Il Magistero impedito: ORTODOSSIA, ERRORI E PERICOLI (1)

Gregorio XVII [26, X, 1958 – 2, V, 1989]:

il Magistero impedito.

ORTODOSSIA, ERRORI E PERICOLI (1)

.I.— Ortodossia

 [Lettera pastorale scritta il 1° agosto 1959; «Rivista Diocesana Genovese», 1959]

Cari confratelli, la verità soprattutto. La verità, qualunque verità, ha il fondamento in Dio e questa è la ragione per cui qualunque errore o prima o poi turba i rapporti con Dio. Dunque si deve difendere la verità, massimamente quella che Dio ha rivelato agli uomini e della quale è custode autorizzata la Chiesa. La verità può essere insidiata da proposizioni apertamente contrarie e questo, se accade, suscita ben presto le reazioni necessarie. Ma ben più frequentemente viene insidiata da posizioni inesatte od improprie attribuite a punti di vista, a problemi e a dubbi da prospettive false, da impostazioni vaghe ed inafferrabili, da stati d’animo, da preoccupazioni fantastiche e letterarie. In questi casi la reazione è difficile, perché richiede in genere una profonda e vasta cultura teologica. Sono precisamente questi i casi dei quali ci preoccupiamo, impressionati dalle confusioni mentali e dalle carenze che si delineano e delle quali, nel corso di questo scritto, cercheremo di cogliere le principali e le più sintomatiche. Infatti, nel secondo modo sopra elencato esiste in Italia una vera seminagione di errori. Dobbiamo levare la voce. – Cominciamo intanto a guardare «dove» tutto questo accade. Si possono individuare tre aree. Chi legge ci farà grazia se ci asteniamo dal fare citazioni di scritti, di fatti e di nomi: non abbiamo qui da fare citazioni di scritti, di fatti e di nomi: non abbiamo qui da fare della polemica, abbiamo solo da mettere in guardia. Non occorre molto a capire che la polemica non si conviene a noi.

La prima area è quella in cui prevale l’istinto letterario ai danni della teologia. Esiste infatti una produzione nella quale è chiaro che la Teologia fa le spese dell’estro letterario. Facciamo un esempio. All’istinto letterario vien bene, ad esempio, fare del dramma. Nel campo delle idee i drammi si fanno coi problemi accascianti, coi dubbi mortali, colle questioni tragiche, cogli stati d’animo arrossati e frementi. Ecco allora creare prospettive, cercare scorci intellettuali coi quali gettare le anime in una ansimante ricerca di cose che non vale la pena di cercare, per il fatto che sono già trovate. Ecco che ci si chiede allora, e ad esempio,. come si fa a conciliare umanesimo e grazia, ossia amore del mondo e amore di Dio. E una domanda questa? Leggete il Vangelo e saprete che la risposta è stata data chiarissima da venti secoli. Ma se si dice questo, non si può più esistenzialisticamente agonizzare sul margine di inafferrabili verità!

La seconda area sta nel campo politico. Bisogna dirlo con franchezza. Esistono in Italia pubblicazioni facenti capo a correnti politiche, le quali per scopi siti evidentemente al livello puramente politico comportano stati d’animo ed affermazioni difficili a conciliarsi colla ortodossia cattolica.

La terza sta nel campo sedicente sociale. Abbiamo messo intenzionalmente la parola «sedicente sociale». Non andremo mai d’accordo con coloro che intendono far il bene del popolo rovinando anzitutto quello con cui si fa il bene del popolo e cioè il regime di vera libertà ed un ordine economicamente solido. Non occorre molta intelligenza a capire che quando si enunciano donazioni o attribuzioni universali ai meno abbienti e se ne accaparrano così le simpatie, ma si imbastisce lentamente la congiura contro la libertà e l’ordine economico, si è semplicemente dei traditori e non dei sociali. Il giorno in cui avremo fatto dei magnifici contratti di lavoro e li avremo fermamente tutelati, ma avremo distrutto il lavoro perché avremo distrutte o ridotte le possibilità economiche colle quali soltanto si dà lavoro, noi avremo fatto qualcosa di più che un brutto scherzo. E quando giunti all’ultimo spalto, per salvare ancora questa possibilità, noi arrivassimo ad ipotizzare una pianificazione nella folle idea che la pianificazione sia sorgente, miniera, pozzo di san Patrizio etc. distruggendo la libertà, noi saremo diventati degli assassini di coloro che hanno sperato e che si sono fidati. E in questo spaventoso equivoco che sta l’area da noi detta francamente come «sedicente sociale». Orbene, in questa area si dicono talvolta cose, le quali possono non sembrare eresie e sono invece una somma di eresie. – Noi siamo ben consci di rendere un grande servizio, allorché difendiamo la verità, costi quello che vuol costare. Infatti il vero bene non si salva mai, o prima o poi, nel solco degli errori. Per debito di chiarezza noi enunceremo gli errori serpenti sotto forma di proposizioni definite e chiare, avvertendo che difficilmente si troveranno gli errori espressi in forma cruda, ma la sostanza dei quali esiste pericolosamente palliata sotto menzognere apparenze.

I.

«Il Cristianesimo non è completamente attrezzato per produrre un ordine puramente terreno che sia di pieno benessere e di solido ordine civile. Ciò perché Dio ha voluto con esso provvedere alla vita eterna, disinteressandosi di quello al quale aveva già provveduto coll’ordine naturale. Pertanto il Cristianesimo deve lasciare il campo a quelle umane iniziative possibilissime, le quali meglio e più direttamente provvedono al benessere e all’ordine terreno. La Chiesa deve agire di conseguenza». Questa proposizione è il reale fondamento di affermazioni non ben delineate e pudicamente contenute, di allusioni, di prospettive, di simpatie e di stati d’animo reattivi e violenti. Bisogna avere il duro coraggio di vederla dove è. Bisogna dire a taluni uomini chiaramente che essi, anche se mentiscono a se stessi, accettano e vivono o per lo meno si comportano come se quella proposizione ritenessero vera e sicura. Orbene tale proposizione in un modo o nell’altro contiene una generale interpretazione errata della rivelazione divina, in più contiene esplicitamente o virtualmente errori incompossibili con certe proposizioni teologiche. Dobbiamo vederlo ordinatamente.

1. La proposizione della quale ci occupiamo suppone in modo formale la negazione di quest’altra proposizione: «l’ordine soprannaturale innalza tutto l’ordine naturale sia colla destinazione dell’uomo alla vita eterna, sia logicamente colla elevazione di lui nella grazia». – Infatti l’ordine di grazia eleva tutto, tocca tutto e nulla lascia fuori del suo raggio. Dire pertanto che esiste un ordine naturale il quale se ne va per conto proprio accanto ad un ordine soprannaturale, costituendo una coppia di parallele le quali non si incontrano, è incongruenza con tutta la rivelazione divina.

2. La citata proposizione è poi direttamente contraria a quest’altra: «Gesù Cristo, Verbo di Dio, è quello nel quale sono state fatte tutte le cose, nel quale tutto è stato restaurato, sicché a Lui genuflettono tutte le realtà in cielo in terra e negli inferni, mentre di tutta la storia anche semplicemente terrena Egli è il giudice definitivo non solo secondo un codice di legge naturale, ma secondo il codice evangelico. Infatti al giudizio universale il mondo sarà giudicato anzitutto a proposito della carità, legge tipicamente evangelica. Per tutti questi motivi Gesù Cristo non è valevole solo dinnanzi alle anime che si debbono salvare, ma è il Signore, il Redentore, il Legislatore dinnanzi a tutta la realtà terrena. Questa deve scegliere tra Lui e quello che non è di Lui, ma in questa scelta elegge tra la propria vita e la propria morte come asserì, Lui bambino, il vecchio profeta Simeone». Il Cristianesimo non è parallelo alla storia, è l’anima della storia. Gesù Cristo non è in terra un divino turista in incognito, che segretamente si interessa di anime e di destini eterni, è Lui stesso uomo, Figlio dell’uomo e Signore degli uomini, i quali non possono ignorarlo che colpevolmente e che debbono rinnegare qualunque cosa per seguirlo, anche il padre e la madre, anche i beni terreni, anche la vita.

3. La proposizione in esame non è affatto compossibile con la seguente proposizione, la quale riassume una dottrina certa: «Gesù Cristo ha dato, sia confermando, sia perfezionando la antica legge morale, una legge completa per condurre tutti gli uomini meritoriamente alla vita eterna». Infatti tale legge ordinando ogni atto «umano» ordina tutte le situazioni possibili dell’uomo in tutta la sua storia concreta. In più la «ordina» in modo esclusivo, perché nessuna altra legge può venire accettata in contrasto con questa. Che tale legge «ordini» significa come per divina volontà indirizzi gli uomini al massimo di perfezione possibile sia nei confronti della natura, sia nei confronti del cosmo, sia nei confronti delle possibili contingenze. E carattere inalienabile della legge divina essere, per la stessa unità di Dio, coerente con quanto Dio fa e coerente pertanto con quanto esiste. Tanto basta per dedurne che la legge cristiana, in base alla Rivelazione, rappresenta il massimo apporto normativo, sotto tutti i punti di vista, anche per il vero e durevole benessere terreno. Si noti bene che tale conclusione impegna principi sommi ed indiscutibili ed è garantita in modo perentorio dagli stessi sommi e indiscutibili principi. In realtà la proposizione errata, che stiamo esaminando, proviene da una colpevolissima confusione di sommi principi, oltreché da una sostanziale mutilazione della rivelazione divina. Se coloro i quali si lasciano, o per ignoranza di teologia o per carenza di strutture logiche, «tingere» da essa riflettessero bene, sarebbero inorriditi dallo scempio che fanno di una somma verità. – Lo scempio equivale ad una negazione di Gesù Cristo. Essi infatti credono o vorrebbero credere solo in un Gesù Cristo incognito divino turista in questo mondo, resosi tale per non disturbare la superbia e la leggerezza umana.

4. La proposizione non è compossibile colla seguente proposizione: «La Chiesa è vera società, perfetta, visibile, gerarchica». Tutti pensare ad una possibile media di perfezione degli uomini colle loro sole forze, se si considera quanto accade pur avendo a disposizione la grazia di Dio. E difficile pensare che una possibilità di perfezione tra gli uomini, abbandonati alle loro forze, non sia puramente platonica e in contrasto netto colla più semplice esperienza. Quanto a pensare che un ordine umano e durevole possa costruirsi senza una sufficiente perfezione nella media degli uomini è lo stesso che pensare possibile un ordine tra uomini liberi senza interiorità, senza convinzione, senza giustizia e senza verità. – Dobbiamo anche fare l’ipotesi che qualcuno pensi alla possibilità di realizzare un ordine puramente umano, mediante l’aiuto della grazia ai singoli, in modo però da lasciar fuori la Chiesa. Qualcuno di fatto pensa così. Si disilluda: l’ordine della grazia non lo si disgiunge dal quadro nel quale lo ha collocato Gesù Cristo. Egli ha fatto la Chiesa società necessaria. Dunque condiziona anche la grazia in modo che a escludere la Chiesa (salvo il beneficio della ignoranza incolpevole), si esclude anche la amicizia con Gesù Cristo. La verità è che il Cristianesimo non ha avuto lo scopo ultimo di creare maggiori agi agli uomini in questo mondo, perché esso ha lo scopo eterno. Tuttavia è non meno certo che esso, ordinandoli alla vita eterna, offre il miglior ordinamento pensabile per la vita terrena. Offre il più alto perfezionamento delle loro azioni, i più alti motivi per stimolarle ed animarle rettamente, le più alte verità per dare ad esse inconcussa sicurezza ed efficace controllo, i più fecondi sussidi per ridurne e vincerne le naturali debolezze, i massimi punti di riferimento al disopra della umana saggezza, la più completa visione di una contingente ed effimera vita che, proprio perché effimera, non ha in sé sola alcunché di pieno e di conclusivo. – Il Cristianesimo non è un sistema economico, o politico; lascia agli uomini libertà di sfruttare le proprie risorse intellettuali e volitive in differenti modi; ma nessun sistema economico o politico potrà andar bene se non si accorderà con la suprema norma della quale esso solo è fatto da Dio depositario. Anzi nessuno potrà avere vero vantaggio, se non ispirandosi direttamente e fiduciosamente a quanto la sua dottrina formula e propone. Non possono infatti esistere due verità e due ordini indipendenti non più di quanto non possono esistere due dei. Quanto detto serva a rimanere in guardia sul permanente equivoco, talvolta non voluto, ma sempre pericoloso, che dilaga allorché si parla di «umanesimo» in senso sociale e politico. Non ci interessa qui la parola «umanesimo» se con essa si vuol significare un mondo letterario ed artistico che ha avuto la sua storica funzione; qui la parola ci interessa per la costante insinuazione che oggi fa sul terreno sociale politico, giuridico e religioso di affermazioni confuse, indigeste, cangianti, le quali possono in qualunque momento cambiarsi in errori formali o in complete apostasie, siccome sopra si è dimostrato. – Non si dica che bisogna incoraggiare il bene dovunque si trova, che non si deve fuggire da questo mondo costretti come si è a viverci, che bisogna presentare una buona cera a quelli che sono lontani da Cristo, che non si deve far la parte dei suoceri tirchi e dei mentori fastidiosi. Tutto questo può avere un senso anche legittimo; ma non è affatto legittimo per fare questo alterare la verità del peccato originale (con un ritorno a Lutero), la verità della necessità della grazia (con un ritorno a Pelagio), la verità della riduzione di tutto ad un unico principio (con un ritono alla gnosi e a Manete). Sorridiamo pure alle molte cose belle che Dio ha posto generosamente anche in questo mondo; incoraggiamo pure e sempre tutti i nostri simili, ma badiamo a non diventare così sprovveduti da rovinare la impalcatura della verità con la quale si salveranno per questa e per l’altra vita. Siamo pure generosi colle cose nostre, ma non facciamo getto del patrimonio di Dio!

(Continua…)

 

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (5), cap. VII

CAPITOLO VII.

PRELUDI DELL’ESECUZIONE.

Anno, giorno ed ora dell’esecuzione.— Numerosi passi dei Padri, e degli Storici; tra gli altri di Tertulliano, di S. Agostino, di S. Giovanni Crisostomo, di Petavio, di Marianov, di Baronio. — Luogo ove fu emanata la sentenza: il Pretorio. — Descrizione del Pretorio. — Condotta dei condannati al luogo della esecuzione. — Descrizione della ina dolorosa. — La Porta giudiziaria. — Perché gli antichi rendevano giustizia presso le porte della città.

