolo nella Chiesa di Dio: eppure Margherita Maria, può, prima di morire, avere il conforto di vedere la devozione al S. Cuore stabilita nella Visitazione e di saperla ben avviata nella cattolicità. Ma dovette passare di crogiuolo in crogiuolo. Il 16 giugno 1676 nel cuore ebbe uno schianto acerbo per la morte di sua madre che nei giorni solenni era accorsa alla Visitazione a vedervi la diletta e sempre rimpianta figliuola. Due mesi dopo il P. De la Colombière, che aveva compreso le relazioni soprannaturali tra la Visitandina e il S. Cuore, veniva inviato a Londra. Nella notte poi del 21 novembre 1677 Gesù doveva provarla col più grave sacrifìcio: ella doveva offrirsi vittima per le sue sorelle onde stornare i colpi della divina giustizia: non osa rispondere di no allo sposo, perché ben si ricorda di aver tutto accettato: indietreggia però e si trincera dietro il voto di ubbidienza… Venne la notte segnata dal 20 al 21 novembre: il domani, festa della Presentazione le monache dovevano rinnovare i voti: ma alla sera della vigilia Gesù le si manifestò con aspetto così terribile che ella ne rimase atterrita. Udì allora il divin Maestro dirle: Ti è duro ricalcitrare ai dardi della mia giustizia, ma dacché mi hai fatto tanta resistenza per evitare le umiliazioni che ti converrà sostenere per compiere quel sacrificio te le raddoppierò: prima non ti chiedevo che un sacrificio segreto, ora lo voglio pubblico e in un modo e tempo fuori d’ogni ragione umana: accompagnato da circostanze così umilianti che ti procurerà confusione per tutto il rimanente di tua vita, sia in te stessa sia d’innanzi alle creature, per farti comprendere che cosa sia resistere a Dio. (Vita, tom. II, pag. 84). – Frammischiata alle altre monache nella ricreazione della sera Margherita poté padroneggiare la sua emozione… Ma le parole udite risonavano tuttavia al suo orecchio in tutta la loro tremenda concisione: sentiva che doveva parlare proprio allora in presenza della comunità: solo la Superiora la poteva autorizzare: dunque bisognava chieder licenza: però la Madre era in camera ammalata: bisognava quindi uscir dalla sala e Suor Margherita, quasi costretta da forza superiore lasciò il luogo dell’adunanza… appena nel corridoio si fermò di botto come fuor di sé … conturbata nello spirito scoppiò in pianto… una consorella la dovette accompagnare dalla Superiora… e, finalmente, ottenuto il permesso, eccola di ritorno. Appena l’assistente chiese alle monache schierate lungo le pareti se avessero qualche osservazione da fare, Suor Margherita Maria, ancora tutta sconvolta e con gli occhi rossi di pianto, andò a inginocchiarsi in mezzo alla sala e vi compì il sacrificio lacerante. In quel silenzio solenne, terribile, ella lasciò uscire dalle sue labbra tremanti le divine minacce, soggiungendo che Dio onnipotente aveva scelto lei quale ostia pura ad espiare i falli commessi. Quale effetto produssero quelle parole? A molte suore apparirono almeno temerarie: altre le ricevettero come loro inviate dal buon Dio: ma quale dolore non causarono alla zelante Visitandina! « Non avevo mai tanto sofferto in vita mia ». D’allora fu in uno stato di annichilimento continuo: disprezzi ed umiliazioni le piovvero da ogni parte: anche la madre di Saumaise ella dovette perdere perché trasferita a Digione. La nuova superiora, madre Greyfìé udita la Santa determinò di prestare pochissima attenzione alle visioni e di non parlarne a chicchessia né in comunità né fuori: le proibì anzi l’ora di adorazione nella notte dal giovedì al venerdì. Vennero inoltre le tentazioni di spirito dolorose sopra tutte le altre; si aggiunsero quelle meno nobili ma pure angustianti di una fame e sete straordinarie. Fu allora (verso il termine del 1679) che prese la risoluzione, oltre che di attendere a grandi mortificazioni, di incidersi di nuovo sul cuore il nome di Gesù già da lei scritto un giorno a caratteri di sangue. – Quasi a compensarla di tante sofferenze, Gesù le volle offrire una prima occasione di diffondere il culto al Sacro Cuore. La madre di Saumaise era stata eletta Superiora delle Visitandine di Moulins ed appena giunta alla nuova sede, pensò di mettere alcuna delle sue figlie in relazione con Suor Margherita Maria. La Superiora antecedente, Luisa Enrichetta di Soudeilles, allora direttrice del noviziato, le scrisse poco tempo dopo: la nostra Santa rispose e la lettera fu senza dubbio