IL MAGISTERO IMPEDITO: FUORI DELLA CHIESA NON C’È SALVEZZA

FUORI DELLA CHIESA NON C’È SALVEZZA

S. S. GREGORIO XVII

[«Renovatio», XX (1985), fasc. 1, pp. 5-7].

Ci sono verità delle quali si parla poco o niente. Dunque parliamone. Per distruggere si può usare l’arma della eresia: ma si fa meglio mettendo acqua nel vino e dissolvendo nel silenzio «le parole di Dio». Ecco una verità che brucia: fuori della Chiesa non c’è salvezza. Molti credono che enunciare tale verità sia colpa contro l’Ecumenismo. Costoro si dimenticano che il Decreto sull’Ecumenismo, sancito dal Concilio Vaticano II, si preoccupa di evitare il rischio dell’«indifferentismo ». [Il Santo Padre, per motivi di forza maggiore, si riferisce al falso Concilio, ma in realtà ne sconfessa totalmente i contenuti!].

L’«indifferentismo» è proprio arrivare al punto di non riconoscere che «fuori della Chiesa non c’è salvezza». Non è una proposizione irosa, questa; è una verità di Fede, e può essere ripetuta come atto amabilissimo di carità verso i fratelli. In qualche parte di questo mondo l’effetto di tacerla si è già avuto: le conversioni sono diminuite. In una Nazione, per qualche tempo, quasi scomparvero, perché si è pensato, si è detto e si è scritto che in qualunque forma di Cristianesimo si poteva tranquillamente arrivare al Cielo… Trattandosi di una verità di Fede, la faccenda è grave. – Ripetiamo: si tratta di una verità di Fede. Tutto il Nuovo Testamento esclude chiaramente e senza ombra di dubbio ogni alternativa alla divina rivelazione compiuta in Cristo e tutto quanto si raccoglie attorno al Regno, al Corpo Mistico. Il Regno nel suo aspetto, prima della escatologia, coincide con la Chiesa. La vera Chiesa esclude ogni alternativa, piaccia o non piaccia. Il guaio è che oggi pare per molti che valga più il parere di aprire al mondo, che stare fedelmente con Cristo, Figlio di Dio. – Questa simbiosi tra la Chiesa e l’unica via di salvezza è sempre stata realmente sentita nella Chiesa – ossia nel Magistero -. E esplicitamente richiamata, con inequivocabili parole, tutte le volte in cui c’è un testo da proporre, per esigere una «Professione di Fede». – Basta vedere la Professio Fidei di Durando di Osma (D.S. 423), quella richiesta agli Armeni nel 1361 da Clemente V I (D.S. 3009), la Bolla per i Giacobiti del 1441 (D.S. 714), la Professio Fidei Tridentina (D.S. 999), la Professio Fidei Graecis præscripta, quella præscripta ai Maroniti nel 1743 (D.S. 1473). Nel secolo scorso, la “necessità” della Chiesa rispetto alla salvezza eterna è dichiarata nella Miravi Vos di Gregorio XVI contro De Lamennais (D.S. 1613); nella Quanto Conficiamur di Pio IX contro (proprio) l’«indifferentismo» (D.S. 1677) e nel celebre Sillabo dello stesso Papa (D.S. 1718). L’afferma tutto l’insieme della Pastor Æternus del Concilio Vaticano I. Vi ritorna nella Satis Cognitum Leone XIII nel 1896 (D.S. 1954), etc. Non c’è possibilità di dubbio su questa verità rivelata. È chiara anche la coerenza con l’Antico Testamento (o Vecchia Alleanza), nel quale l’alternativa alla osservanza della Legge del Sinai erano semplicemente la emarginazione e la distruzione. Che si possa pensare come la maestà di Dio creatore, alla quale ogni volontà deve piegarsi, possa eludersi è semplicemente fuori della ragione. Che una «alleanza tra Dio e l’uomo», in qualunque forma pattuita, possa risolversi per deliberazione d’uomo, sicché a lui rimanga qualche altro scampo chissà come e dove, è impensabile. Altra questione è se la divina provvidenza ha mezzi per salvare molti tra quelli che sono «fuori» dell’unica vera Chiesa. La Provvidenza i mezzi li ha. Ma l’impiego di tali mezzi non sarà mai in contrasto coi principi stretti rivelati nel Nuovo Testamento: ossia, in questi eventuali modi di salvezza dovranno essere rispettati l’adesione alla Chiesa, l’accettazione della Fede e l’atto di penitenza dei propri peccati. Dio è coerente – ripetiamo – ; noi possiamo non rispettare la coerenza, sia pure sempre a nostro danno. – Il giusto e doveroso Ecumenismo non sarà mai dispensato dal proporre questa verità a sé e agli altri. I modi per proporre la verità possono essere perfettamente corretti, amabili e persino affettuosi. L’accettazione del primato di Pietro, come roccia sulla quale è edificata la Chiesa, non ha alcuna alternativa: o lo si accetta o si va fuori della via della salvezza!. In fondo in fondo, tutto si riduce a quello che disse Pietro al Sinedrio: «Non c’è altro nome sotto del Cielo, dato agli uomini, in quo oporteat nos salvos fieri» (At. IV, 12). – Dopo d’allora, non è possibile dire diversamente. Il tacere tale verità può equivalere, in talune circostanze, a negarla. È pericoloso essere (come ce ne sono) gli incoscienti chierichetti di Heidegger e di Hegel.