Era il venerdì, 25 marzo, il trigesimoquarto anno dell’èra cristiana, e il diciottesimo del regno di Tiberio, sotto il consolato di Rubellio Gemino e di Rufio Gemino, tra la quinta e la sesta ora del giorno, vaie a dire tra le ore undici e il mezzodì, come lo dimostreremo. Sono le date precise, che la Scrittura e gli antichi Padri, più che noi a portata di conoscere l’epoca degli avvenimenti, assegnano alla crocifissione di Nostro Signore, e per conseguenza del buon Ladrone. – « La passione, dice Tertulliano, o secondo l’espressione del profeta, lo sterminio del Signore, ebbe luogo nel corso delle 72 settimane di Daniele, sotto Tiberio Cesare, essendo consoli Rubellio Gemino, e Rufio Gemino, nel mese di marzo, ricorrendo la Pasqua il giorno otto avanti le calende di aprile, primo degli azzimi. » – S. Agostino tiene Io stesso linguaggio di Tertulliano. « Nostro Signore soffrì, nessuno lo pone in dubbio il sesto giorno avanti il sabato; ed è perciò che il sesto giorno è consacrato al digiuno. La tradizione degli antichi tenuta dall’autorità della Chiesa, ci fa sapere che Nostro Signore fu concepito il 25 di marzo, e che nel medesimo giorno fu crocifisso. Nostro Signore è dunque morto sotto il consolato dei due Gemini, il 25 di marzo » [De Civ. ei, cap. XVIII, c. LIV] – La medesima testimonianza si ha da s. Giovanni Crisostomo. « Nostro Signore, egli dice, ha sofferto l’ottavo giorno avanti le calende di aprile, nel mese di marzo, che è il giorno della Pasqua della Passione del Signore, come del suo concepimento; perché egli morì lo stesso giorno in cui fu concepito 8 [Ser. de S. Joan. Bapt.]. – Riassumendo l’ antica tradizione, a sostegno della quale sarebbe assai facile allegare altre testimonianze, Beda si esprime così: « Nostro Signore fu crocifisso e seppellito il venerdì. . . Ch’Egli fosse crocifisso il giorno ottavo avanti le calende di aprile, e che risuscitasse il sesto giorno prima delle stesse calende è un sentimento divenuto volgare per l’autorità di un gran numero di dottori della Chiesa. » [De rat. Temp. c. XIV]. Termineremo aggiungendo che questa data venne consacrata nel martirologio Romano, ed è talmente rispettata nella Chiesa, che Ruggiero Bacone alla fine del secolo decimoterzo, e Alfonso Tostato nel secolo appresso, avendo osato rivocarla in dubbio, furono severamente rimproverati dalle autorità competenti. – A questa venerabile tradizione, alcuni si avvisarono di opporre non so quali tavole astronomiche. « Nelle sue Regole sull’uso della critica, il dotto Onorato di santa Maria dimostrò, che quelle tavole non eran punto d’accordo fra loro; ed il dottissimo P. Petavio, dopo averle accuratamente esaminate, ne rilevò i molti difetti. » – Passiamo all’ ora della crocifissione. È noto che gli Ebrei dividevano il giorno e la notte in quattro parti eguali che chiamavano ore. Ciascuna ora giudaica equivaleva a tre delle nostre. Le ore del giorno avevano dei nomi, che la nostra Chiesa, in memoria delle varie scene della Passione, ha religiosamente conservati nel divino officio. Quella che cominciava al levar del sole era detta prima; e trovandoci all’equinozio di primavera, il giorno della morte di Dima, essa era incominciata alle ore sei. La seconda chiamata tertia durava dalle nove al mezzo dì. La terza chiamata sexta correva da mezzo giorno alle tre pomeridiane. La quarta detta nona si svolgeva dalle tre alle sei pomeridiane. Il buon Ladrone fu crocifisso all’ora medesima di Nostro Signore; ma qui si presenta una difficoltà. S. Marco dice che Gesù fu crocifìsso all’ora terza [« Erat autem hora tertia et crucifìxerunt eum. » XV, 25]. S. Giovanni, testimonio oculare, scrisse: « Ed era la Parasceve della Pasqua, e circa la sesta ora, e Pilato disse ai Giudei: Ecco il vostro Re. Ma essi gridavano: togli, togli, crocifiggilo. Allora dunque lo diede nelle loro mani, perché fosse crocifisso. Presero pertanto Gesù, e lo menarono via. » [XIX, 14, 15, 16]. – Non ci vuol molto a conciliare i due Evangelisti, e dimostrare che entrambi dicono la precisa verità. Con s. Marco i Padri della Chiesa affermano, che Nostro Signore e i due compagni furono affissi alla croce verso il fine dell’ora terza, ciò è dire poco innanzi al mezzodì; e con s. Giovanni dicono che fossero crocifissi verso il cominciar dell’ora sesia. In altri termini vogliono dire che la crocifissione ebbe luogo nel preciso momento, che univa la fine dell’ora terza col principio della sesta. « All’ora sesta, dicono le Costituzioni apostoliche, lo attaccavano alla croce; alla terza avevano ottenuta la sentenza che lo condannava. » La sentenza della crocifissione, pronunziata nel corso dell’ora terza, era il principio della crocifissione, la cui materiale esecuzione avvenne sul finire di detta ora ed al principiar della seguente, cioè dalla sesta (quasi hora sexta come disse s. Giovanni. « Quindi è, prosegue s. Ignazio di Antiochia, che la vigilia di Pasqua, all’ora terza, Pilato, permettendolo l’Eterno Padre, condannava Gesù, ed immediatamente all’ora sesta Gesù fu crocifisso. [Epist. ad Trallens.] Ora conosciamo l’ora della condanna, tra le undici ore cioè ed il mezzogiorno; ma dove fu emanata? Essa lo fu nel Pretorio di Pilato. E che cosa era mai questo luogo divenuto sì tristemente e sì gloriosamente celebre? Si chiamava Pretorio la residenza del Pretore. Presso i Romani il Pretore era un magistrato incaricato di rendere giustizia. Siccome i grandi magistrati civili e militari inviati in missione erano rivestiti del potere giudiziario, erano perciò chiamati Pretori, e la loro abitazione era detta Pretorio. Nella residenza poi il Pretorio propriamente detto era una sala del palazzo pretoriale. ove il magistrato rendeva giustizia. In campagna la stessa tenda del generale diveniva il Pretorio. A fine d’ispirare maggior rispetto all’autorità e dignità dei capi, quella tenda collocavasi nel luogo più eminente, dal quale si potesse scorgere tutto il campo, ed in mezzo ad un quadrato, ciascun lato del quale si discostava di cento passi dalla tenda; nei quattro angoli di un tal quadrato, erano le tende destinate alle guardie del generale. Quando egli voleva dar l’ordine del combattimento, spiegava in cima alla sua tenda un rosso vessillo, acciò potessero ben vederlo i soldati. Così parimente in quella tenda si raccoglievano gli ufficiali per ricevere gli ordini del capo, il quale quando doveva far le parti di giudice, assidevasi sopra un palco circolare. – A Gerusalemme il Pretorio di Pilato era l’antico palazzo del re Erode I, il qual palazzo era a piè del colle, su cui elevavasi la torre o fortezza Antonia. Anche oggigiorno se ne vedono i ruderi, ed il palazzo è divenuto una caserma dei Turchi. A somiglianza dei Pretori militari, in prossimità e sotto il portico posto all’Occidente, e che prospettava il Calvario, era la guardia Romana, la quale ordinariamente era stabilita nel pian terreno del Pretorio, ove si rinchiudevano i prigionieri. La piazza, che si apriva innanzi a quella residenza, aveva un pavimento in mosaico, secondo il lusso di quella età; lusso portato allora tanto oltre, che Cesare fin nel campo faceva coprir di mosaico il luogo nel quale ergeva il suo tribunale. – Su questa piazza erano raccolti i sacerdoti, i seniori o tutto il popolo, quando chiesero la morte di Nostro Signore. Una loggia sul portico del Palazzo fu il luogo d’onde Pilato mostrò l’uomo Dio flagellato, dicendo: Ecce homo. Qual consolazione per il cristiano pensare che quel loggiato, mezzo rovinato, fu ai giorni nostri comprato dalle Religiose di Sion, e che nella Chiesa, in cui venne rinchiuso quel venerabile monumento, le Figlie d’Israele offrono le loro preghiere e le loro lacrime per espiare il delitto dei loro padri, ed ottenere la conversione dei loro fratelli! – Erano passate le ore undici quando Pilato fece un ultimo tentativo per salvar la vita del Giusto. In memoria della loro liberazione dall’ Egitto, i Giudei avevano conservato 1’uso di dare nelle feste di Pasqua la libertà ad un condannato. Pilato non propose loro la grazia né di Dima, né del suo compagno, forse perché non erano abbastanza odiosi al popolo; [Si noti che i due ladroni, come si disse più sopra, furono condannati in Gerico, e non in Gerusalemme; non potevano perciò essere tanto odiosi al popolo dì Gerusalemme, come lo era Barabba, che giaceva da qualche tempo nelle prigioni di questa Città, ed era un famoso assassino], ma pose loro innanzi Barabba sperando senza fallo che non 1’avrebbero preferito a Gesù. Vana speranza! Qui noi entriamo in una serie di profondi misteri, che andranno svolgendosi fino alla morte di Nostro Signore e dei suoi due compagni. Due uomini son posti a confronto: il novello Adamo tutto ricoperto di piaghe: il vecchio Adamo tutto ricoperto di delitti. Il novello Adamo rappresentato dall’Uomo-Dio, che si lascia condannare per la salvezza del vecchio Adamo: Barabba che rappresenta il vecchio Adamo, salvato per la condanna del nuovo. Siccome il Giusto per eccellenza raffigura tutta l’umanità rigenerata, il gran delinquente raffigura l’umanità degradata, e da quattro mila anni rea di delitti, di sedizioni, di assassinii e di furti. – La condanna del Giusto, appena pronunziata, apre le porte della prigione a Barabba. Così la morte del novello Adamo cava fuori tutta quanta l’umanità dal tenebroso carcere, nel quale gemeva da tanti secoli, e la rende alla libertà dei figli di Dio. Questo momento è il più solenne della storia, ed il più fecondo di conseguenze per il passato e per l’ avvenire. – Posposto il Giusto al colpevole, si traggono dalla loro prigione i due ladroni, e si riuniscono col Figliuolo di Dio. Tutti e tre hanno sugli omeri la loro croce. Gesù è coperto della sua veste inconsutile, i ladroni vanno ignudi. Una folla immensa, avida, affannata, fremente si porta sulla piazza del Pretorio, e tutte occupa le vie che debbono percorrere i condannati. La romana coorte di circa mille e duecento soldati basta appena a frenare i moti incomposti della moltitudine. Alle ore undici e mezzo fu dato il segno della partenza, e l’esecuzione ebbe luogo a mezzodì, poiché dal Pretorio alla sommità del Calvario v’ha poco più di un chilometro; e questa strada è quella che a giusto titolo è chiamata la Via dolorosa. – Il corteggio passò sotto il loggiato, dall’alto del quale Nostro Signore era stato mostrato al popolo. La via sulla quale Egli si trova, lunga quasi due cento passi, è a china, scende fin dove s’incontra con quella che vieti dalla porta di Damasco, altra volta detta di Efraim. – A sinistra scendendo, si trovava la Santissima Vergine, che in tutta quella crudele mattinata si era trattenuta nelle vicinanze del Pretorio. Volendo per l’ultima volta vedere il suo divino Figliuolo, Ella si pose sul luogo del di Lui passaggio, e alla sua vista cadde tramortita. – Uscendo da quella via i condannati passarono innanzi la casa del cattivo ricco, di cui parla il Vangelo, ed entrarono in un’altra via dritta, e di faticosa salita. Verso la metà di essa, a sinistra, era la casa di santa Veronica; e fu qui che la pia e coraggiosa donna, traversando il folto drappello dei soldati, giunse a portata di asciugare con un bianco lino, divenuto poi immortale, il volto del Salvatore, grondante di sudare e di sangue. Dima e il suo compagno furono testimoni di quest’atto eroico. E che mai pensar dovettero del loro compagno di supplizio, oggetto di sì ardente amore? E soprattutto qual dovette essere la loro meraviglia allorché sereno e pietoso lo videro volgersi alla moltitudine e alle donne, che lo seguivano piangendo, e dire ad esse: «Figlie di Gerusalemme, non piangete sopra di me, ma piangete su di voi stesse, e sopra i vostri figliuoli! » Pare a noi che non sia mestieri di un grande acume, e di una grande intelligenza per ravvisare in questi fatti disposti dalla divina Provvidenza, altrettante operazioni preparatorie della miracolosa conversione, che ben tosto era per divenire un fatto. – All’estremità di quest’ultima via era la Porta giudiziaria, sotto la quale i condannati passar dovevano prima di giungere al luogo del supplizio. Qui finiva la città a quell’epoca, ed anche oggidì è facile di riconoscere che in quel luogo era un’antica porta. La porta giudiziaria trovavasi in tutte le città della Giudea, e le si dava un tal nome, perché i seniori ivi seduti rendevano giustizia. Nel Deuteronomio si legge: Se un uomo avrà generato un figliuolo contumace e protervo, che non ascolta i comandi del padre o della madre, e castigato ricusa dispettosamente di obbedire; ei lo prenderanno e lo condurranno davanti ai seniori di quella città, alla porta dove si tiene ragione, e diranno loro: questo nostro figliuolo è protervo e contumace, si fa beffe delle nostre ammonizioni, non pensa ad altro che a bagordi, dissolutezze, e conviti; allora il popolo della città lo lapiderà, ed ei morrà; affinché sia tolta di mezzo a voi l’iniquità. » [Deutcr., XXI, 18]. – Perché mai gli antichi popoli avevano fissato i loro tribunali o pretorii alle porte della città? Diverse sono le ragioni che se ne arrecano. In primo luogo, perché gli stranieri entrando nella città fossero compresi di rispetto alla vista dell’autorità costituita. Di ciò viene che appo i Giudei il vocabolo porta era sinonimo di potenza; ed è pur tale oggigiorno in quella frase che molti profferiscono senza comprenderla, la sublime porta, per indicare la potenza musulmana. È inutile aggiungere che il più solenne impiego di questa espressione ritrovasi nelle divine parole, che alla nostra Chiesa son arra della sua immortalità: Tu es Petrus, et super hanc petram ædificabo ecclesiam meam: et portæ inferi non prævalebunt adversus eam. La seconda ragione si era di conservare la tranquillità e l’ordine nella città, l’ingresso alla quale era interdetto ai litiganti prima del termine del loro processo, o di aver convenuto fra loro in un pacifico accomodamento.

(Continua ...)