il primo grido apostolico sfuggito dal suo cuore e dalla sua penna a favore della devozione al S. Cuore di Gesù. – Altre contrarietà dovevano sopraggiungere a provare ancora la grazia che era in lei: la morte del P . De la Colombière doveva nuovamente farle sanguinare il cuore: ma lo zelo attivo della discepola dell’amore non doveva più arrestarsi. Eletta nel 1684 dapprima assistente della nuova Superiora Maria Cristina Melin, e più tardi Maestra delle novizie, poté parlare liberamente al nuovo gregge della devozione al Cuore adorabile dello Sposo divino, e lo poté fare senza taccia di innovazioni, perché già gli scritti del Padre S. Francesco di Sales celebravano soavemente e magnificamente la misericordia e la tenerezza del Cuore Sacratissimo. La devozione attecchì tosto fra le novizie: per l’attitudine ostile delle anziane la Superiora proibì la Comunione del primo Venerdì: ma erano le ultime resistenze, poiché il 21 giugno 1685 poté segnare il primo trionfo del Sacro Cuore. Un altarino era eretto nel coro, proprio nel sito dove Suor Margherita Maria aveva avuto le grandi estasi del 1673 e 1674; e, circondata dai più bei fiori del giardino, una miniatura mandata da madre Greyfìé mostrava a tutti l’immagine del Cuore di Gesù chiusa in una piccola cornice dorata. Sull’altarino stesso un biglietto della Suora des Escures invitava tutte « le Spose del Signore a venire a rendere omaggio al Cuore adorabile ». Era la intronizzazione ufficiale del Cuore divino là dove Egli aveva amato svelarsi e dove tuttavia la discepola eletta aveva incontrato tante difficoltà nello svolgere la sua missione. Quale felicità per Suor Margherita Maria! Nella profonda gioia e nella sentita gratitudine pensò fosse giunto il momento di offrire allo Sposo un sacrificio che da tempo contava di fare: venne così il voto del 31 ottobre 1686 con cui si consacrò più strettamente e definitivamente al Cuore di N. S. Gesù Cristo. Tuttavia il convento di Paray era un campo troppo ristretto per lo zelo della visitandina eletta; doveva diventare il centro d’irradiazione dal quale, per le lettere della Santa la divozione doveva impiantarsi ben presto a Moulins, a Digione, a Semur, a Lione, a Parigi … Dal 1688-89 poi ella comprese appieno il mandato speciale affidato alla Visitazione per impiantare il culto del Sacro Cuore in tutta la Chiesa. È vero che una prima petizione fatta a Roma non ottenne l’esito desiderato: ma la devozione era in marcia. Il Vicario generale di Lione approva l’ufficio e la messa del S. Cuore: la discepola ha il coraggio di rivolgersi allo stesso re di Francia, il potente Luigi XIV, perché consacri al S. Cuore il suo popolo: la regina d’Inghilterra è da tempo guadagnata alla nuova devozione: e Suor Margherita Maria gioisce ad ogni passo che da il culto che le è caro e rende pubbliche le promesse che le vengono dal S. Cuore, celebre fra tutte quella che fu definita la Grande Promessa. – « È un giorno di venerdì: nella S. Comunione furono dette queste parole alla sua indegna schiava se essa non si inganna: Io ti prometto nella eccessiva misericordia del mio cuore, che il mio amore onnipotente accorderà a tutti quelli che si comunicheranno per nove primi venerdì del mese consecutivi la grazia della penitenza finale, non morendo essi in sua disgrazia, né senza ricevere i Sacramenti e rendendosi Egli sicuro asilo in quell’estremo momento (Vita ed opere, tom. II, pag. 397 e seg.). Quale consolante notizia per i devoti del S. Cuore! Ma nello stesso tempo quale gloria per la santa discepola! Decorata di tanti preziosi favori spirituali ella poteva bene al 17 ottobre 1690 chiudere la sua piena giornata. Preordinata dall’amore, guidata dall’amore, in perenne contatto con l’amore del Cuore misericordioso di Gesù, ella era divenuta il principale strumento delle divine misericordie presso la povera umanità. La massima e più dolce devozione dei tempi nostri che per oltre mille anni era stata ignota agli uomini, che dal secolo XI al secolo XVII non era stata sentita che da poche anime privilegiate, dopo le apparizioni alla discepola di Paray si è diffusa a grado a grado finché l’11 giugno 1899, allorché Leone XIII gli consacrava il genere umano, il Cuore Sacratissimo prese a regnare su tutto il mondo moderno. Gloria e adorazione a Lui nei secoli dei secoli: ma ancora venerazione all’umile Santa Visitandina che ne è stata la discepola zelante.

* * *

Perché non sappiamo anche noi entrare nell’orbita del discepolato del S. Cuore? È vero: la vita della figlia del notaio di Lautecour, della Visitandina di Paray non ha battuto un ritmo ordinario. La Santa dell’amore ha camminato nella zona delle eccezionali elevazioni della grazia ed ha rivelato ancora una volta che: Spiritus ubi vult, spirat. Ma come ha corrisposto ella alla grazia! Come ha abbracciato la sua croce e come è passata per amor dell’Amore di calvario in calvario! Se lo Sposo tanto le ha dato, ella nulla ha negato a Lui di sacrificio, di umiliazione, di rinunzia: e lo Sposo l’ha glorificata rendendola strumento idoneo per lo stabilimento della devozione del suo Cuore adorabile e cingendole la fronte dell’aureola della santità cristiana. Guardiamo dunque a lei, ricordando che se non tutti abbiamo nella Chiesa delle missioni ufficiali da compiere, tutti siamo chiamati nel numero dei discepoli dell’Amore, tutti possiamo partecipare alle rivelazioni dell’Amore, tutti dobbiamo zelare la devozione all’Amore. Varie, infinite, misteriose possono essere le vie per le quali la voce dell’alto si fa sentire al nostro cuore: innumerevoli ed insospettabili le rivelazioni che l’Amore ci riserva: ma se l’anima sarà pura, il cuore mondo, la volontà sottomessa alla volontà dello Sposo, anche noi o attraverso ad una fiorita di rose o attraverso ad una selva di spine potremo divenire, non solo candidati alla santità, ma ancora strumento delle divine misericordie e rivelatori della infinita bontà agli uomini. – Aspiriamo dunque all’onore del discepolato di Gesù. Ogni anno, il 17 ottobre, circa le ore venti, l’ora della morte della Santa, le monache del convento di Paray vanno processionalmente alla camera, ora convertita in cappella, ove Margherita Maria morì, e, dopo aver pregato, cantano una devota canzoncina che rievoca quella morte e la rende quasi attuale. Essa termina: Ah! in tal beato ostello Vanne pur, del Sacro Cuore Confidente, alma fedel! – Ogni anno, come le consorelle buone, anche noi veniamo ai piedi della discepola dell’Amore. Oh! Possiamo come lei entrare, quali colombe dal desio chiamate, nella piaga del Cuore Sacratissimo per non uscirne mai più.

 

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (7) : un cancro nel seno della CHIESA I

LA GNOSI, UN CANCRO NEL SENO DELLA CHIESA -I-

[Elaborato da: “De la gnose a l’Œcumenisme”, capitolo I: “di E. Couvert]

Dati storici

La scoperta in Egitto, nei pressi di Nag Hammadi, nel 1946, di una biblioteca gnostica in lingua copta ha rinnovato le conoscenze sulla gnosi. In precedenza si definiva correntemente la gnosi come una penetrazione del pensiero greco nel Cristianesimo primitivo o come il risultato di un sincretismo orientale, con le religioni dell’India, della Persia, dell’Egitto, che si sforzava di penetrare la giovane Chiesa e farvi germogliare le proprie credenze. – La scoperta dei manoscritti, ci ha fatto rivedere questi temi e ricondurre la gnosi ad una sua origine più vicina al Cristianesimo; essa è nata in ambito giudeo-cristiano e nutrita da un pensiero specificamente giudaico, è improntata ad un bagaglio letterario proveniente dall’Antico Testamento, anche se ha utilizzato un vocabolario greco e delle formule in apparenza filosofiche proprie dell’Egitto e dell’Iran. Occorre in effetti distinguere accuratamente un fondo culturale o religioso, sul quale si sviluppa un insegnamento nuovo, da ciò che costituisce il carattere specifico di quest’ultimo, che non è costituito da una similitudine di vocaboli o da formule prese qui e la, ma configura un nuovo ordine dell’insieme. L’insegnamento gnostico è originale, non lo si ritrova prima di allora né nelle religioni pagane, conosciute in quell’epoca, né nella filosofia greca, né nell’astrologia. La gnosi non è una “chiesa”: essa non ha provocato la comparsa di un clero con una gerarchia, né dei rituali liturgici, ed anche le cosiddette chiese gnostiche con gerarchia e liturgia, come i Manichei e i Mandei, non hanno potuto sviluppare una religione di carattere universale per deficit di natura: un insegnamento che si vuole segreto, riservato cioè a degli iniziati, non può portare a tale risultato [i Manichei infatti si sono dissolti in varie sette esoteriche, ed i Mandei conservano delle minuscole comunità testimoni di un passato di cui hanno perso il vero significato]. – La gnosi non è una “filosofia”: essa non pretende di dimostrare con l’aiuto della ragione delle verità universali, accessibili a tutti gli uomini di riflessione. Essa non dà dell’universo una visione razionale, rifiuta l’insegnamento comune diffuso da una determinata scuola. – La gnosi è essenzialmente una vegetazione religiosa parassitaria che si nutre di Cristianesimo per estrarne un certo numero di elementi che poi storna dal loro senso naturale per darne un significato nuovo totalmente opposto all’insegnamento della Chiesa [è in pratica la stessa definizione del modernismo anti-cattolico data da S. Pio X nella “Pascendi”, quel modernismo attualmente praticato della setta vaticana del novus ordo]. La gnosi è una setta di iniziati [gli eletti menichei, o i vescovi, gli “eletti”, del novus ordo, ordinati appunto dal 18 giugno del 1968 con una formula eretica e blasfema di contenuto gnostico-manicheo – v. in exsurgatdeus.org/18 giugno 1968 (7)] che pretendono di aver ricevuto una rivelazione più perfetta di quella di Gesù, riservata a spiriti d’élite sganciati dall’insegnamento ordinario della Chiesa, costituendo così un “cancro roditore” all’interno della comunità cristiana.