 

 

UN’ENCICLICA al giorno, TOGLIE GLI APOSTATI ED ERETICI DI TORNO: “E SUPREMI APOSTOLATUS”

Scegliamo oggi, 3 settembre, una lettera Enciclica dell’Ultimo Papa canonizzato validamente, San Pio X, Giuseppe Sarto, la prima enciclica del Santo, nella quale già si delineavano perfettamente le caratteristiche del suo Pontificato, per la custodia gelosa del deposito della fede Apostolica nel Magistero Cattolico di sempre. E la sua visione del mondo di allora, oggi ancor più drammatica di quella dell’epoca, è molto  reale, pragmatica, lucida. Il rimedio che propone per risolvere i mali denunciati è il “rinnovare tutte le cose in Cristo”, come già si esprimeva l’Apostolo delle genti nella lettera indirizzata ai fedeli di Efeso. È una ricetta semplicissima che, se messa in pratica, [allora non lo fu … con le conseguenze che ben sappiamo dalla storia] risolverebbe i mali ancor più decuplicati di oggi. Tutti i presunti nemici della Chiesa, della società, dell’uomo, di volta in volta indicati da dotti analisti attenti, letterati, uomini di cultura o di fede, e finanche dai cosiddetti complottisti “lucidi”, di qualunque appartenenza, etnica, politica, settaria, etc. non avrebbero più spazio se si tornasse a Dio, ad onorare il Figlio suo Gesù-Cristo, la sua Santa Chiesa Cattolica. Il male non parte allora dai “castigatori” che il Signore lascia operare apparentemente indisturbati e dilaganti, ma da noi tutti falsi cristiani che abbiamo pensato, e tuttora pensiamo, di poter fare a meno di Dio e dei suoi Strumenti per abbandonarci nelle mani di scienziati, filosofi, tecnocrati, pedagoghi, sociologi, finanzieri, pensatori, politici, neo-teologi del nulla, professori universitari, ciarlatani vari, illudendoci che potevamo risolvere ogni problema da soli! Pazzi illusi, come illusi sono tutti coloro che, pur  analizzando inappuntabilmente e con dotte argomentazioni, i vari mali dell’umanità, non vedono o chiudono poi gli occhi davanti alla loro unica e vera causa, rimossa la quale, sarebbero presto risolti i nostri guai: materiali, sociali e spirituali. Non diceva forse già il Re-Profeta, o per lui Asaf, in uno dei suoi Salmi più eloquenti e profondi: “Exsultate Deo”: “Si populus meus audisset me, Israel si in viis meis ambulasset, pro nihilo forsitan inimicos eorum humiliassem, et super tribulantes eos misissem manum meam. Inimici Domini mentiti sunt ei, et erit tempus eorum in sæcula. Et cibavit eos ex adipe frumenti, et de petra melle saturavit eos.” [Ps. LXXX] “… se il mio popolo mi ascoltasse, se [i cristiani] camminassero per le mie vie! Subito piegherei i suoi nemici e contro i suoi avversari porterei la mia mano. I nemici del Signore gli sarebbero sottomessi e la loro sorte sarebbe segnata per sempre; li nutrirei con fiore di frumento, li sazierei con miele di roccia”. È inutile puntare il dito verso questi o quelli, settari, atei, eretici, finanzieri, banchieri, famiglie di kazari ed altro, … se ascoltassimo il Signore, se praticassimo la sua giustizia, le sue leggi ed i dettami della Santa Madre Chiesa di Cristo, la sorte dei nemici, sarebbe segnata per sempre. In fondo è quanto dice il Santo Pontefice in questa stupenda Enciclica scritta all’inizio del suo santo Pontificato come manifesto programmatico. Leggiamola attentamente e facciamola nostra in tutte le sue parti, cacciando via tutti gli azzeccagarbugli atei, i mondialisti, i marrani del novus ordo e degli scismatici pseudo chierici da strapazzo. Solo il ritorno sincero, contrito e penitente a Dio, potrà salvarci dalla inevitabile rovina che già aleggia tenebrosamente sull’umanità tutta: “E supremi Apostolatus Cathedra, ad quam, consilio Dei inscrutabili, …”

LETTERA ENCICLICA
E SUPREMI

DEL SOMMO PONTEFICE
PIO X
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI,
PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
E AGLI ALTRI ORDINARI LOCALI
CHE HANNO PACE E COMUNIONE
CON LA SEDE APOSTOLICA,
SUL PROGRAMMA DI PONTIFICATO
 

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

1. Nel momento in cui vi rivolgiamo la parola per la prima volta dall’alto di questa cattedra apostolica alla quale, per imperscrutabile volontà di Dio, Noi siamo stati elevati, non è il caso di ricordare con quali lacrime e con quali ardenti preghiere Noi abbiamo tentato di allontanare da Noi questo tremendo peso del Pontificato. Infatti, malgrado l’assoluta disparità dei meriti, Ci sembra di poter fare Nostro il lamento di Sant’Anselmo, uomo santissimo, quando, malgrado la sua energica opposizione, fu costretto ad accettare l’onore dell’episcopato. Gli stessi segni d’afflizione che egli manifestò allora, sono anche in Noi, e rivelano con quale animo e con quale volontà Noi abbiamo accolto il gravosissimo mandato di pascere il gregge di Cristo. “Sono qui a testimoniarlo — sono parole sue [1] — le mie lacrime e le voci e i ruggiti del mio cuore afflitto, quali non ricordo di avere mai espresso per nessun dolore prima di quel giorno in cui parve si abbattesse su di me la grave sventura dell’arcivescovado di Canterbury. Coloro che in quel giorno fissarono il loro sguardo sul mio volto non poterono ignorare tale fatto… Più simile a un cadavere che a persona viva, ero pallido di stupore e di costernazione. A questa mia elezione, o piuttosto a questa violenza, mi sono finora opposto, in verità, per quanto ho potuto. Ma ora, volente o nolente, sono costretto ad ammettere ogni momento che la volontà di Dio sempre più resiste ai miei tentativi, sicché in nessun modo posso sottrarmi ad essa. Pertanto, non già vinto dalla violenza degli uomini quanto piuttosto da quella di Dio, contro la quale non esiste riparo, dopo avere pregato quanto ho potuto ed essermi adoperato per allontanare da me, se possibile, questo calice senza che ne bevessi, … posponendo il mio sentimento e la mia volontà, mi sono rimesso interamente alla decisione e alla volontà di Dio”.

2. Certamente non mancavano molte e serie ragioni per sottrarCi all’incarico. Infatti, tenuto conto che per la Nostra fragilità in nessun caso eravamo degni dell’onore del Pontificato, chi non si sarebbe turbato per essere designato a succedere a colui che, avendo governato la Chiesa con grande sapienza per quasi ventisei anni, si segnalò per tanta vivacità d’ingegno, per tanto splendore d’ogni virtù da farsi ammirare anche dagli avversari e da consacrare la memoria del suo nome con nobilissime opere?

3. Inoltre, tralasciando il resto, eravamo terrorizzati dall’attuale, deplorevole condizione del genere umano. Chi può ignorare, infatti, che la società umana è ora afflitta, più ancora che nelle età trascorse, da un gravissimo, intimo morbo che, aggravandosi di giorno in giorno, e corrompendola in ogni fibra, la conduce allo sfacelo? Voi comprendete, Venerabili Fratelli, quale sia tale malattia: l’abbandono e il rifiuto di Dio, ai quali è inesorabilmente associata la rovina, secondo le parole del Profeta: “Ecco, coloro che si allontanano da te periranno” [2]. Pertanto Noi comprendevamo che, nel nome della missione pontificale che si voleva affidarCi, occorreva che contrastassimo tanto male. Ritenevamo infatti come rivolto a Noi il precetto di Dio: “Ecco, oggi ti ho posto sopra le nazioni e sopra i regni, affinché tu sradichi e distrugga e disperda e dissolva ed edifichi e pianti” [3]. Ma, consapevoli della Nostra debolezza, temevamo d’intraprendere un’impresa della quale nulla è più urgente e più difficile.

4. Tuttavia, poiché a Dio piacque innalzare l’umiltà Nostra a questa pienezza di potere, rivolgemmo l’animo a “Colui che ci conforta”, e sorretti dalla virtù divina mentre mettiamo mano all’impresa, dichiariamo che nell’esercizio del Pontificato Noi abbiamo un solo proposito: “Rinnovare tutte le cose in Cristo” [4], affinché sia “Tutto e in tutti Cristo” [5]. Vi saranno certamente taluni che, applicando alle cose divine una misura umana, tenteranno di spiare le Nostre riposte intenzioni e di volgerle a scopi terreni e ad interessi di parte. Per togliere a costoro ogni vana speranza, Noi affermiamo con grande determinazione che Noi altro non vogliamo essere — e con l’aiuto di Dio lo saremo nella società umana — che ministri di Dio, il quale Ci ha investito della sua autorità. Le ragioni di Dio sono le ragioni Nostre; è stabilito che ad esse saranno votate tutte le Nostre forze e la vita stessa. Perciò se qualcuno chiederà quale motto sia l’espressione della Nostra volontà, risponderemo che esso sarà sempre uno solo: “Rinnovare tutte le cose in Cristo”. Nell’intraprendere e perseguire questa magnifica opera, Venerabili Fratelli, infonde in Noi un grande ardore la certezza di avere in voi tutti degli strenui collaboratori nel realizzare tale impresa. Se ne dubitassimo, dovremmo giudicarvi, a torto, come ignari o indifferenti verso questa nefasta guerra che ora e dovunque è dichiarata e condotta contro Dio. Infatti contro il loro Creatore “le nazioni ebbero fremiti di ribellione e i popoli concepirono idee insensate” [6], e quasi unanime è il grido dei nemici di Dio: “Allontànati da noi” [7]. Perciò si è estinta del tutto nei più la riverenza verso l’eterno Dio, e nella condotta della vita, sia pubblica sia privata, non si tiene in alcun conto il principio della Sua suprema volontà; ché anzi con tutte le forze e con ogni artificio si tende a sopprimere completamente addirittura il ricordo e la nozione di Dio.

5. Chi considera ciò, deve pur temere che questa perversione degli animi sia una specie di assaggio e quasi un anticipo dei mali che sono previsti per la fine dei tempi; e che “il figlio della perdizione”, di cui parla l’Apostolo [8], non calchi già queste terre. Con somma audacia, con tanto furore è ovunque aggredita la pietà religiosa, sono contestati i dogmi della fede rivelata, si tenta ostinatamente di sopprimere e cancellare ogni rapporto che intercorre tra l’uomo e Dio! E invero, con un atteggiamento che secondo lo stesso Apostolo è proprio dell’“Anticristo”, l’uomo, con inaudita temerità, prese il posto di Dio, elevandosi “al di sopra di tutto ciò che porta il nome di Dio”; fino al punto che, pur non potendo estinguere completamente in sé la nozione di Dio, rifiuta tuttavia la Sua maestà, e dedica a se stesso, come un tempio, questo mondo visibile e si offre all’adorazione degli altri. “Siede nel tempio di Dio ostentando se stesso come se fosse Dio” [9].

6. Ma nessuno sano di mente può mettere in dubbio l’esito della battaglia condotta dai mortali contro Dio. È concesso infatti all’uomo, che abusa della propria libertà, di violare il diritto e l’autorità del Creatore dell’universo; tuttavia è da Dio che dipende sempre la vittoria: ché anzi è tanto più prossima la sconfitta, quanto più l’uomo, sperando nel trionfo, si ribella con maggiore audacia. Dio stesso ci ammonisce nelle sacre Scritture: “Chiude gli occhi sui peccati degli uomini” [10] come fosse immemore della propria potenza e della propria maestà [11], ma poi, dopo questo apparente ripiegamento, “risvegliandosi come un potente inebriato dal vino, spezzerà le teste dei suoi nemici” [12] affinché tutti sappiano “che Dio è re di tutta la terra” [13] e “perché le genti comprendano che sono soltanto uomini” [14].

7. Tutto ciò, Venerabili Fratelli, fa parte della nostra salda fede e delle nostre attese. Tuttavia tale fiducia non ci dispensa, per quanto dipende da noi, di propiziare il compimento dell’opera di Dio, e ciò non solo insistendo nella preghiera: “Sorgi, o Signore, perché l’uomo non prevalga” [15]. In verità, ciò che più interessa è che nelle opere e nelle parole, in piena luce, sostenendo e rivendicando il supremo dominio di Dio sugli uomini e su tutte le altre creature, siano santamente onorati e rispettati da tutti il Suo diritto e il Suo potere di comandare. E ciò non è soltanto richiesto dal dovere imposto dalla natura, ma anche dal comune interesse del genere umano. Chi mai, infatti, Venerabili Fratelli, non si sentirà turbato dalla trepidazione e dall’angoscia nel vedere che gli uomini — mentre si esaltano giustamente i progressi umani — si combattono atrocemente la maggior parte fra loro, così che quasi vi è guerra di tutti contro tutti? Il desiderio di pace è certamente un sentimento comune a tutti, e non vi è alcuno che non la invochi ardentemente. La pace, tuttavia, una volta che si rinneghi la Divinità è assurdamente invocata: dove è assente Dio, la giustizia è esiliata; e tolta di mezzo la giustizia, invano si nutre la speranza della pace. “La pace è opera della giustizia” [16]. Noi sappiamo infatti che non sono pochi coloro che, sospinti dall’amore di pace e anche di “tranquillità” e di “ordine”, si raggruppano in associazioni e fazioni che definiscono “d’ordine”. Ahi, quali vane speranze e fatiche! Di partiti “dell’ordine”, che possano portare una pace reale nelle perturbazioni, ce n’è uno solo: il partito dei partigiani di Dio. Pertanto è necessario incoraggiarlo e condurre ad esso quante più persone si può, se ci sollecita l’amore per la sicurezza.

8. Invero, Venerabili Fratelli, questo stesso richiamo delle genti alla maestà e alla sovranità di Dio, per quanto ci impegniamo non potrà mai compiersi se non per intercessione di Gesù Cristo. Ci insegna infatti l’Apostolo: “Nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già si trova, e che è Cristo Gesù” [17]. È Lui solo “che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo [18]; irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” [19] in quanto Dio vero e vero uomo: senza di Lui nessuno potrebbe conoscere Dio come si deve. Infatti, “nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare” [20]. Ne consegue che vi è perfetta concordanza fra il “ristabilire tutte le cose in Cristo” e il ricondurre gli uomini all’obbedienza a Dio. Dobbiamo dunque rivolgere il nostro impegno a questo, al fine di ricondurre il genere umano sotto l’impero di Cristo; raggiunto tale fine, l’uomo ritornerà a Dio medesimo. A un Dio, diciamo, non inerte e indifferente verso gli uomini, come lo ritrassero, delirando, i materialisti; ma un Dio vivo e vero, uno di natura, in tre persone, creatore dell’universo, onnisciente, e infine giustissimo legislatore che punisce i colpevoli e assicura premi alle virtù.

9. Pertanto è ovvio quale sia il cammino che ci porta a Cristo: passa attraverso la Chiesa. Perciò dice giustamente Crisostomo: “La tua speranza è la Chiesa, la tua salvezza è la Chiesa, il tuo rifugio è la Chiesa” [21]. Per questo Cristo l’ha fondata, conquistandola a prezzo del suo sangue; ad essa affidò la sua dottrina e i precetti delle sue leggi, prodigandole ad un tempo i sovrabbondanti doni della divina grazia per 1a santificazione e la salvezza degli uomini. Voi vedete dunque, Venerabili Fratelli, quale missione sia parimenti affidata a Noi e a voi: richiamare la società umana, che ripudia la sapienza di Cristo, alla disciplina della Chiesa; la Chiesa a sua volta la sottoporrà a Cristo, e Cristo a Dio. Se, con l’aiuto di Dio, giungeremo a questa meta, Ci rallegreremo che l’iniquità abbia ceduto alla giustizia, e allora udiremo con gioia “una gran voce che in cielo annuncia: ora sono fatti compiuti la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio, e la potenza del suo Cristo” [22]. Ma perché questo esito corrisponda ai voti, è necessario che con ogni mezzo e con ogni azione estirpiamo del tutto quell’immane e detestabile crimine (tipico di questa età) per cui l’uomo si è sostituito a Dio; perciò dobbiamo ricondurre all’antica dignità le santissime leggi e gl’insegnamenti del Vangelo; dobbiamo proclamare a gran voce le verità tramandate dalla Chiesa, tutti i suoi documenti sulla santità del matrimonio, sulla educazione e l’istruzione dei fanciulli, sul possesso e sull’uso dei beni, sui doveri dei pubblici amministratori; occorre ristabilire infine un certo equilibrio tra le varie classi sociali secondo le leggi e le istituzioni cristiane. In verità, Noi Ci proponiamo, durante il Nostro Pontificato, ubbidendo alla divina volontà, di raggiungere questi obiettivi, e li perseguiremo con ogni energia. Spetta a Voi, Venerabili Fratelli, assecondare i Nostri sforzi con la santità, con la dottrina, con l’azione e soprattutto con l’ossequio alla divina gloria; a nient’altro intesi se non a “formare Cristo in tutti” [23].

10. Ora, di quali mezzi dobbiamo far uso in un’impresa così grande, è appena il caso di dirlo, tanto sono ovvi di per sé. Il primo impegno sarà quello di formare Cristo in coloro che sono destinati per vocazione a formare Cristo negli altri. Il pensiero, Venerabili Fratelli, è diretto ai sacerdoti. Infatti, tutti coloro che sono stati iniziati al sacerdozio devono sapere che fra le genti con cui vivono hanno il compito che Paolo testimoniava di aver ricevuto con queste affettuosissime parole: “Figlioli miei, che io di nuovo partorisco finché Cristo non sia formato in voi” [24]. Ma chi potrebbe esercitare tale missione se non coloro che per primi si sono rivestiti di Cristo? Rivestiti in tal modo, essi possono fare proprie le parole dello stesso Apostolo: “Sono vivo, ma non sono io: in me vive veramente Cristo [25]. Per me la vita è Cristo” [26]. Pertanto, sebbene sia rivolta a tutti i fedeli l’esortazione affinché “arriviamo… allo stato di uomo perfetto nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo” [27], tuttavia ciò riguarda soprattutto colui che esercita il sacerdozio; egli è quindi chiamato un “altro Cristo” non certo per la sola trasmissione del potere, ma anche per l’imitazione delle opere, attraverso le quali mostra in sé la chiara immagine di Cristo.