1° La rivelazione di Gesù-Cristo

I miracoli di Gesù in Palestina furono il punto di partenza di un immenso stupore: non li si poteva negare; anche i Farisei ed i Sadducei vi assistevano come inebetiti; si diceva: « Donde gli viene il suo potere? … Che anche i flutti del mare ed i venti gli obbediscono? Non abbiamo mai visto di tali prodigi! » Il primo gnostico, loro maestro in tutto, Simone il Mago, si presumeva capace di provocare miracoli con una sapiente messa in scena; ma davanti ai veri miracoli di San Pietro in Samaria, fu prontamente soffocato. Infatti egli domandò a San Pietro di vendergli il suo potere, di rivelargli i suoi “trucchi” di mago. Dopo lo stupore arriva l’indignazione: « È per mezzo di Beelzebul che caccia i demoni! » – I suoi insegnamenti egualmente provocavano uno stupore altrettanto giustificato: « Da dove gli viene la sua scienza e la sua saggezza? Non è egli il figlio del carpentiere? » Si può fare una distinzione in questo insegnamento: da una parte le parabole, semplici verità morali, accessibili agli spiriti più semplici, ma pur verità profonde accessibili alle intelligenze più elevate; e dall’altra parte, il suo insegnamento propriamente divino: i grandi misteri su Dio, oltrepassanti infinitamente le capacità della nostra intelligenza. Quando gli Apostoli diffondono questo insegnamento in tutto il mondo, esso prende un volo eccezionale. Esso raggiunge in un secolo tutto l’Impero Romano e tutte le classi della società. Ecco ancora la fonte di un profondo stupore: « Come dei semplici pescatori della Galilea hanno potuto essere ascoltati e seguiti da comunità sì numerose e da spiriti di ogni livello? Anche qui deve esserci una causa segreta, occulta, che bisogna scoprire! » – Gli gnostici non hanno mai compreso questo: le verità più semplici, uscite dagli spiriti più poveri a livello del senso comune, sono pure le verità più profonde che non possono essere comprese a livello più elevato che da una difficile elaborazione intellettuale, una riflessione sostenuta, una saggezza acquisita da lunga esperienza. Essi dunque vanno a cercare la causa di questa espansione in un insegnamento segreto, riservato da Gesù a qualche discepolo privilegiato: Giacomo, Giovanni, Matteo, Tommaso. Essi distinguono l’insegnamento exoterico, diffuso dagli Apostoli alle persone comuni, ed un insegnamento esoterico, riservato da Gesù e qualche Apostolo a degli iniziati superiori. Ecco l’origine della gnosi. Precisiamo ancor questo: l’insegnamento di Gesù e degli Apostoli fu pure all’origine di una grande delusione: il Cristianesimo non pretende di offrire immediatamente, con una semplice affermazione gratuita, la certezza immediata e definitiva della salvezza eterna: per raggiungerla occorre una vita di virtù, di rinunzie, di ascesi: e può essere sempre rimessa in causa dal peccato. Questa salvezza finale è conquistata mediante uno sforzo costante di tutto l’essere verso la perfezione, essa è particolarmente esigente, difficile, ardua, ma resa possibile dall’azione della grazia. – Gli gnostici vogliono invece cercare un mezzo di salvezza immediato, definitivo, che eviti certi obblighi di uno sforzo costante su di sé. Essi lo presentano come un segreto il cui possesso deve liberare da ogni inquietudine ed assicurare un riposo nella certezza … – Infine, per gli gnostici, il Cristo non ha dato una risposta pienamente soddisfacente sull’esistenza del male nel mondo. Occorre allora cercare l’origine del male non nell’uomo, ma nel mondo divino, non essendo l’uomo peccatore e dunque colpevole, ma vittima di un male che gli è stato imposto dall’alto. Bisognerà attendere i grandi pensatori cristiani e particolarmente San Tommaso d’Aquino, per trovare questa risposta adeguata alla difficoltà sollevata. – A partire da queste considerazioni sull’insegnamento di Gesù, si possono dedurre tutte le affermazioni degli gnostici. Ma prima di svilupparle, occorre esaminare i loro procedimenti:

I procedimenti gnostici

L’esame dei fatti mostra che gli gnostici hanno seguito nel suo sviluppo l’espansione del Cristianesimo, seguendo il cammino dei discepoli e sollevando le obiezioni di cui abbiamo parlato, sia direttamente allo scoperto, sia indirettamente sussurrandole ai primi Cristiani entusiasti. Dopo la morte di santo Stefano, san Pietro si rifugia in Samaria e si trova presto a confrontarsi con Simone il Mago, padre della gnosi. La Chiesa si sviluppa ad Antiochia in Siria; ben presto si vede comparire Nicolas, uno dei diaconi, che diede i suo nome agli gnostici nicolaiti; poi Menandro, Saturnile. Il Vangelo è predicato in Egitto, ad Alessandria. E proprio qui si impianta l’insegnamento di Basilide, le cui formule sono tanto simili al buddismo, e poi Valentino, il maggiore degli gnostici. A Roma si impianta l’insegnamento di Marcione, a Lione quello di Marcos, etc. – Gli gnostici si fondono in mezzo alle comunità cristiane; essi danno un insegnamento individuale, con gran discrezione. Tertulliano ci dice che essi iniziavano con « l’enunciare la fede comune in formule equivoche! … per indurre i fedeli in errore. » Sant’Ireneo ci racconta che « essi attirano la gente parlando loro come parliamo noi stessi. Essi si lamentano che noi li trattiamo come degli scomunicati, allorquando da una parte e dall’altra, le dottrine sono le stesse … ma poi man mano si allontanano dalla fede con le loro questioni. Di coloro che non resistono, ne fanno loro discepoli, li prendono da parte per svelare loro il mistero inenarrabile del loro “pleroma”. »  Ecco un bel testo estratto da l’«Adversus Hæreses » di sant’Ireneo. Si direbbe scritto oggi! Ancora oggi infatti assistiamo a queste manovre su ben più vasta scala. Gli gnostici praticano “l’anonimato” come sistema di insegnamento: essi non firmano i loro scritti. Noi non conosciamo i loro nome se non dagli eresiologi che ebbero molto a penare per scoprirli e procurarsene i manoscritti segreti. Sant’Epifanio ci racconta come egli stesso abbia frequentato un tempo gli gnostici d’Egitto, attirato nei loro antri da certe donne: « se sono sfuggito alle loro grinfie, egli dice, non è stato per virtù personale, ma all’aiuto divino che rispose allora alle mie preghiere ». Grazie a questo suo passaggio tra essi, noi possediamo molti degli insegnamenti sulle diverse sette ed i manuali utilizzati. Sant’Epifanio cataloga con notevole precisione i maestri, le loro scuole, i loro manoscritti. Gli gnostici non firmano i loro scritti, ma fabbricano degli scritti ai quali, dice S. Atanasio, attribuiscono degli ancestri dando loro il nome di “santi” (cioè di Apostoli. Questi sono allora degli « pseudoepigrafi » e non degli « apocrifi. » Noi conosciamo i veri autori di questi libri, ma gli autori designati nel testo sono menzogneri: questi ad esempio sono « il libro segreto di Giovanni » – « la Sofia di Gesù » – « L’Apocalisse di Giacomo » – « Il discorso di Zoroastro » – « l’Apocalisse di Adamo » – « il discorso di Hermes » – « Il Vangelo di Tommaso » – « Le parole segrete di Gesù », etc. – Essi raccontano in particolare che Gesù, dopo la Resurrezione, abbia preso da parte qualche discepolo, Giacomo, Giovanni, Tommaso e, seduto sotto un albero, abbia rivela loro degli insegnamenti che essi dovevano tenere segreti per se stessi e per coloro che essi avessero giudicato degni di comprenderli. La lettura del « Vangelo di Tommaso » è in particolare molto suggestivo: questo Vangelo era un’opera di base degli gnostici e soprattutto dei Manichei. Una prima lettura superficiale del testo lascia nello spirito l’impressione d’insieme che si tratti di un’opera perfettamente ortodossa: i tre quarti delle parole di Gesù erano sostanzialmente identiche a quelle dei Vangeli canonici; ma una rilettura più attenta fa apparire certe istanze che denotano un’intenzione sottogiacente: questi sono, ad esempio delle ripetizioni frequenti: « Chi ha orecchie per intendere, intenda » – « Così accederete ala contemplazione di ciò che nessun occhio ha mai visto » – « Conoscete voi stessi e ciò che è nascosto vi sarà rivelato » (sottinteso: riconoscete che avete in voi stessi la divinità) – delle formule panteiste: « Quando voi farete che i due siano uno, voi diventerete figli dell’Uomo » (vale a dire il vostro ritorno all’unità primordiale farà apparire la vostra essenza divina) – « Taglia il legno, io sono la, solleva la pietra e mi ci ritroverai! » – « Il regno è dentro di voi » – « Ogni donna che diventerà uomo, entrerà nel regno dei cieli! » … Così a partire da formule ortodosse, con istanze selettive, per aggiunta di formule in apparenza oscure o misteriose, si vedono già delineare le principali tesi gnostiche che sembrano essere uscite dalla stessa bocca del Cristo. Non ci sarà più che da sviluppare queste formule protestandosi fedeli discepoli di Gesù. Infine un processo rimarchevole, utilizzato con grande successo dagli gnostici, fu il “recupero”, per rinforzare il loro prestigio, dei grandi “Iniziati” del paganesimo: Orfeo, Pitagora, Hermes, Zoroastro, Omero stesso! Non si tratta qui di un sincretismo religioso, poiché gli gnostici non cercano di amalgamare diverse dottrine religiose sì varie o contraddittorie per trarne una dottrina a “denominatore comune”. Non si tratta di una super chiesa “ripostiglio”. Ben al contrario, si tratta di attribuire esattamente a questi personaggi celebri dell’antichità, il cui insegnamento era stato solamente orale, il medesimo linguaggio della dottrina gnostica. È il ricorso quindi ad un’autorità incontestata nel passato e alla redazione di testi fittizi, attribuiti a colpo sicuro e senza controllo a questi lontani ancestri. Così si vede Orfeo rappresentante il Cristo nelle antiche catacombe romane in epoca in cui era difficile separare i veri Cristiani dagli gnostici. Gli eresiologi rimproveravano loro di rappresentare il Cristo con visi pagani: Hermes, Orfeo, Omero, Pitagora. Sant’Ireneo racconta che una donna, Marcellina, aveva ritrovato a Roma un oratorio con le figure di Gesù, Omero e Pitagora. I settari avevano medaglie o statuette rappresentanti Platone, Pitagora. L’imperatore Alessandro Severo era egualmente uno gnostico, egli venerava nel suo larario Gesù-Cristo, Abramo, Orfeo e Apollinare di Tyane. Nella prima catacomba, quella di San Sebastiano, si leggono, in un ipogeo degli Innocentii, delle iscrizioni cristiani ove si ritrovano i soprannomi di Hermes: Hermesius, Hermesianus. Carcopino descrive così una tomba di Ravenna del III secolo: la piccola defunta, Giuliana, è interpellata al maschile: “Salve Euhamius”, ella è rappresentata seduta ed Hermes le tocca gli occhi, per svegliarla, con una bacchetta magica. Si tratta certamente di una tomba cristiana gnostica. Il Cristo è talvolta rappresentato sotto forma di una divinità pagane, armata di bacchetta con la quale non risuscita un morto, ma lo chiama al “risveglio”:  “Apri gli occhi! Guarda! Tu sei divino”. Carcopino descrive una basilica pitagorica di Roma  assai simile ad un ipogeo di un cimitero cristiano. Egli racconta una cerimonia liturgica che sembra calcata sulla Cena cristiana. – Omero era anche da essi interpretato così: Ulisse tenuto nell’isola di Calipso designava l’anima, la fiammella divina, prigioniera dei corpi ed ancora esitante nel liberarsi dal suo giogo. – Il testo di Hermete Trimegisto (= il tre volte grande) era stato ritrovato nella biblioteca copta gnostica. Ugualmente i “versi d’oro” attribuiti a Pitagora, sono ben posteriori all’inizio del Cristianesimo; essi datano almeno dalla fine del I secolo e contengono delle formule propriamente gnostiche. “ tu saprai che la natura è UNA e simile in tutto” (Panteismo) – “Colui che ha trasmesso alla nostra anima la TETRAKTYS, sorgente della natura infinita” (il nome divino è la natura della nostra anima) – “A coloro che sanno svegliare ciò che c’è di sacro nella loro anima, la natura mostra ogni cosa” – “Quando tu abbandonerai il tuo corpo, sarai immortale, un dio immortale e non più mortale” … etc. – Così la gnosi si è sviluppata come una setta parassitaria all’interno del Cristianesimo per sovvertirne tutto l’insegnamento. Si riconoscono già i processi dei “modernisti” nell’arte di sedurre ed allontanare le anime dalla Verità; si riconosce pure la Leggenda nascente dei “Grandi Iniziati” che si tramandano di generazione in generazione una dottrina segreta.