11. Stando così le cose, Venerabili Fratelli, quale e quanto impegno dovrete porre nel formare il clero alla santità! A questo fine, qualunque cosa accada, è necessario che cedano il passo tutte le occupazioni mondane. Perciò la maggior parte delle vostre cure sia rivolta ad ordinare e a governare come si conviene i sacri seminari, perché fioriscano parimenti nella integrità della dottrina e nella santità dei costumi. Fate del seminario la delizia del vostro cuore, e per il suo giovamento non omettete nulla di ciò che è stato provvidenzialmente stabilito dal Concilio Tridentino. Quando poi verrà il tempo di iniziare i candidati agli ordini sacri, di grazia non si dimentichi ciò che Paolo scrisse a Timoteo: “Non aver fretta di imporre le mani ad alcuno” [28], riflettendo con somma attenzione che spesso i fedeli saranno come coloro che destinerete al sacerdozio. Perciò non abbiate alcun riguardo verso qualsivoglia interesse privato, ma volgete lo sguardo soltanto a Dio e alla Chiesa e all’eterna felicità delle anime, in modo da evitare, come l’Apostolo ammonisce, di partecipare “ai peccati altrui” [29]. Inoltre, i sacerdoti recentemente ordinati ed usciti dal seminario non abbiano a sentire la mancanza della vostra sollecitudine. Dal profondo dell’animo vi esortiamo ad avvicinarli il più spesso possibile al vostro petto, che deve ardere di fuoco celeste: accendeteli, infiammateli, in modo che si impegnino per l’unico Dio, a vantaggio delle anime. Noi pure, Venerabili Fratelli, Ci adopreremo con tutto il Nostro zelo in modo che i membri del sacro clero non siano catturati dalle insidie di una certa nuova, fallace scienza, che non ha sentore di Cristo e che, con artificiosi ed astuti argomenti, si industria di introdurre gli errori del razionalismo o del semirazionalismo: errori che l’Apostolo invitava già Timoteo ad evitare, scrivendogli: “Custodisci il deposito, evita le chiacchiere profane e le obiezioni della cosiddetta scienza, professando la quale taluni hanno deviato dalla fede” [30]. Tuttavia nulla Ci indurrà a considerare meno degni di lode quei giovani sacerdoti che si dedicano allo studio di utili discipline in tutti i rami del sapere, in modo che poi saranno più idonei a difendere la verità e a respingere le calunnie dei nemici della fede. Nondimeno non possiamo nascondere, ma anzi apertamente dichiariamo, che Noi saremo sempre portati verso coloro che, pur senza trascurare le discipline sacre e umanistiche, si dedicano in particolare al bene delle anime, procurando loro quei doni che sono propri di un sacerdote che s’impegna per la gloria di Dio. Abbiamo “nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua” [31] quando constatiamo che si adatta anche all’età nostra il pianto di Geremia: “I fanciulli hanno chiesto il pane e non v’era chi lo spezzasse per loro” [32]. Infatti non mancano tra il clero coloro che, seguendo le proprie inclinazioni, si dedicano ad attività più apparenti che di concreta utilità: ma forse non sono molti coloro che, sull’esempio di Cristo, fanno proprio il detto del Profeta: “Lo spirito del Signore… mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato ad evangelizzare i poveri, a sanare gli afflitti, ad annunciare la liberazione ai prigionieri e la vista ai ciechi” [33].

12. A chi può sfuggire, Venerabili Fratelli, che quando gli uomini siano guidati dalla ragione e dalla libertà, la formazione religiosa è il mezzo più efficace per ristabilire negli animi l’impero di Dio? Quanti sono coloro che odiano Cristo, che detestano la Chiesa e il Vangelo più per ignoranza che per malvagità d’animo! Di essi si potrebbe dire giustamente: “Bestemmiano tutto ciò che ignorano” [34]. Questo atteggiamento non si riscontra soltanto tra la plebe o tra l’infima moltitudine che può essere tratta facilmente in errore; ma anche nelle classi colte e perfino tra coloro che emergono per non comune erudizione. Ne deriva, in molti, il venir meno della fede. Non si deve ammettere che la fede possa essere spenta dai progressi della scienza, ma piuttosto dalla ignoranza; infatti ove maggiore è l’insipienza, ivi più ampiamente si manifesta il tracollo della fede. Perciò agli Apostoli fu ordinato da Cristo: “Andate e insegnate a tutte le genti” [35].

13. Ora, affinché dal dovere e dall’impegno dell’insegnamento si traggano i frutti sperati e in tutti “si formi Cristo”, si imprima con forza nella memoria, Venerabili Fratelli, la convinzione che nulla è più efficace della carità. Infatti “il Signore non si trova in una emozione” [36]. Invano si spera di attrarre le anime a Dio con uno zelo troppo aspro; ché anzi rinfacciare troppo severamente gli errori, biasimare con troppa foga i vizi, procura spesso più danno che utile. L’Apostolo pertanto rivolgeva a Timoteo questo monito: “Ammonisci, rimprovera, esorta”, ma tuttavia aggiungeva: “con molta pazienza” [37]. Invero, Cristo ci ha offerto esempi di tal genere. Leggiamo infatti che Egli si è così espresso: “Venite, venite a me, voi tutti che siete infermi ed oppressi, ed Io vi ristorerò” [38]. Gli infermi e gli oppressi non erano altri, per Lui, che gli schiavi del peccato e dell’errore. Quanta mansuetudine in quel divino Maestro! Quale soavità, quale compassione verso tutti gli infelici! Con queste parole Isaia descrisse il suo cuore: “Posi il mio spirito sopra di lui; … non alzerà la voce; … non spezzerà la canna già scossa, e non spegnerà il tessuto che fumiga” [39]. La carità, dunque, “paziente” e “benigna” [40] dovrà essere esercitata anche verso coloro che sono a noi ostili o che ci perseguitano. “Siamo maledetti e benediciamo; — così Paolo diceva di se stesso — siamo perseguitati e sopportiamo; siamo calunniati e noi preghiamo” [41]. Forse sembrano peggiori di quello che sono. Infatti, la consuetudine con gli altri, i pregiudizi, i consigli e gli esempi altrui, e infine un malinteso rispetto umano li hanno sospinti nel partito degli empi, ma la loro volontà non è così depravata come essi stessi cercano di far credere. Perché dunque non sperare che la fiamma della carità cristiana possa fugare le tenebre dagli animi e contemporaneamente recare la luce e la pace di Dio? Talora sarà forse tardivo il frutto della nostra missione; ma la carità non si stanca mai di soccorrere, memore che Dio non assegna ricompense per i frutti delle fatiche ma per la volontà con la quale ci si impegna.

14. Tuttavia, Venerabili Fratelli, non intendiamo che — in tutta questa opera tanto ardua di restituzione del genere umano a Cristo — voi e il vostro clero non abbiate collaboratori. Sappiamo che Dio ha raccomandato a ciascuno la cura del suo prossimo [42]. È dunque necessario che non solo coloro che si dedicarono al sacerdozio ma che tutti i fedeli si votino alla causa di Dio e delle anime: non che ciascuno debba adoperarsi arbitrariamente secondo il proprio punto di vista, ma sempre sotto la guida e il comando dei Vescovi. Infatti nella Chiesa a nessuno è concesso presiedere, insegnare e governare se non a voi, che “lo Spirito Santo pose a reggere la Chiesa di Dio” [43]. I Nostri Predecessori già da tempo approvarono e benedissero i cattolici che si uniscono in associazioni con intendimenti diversi, ma sempre per il bene della religione. Anche Noi non abbiamo alcun dubbio nell’ornare con la Nostra lode un proposito così nobile, e desideriamo ardentemente che esso si diffonda largamente nelle città e nelle campagne. Tuttavia vogliamo che tali associazioni in primo luogo e soprattutto mirino a che tutti coloro che vengono accolti in esse vivano costantemente secondo l’etica cristiana. Invero, ben poco interessa discutere sottilmente su molti problemi, e dissertare con eloquenza su leggi e doveri qualora tutto ciò sia separato dalla pratica. I tempi infatti esigono l’azione; ma questa deve essere tutta rivolta a rispettare integralmente e santamente le leggi divine e le prescrizioni della Chiesa, a professare liberamente e apertamente la religione, e infine a compiere opere di carità di ogni genere, senza alcun riguardo per sé o per gl’interessi terreni. I luminosi esempi di tanti soldati di Cristo varranno assai più a scuotere e a trascinare gli animi che non le parole e le ricercate disquisizioni; e facilmente accadrà che, rimosso ogni timore, deposti i pregiudizi e le titubanze, moltissimi saranno ricondotti a Cristo, e quindi recheranno ovunque la conoscenza e l’amore di Lui: questa è la via della fraterna e durevole felicità. Certamente, se nelle città e in ogni villaggio saranno fedelmente seguiti gl’insegnamenti divini, se si onoreranno le cose sacre, se sarà frequente l’uso dei sacramenti, se verranno osservati tutti i princìpi che informano la vita cristiana, allora, Venerabili Fratelli, non vi sarà più alcuna ragione di affaticamento ulteriore perché tutto si risolva in Cristo. E non si creda che tutto questo miri soltanto al conseguimento dei beni celesti: gioverà moltissimo anche al nostro tempo e alla pubblica convivenza. Ottenuti infatti questi risultati, i notabili e i ricchi, con senso di giustizia e di carità, saranno accanto ai più poveri, e questi sopporteranno con tranquillità e pazienza le angustie di una condizione più sfortunata; i cittadini non ubbidiranno alla loro passione ma alle leggi; sarà giusto rispettare ed amare i prìncipi e i governanti, i quali “non hanno potere se non da Dio” [44]. Che dire ancora? Allora, finalmente, tutti saranno persuasi che la Chiesa, quale fu fondata da Cristo, deve godere di piena e integra libertà e non sottostare ad estraneo potere; e Noi, nel rivendicare questa stessa libertà, non solo proteggiamo i sacrosanti diritti della religione, ma provvediamo anche al bene comune e alla sicurezza dei popoli. “La pietà è utile a tutte le cose” [45], e là dove essa è integra e regna “il popolo riposerà nella bellezza della pace” [46].

15. Dio, “che è ricco di misericordia” [47], acceleri benigno questa restaurazione delle umane genti in Cristo Gesù; infatti “questa non è l’opera né di chi vuole, né di chi corre, ma di Dio misericordioso” [48]. In verità, Venerabili Fratelli, Noi “in spirito di umiltà” [49] con quotidiana e insistente preghiera chiediamo questa grazia a Dio per i meriti di Gesù Cristo. Ricorriamo inoltre alla potentissima intercessione della Madre di Dio; e perché sia a Noi propizia, in quanto questa Lettera porta la data del giorno destinato a celebrare il Rosario Mariano, Noi disponiamo e confermiamo quanto il Nostro Predecessore ha ordinato, dedicando il mese di ottobre all’augusta Vergine con la pubblica recita dello stesso Rosario in tutte le chiese. Inoltre esortiamo a considerare come intercessori anche il castissimo Sposo della Madre di Dio, patrono della Chiesa cattolica, e i santi Pietro e Paolo, prìncipi degli Apostoli.

16. Affinché tutto questo avvenga, e tutto abbia un esito conforme ai vostri desideri, invochiamo il copioso soccorso delle grazie divine. Quale testimonianza della dolcissima carità con la quale abbracciamo voi e tutti i fedeli che la provvidenza di Dio volle affidarCi, a voi, Venerabili Fratelli, al clero e al vostro popolo impartiamo con tanto affetto nel Signore l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, il 4 ottobre 1903, nel primo anno del Nostro Pontificato.

PIUS X

 

 

[1] Eph. 1. III, ep.1

[2] Ps. LXXII, 27.

[3] Jerem. I, 10.

[4] Ephes. I, 10.

[5] Coloss. III, 11.

[6] Ps. II, 1.

[7] Job XXI, 14.

[8] II Thess. II, 3.

[9] II Thess. II, 2.

[10] Sap. XI, 24.

[11] Ps. LXXVII, 65.

[12] Ib. LXVII, 22.

[13] Ps. XLVI, 8.

[14] Ib. IX, 20.

[15] Ib. IX, 19.

[16] Is. XXXII, 17.

[17] I Cor. III, 11.

[18] Job X, 36.

[19] Hebr. I, 3.

[20] Matth. XI, 27.

[21] Hom. “de capto Eutropio”, n. 6.

[22] Apoc. XII, 10.

[23] Gal. IV, 19.

[24] Gal. IV.

[25] Gal. II, 20.

[26] Philipp. I, 21.

[27] Ephes. IV, 3.

[28] I Tim. V, 22.

[29] Ibid.

[30] Ib., VI, 20 et seq.

[31] Rom. IX, 2.

[32] Thren. IV. 4.

[33] Luc. IV, 18-19.

[34] Jud. II, 10.

[35] Matth. XXVIII, 19.

[36] III Reg. XIX, 11.

[37] II Tim. IV, 2.

[38] Matth. XI, 28.

[39] Is. XLII, 1 et seq.

[40] I Cor. XIII, 4.

[41] Ibid., IV, 12.

[42] Eccli. XVII, 12.

[43] Act. XX, 28.

[44] Rom. XIII, 1.

[45] I Tim. IV, 8.

[46] Is. XXXII, 18.

[47] Ephes. II, 4.

[48] Rom. IX, 16.

[49] Dan. III, 39.

 

 

DOMENICA XIII dopo PENTECOSTE

Introitus
Ps LXXIII:20; 19; 23
Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te. [Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le ànime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]
Ps LXXIII:1
Ut quid, Deus, reppulísti in finem: irátus est furor tuus super oves páscuæ tuæ?
[Perché, o Signore, ci respingi ancora? Perché arde la tua ira contro il tuo gregge?]

Réspice, Dómine, in testaméntum tuum, et ánimas páuperum tuórum ne derelínquas in finem: exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam, et ne obliviscáris voces quæréntium te. [Signore, abbi riguardo al tuo patto e non abbandonare per sempre le ànime dei tuoi poveri: sorgi, o Signore, difendi la tua causa e non dimenticare le voci di coloro che Ti cercano.]

Oratio
Orémus.
Omnípotens sempitérne Deus, da nobis fídei, spei et caritátis augméntum: et, ut mereámur asséqui quod promíttis, fac nos amáre quod præcipis.
[Onnipotente e sempiterno Iddio, aumenta in noi la fede, la speranza e la carità: e, affinché meritiamo di raggiungere ciò che prometti, fa che amiamo ciò che comandi.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Gálatas. Gal III:16-22
“Fratres: Abrahæ dictæ sunt promissiónes, et sémini ejus. Non dicit: Et semínibus, quasi in multis; sed quasi in uno: Et sémini tuo, qui est Christus. Hoc autem dico: testaméntum confirmátum a Deo, quæ post quadringéntos et trigínta annos facta est lex, non írritum facit ad evacuándam promissiónem. Nam si ex lege heréditas, jam non ex promissióne. Abrahæ autem per repromissiónem donávit Deus. Quid igitur lex? Propter transgressiónes pósita est, donec veníret semen, cui promíserat, ordináta per Angelos in manu mediatóris. Mediátor autem uníus non est: Deus autem unus est. Lex ergo advérsus promíssa Dei? Absit. Si enim data esset lex, quæ posset vivificáre, vere ex lege esset justítia. Sed conclúsit Scriptúra ómnia sub peccáto, ut promíssio ex fide Jesu Christi darétur credéntibus”.