L’INSEGNAMENTO DELLA GNOSI

Per comprendere bene le “rivelazioni” degli gnostici, è necessario sbarazzarle da tutte le fandonie mitologiche e fabulistiche di cui sono ammantate, o meglio imbrigliate, nonché spogliarle ugualmente del vocabolario oscuro, misterioso, ieratico, che ha la pretesa di renderle venerabili. Non parleremo né di Eoni, né di Arcoonti, né di Pleroma, etc. Mons. Lagier, nella sua opera “L’Oriente cristiano” enumera diverse proposizioni nelle quali si può riassumere tutto l’insegnamento dei nostri eretici. Noi vedremo che a partire da queste strane affermazioni, si posso estrarre tutti i grandi errori del mondo moderno. Già nel primo numero della nostra serie “la Gnosi teologia di satana ne abbiamo fatto un elenco (v. exsurgatdeus.org/Gnosi teologia di satana 1), ma qui lo rifacciamo affinché possiamo ben fissarli in mente per poter scovare tutti gli errori in ambiti decisamente impensabili: nella filosofia, teologia, letteratura, pedagogia, musica, arti figurative, medicina, scienza … una totale invasione alla quale siamo pressoché assuefatti. Questi otto punti, che qui di seguito ricordiamo, sono la cartina di tornasole per scoprire l’infiltrazione gnostica ubiquitaria ed eventualmente adottare le necessarie, oramai ineludibili contromisure.