Omelia I

 [Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV Omelia I .- Torino 1899]

“Le promesse furono fatte ad Abramo ed alla sua prole; non dice: Ed alle proli, come parlando a molte, ma come ad una: e dalla sua prole, la quale è Cristo. Ora io dico così: La legge, venuta dopo quattrocento trent’anni, non poté annullare un patto prima fermato da Dio, sicché restasse senza effetto la promessa. Perché, se l’eredità è per legge, non è più per la promessa. Eppure Dio la conferì ad Abramo per promessa. Perché dunque fu data la legge? Fu essa aggiunta in grazia delle trasgressioni, promulgata per angeli, per mezzo di un mediatore, finché non fosse venuta la prole, alla quale era stata fatta la promessa. – Ora mediatore non è di uno; eppure Dio è uno. Sarà dunque la legge contraria alle promesse di Dio? No. Ma se fosse stata data una legge capace di dare la vita, se ne avrebbe di fatto la giustificazione. Ma la Scrittura ha racchiusa ogni cosa sotto peccato, affinché la promessa di fede fosse data per Gesù Cristo ai credenti „ (Ai Galati, capo III, 16-22).

Anzitutto, o carissimi, devo dirvi che questi sette versetti della Epistola odierna, che vi ho recitati, sono difficili ad intendersi, e voi stessi, udendoli, ve ne sarete accorti. La difficoltà ed oscurità di queste sentenze si deve far dipendere da varie cause. Primieramente si tratta dei rapporti tra la legge antica mosaica e la legge evangelica, e si accenna alla efficacia di questa sopra quella, verità a quel tempo assai contrastata: in secondo luogo si fa un’allusione di volo; ad alcuni oracoli dell’antico Testamento, per noi oscuri, se ne deducono conseguenze d’alta importanza, con una concisione tutta propria dell’Apostolo. Finalmente il modo di fraseggiare e di argomentare qui usato da S. Paolo è così rapido e serrato e il giro del periodo sì involuto e duro, che rende faticoso il seguirlo ed afferrarne il significato. Ma se voi avrete la bontà di tenermi dietro con tutta l’attenzione, nutro fiducia di farvi comprendere perfettamente la dottrina dell’Apostolo, e troverete ampia mercede della fatica durata. Dio con la sua grazia, faccia sì che la mia parola sia semplice e chiara, e la vostra mente aperta e docile a riceverla. – La lettera di S. Paolo ai Galati si può dividere in tre parti: nella prima difende se stesso contro coloro che lo accusavano di aver alterato o frainteso il Vangelo e prova la sua missione divina; nella seconda svolge l’insegnamento dogmatico intorno alla giustificazione; nella terza inculca alcune verità morali pratiche. Il tratto che vi devo spiegare appartiene alla parte dogmatica, che aveva una importanza grande e pratica allorché l’Apostolo scriveva la sua lettera. Un cenno storico necessario. Molti Ebrei della Galazia, convertiti prima da S. Paolo, sedotti da falsi maestri, erano entrati nella persuasione che, per salvarsi, fosse necessario unire alla fede cristiana l’osservanza della legge mosaica in ogni sua parte, e nominatamente il rito della circoncisione. L’Apostolo vuol dissipare questo errore gravissimo, che rendeva perpetuo il giudaismo e tra gli altri argomenti; S. Paolo, parlando ad Ebrei, ricorda che Abramo fu giustificato dinanzi a Dio con la fede che prestò alla parola di Lui, non con la legge mosaica che non esisteva e che venne assai più tardi. E come Abramo piacque a Dio, non per la osservanza della legge mosaica, ma sì per la fede, così anche i veri suoi figli si giustificarono con la fede. Qui cominciano le sentenze, che dobbiamo interpretare: “Le promesse furono fatte ad Abramo ed alla sua prole: non dice alle proli, come parlando a molte, ma come ad una: ed alla sua prole, che è Cristo. Ecco come ragiona S. Paolo: “La Scrittura c’insegna che Abramo piacque a Dio e si santificò allorché credette alla sua parola ed ubbidì ad essa, lasciando la patria sua: Dio allora gli fece una promessa solenne, assoluta, dicendogli: “Tutte le genti saranno benedette in te, cioè riceveranno come te e allo stesso modo la mia grazia. „ Ora allorché Abramo ricevette la grazia, non vi era né la legge di Mose, né la circoncisione: dunque si giustificò non in forza della legge mosaica e della circoncisione, ma per la fede che ebbe e per l’ubbidienza sua alla parola di Dio; ma Dio promise che allo stesso modo si sarebbero giustificate tutte le genti, o Gentili; “dunque, o Galati, per piacere a Dio si esige la fede e l’obbedienza ai voleri divini, ma non l’osservanza della legge di Mosè”; e S. Paolo avverte che la promessa della giustificazione fu fatta non solo ad Abramo, ma anche alla sua “prole”, non proli, perché si indicava Cristo e tutti quelli che nella fede si sarebbero mostrati figli di Cristo. L’Apostolo prosegue argomentando così: “La legge venuta dopo 430 anni non poté annullare il patto già stabilito da Dio, sicché rimanesse la promessa senza effetto: „ che è quanto dire: la legge di Mose, data da Dio sul Sinai, venne 430 anni dopo; ora se fosse necessaria l’osservanza di questa legge per essere figli di Dio, Dio stesso avrebbe annullata la promessa od il patto stretto con Abramo in forza del quale i Gentili dovevano ricevere la benedizione alla maniera stessa di Abramo. Se la grazia divina venisse a noi dalla legge di Mose, allora non verrebbe secondo la promessa fatta ad Abramo; eppure questa grazia fu promessa da Dio fuori e prima della legge, e la promessa di Dio sta e deve stare, come sta e deve stare un testamento a cui non è lecito né aggiungere, né levare una sillaba. È questo l’argomento, sottile sì, ma valido dell’Apostolo. – Ora qualche osservazione acconcia ai nostri bisogni. In questi versetti si parla della giustificazione ottenuta da Abramo, e che doveva ottenersi dai suoi figli secondo lo spirito, mediante la fede in Cristo. Che cosa è questa giustificazione? È la grazia, è una forza stabile, che penetra tutta l’anima, la trasforma, la abbellisce e stampa in essa l’immagine di Dio e le dà il diritto di vederlo un giorno ed amarlo svelatamente ed essere felice della sua stessa felicità. Vedete un ferro: esso è di per sé freddo ed oscuro: fate che il fuoco, un fuoco potente lo investa; diventa non solo caldo, ma rovente e lucente senza cessare d’essere ferro: ciò stesso avviene dell’anima che riceve la grazia di Dio: non cessa d’essere anima, ma acquista doti e qualità ammirabili; diventa bella della bellezza di Dio, forte della sua forza stessa, e perciò i suoi atti acquistano un valore sovrumano. Quest’anima si dice giustificata, cioè fatta giusta e retta dinanzi a Dio, bella di quella bellezza ch’Egli vuole in lei, e perciò cara a Lui ed oggetto dell’amor suo: essa diviene partecipe della stessa divina natura, come il fiore è partecipe della bellezza del sole che lo colora ed abbellisce. Questa giustificazione o grazia divina non può essere il frutto delle opere nostre, né merito dei nostri sforzi, come non è merito del fiore l’essere abbellito dal sole: è dono, tutto e puro dono di Dio: tutto il nostro merito sta nel riceverlo, ancorché, ricevutolo, possiamo e dobbiamo accrescerlo con la nostra cooperazione. Questa grazia, che è il massimo dei doni di Dio, noi la riceviamo per i meriti di Gesù Cristo, nel quale e per il quale soltanto, come altrove scrive S. Paolo, siamo arricchiti d’ogni bene spirituale. – Seguitiamo l’Apostolo: “Voi direte, così egli fa parlare i Galati: Se la legge mosaica con tutte le sue prescrizioni e con la stessa circoncisione, non ci riconcilia con Dio e non ci santifica, che vale essa? Perché ci fu data? Qual pro di questa legge, che pure viene da Dio? Quidigitur lex?” — Risponde tosto l’Apostolo con la sua forma sì concisa: “Vi dico che la legge mosaica fu aggiunta alla promessa fatta ad Abramo a causa delle trasgressioni del popolo d’Israele, il quale per la sua lunga dimora in Egitto, era caduto in tanta ignoranza ed in tanto pervertimento, che spesso faceva il male senza nemmeno conoscerlo: (Lex) posìtà est propter transgressiones”. Spieghiamo un po’ meglio, se almeno ci vien fatto, la mente dell’Apostolo, che qui può parere oscura. – Abramo si giustificò innanzi a Dio, credendo alle sue parole e promesse ed ubbidendo ai suoi voleri; alla stessa maniera potevano e dovevano giustificarsi tutti i suoi discendenti: bastava che credessero alle divine promesse fatte ad Abramo e operassero conformemente ad esse, ma che avvenne? I suoi discendenti crebbero in gran numero, divennero un gran popolo in Egitto: a poco a poco dimenticarono le promesse avute per Abramo: caddero ripetutamente nell’idolatria e si resero colpevoli di gravissimi delitti. Che fece allora Iddio? Viste le male inclinazioni del popolo e le sue miserande cadute, nella sua misericordia gli diede la legge con tutto quel cumulo di minute prescrizioni ond’essa è ripiena: (Lex) propter transgressionea posita est. Questa legge di timore era un aiuto possente dato al popolo per tenerlo sulla via della verità e mantenere viva in lui la memoria delle promesse divine; questa legge, come poco appresso dice lo stesso Apostolo, era la guida, il pedagogo che doveva condurre Israele a Cristo e prepararlo al suo Vangelo (vers. 25). “La legge mosaica, soggiunge Paolo, fu promulgata dagli Angeli, per mezzo di un mediatore, che è Mosè. „ Da queste parole apprendiamo che la legge data sul Sinai fu data per mezzo degli Angeli: Ordinata per angelos, e che dagli Angeli la ricevette Mosè, il quale fu poi il mediatore tra Dio e il popolo: In manu mediatoris. Forse alcuno tra voi dirà: Noi abbiamo sempre udito dire che Mosè  ricevette la legge da Dio stesso: come sta che qui S. Paolo ci insegna che Mosè la ricevette dagli Angeli? Nessuna difficoltà, o carissimi. Ciò che Iddio fa per mezzo degli Angeli o dei suoi ministri dicesi fatto da Lui stesso, perché Egli ne è la causa principale. Non diciamo noi che Dio santifica il bambino nel Battesimo, scioglie dai peccati l’adulto, benché il Battesimo sia conferito dal ministro, e la penitenza amministrata dal sacerdote ? Similmente le Scritture sante ci dicono che la legge fu data a Mosè, ora da Dio ed ora dagli Angeli, ed è l’una e l’altra cosa. E qui è superfluo il ciò che altre volte ebbi a dire, cioè Dio nelle opere tutte che compie fuori di sé, anche le più alte, suole usare come strumento le cause seconde, Angeli ed uomini, perché in tal guisa apparisce meglio la sua grandezza e la sua gloria, e perché eleva alla dignità di cause le creature, le nobilita e le rende più simili a sé. Impariamo dunque ad  venerare questi spiriti eccelsi, gli Angeli che stanno tra Dio e noi, e che sono i ministri ordinari dei suoi voleri sulla terra. E fino a quando doveva durare la legge di Mosè, data in aiuto delle promesse fatte prima ad Abramo? Finché fosse venuto il seme a cui aveva promesso — Donec veniret semen cui promiserat, „ E chi è questo seme? Non occorre il dirlo, è Cristo, nel quale avrebbe avuto compimento la benedizione promessa ad Abramo. Allorché il fanciullo diventa uomo, cessa l’opera del pedagogo: dunque alla venuta di Cristo doveva cessare la legge, e cessò. –  Continua S. Paolo e scrive: “Ora mediatore non vi fu per uno, eppure Dio è uno. „  È una sentenza che ha bisogno di essere chiarita, e così mi pare si possa chiarire: Dio è uno solo e Padre di tutti gli uomini, e tutti li vuol salvi, e la sua volontà è eterna ed immutabile: agli Ebrei diede la legge in aggiunta alla promessa per condurli a salute, e la diede per Mosè, come per un mediatore: a quelli che non sono Ebrei provvede Egli stesso, ponendo a loro capo Cristo stesso e in Lui unificando i figli di Abramo, ch’ebbero il mediatore in Mosè, ed i Gentili, che chiama a sé senza l’opera di Mosè. In altri termini: come gli uomini si salvavano senza la legge prima di Mosè, per la fede in Cristo ventura, così ora si salvano senza la stessa legge, purché credano in Cristo già venuto: la legge di Mosè fu un aiuto temporaneo dato da Dio ai soli Ebrei. La conseguenza pratica di questo insegnamento dell’Apostolo nei versetti citati, si riduce in sostanza a stabilire questo punto fondamentale: la salute per tutti gli uomini, Giudei e non Giudei, prima e dopo Cristo, sta riposta unicamente in Cristo, Salvatore universale. Egli comparisce sulla terra nel mezzo dei tempi: una parte dell’umanità lo precede: l’altra viene dopo di Lui e continuerà, fino alla fine dei tempi: quella prima parte guarda a Cristo venturo con la fede nelle promesse divine, come Adamo, Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, o con la fede aiutata dalla legge mosaica, come Mosè, Davide e tutti i profeti; la seconda parte guarda a Cristo venuto, e a Lui si unisce colla fede, che opera per la carità. Per tal modo Cristo è il gran centro di tutta l’umanità, e in Lui si appuntano tutti gli sguardi, tutti i desiderai e tutti gli amori di quelli che cercano e vogliono la salvezza. Fratelli e figliuoli carissimi! Gesù Cristo è la luce delle nostre menti, è la forza delle nostre volontà, è la nostra vita. Tutti dunque uniamoci a Lui, perché solo per Lui abbiamo accesso a Dio, come scrive, altrove San Paolo. Ma come  possiamo unirci a Lui sì che la sua vita divina si spanda in noi? Eccovelo. L’anima nostra si svolge tutta negli atti di quelle due potenze, che le sono proprie e caratteristiche: l’intelligenza e la volontà. L’intelligenza è ordinata al possesso della verità, come l’occhio è ordinato a ricevere la luce: e la volontà tende necessariamente ad amare, come i polmoni a respirare. Ora Gesù Cristo, autore e consumatore dalla fede, per mezzo della Chiesa, ci presenta le verità che sono la luce dalla nostra intelligenza, ci mostra se stesso, come oggetto degno di tutto il nostro amore. Ebbene:  appuntiamo la nostra intelligenza in queste verità che sgorgano da Cristo, come i raggi emanano dal sole; volgiamo il nostro cuore a Gesù, come il fiore volge il suo calice al sole, che lo colora, e posiamolo in Lui, ed ecco compiuta la nostra unione con Gesù Cristo. Dietro alla mente ed al cuore, con la fede e con la carità intimamente uniti a Gesù Cristo, verranno le opere, verrà il corpo stesso, fedele esecutore di ciò che si conosce e si vuole od ama. Congiunti mente e cuore a Gesù Cristo nel tempo, lo saremo nella eternità. Ma è da passare alla spiegazione degli ultimi due versetti della nostra Epistola. “Sarà dunque la legge contraria alle promesse di Dio? No. „ — È una nuova difficoltà che l’Apostolo, secondo il suo stile sì conciso e vibrato, muove a se stesso. La legge di Mosè, come sopra si è stabilito, non dava la grazia e la santificazione per se stessa, ma questa veniva soltanto dalla fede salda alle promesse divine; ora l’essere aggiunta la legge di Mosè alle promesse divine fa sì che sembri non bastevole la fede, e che la giustificazione derivi dalla legge stessa. In altra forma: l’aggiunta della legge mosaica alle promesse divine arguirebbe il difetto di queste e la necessità e sufficienza di quella. No, no, risponde Paolo, quasi inorridito: Absit. Se la legge mosaica avesse avuto virtù di santificarci per se stessa, allora sarebbe vero che è contraria alle promesse, perché la giustificazione ci verrebbe dalla legge e non dalle promessa divine e dalla fede alle medesime. Resta dunque verità indubitata, che la legge mosaica non può sostituire la fede nell’opera della nostra giustificazione, e che fu soltanto un aiuto temporaneo dato agli Ebrei, per renderla più sensibile e conservarla finché venne Cristo, che la rese inutile. Siamo all’ultima sentènza dell’Apostolo: “Ma la Scrittura ha racchiusa ogni cosa sotto peccato, affinché la promessa di fede fosse data per Gesù Cristo ai credenti. „ Non ve lo dissimulo, o carissimi; anche quest’ultima sentenza è dura ad intendersi per la forma del dire e per la struttura del periodo: ma questo è il senso: No, la legge di Mose non è contraria alle promesse di giustificare gli uomini con la fede in Gesù Cristo; anzi serve di mezzo a compirle. In qual modo? La legge mosaica data agli Ebrei tolse forse le trasgressioni ed arrestò le colpe loro? No; anzi crebbero a dismisura fino all’eccesso di mettere a morte il Figliuolo di Dio: la legge mosaica mise in piena luce la debolezza dell’uomo, e gli fece sentire dopo sì lunga prova la necessità dell’aiuto divino, e che solo per la fede in Gesù Cristo poteva giustificarsi. Questa dottrina dell’Apostolo mi richiama al pensiero ciò ch’egli stabilisce nei primi tre capi della sua lettera ai Romani, e particolarmente nel terzo (vers. 20). S. Paolo mostra con robusta eloquenza, che tanto i Gentili con la sola ragione e con la sola forza della natura, come gli Ebrei con la loro legge mosaica, non poterono piacere a Dio, e che tanto quelli che questi dovevano confessare la loro impotenza assoluta nell’opera della propria giustificazione, ed erano forzati a riconoscerla soltanto da Gesù Cristo, e così nessuno possa gloriarsi dinanzi a Dio e tutti soggiaciamo al suo giudizio (Rom. III, 19). Tutti, Gentili ed Ebrei, sono peccatori: tutti egualmente, per piacere a Dio e salvarsi, hanno bisogno della fede in Gesù Cristo (Rom. III, 22, 23, 27, 29, 30). Deh! che questa fede, che riceveste nel santo Battesimo, che fu nutrita dalla parola di Dio e dai Sacramenti, che è la radice della nostra santificazione e che opera per la carità, sia sempre viva nei vostri cuori [Comprendo molto bene che il testo dell’Apostolo è oscuro e che anche dopo la mia spiegazione rimangano molti punti non abbastanza chiariti. Mi studierò di esporre in breve e più chiaramente il pensiero dell’Apostolo. S. Paolo vuol dimostrare che la legge mosaica per sé non salva e che salva la fede in Dio e in Gesù Cristo. Come lo mostra? Udite. Abramo si giustificò col credere a Dio e alle sue promesse: quelle promesse e quella fede furono anteriori alla legge di Mose e alla circoncisione: dunque la legge di Mosè e la circoncisione, per sé, non sono necessarie, perché l’uomo si giustificò sènza di esse con la fede allo promesse divine. Vanne la legge, venne la circoncisione. Perché? A che servono? Unicamente come aiuto e mezzo per avvivare la fede nelle divine promesse, attese le debolezze e la infedeltà d’Israele. La legge mosaica e la circoncisione non tolse dunque nulla alla efficacia della fede nelle divine promesse. Ora è venuto il termine delle divine promesse: Cristo. Via dunque la legge mosaica, via la circoncisione, ch’erano soltanto un aiuto per tenerci saldi alla fede nelle divine promesse: si leva l’impalcatura quando la fabbrica è compiuta. Così parmi spiegato meglio il testo apostolico].