1° « Il Dio di cui ci parla l’Antico Testamento è una divinità inferiore, non è il vero Dio. Ben sopra di Lui si trova l’Essere supremo, principio unico di tutto ciò che è. »

Gli gnostici hanno sempre praticato un antibiblismo sistematico. Hanno ribaltato tutte le affermazioni della Genesi. La loro cosmologia è una “macchina da guerra” indirizzata contro Yahvé, il Dio creatore. Il mondo nella sua essenza è divino. l’Essere supremo è un “abisso” originale dal quale sono uscite tutte le potenze spirituali. È già questa una prima forma di Panteismo. Yahvé Sabaoth, il Dio Creatore della Genesi è secondo loro, una emanazione dell’Essere supremo … egli si è rivoltato contro di lui rinchiudendo in una materia degradata e cattiva gli esseri puri, spirituali, emanati dal “grande abisso”, questi fu un demiurgo (=architetto) maldestro, pasticcione. Egli è perciò la fonte di tutti i mali: ecco una spiegazione dell’origine del male e la designazione del gran colpevole: il Dio che adorano i Cristiani.

2° « La materia in sé si oppone a Dio ». –

Comprendiamo bene che questa materia non è una emanazione dell’Essere supremo, ma una creazione del demiurgo, opera maldestra che si oppone alla perfezione della potenza divina, ne ostacola l’espansione. C’è dunque in questo atto creatore un errore, una degradazione degli esseri spirituali, una “caduta originaria”, non quella del peccato di Adamo, ma quella del Peccato di Yahvé.

« Dio si dispiega e si rivela gradualmente con delle potenze celesti, con esseri divini nella loro origine. »

Questa è la dottrina della “Emanazione” (emanare= spandere fuori da sé). Il mondo è una divinità che si espande fuori da sé, mediante una estensione del proprio essere; il mondo è un Dio … Essere supremo in crescita perpetua. Dall’Abisso originale, questo Dio genera una moltitudine di esseri che non sono che “particelle di se stesso”. Il mondo è in perpetuo divenire. Esso è divino per natura, poiché generato e non creato. Ahimè! Yahvé ha formato la materia, ha degradato questo mondo, ne ha così frenato l’espansione, l’evoluzione verso questa pienezza divina che gli gnostici chiamano “Pleroma”. – Per di più Dio si è manifestato nel mondo con i suoi inviati, esseri divini, da lui inviati che, ad intervalli regolari, ricordano all’uomo decaduto e prigioniero della materia che anch’essi sono divini. Occorre dunque una rivelazione continua: si vedono così apparire i primi lineamenti della leggenda dei Grandi iniziati”. La gnosi è allora: “rivelazione” di una realtà occulta!

« La materia è mescolata a fiammelle divine; queste fiammelle divine fuoriescono dalla loro prigione materiale grazie al Cristo che agisce nei sacri riti della magia. » L’anima umana è dunque divina (fiammella o splendore di un Dio che si estende ad ogni essere). Il corpo è una ganga terrestre, una prigione della quale bisogna sbarazzarsi per vedersi apparire questa divinità che risiede in noi. Il Cristo è il più grande degli “iniziati” inviato dall’alto, Egli viene ad insegnare agli uomini che essi sono divini. “Guardate all’interno di voi stessi e vi troverete le vostra divinità” …, tale è la formula ripetuta nel vangelo di Tommaso. Per questo occorre sbarazzarsi di questa prigione materiale che occulta la vostra vera natura. Risvegliatevi! Comprendete infine! Riconoscete il vostro carattere divino! Non c’è alcun bisogno di conquistare con la forza della vostra ascesi una somiglianza con Dio, voi siete già divini, ma non lo sapete ancora, questa conoscenza vi libererà [anche in concetto di “misericordia bergogliana” della setta vatican-massonica, è una idea gnostica anticristiana “ … voi siete già divinità, non c’è bisogno di pentimenti, contrizione, penitenza, etc. … siete salvi in ogni caso perché la vostra anima è divina]. È la salvezza mediante la gnosi! (= conoscenza). – Si ritrovano qui pure le formule moderniste dell’immanenza vitale: Dio dimora nell’uomo (Manere in = soggiornare in), non si deve che ritornare all’interno di sé per ritrovarlo.

« L’azione di Cristo fu reale, ma la sua umanità carnale non è stata se non una ingannevole apparenza: la passione e la resurrezione non sono che simboli senza realtà. ».

Evidentemente un “inviato divino” non può aver subito la degradazione di un corpo materiale. Egli ha dovuto assumere una forma materiale per farsi conoscere e poter agire efficacemente presso uomini anch’essi prigionieri del loro corpo fisico. Ma il Cristo non aveva da riscattare con la sua Passione i peccati dell’uomo, poiché questi non esistono. Non c’è che un solo peccato, il “peccato del mondo”, il peccato di questo “sbadato” Yahvé che ha deteriorato, con la sua creazione, l’espansione della divinità. Il Cristo non è venuto a liberare gli uomini dai loro peccati: non ha loro insegnato una “via”, un cammino da percorrere per raggiungere una perfezione possibile da raggiungere. Egli ha rivelato loro, cioè disvelato, ciò che essi non sapevano, e cioè: che essi erano Dio, già, da sempre!