Graduale
Ps LXXIII:20; 19; 22.

Réspice, Dómine, in testaméntum tuum: et ánimas páuperum tuórum ne obliviscáris in finem.
[Signore, abbi riguardo al tuo patto: e non dimenticare per sempre le ànime dei tuoi poveri.,+

Exsúrge, Dómine, et júdica causam tuam: memor esto oppróbrii servórum tuórum. Allelúja, allelúja
[
V. Sorgi, o Signore, e difendi la tua causa e ricordati dell’oltraggio a Te fatto. Allelúia, allelúia].

Alleluja

Ps LXXXIX:1
Dómine, refúgium factus es nobis a generatióne et progénie. Allelúja. [O Signore, [Tu fosti il nostro rifugio in ogni età. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
Luc XVII:11-19
In illo témpore: Dum iret Jesus in Jerúsalem, transíbat per médiam Samaríam et Galilaeam. Et cum ingrederétur quoddam castéllum, occurrérunt ei decem viri leprósi, qui stetérunt a longe; et levavérunt vocem dicéntes: Jesu præcéptor, miserére nostri. Quos ut vidit, dixit: Ite, osténdite vos sacerdótibus. Et factum est, dum irent, mundáti sunt. Unus autem ex illis, ut vidit quia mundátus est, regréssus est, cum magna voce magníficans Deum, et cecidit in fáciem ante pedes ejus, grátias agens: et hic erat Samaritánus. Respóndens autem Jesus, dixit: Nonne decem mundáti sunt? et novem ubi sunt?
Non est invéntus, qui redíret et daret glóriam Deo, nisi hic alienígena. Et ait illi: Surge, vade; quia fides tua te salvum fecit.”  [In quel tempo: Recandosi Gesù a Gerusalemme, attraversava la Samaria e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli corsero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono distanti e, alzando la voce, esclamarono: Gesú, Maestro, abbi pietà di noi. E come Egli li vide, disse: Andate, mostratevi ai sacerdoti. Ora avvenne che mentre andavano furono mondati. Ma uno di quelli, come vide che era guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce e cadde con la faccia a terra ai piedi di Gesú, ringraziandolo; e questi era Samaritano. Allora Gesú disse: Non sono stati guariti dieci? e gli altri nove dove sono? Non è stato trovato chi tornasse indietro e desse gloria a Dio, se non questo straniero? E gli disse: Alzati, va, poiché la tua fede ti ha salvato.]

OMELIA II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

[Vangelo sec. S. Luca XVII, 11-19]

Sollecitudine per i mali del Corpo –

L’uomo è tutto sollecitudine per guarire dai malori del corpo, tutto indolenza per guarire dai mali dell’anima. Di questa propensione, che io pianto e stabilisco per soggetto della presente spiegazione, ci somministra una prova assai convincente l’odierna evangelica storia. Mentre il divin Salvatore passava per mezzo alla Samaria e alla Galilea, all’avvicinarsi ad un certo castello, ecco venirgli incontro dieci lebbrosi che, alzate le mani e la voce: “Gesù, esclamano, abbiate di noi pietà, vedete di quali obbrobriose macchie siamo noi ricoperti: vedete che giusta il prescritto della legge di Mose siamo segregati dal consorzio degli uomini, muovetevi a compassione del nostro misero stato”. Fin qui in queste preghiere altro non vedo se non una gran brama di ricuperare la pristina sanità, e che a quest’unico oggetto han fatto ricorso al divino Maestro. Ma ciò, ancor più chiaro si manifesta dalla loro condotta. Gesù Cristo ad essi intima di presentarsi ai sacerdoti, come la legge prescriveva; essi ubbidiscono e a mezzo del cammino si trovano con sorpresa e con gioia tutti mondati da quel morbo schifoso; indi senza più di altro curarsi si portano ai loro affari, dimentichi affatto d’un segno di riconoscenza verso il pietoso loro liberatore. Uno solo fra questi, uomo di Samaria, ritorna sui suoi medesimi passi e da lontano, alzata la voce, esalta la divina beneficenza e si getta poi ai piedi di Gesù Cristo, L’adora col volto a terra, e Lo ringrazia quanto può del prodigioso suo risanamento. “E gli altri nove dove sono? dice il divin Maestro”. “Ah! Rispondiamo noi, mostrano ben così non aver avuta altra mira che la sanità del corpo, e nessuna premura dell’anima propria e della grazia del Salvatore”. Il solo Samaritano mostrò che gli era cara e la salute del corpo e la salute dell’anima, e l’una e l’altra ottenne in effetti, come ricavano i sacri interpreti dalle parole del Redentore a lui dirette: “Vade fides tua te salvum fecit”. – Ditemi ora, cristiani amatissimi, siamo noi somiglianti al riconoscente lebbroso, o pure ai nove ingrati? Già ve lo dissi dal bel principio, l’uomo per l’ordinario è tutto sollecitudine per risanare i mali del proprio corpo, e tutto trascuratezza per guarire dai mali dell’anima. Vediamolo senza più. – Non vi è studio che si ometta per arrivare alla guarigione del corpo. Non bastano gli aforismi d’Ippocrate, le sentenze di Galeno, gli immensi volumi dei Greci e dei Latini, si fanno ogni giorno, dai fisici moderni, sempre nuovi studi, sempre nuove scoperte. Tutti, e semplici e composti, e vegetabili e minerali, tutte l’erbe, tutte le piante, dall’umile issopo fino ai cedri del Libano, sono il soggetto dei pìù sottili sperimenti. I Botanici non lasciano cosa intentata, i Chimici convertono i veleni in opportuni rimedi. Licei aperti di medicina, stipendi ai professori, premi agii studenti, son tutte prove dell’impiego dall’uomo per l’acquisto di questa scienza. Ottimamente! “E per l’anima, ripiglio io, quale studio si fa, quale scienza si apprende? Ohimè! “Non est scientia animæ(Prov. XIX, 2). Tanti e tanti han l’anima inferma, “multi infirmi et imbecilles(Ad Cor. I, XI, 39), l’hanno impiagata da gravi ferite, e ignorano la via di risanarla: la contrizione e la penitenza sono per essi rimedi ignoti e sconosciuti, “non est scientia animæ”. –  Per guarire il corpo infermo sono necessarie le droghe del Messico, i balsami del Perù, i giulebbi, gli elettuari, le medicine più preziose; non si risparmia spesa purché si salvi la vita. Nuovi danari ci vogliono per i consulti dei medici, per chiamare da remote parti professori di grido. Si ordinano cambiamenti d’aria, bagni d’acque minerali; per ciò effettuare è spediente abbandonar la famiglia, lasciar i propri affari in mano altrui, intraprendere lunghi viaggi, incontrar debiti per far fronte alle spese, che fuori paese assorbiscono gran capitali. Vada tutto, tutto si sacrifichi, purché si viva. E il più delle volte non si vive, e tante spese non servono che a comprare una vana lusinga, una fallace speranza. – Ditemi ora, cristiani amatissimi, se tanti dispendi fossero necessari per procurare la sanità dell’anima, non saremmo tentati a credere che Iddio esigesse troppo da noi, ed a lagnarci della sua provvidenza? Se poi da noi richiede tanto e tanto di meno, non ci renderemo più rei e inescusabili trasandando la cura delle nostre anime? E che cosa Egli vuole da noi? Uditelo dallo stesso nel libro della Sapienza, “neque erba, neque maliagma sanavit eos(Sap. XVI, 12). Per sanare le infermità dell’anima non vi vogliono né erbe, né impiastri, ma quel che il Signore prescrive colla sua divina parola: “sed tuus, Domine, sermo qui sanat omnia”, cioè un cuore umiliato e contrito, una volontà che odia il peccato, che risolve subir la morte prima che più commetterlo, che con una confessione sincera brama riconciliarsi con Dio. Ecco il farmaco che ci darà vita e salute. E pure a così dolci prescritti del Celeste Medico, si fa il sordo, si scrolla il capo, o si rimette la cura ad un incerto avvenire, che per ordinario non arriva giammai. – Andiamo innanzi. Per il corpo ammalato tutto si soffre. Fa d’uopo inghiottire sughi amarissimi; pillole disgustose e bibite nauseanti s’inghiottono. Conviene osservare rigorose diete, prolissi digiuni si osservano. Bisogna aprir la vena, non basta, son necessari vessicanti, senapismi, ventose, … si applichino. Ohimè! La piaga infistolisce, si converte in cancrena, il ferro non giova, l’osso s’infracidisce, è indispensabile il troncamento del braccio, della gamba, o del piede; si tagli, si tronchi … purché si salvi la vita! Si tronca, si taglia, e il più delle volte dopo tanti tormenti la vita non si salva, e si muore. Guai a noi se per la sanità dell’anima fossero prescritti così dolorosi e violenti rimedi. Atterriti dalla sola apprensione ci getteremmo in braccio alla disperazione. Ma  no, i rimedi del nostro divin Medico sono d’un’altra specie, tutti con la sua grazia soavi, e non costano che un atto di generosa volontà. Comanda Gesù Cristo, che se noi abbiamo una mano, un piede che ci sia cagione di scandalo, dobbiamo reciderli. Non si deve già questo intendere in senso materiale, ma vuol dire: avete voi un’amicizia, una pratica, che vi è cagion di peccato, dovete troncar quell’amicizia, abbandonar quella pratica, sebbene vi fosse cara ed utile come una mano. “Si manus tua vel pes tuus scandalizat te, abscide eum, et proiice abs te”. Voi avete un impiego di giudice, di avvocato, di medico, di maestro, e questo o per ignoranza, o per malizia, o per debolezza è per voi una pietra d’inciampo, occasione di peccato, dovete dismettere la carica, lasciar l’impiego, quand’anche vi fosse necessario come un piede per reggervi e camminare, se volete salvarvi. Tutto ciò da taluni si ascolta come un linguaggio straniero; amano l’occasione del male per quel piacere o guadagno che ne riportano, come quei poveri che a bello studio mantengono aperte le loro piaghe per buscare più facilmente limosine. – Qui non finiscono le cure del corpo infermo. Quando si vedono tornar vani tutti i rimedi della farmacia, tutte le industrie dell’arte medica, si suol ricorrere a Dio. Presto che il male si avanza, presto che l’infermo s’abbatte, un triduo a tal Santo, una novena alla Vergine, una limosina allo spedale. Son ben lontano dal condannare queste pratiche di cristiana pietà: è cosa lodevolissima fare ricorso  ai Santi acciò per noi s’impegnino presso l’Autor della vita e della morte. Dico solo che v’è da piangere, perché non si vede uguale premura per la salute dell’anima inferma. Pregate pure Iddio e i Santi per la sanità del corpo, ma se fia spediente per il bene dell’anima: pregate, non come l’empio Antioco per la sola brama di campare, e perciò non fu esaudito, ma come il penitente Davide, che chiedeva insieme e la salute del corpo e quella dell’anima: “Miserere mei, Domine, quoniam infirmus sum. Sana animam meam quia peccavi tibi(Ps. XL, 4). – Finalmente per guarire da’ mali del corpo si fa ricorso al demonio»! Possibile? Così non fosse! Così fece lo scellerato Ochozia, che infermo per una mortale caduta, mandò a consultare Belzebub idolo di Accaron. Così fanno molte sciocche femminuzze, e non pochi scaltri impostori, qualora presumono medicar certi mali con un miscuglio di sacre e tronche parole, con segni insulsi e superstiziosi, pei quali si fa una tacita invocazione del demonio. A questi eccessi s’arriva per lo smodato amore del corpo; e che l’anima intanto ne resta offesa, aggravata, nemica di Dio, non importa. – Ecco la stravaganza veduta da Salomone. “Vidi servos in équis, et principes ambulantes super terram quasi servos(Eccl. X, 7). Io ho veduto un servo vile di nascita, e più vile di mestiere, garzone di stalla, seduto su d’un cavallo adorno di nobile e ricca bardatura, e servito alla staffa da una principessa a piedi, come la più abbietta di tutte le serve. Questo servo vilissimo e cosi ben trattato è il nostro corpo, “sacco di vermi”, come lo chiama S. Bernardo; questa serva tanto avvilita e depressa è la nostr’anima. O stranezza degna di orrore e di pianto! Udite come la deplora un S. Agostino: “Tanta sollecitudine per morire un poco più tardi, e nessuna per non morir mai: tanta premura per tenere alquanto lontana la morte, che poi finalmente non si può evitare, e nessun impegno per non incorrere la morte sempiterna: tanto amore per lo schiavo, tanta indifferenza per la regina: tutto per un vaso d’immondezze e di putredine, nulla per uno spirito nobile e viva immagine del Creatore: tutto per quel che finisce in quattro giorni, niente per quel che durerà per secoli infiniti”.- O forsennatezza, o delirio dell’uomo cieco e di se stesso nemico! – Deh! almeno (io non ve lo contrasto) se tanta indulgenza avete pei mali del corpo, abbiatene almeno altrettanta per i mali dell’anima, che è vostra, che è la miglior porzione di voi medesimi; io ve ne prego, ve ne scongiuro colle parole dello Spirito Santo: “Miserere animæ tuæ placens Deo” (Eccl. XXX, 24). Imitate il riconoscente lebbroso, che, come dal bel principio abbiamo osservato, mostrò aver premura e del corpo e dell’anima, e meritò d’essere risanato e nell’anima e nel corpo. “Fides tua, te salvum fecit”.