« Il “divino incatenato nella materia”, cioè l’anima umana, non è responsabile della carne che l’opprime. Lo spirito resta puro … non è solidale alle passioni nei peccati commessi. »

Ecco alfine a cosa si voleva arrivare! Lo gnostico rifiuta agli uomini la responsabilità dei loro atti. Poiché la materia è cattiva, il nostro corpo di carne non può produrre che atti cattivi. Ma questo corpo è la nostra prigione. La nostra anima “scintilla divina” non può avere il minimo rapporto con qualunque male sia. Come spiegare tutto ciò? Scomponendo l’uomo in tre parti: un corpo materiale, il “soma”, un’animazione propriamente psicologica, la “psiche”, ed un’anima spirituale di essenza divina, lo “pneuma”. Questa struttura ternaria dell’uomo è una invenzione geniale [o meglio, perversa]: la sede delle passioni, la “psiche”, è una potenza cattiva legata alla materia che sostiene nella sua esistenza; bisogna sbarazzarsene al più presto. Lo “pneuma” resta impassibile, spettatore indifferente delle vane agitazioni del corpo. – Queste divisione ternaria dell’uomo si ritrova nell’occultismo moderno che utilizza un altro vocabolario per designare le stesse realtà: gli occultisti infatti concepiscono un mondo spirituale, un mondo astrale, un mondo materiale. L’uomo è composto da un corpo, un “doppio”, e da un’anima! Vecchio processo per togliere all’uomo la sua vera responsabilità e rifiutargli la maestria dei suoi atti. – Si ritrova in quanto esposto, tutto il protestantesimo. Lutero non ha affermato che l’uomo è incapace di un atto buono, che le opere sono inutili e che si è salvati dalla sola fede? Si ritrovano ancora qui i primi lineamenti della psicoanalisi moderna la cui funzione essenziale è di ricercare la sede del subcosciente nella “psiche”, motrice delle passioni, e di “liberare l’uomo  svelandogli che egli non è colpevole, bensì sempre vittima innocente delle pulsioni istintive alle quali deve lasciare libero corso perché esse non alterano la sua natura: liberazione sessuale, etc. (ora è facile capire perché “illustri” chierici rappresentanti del modernista satanico novus ordo, compreso le finte “autorità” usurpanti, ci tengano a farci sapere che essi sono stati e sono psicanalizzati ricevendone benefici, e spingere il “prodotto” sul mercato degli (in)fedeli antiCristo-gnostici “malgrado se stessi”).

« Le leggi scritte e le leggi naturali sono state concepite dagli dei inferiori e non sempre sono omologate dal vero Dio, la cui essenza oltrepassa ogni pensiero e la cui natura è indicibile.»

Gli gnostici sono per definizione antinomisti, cioè essi rifiutano ogni legge. Un essere la cui essenza è divina non ha bisogno di legge; questa è un mezzo per raggiungere un fine. Ora, l’essere divino è fine a se stesso. In più, una legge è emanata da una autorità che vi sottomette. Un essere divino è totalmente maestro di se stesso e non ha alcun bisogno di sottomissione. Questa legge naturale di cui parlano gli gnosticiè una costruzione arbitraria di uno spirito malvagioche vuole sottomettere gli altri esseri ai suoi capricci, è una soggezione indegna di una “fiammella divina”. Yahvé ha voluto chiudere la nostra natura divina in un corpo materiale ed imporci i suoi capricci.  Ecco un gran soggetto di indignazione per i nostri settari. Il vero “Dio”, è la pienezza della divinità, il “Pleroma”. La sua essenza è contenere tutti gli esseri ed inglobarli tutti in un immenso “tutto”. Non lo si può definire perché trascende tutti i limiti; esso è il “Gran tutto”, “l’Abisso innominato”. La salvezza per l’anima divina è perdersi in lui. – Si trova in quest’ultima proposizione la rivolta di colui che ha pronunciato il “non serviam” e che ha detto ad Adamo ed Eva. “Eritis sicut Dei”, se mangiate dall’albero della conoscenza (=Gnosi).

Il culto del serpente.

Tra le sette gnostiche esisteva quella degli “Ofiti” o Naasani (“ophis” in greco, e “naas” in ebraico significa serpente): questo sono i grandi gnostici, coloro che penetrato maggiormente nei misteri della rivelazione: « Noi veneriamo il serpente, dicono, perché Dio lo ha fatto causa della gnosi per l’umanità, egli porta all’uomo ed alla donna la completa conoscenza dei misteri dell’alto. » Essi si raccolgono intorno ad un tavolo, dispongono i pani, poi essi chiamano con incantesimo il serpente che viene ad arrotolarsi tra le offerte. Allora soltanto essi dividono il pane …  secondo loro è questo il sacrificio perfetto, la vera eucaristia. Così il cerchio è chiuso. Tutte queste elucubrazioni pretese sapienti, sono destinate in realtà ad allontanare i Cristiani dall’adorazione del vero Dio e portarli all’adorazione del serpente, supremo scopo della setta: questa celebrazione satanica somiglia senza errori alla cena rosacrociana praticata nei rituali massonici del 18° grado rosa+croce.

[continua …]