Credo…

Offertorium
Orémus
Ps XXXIII:15-16
In te sperávi, Dómine; dixi: Tu es Deus meus, in mánibus tuis témpora mea.
[O Signore, in Te confido; dico: Tu sei il mio Dio, nelle tue mani sono le mie sorti.]

Secreta
Popitiáre, Dómine, pópulo tuo, propitiáre munéribus: ut, hac oblatióne placátus, et indulgéntiam nobis tríbuas et postuláta concedas. [Sii propizio, o Signore, al tuo popolo, sii propizio alle sue offerte, affinché, placato mediante queste oblazioni, ci conceda il tuo perdono e quanto Ti domandiamo.]

Communio
Sap XVI:20
Panem de coelo dedísti nobis, Dómine, habéntem omne delectaméntum et omnem sapórem suavitátis.
[Ci hai elargito il pane dal cielo, o Signore, che ha ogni delizia e ogni sapore di dolcezza.]

Postcommunio
Orémus.
Sumptis, Dómine, coeléstibus sacraméntis: ad redemptiónis ætérnæ, quǽsumus, proficiámus augméntum.
[Fa, o Signore, Te ne preghiamo, che, ricevuti i celesti sacramenti, progrediamo nell’opera della nostra salvezza eterna.]

“GNOSI” LA TEOLOGIA DI sATANA (2)

“GNOSI” LA TEOLOGIA DI sATANA (2)

QUATTRO INTERPRETAZIONI DELLA CABALA

Dopo aver ben riletto lo scritto precedente [“Gnosi: teologia di satana (1)”] passiamo a considerare le interpretazioni della cabala nella quale sono confluite, in modo più o meno evidenti, con elaborazioni più o meno fantasiose o, se preferite, deliranti, tutte le idee gnostiche già considerate. Come si è visto, gli influssi pagani, soprattutto egizi, inducono una contaminazione nella dottrina rivelata affidata agli Ebrei, dando origine alla gnosi “spuria” ebraica che si stratifica in una «tradizione» o «Gabbala», opposta alla Tradizione della Rivelazione divina, ed alla sinagoga mosaica. Non si tratta di un pensiero omogeneo, ma di un sincretismo proteiforme di nozioni legate a una concezione cosmica emanatistica, ingannatrice e falsa sotto vaghe apparenze spirituali, ma pur sempre riconducibili ai principi gnostici di base della “teologia di satana” (v. articolo 1), concezione cosmica che poi ritroveremo in tutte le (false) religioni orientali e nel modernismo attuale infiltrato, con il c.d. Vaticano II, nella Chiesa Cattolica. La molteplicità delle interpretazioni della cabala ne conferma la confusa complessità. – Cominciamo dunque  ad esplorare i tentacoli della complessa piovra gnostica iniziando dall’epoca recente in cui la cabala citata, è stata soggetta a quattro diverse interpretazioni.

1.- INTERPRETAZIONE CRISTIANA di DRACH

P. Drach: era questi un ebreo finto-convertito (il solito marrano!), che non ha mai rivelato però i testi rabbinici dai quali traeva le sue dottrine: si tratta quindi di una cabala riduttiva. Alcuni concetti, espressi senza la limpidezza nitida del tomismo, sono accettabili per le loro vaghe analogie col pensiero cristiano. Inizia già, come sempre, il sottile inganno della “ermeneutica” dei marrani, utilizzata di recente e spudoratamente, dai tempi del conciliabolo [Vaticano II], dai finti papi, effettivamente quasi tutti marrani. La pubblicazione di tali scritti ha incontrato l’ostilità degli ebrei in quanto portava, secondo loro, alla conversione al Cristianesimo. Noi sappiamo oggi che al massimo questa concezione produce il modernismo teologico, cioè un Cristianesimo di facciata, una maschera dietro alla quale si cela il ghigno del “nemico”. Ed infatti vi ritroviamo le idee della “teologia di satana”:

– l’idea di Dio infinito, En-sof;

l’idea dei sefirot, splendori divini, perfezioni divine;

– un vago concetto di Trinità nei primi tre sefirot, che si identificano con Dio stesso;

gli altri sette sefirot, «occhi di Dio», «luminari della menorah» (= il candelabro giudaico), indicano attributi che Giovanni (Apoc l, 4) chiama «sette spiriti», e non angeli (elencati in Apoc. IV,12);

– i dieci sefirot sono rami dell’unico albero divino, non distinti da Dio, che è temerario investigare: quattro investigatori che hanno preteso di «entrare nel verziere», ossia nel mistero, hanno pagato rispettivamente con la morte, la pazzia, la perversione in empietà, la rinuncia a investigare;

L’Adam Qadmon non è Adamo (Adam hari’son), ma è ad esso anteriore, è uno e multiplo, ed in lui e di lui sono tutte le cose: vaga allusione (distorta) al Verbo Incarnato;

-l’Infinito è simboleggiato dal serpente a spirale che si morde la coda.

2.- INTERPRETAZIONE PANTEISTA dell’ebreo GERSHOM SCHOLEM: autogenesi divina dal nulla.

Questo seguace della falsa teologia satanica, riprende e aggiorna, nel suo studio, le grandi correnti della mistica ebraica e quella affermatasi dal 1843 ad opera dell’ebreo ADOLFO FRANK [questi merita un approfondimento ulteriore non proponibile in questa sede].  – Scholen sostiene che Sefer ha Zoar, pubblicato da MOSÈ DE LEON in Castiglia tra il 1280 e ’90, scritto dal quale riprende i suoi concetti anti-teologici, non abbia precedenti cabalistici anteriori. Il suo pensiero scorre su due grandi temi: Dio e l’Uomo in rapporto con Dio; egli afferma: Dio è infinito, En-Sof, avvolto nel mistero. I zefirot sono emanazioni divine, come la fiamma emana dal carbone, il quale però può sussistere senza fiamma. Essi formano il mistico albero di Dio emanante dall’En-Sof, albero che si dilata nell’intero cosmo.

L’uomo, Adam Qadmon, è fatto ad immagine di Dio così come Dio è fatto a immagine dell’Adam Qadmon.

Il Tu divino nelle sue manifestazioni supreme si identifica con

L’Io divino, immanente a tutto il creato come «Chekina», divina «presenza ». Esso costituisce al tempo stesso il fondamento immanente di ogni uomo nel quale afferma pienamente la sua stessa personalità. Il rapporto tra l’Io e il Tu divino, tra l’attivo e il passivo, tra il maschile e il femminino divino (Chekina) è espresso in termini sponsali. Lo Zoar assume il simbolismo fallico. – «Dio è il nulla» che si dispiega nell’autocoscienza dell’uomo. Il nulla è lo zefirot primordiale e la corona della divinità. «Se qualcuno  ti chiede come ha fatto ad uscire il suo essere dal nulla, rispondi: a colui che ha fatto il suo essere dal nulla non manca nulla, poiché l’essere è nel nulla alla maniera del nulla, e il nulla è nell’essere alla maniera dell’essere». Questo pensiero è espresso da altri cabalisti in modi diversi ma equivalenti: il nulla genera il tutto come il punto, in sé in esteso, genera la linea e la superficie, che già in esso son preformate: il punto primordiale (il nulla) è il centro mistico intorno al quale si concentrano i processi della teogonia e della cosmologia. – « La trasformazione del nulla in essere è un avvenimento che si colloca in Dio stesso» (REUCHLIN); il nulla è coesistente con l’infinita pienezza di Dio. Questa autogenesi di Dio dal nulla è affermata già nella teogonia egizia. – Secondo la teoria del Tzimtzum, Dio soggiace a un processo di alternanze tra espansioni e contrazioni cosmiche attraverso le quali Dio si libera dalle incrinature del male. «Il tutto.., è legato al tutto fino all’ultimo anello della catena». «Dio, il mondo, l’anima non hanno ciascuno nel proprio piano vite separate»; la separazione è indotta dal peccata di Adamo, subentrato a rompere la perfetta unità inducendo una frattura tra Dio e il cosmo, rendendo cosi trascendente l’Immanente. Dalla frattura dell’unità divina nasce satana. – Con la caduta di Adamo l’anima umana, preesistente alla creazione nel seno dell’eternità, da scintilla spirituale si è immateriata in un corpo e porta in sé gli stadi divini (sefìrot) attraverso i quali è passata. La metempsicosi [che ritroviamo tra l’altro nelle concezioni gnostiche orientali, in primis nel buddismo] è insegnata dalla scuola cabbalistica di LAURIA, il quale afferma che il processo di purificazione è agevolato dalla preghiera e dalla mortificazione.Nella sua profondità l’anima è intangibile dal peccato. L’uomo ristabilisce l’unità infranta applicandosi all’osservanza della Legge (Torah). Al centro di questo processo di riunificazione sta l’ebreo, che con la pratica della Torà unisce tutte le scintille disperse nella materia. L’opera di restaurazione sarà condotta a termine dalla venuta del Messia e il cosmo intero si redimerà nella redenzione d’Israele. Il male sta nella frattura dell’unità cosmica, germoglia dalla stessa divinità come detrito della «vita nascosta» di Dio, come frutto staccato dall’albero, o «corteccia dell’albero» cosmico, «buccia della noce» (v. l’eretico neo-gnostico TEILHARD DE CHARDIN). – Questa dottrina, che si dispiega su un gioco dialettico di parole che identificano l’essere col non-essere, l’infinito con l’indefinito, il sì col no, la verità con l’errore, il bene col male, ecc., offre l’ispirazione chiave alla dialettica hegeliana [la celebre, purtroppo, tesi-antitesi-sintesi applicata oggi, senza vergogna, dalla finta chiesa dell’uomo che così ha tradotto i termini: Cattolicesimo, modernismo anticattolico, tradizionalismo di facciata dei falsi chierici lefebvriani o sedevacantisti].

 

3.- INTERPRETAZIONE OCCULTISTA (LEVY, GUAITA, AGRIPPA,

PAPUS, PELADAN, S. MARTIN, IVES D’ALVEYDRE, ecc.): cosmogenesi androgina.

Libera da condizionamenti universitari, questa interpretazione rivendica un’origine antichissima di ispirazione esoterica induista, con apporti mosaici, orfici, pitagorici, giovanniti. Si incentra nell’uomo microcosmo che rispecchia il macrocosmo, uomo fatto di corpo e anima congiunti dallo spirito. L’uomo è scintilla divina emanata da Dio come puro spirito «androgino», sessualmente indifferenziato. La caduta originaria ha provocato la scissione tra i due sessi, immateriali in Adamo ed Eva. Ogni uomo porta l’impronta della primitiva unità differenziata in Adamo (nel cervello) e in Eva (nel cuore). L’uomo riacquista la primitiva unità attraverso vari stadi di reincarnazione che lo purificano nell’amore, ricostituendolo androgino e, identificandolo con Dio attraverso il nirvana, ossia la perdita della sua individualità materializzata. L’uomo passa dunque attraverso l’involuzione della caduta, l’evoluzione, il ritorno tramite il nirvana. [Alla base delle teorie “gender”, oltre alle considerazioni neomalthusiane, appaiono evidenti le radici gnostico-occultistiche che ne giustificano le assurdità, evidenti pure ad un unico “neurone” funzionante; uguali considerazioni per l’esondazione dell’orgoglio ed il diritto alla “sodomia”  che si affaccia pure già prepotentemente nella falsa chiesa dell’uomo,  il c.d. “novus ordo”].  – L’universo, modellato sull’uomo, è composto di materia, di vita (Angeli, forze attive della natura), di volontà presente come magnetismo universale. Oscilla tra stati di involuzione e di evoluzione, come l’uomo. – Dio è prototipo dell’uomo e del cosmo, incomprensibile nella sua essenza, conoscibile nelle impronte trinitarie della natura sotto vari nomi. Sole-Terra-Luna, Brahma-Vishnu-Shiva, Iside-Osiride-Phta, Giove-Giunone-Vulcano, Padre-Figlio-Spirito, Kether-Chocmach-Binah (triade cabbalistica conispondente ai primi tre sefirot). Esistono anche i demoni (quliphot), spiriti del male. – Questa cabbala è veicolata storicamente da alchimisti, templari, rosacrociani, massoni, ed oggi in modo larvato anche dai chierici modernisti finto-cattolici.

4.- INTERPRETAZIONE MASSONICA.

Sotto l’insegna del relativismo teorico e morale, la massoneria, nata come strumento dell’egemonia angloebraica, assume nel suo patrimonio culturale tutte le correnti della cabala orientandole verso la costruzione di un One World [il Nuovo Ordine Mondiale, oramai alle porte], in cui l’Adam Qadmon, l’uomo prototipo, è lo stesso ebreo incoronato con il Kether-Malkhut (diadema regale) dominatore del mondo. Tutta la letteratura ebraica illustra questo «grande disegno», di cui già i Rosacroce furono interpreti dal momento in cui la cabala invase l’occidente cristiano. I Rosacroce portarono il Kether-Malkhuth come loro insegna, assunta dal libro di Ester. La cabala trova la sua continuità nella massoneria, che è lo strumento dell’ebraismo anticristiano per la lotta contro la Chiesa di Cristo: Una, Santa, Cattolica, Romana. – Alla cabala giudaico-massonica confluiscono in blocco tutte le correnti del paganesimo antico e moderno, dall’induismo al bramanesimo, a Zarathustra, al manicheismo, al buddismo, alle religioni dell’Egitto, della Grecia, della Mesopotamia, alle gnosi iraniane, al maomettanesimo, al satanismo. – Secondo il MEURIN, ma non solo, i dogmi massonici sono gli stessi della cabala e in particolare l’emanatismo dello Zohar. L’Infinito (En-Sof) è un essere inconsapevole che si autogenera dal nulla, simboleggiato dal punto inesteso (lo jod ebraico), che è la prima sefìra donde emanano gli altri nove sefirot e con essi il cosmo con l’uomo e gli spiriti buoni e cattivi, nei quali l’En-Sof acquista coscienza. La sapienza che emana dall’En-Sof è simboleggiata dalla «corona», come la regina Ester, insignita del diadema regale – il Kether Malkhuth – dopo la vendetta contro Aman e lo sterminio dei nemici, avvenimento emblematico commemorato annualmente dagli ebrei nella festa del Purim (14 febbraio). La corona, viene consegnata ai figli degli ebrei quando compiono il tredicesimo anno come simbolo di forza e incitamento alla conquista. La massoneria rivendica la pretesa di formare l’uomo nuovo, puro (EMEROH: rito del Cavaliere Eletto, immagine del Pinocchio della favola di iniziazione massonica, che da pezzo di legno si trasforma in un essere umano), sul modello dell’Adam Qadmon, l’unico uomo vero (umanesimo ateo), emancipato e moralmente autonomo. . I tre puntini di cui si fregiano i massoni richiamano i tre jod disposti a triangolo in un cerchio come espressione dei tre sefirot o splendori divini superiori, con cui i cabalisti designano l’Assoluto, con allusione al «Tre volte santo», Qados, Qados, Qados [invocazione massonica che ha sostituito il trisagio di Isaia nel nuovo rito montiniano, detto novus ordo missæ, invocazione appunto fatta al signore dell’universo, cioè il baphomet-lucifero].

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L’inganno del nemico infernale, attraverso la sua falsa teologia, è oramai evidente per tutte le attività umane, sociali, culturale, filosofiche e massimamente religiose [il vero fine ultimo, l’obiettivo finale del “dragone”]. La sua struttura proteiforme si adatta di volta in volte alle condizioni che si presentano nel tempo e nella società, ma i frutti sono sempre gli stessi: l’allontanarsi dal vero Dio per correre verso il fuoco infernale insieme all’omicida maestro dell’inganno! Pure sempre identiche sono la matrici di base, benché variamente camuffate, che troveremo in situazioni impensabili, nella letteratura profana, nella poesia [ad es. lo gnosticismo dantesco] nelle arti grafiche, nelle espressioni musicali, nella pedagogia, nella medicina, soprattutto nella psicologia e scienze affini, etc.,  … ma avendo la bussola della sana teologia e del magistero della Chiesa Cattolica, tenendo sempre presenti gli otto punti considerati nell’articolo 1, potremo facilmente decodificare e sfuggire alla trappola del feroce nemico, il “leone ruggente” che gira per afferrare anime da spedire all’inferno. Occhio, perché la posta in gioco è veramente importante!]

[Continua …]

 

Inserzione a pagamento, listata a lutto, apparsa all’indomani della morte di A. Roncalli, il massone 33° antipapa con il nome di Giovanni XXIII, omonimo di uno degli antipapi  dello scisma d’Occidente, sul quotidiano messicano EL INFORMADOR di Guadalajara (4 giugno 1963). Vi si legge: «La GRAN LOGGIA OCCIDENTALE MESSICANA dei Massoni liberi e accettati, in occasione del decesso del PAPA GIOVANNI XXIII, rende pubblico il suo cordoglio per la scomparsa di questo grande uomo, che venne a rivoluzionare le idee, i pensieri e le formule della liturgia romana. LE ENCICLICHE “MATER ET MAGISTRA” e “PACEM IN TERRIS” hanno rivoluzionato i concetti in favore dei DIRITTI DELL’UOMO E DELLA SUA LIBERTÀ. L’umanità ha perduto un grande uomo e i Massoni riconoscono in LUI i suoi elevati principi, il suo umanitarismo e la sua condizione di GRAN LIBERALE [= GRAN MASSONE].

Guadalajara, Jalisco, Messico, 3 giugno 1963. – GRAN LOGGIA OCCIDENTALE MESSICANA».

Questo è un manifesto di celebrazione funebre della massoneria per il “fratello” iniziato nella gran loggia di Parigi e poi affiliato alla Loggia di Costantinopoli, da essa introdotto, con la collaborazione della 5^ colonna dei prelati massoni, [capeggiati dal card. Tisserant, Lienart, Bea etc., fino al soglio di Pietro, come profeticamente già annunziato da Leone XIII nella preghiera a S. Michele dell’Esorcismo Breve. La gnosi massonica inizia i suoi fasti modernisti ma … non prævalebunt!

… Et reddet iliis iniquitatem ipsorum: et in malitia eorum disperdet eos: disperdet illos Dominus, Deus noster. [Ps. XCIII, 23]

… et IPSA CONTERET caput tuum!

 

Calendario liturgico della Chiesa Cattolica: SETTEMBRE

SETTEMBRE è il mese che la Chiesa dedica ai sette dolori della Madonna

Corona dei sette dolori

I.– Regina dei Martiri, addolorata Maria, per quell’acuto dolore che vi trafisse allorquando vi fu predetta da Simeone la futura passione e la morte ignominiosa del vostro dilettissimo Figlio, vi supplico ad impetrarmi un perfetto conoscimento dei miei peccati, ed una ferma risoluzione di non peccare mai più. Ave.

II.– Regina dei Martiri, addolorata Maria, per quell’intenso dolore che aveste allorquando vi fu annunziata dall’Angelo la crudele persecuzione di Erode, e la necessità di fuggire col vostro carissimo Figlio in Egitto, vi supplico ad impetrarmi un efficace soccorso per superare gli assalti dell’infernale nemico, e una generosa fortezza per fuggir ogni pericolo di peccare. Ave.

III.– Regina dei Martiri, addolorata Maria, por quell’acerbo dolore che vi ferì allorquando smarriste nel tempio il vostro amatissimo Piglio, e sollecita lo cercaste per ben tre giorni, vi supplico ad impetrarmi un aiuto possente per non perdere giammai la grazia di Dio, e per ottenere la finale perseveranza nel divino servizio. Ave.

IV.– Regina dei Martiri, addolorata Maria, per quell’aspro dolore che voi sentiste, allorquando vi fu annunziata la presa del vostro divin Figlio nell’Orto degli ulivi, e il barbaro trattamento che riceveva dai suoi nemici, vi supplico ad impetrarmi un generale perdono delle mie passate infedeltà, ed una pronta corrispondenza alle divine chiamato. Ave.

V.– Regina dei Martiri, addolorata Maria, per quell’atroce dolore che vi sorprese, allorquando vi incontraste sulla strada del Calvario col vostro insanguinato Figliuolo, vi supplico ad impetrarmi forza bastevole per soffrire pazientemente tutte quante le avversità, e rassegnarmi in tutti gli eventi allo divine disposizioni. Ave.

VI.-Regina dei Martiri, addolorata Maria, per quell’acerbo dolore che voi provaste, quando assisteste alla barbara crocifissione del vostro innocentissimo Figlio, vi supplico ad impetrarmi la grazia di ricevere nella mia morte i ss. Sacramenti, e di spirare l’anima mia nelle vostre amorosissime braccia. Ave.

VII.- Regina dei Martiri, addolorata Maria, per quell’immenso dolore che vi comprese, allorquando vedeste morto e sepolto il vostro amabilissimo Figlio, vi supplico ad impetrarmi un generale e perfetto distacco da ogni oggetto terreno, e una ardentissima brama di servirvi sempre più perfettamente fino alla morte, onde venire dopo di essa a lodarvi per sempre nel cielo. Ave, Gloria.

Orazione a Maria Addolorata.

O gran Regina dei Martiri e la più desolata di tutte le Madri, il vostro dolore è immenso come il mare, perché tutto le piaghe che i peccati degli uomini hanno impressa nel sacro corpo del vostro divin Figliuolo, sono ivi tutto, riunite a trafiggere il vostro cuore. Ecco prostrato ai vostri piedi il peccatore più indegno, sinceramente pentito d’aver trafitto il divino Redentore. Le colpe che io ho commesso sono più gravi di quello che io posso soffrire per cancellarle. Deh, Madre, beata, imprimete nel mio cuore le piaghe santissimo del vostro amore, onde non brami che di patire e morire con Gesù crocifisso, e spirar l’anima penitente nel vostro purissimo cuore. Così sia.

[Manuale di Filotea, del sac. G. Riva, XXX ed. Milano 1888]

STABAT MATER.

Per cui il Papa Innocenzo XI il 1 Settembre 1681 concesse indulgenza di 100 giorni. Tale indulgenza fu confermata da Pio IX con Rescritto 18 Giugno 1876.

Stabat Mater dolorosa

Juxta crucem lacrimosa,

Dum pendebat Filius;

 Cujus animam gementem,

Contristatam et dolentem

Pertransivit gladius.

 O quam tristis et afflicta

Fuit illa benedicta

Mater Unigeniti 

Quæ mœrebat et dolebat

Pia Mater dum videbat

Nati pœnas inclyti.

 Quis est homo qui non fleret

Matrem Christi si videret

In tanto supplicio?

 Quis non posset contristavi

Christi Matrem contemplari

Dolentem cum Filio?

 Pro peccatis sum gentis

Vidit Jesum in tormenlis

Et flagellis subditum,

 Vidit suum dulcem Natum

Moriendo desolatum,

Dum emisit spiritum.

 Eia Mater, fons amoris,

Me sentire vini doloris,

Fac ut tecum. lugeam.

 Fac ut ardeat cor meum

In amando Christum Deum,

Ut sibi complaceam.

Sancta Mater, istud agas,

Crucìfixi fige plagas

Cordi meo valide.

 Tui Nati vulnerati

Tam dignati prò me pati,

Pœnas mecum divide.

 Fac me tecum pie flere:

Crucifixo condolere,

Donec ego vixero.

Juxta crucem tecum stare,

Et me Tibi sociare

In planctu desidero.

 Virgo virginum præclara

Mihi jam non sis amara;

Fac me tecum plangere.

 Fac ut portem Christi mortem;

Passionis fac consortem,

Et plagas recolere

 Fac me plagis vulnerari,

Fac me Cruce inebriari

Et cruore Filii

 Flammis ne urar succensus,

Per te, Virgo, sim defensus

In die Judicii.

 Christi, cum sit hinc exire

Da per Matrem me venire

Ad palmam victoriæ.

 Quando corpus morietur,

Fac ut anima donetur

Paradisi gloria. Amen.

Festa della Natività della Beata Vergine Maria: 8 settembre 2016

 

Novena a Maria Bambina

Santa Maria Bambina della casa reale di David, Regina degli Angeli, Madre di grazia e di amore, vi saluto con tutto il mio cuore. Ottenete per me la grazia di amare il Signore fedelmente durante tutti i giorni della mia vita. Ottenete per me una grandissima devozione a Voi, che siete la prima creatura dell’amore di Dio.

Ave Maria,…

O celeste Maria Bambina, che come una colomba pura nasce immacolata e bella, vero prodigio della saggezza di Dio, la mia anima gioisce in Voi. Oh! Aiutatemi a preservare nell’Angelica virtù di purezza a costo di qualsiasi sacrificio.

Ave Maria,…

 

Beata, incantevole e Santa Bambina, giardino spirituale di delizia, dove il giorno dell’incarnazione è stato piantato l’albero della vita, aiutatemi ad evitare il frutto velenoso della vanità ed i piaceri del mondo. Aiutatemi a far attecchire nella mia anima i pensieri, i sentimenti e le virtù del vostro Figlio divino.

Ave Maria,…

Vi saluto, Maria Bambina ammirevole, rosa mistica, giardino chiuso, aperto solo allo Sposo celeste. O Giglio di paradiso,  fatemi amare la vita umile e nascosta; lasciate che lo Sposo celeste trovi la porta del mio cuore sempre aperta alle chiamate amorevoli delle sue grazie ed ispirazioni.

Ave Maria,…

Santa Maria bambina, mistica Aurora, porta del cielo, Voi siete la mia fiducia e speranza. O potente avvocata, dalla vostra culla stendete la mano per sostenermi nel cammino della vita. Fate che io serva Dio con ardore e costanza fino alla morte e così possa giungere all’eternità con Voi.

Ave Maria,…

Preghiera:

Beata Maria bambina, destinata ad essere la Madre di Dio e la nostra tenera Madre, provvedetemi di grazie celesti, ascoltate misericordiosamente le mie suppliche. Nei bisogni che mi opprimono e soprattutto nelle mie presenti tribolazioni, ho riposto tutta la mia fiducia in Voi.

O Santa bambina, i privilegi che a Voi sola sono stati concessi dall’Altissimo, i meriti che avete acquistato, mostrano che la fonte dei favori spirituali ed i benefici continui che dispensate sono inesauribili, poiché il vostro potere presso il cuore di Dio è illimitato.

Degnatevi attraverso l’immensa profusione di grazie con cui l’Altissimo Vi ha arricchito fin dal primo momento della vostra Immacolata Concezione, di esaudire, o celeste Bambina, le nostre richieste e staremo eternamente a lodare la bontà del vostro Cuore Immacolato.

IMPRIMATUR : In Curia Archiep. Mediolani -31 agosto 1931 Canon. CAVEZZALI, Pro Vic. Gen.

Fonte: www.themostholyrosary.com/appendix3.htm

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Le feste del mese di

SETTEMBRE

 1 Settembre S. Ægidii Abbatis    Simplex – Primo VENERDI’

Commemorazione dei Santi Martiri dodici fratelli

2 Settembre S. Stephani Hungariæ Regis Confessoris   Semiduplex –

                         Primo  SABATO

3 Settembre Dominica XIII Post Pentecosten I. Septembris   

                Semiduplex Dominica minor *I* S. Pii X Papæ Confessoris

5 Settembre S. Laurentii Justiniani Epíscopi et Confessoris    Semiduplex

8 Settembre In Nativitate Beatæ Mariæ Virginis    Duplex II. classis *L1*

Commemorazione di San Adriano m.

9 Settembre Sanctæ Mariæ Sabbato    Ferial S. Gorgonii Martyris    Simplex

10 Settembre Dominica XIV Post Pentecosten II. Septembris   

                     Semiduplex Dominica min. –  S. Nicolai de Tolentino Confessoris

11 Settembre Ss. Proti et Hyacinthi Martyrum    Simplex

12 Settembre S. Nominis Beatæ Mariæ Virginis    Duplex

14 Settembre In Exaltatione Sanctæ Crucis    Duplex II. classis *L1*

15 Settembre Septem Dolorum Beatæ Mariæ Virginis    Duplex II. classis *L1* – Commemorazione di San Nicomede m.

16 Settembre Ss. Cornelii Papæ et Cypriani Epíscopi, Martyrum

Semiduplex – Commemorazione di SS. Eufemia Vergine, Lucia

e Geminiano martiri.

17 Settembre Dominica XV Post Pentecosten III. Septembris   

       Semiduplex Dom. min. *I* Impressionis Stigmatum S. Francisci 

18 Settembre S. Josephi de Cupertino Confessoris    Duplex *L1*

19 Settembre S. Januarii Epíscopi et Sociorum Martyrum    Duplex

20 Settembre S. Eustachii et Sociorum Martyrum    Simplex

Merc. di QUATEMPORA

21 Settembre S. Matthæi Apostoli et Evangelistæ    Duplex II. classis

22 Settembre S. Thomæ de Villanova Epíscopi et Confessoris    Duplex

Comm. dei Santi Maurizio e compagni martiri. –

                      Ven. di QUATEMPORA

23 Settembre S. Lini Papæ et Martyris    Semiduplex

com. di s. Tecla Vergine e martire. –

Sab. di QUATEMPORA

24 Settembre Dominica XVI Post Pentecosten IV. Septembris   

                    Semiduplex Dominica min.*I*Beatæ Mariæ Virginis de Mercede

 26 Settembre Ss. Cypriani et Justinæ Martyrum    Simplex

27 Settembre S. Cosmæ et Damiani Martyrum    Semiduplex

28 Settembre S. Wenceslai Ducis et Martyris    Semiduplex

29 Settembre In Dedicatione S. Michaëlis Archangelis  Duplex I. classis *L1*

30 Settembre S. Hieronymi Presbyteris Confessoris et Ecclesiæ Doctoris