Noi crediamo in Cristo Signore!

ORIGENE

[G. Panzini: Compendio storico dei Padri della Chiesa; tipog. Artigianelli, Napoli, 1905]

Origene. Celeberrimo Scrittore Ecclesiastico, ed uno de’più grand’ingegni, e dei più dotti uomini, che siano fioriti nella primitiva Chiesa nel III secolo, nacque in Egitto nella città d’ Alessandria, l’anno di G. C. 185. Fu in dalla tenera infanzia fu piamente educato da suo padre Leonida, che gl’ispirò sin d’allora il gusto della Sacra Scrittura, di cui facevagli recitar ogni giorno qualche parte. Questo padre veramente cristiano fatieavasi per prevenire qualunque benché minimo difetto, in cui il figlio potesse cadere; ma non poteva fare a meno d’ ammirare l’eccellenza dei suoi talenti. Spesso mentre il fanciullo dormiva,  gli scopriva il petto e riverentemente lo baciava come il tempio dello Spirito Santo. Era Origene ancor fanciullo, quando prese a desiderare così ardentemente di soffrire il martirio, che sarebbesi presentato di propria volontà, se la madre sua non lo avesse trattenuto con le lagrime e con le preghiere. Quando seppe che il padre era arrestato e posto in prigione, raddoppiò i suoi sforzi, e la madre fu costretta a nascondergli gli abiti per ritenerlo in casa. Altro non potendo egli fare, scrisse al padre una fortissima lettera affin d’incoraggiarlo al martirio: State fermo, gli diceva, e non vi affliggete per noi. Essendo stato Leonida decapitato per Gesù Cristo, vennero confiscati i suoi beni e la vedova del medesimo restò carica di sette figli in estrema povertà; tra i quali Origene, ch’era il primogenito, non aveva ancora 17 anni compiuti. Una gentildonna cristiana di Alessandria molto ricca lo ricevette nella propria casa; ma la medesima ospitava pure un eretico per nome Paolo, cui considerava molto. Origene era per conseguenza obbligato a vederlo; ma non volle mai comunicare seco lui nella preghiera. Non sappiamo se per tal motivo perdette la buona grazia della sua benefattrice; comunque sia, egli aprì in Alessandria una scuola di grammatica, che lo mise in grado di non aver bisogno del soccorso altrui – L’anno seguente, vale a dire nel 203, istruì alcuni catecumeni diressisi a lui. Il Vescovo Demetrio, conoscendo il suo raro merito, gli affidò la scuola della catechesi ad Alessandria, quantunque non avesse che 18 anni. Fu questo per Origene una distinzione molto gloriosa, avvegnaché quel posto non davasi d’ordinario se non a persone avanzate in età: di tal che egli era già un dotto formato in un’età in cui gli altri uomini sono appena capaci di studi serii. Lo fece universalmente ammirare e rispettare la superiorità del genio, andavasi a consultarlo da ogni parte, ed egli videsi in poco tempo alla testa d’un gran nunerodi discepoli. Quelli che avevano ascoltati i più abili maestri, venivano sotto di lui a perfezionarsi. Al pari degli altri andavano ad udirlo i pagani. Origene li accoglieva con bontà e colpiva tutte le occasioni, che presentavansi per far gustare loro la dottrina del cristianesimo. Egli insegnava con pari successo la teologia e tutte le altre scienze. Malgrado le fatiche della sua carica, egli era in grado di tenere occupati sette scrivani, e quello eh’è più ammirabile si è, che la fecondità del suo genio non impedivagli di mettere ogni idea al suo posto, di svilupparla come conveniva, di rendere, in una parola, tutti i suoi pensieri con una energia e facilità, che faranno l’ammirazione di tutti i secoli. I suoi studi non erano quasi mai interrotti, e l’unico sollievo che si permetteva era la varietà negli argomenti del suo lavoro. Studiava fin nei viaggi e per ogni dove era circondato da discepoli, e non v’era luogo dove non lasciasse tracce della sua immensa erudizione. Videsi uscire dalla sua scuola un gran numero di dottori e di Sacerdoti, che illuminarono la Chiesa con la loro scienza, e l’edificarono con la virtù; ed altri poi ebbero la gloria del martirio, tra questi S. Plutarco, S. Sereno e S. Eraclitide. – La funzione di Catechista obbligava Origene a conversar con le donne come cogli uomini, ed egli interpretando letteralmente quanto leggesi nei libri santi, onde mettersi al sicuro da qualsiasi tentazione, si fece eunuco. Quest’azione, il cui motivo era lodevole, derivò senza dubbio da uno zelo indiscreto; laonde Origene in appresso si condannò egli stesso. – Quando Origene cessò d’insegnare grammatica, vendette tutti i libri di letteratura profana, e si contentò di avere quattro oboli al giorno da quegli che li aveva comprati. Visse parecchi anni in tal modo. L’amore per la penitenza facevagli praticare ogni sorta d’austerità. Andava scalzo ed astenevasi dall’uso della carne. Un’estrema debolezza di stomaco fu solo capace di determinarlo a permettersi un po’di vino. Si coricava sempre sul nudo suolo, digiunava e vegliava molto. Praticava in grado eminente la povertà volontaria, e rifiutò costantemente le offerte di soccorso fattegli da varie persone. Egli visitava nelle prigioni i Confessori della Fede, li accompagnava per incoraggiarli nel loro interrogatorio, e parlava ad essi francamente quando erano condotti al supplizio. Così grande era il suo zelo, che non potevansi contare il numero delle conversioni da lui procurate. In guisa tale egli divenne il principale oggetto del furore dei Pagani, che lo cercavano da per ogni dove e l’obbligavano a cangiar soggiorno continuamente, cosicché la città d’Alessandria non sembrava essere grande abbastanza per nasconderlo: quindi spesse volte egli fu preso, strascinato per la città e messo alla tortura. Origene fece un viaggio a Roma sotto il Pontificato di S. Zefirino per soddisfare al desiderio che aveva di vedere una Chiesa così antica. Non fu quivi lungo il suo soggiorno. Ritornato in Alessandria riprese le sue catechesi. – Nel 230 partì da Alessandria per andare in soccorso delle Chiese di Acaja turbate da varii eretici. Avendo egli preso la volta di Cesarea in Palestina, Teoclisto Vescovo di detta città, l’ordinò Sacerdote con l’approvazione di S. Alessandro di Gerusalemme e di varii altri prelati della provincia. – Siffatta Ordinazione occasionò grandi torbidi. Demetrio depose Origene in due concilii e lo scomunicò. Allegò per ragioni della sua condotta:

1.°che Origene erasi fatto eunuco (cosa che la Chiesa nel tratto successivo, mise effettivamente nel numero delle irregolarità).

2° — ch’era stato ordinato senza il consenso del proprio Vescovo.

3° — che aveva insegnato molti errori; tra gli altri che il demonio sarebbe stato in fine salvato e liberato dalle pene dell’Inferno. Origene, per cedere all’uragano, che piombava su di lui, prese la fuga nel 231 e ritirossi in Cesarea di Palestina, d’onde scrisse ai suoi amici d’Alessandria per giustificarsi degli errori di cui veniva accusato. Spiegavasi in modo ortodosso intorno alle pene dei demoni, e dichiarava non doversi renderlo responsabile d’aver gli eretici corrotto i suoi scritti. Di fatti pare ch’egli non abbia negata recisamente l’eternità delle pene dei demonii, ed abbia asserito che i demonii si salverebbero se si pentissero. L’assicura egli stesso nelle sue Opere citate da S. Pamfilo e da S. Girolamo. – Facendo plauso al motivo che indusse Haloix, Tillemont, e Ceillier a prenderne le difese, noi crediamo, senza volere oscurare la reputazione di questo grand’ uomo, essere difficile cosa giustificarlo in tutto. Rilevasi infatti dai libri dei principii ch’egli cadde per qualche tempo in errori e perfino in istravaganze, tra gli altri alla preesistenza delle anime in una regione superiore, di là, secondo lui, venivano in questo mondo a dar vita ai corpi [platonismo e neo-platonismo alessandrino –ndr.-]. – Gli origenisti, il cui principale errore consisteva nel negare l’eternità delle pene, poggiavansi fortemente sull’ autorità di Origene. Per tale ragioni alcuni antichi scrissero con tanta amarezza contro questo grand’uomo. Il loro scopo era di scemarne l’autorità, affinché coloro i quali dicevansi suoi discepoli, non se ne prevalessero. Per mettere fine a tutte le contestazioni, che turbavano la Chiesa, il quinto Concilio generale condannò le Opere di Origene. Del resto, questo Padre morì nella comunione della Chiesa, e non sostenne mai i propri errori con quella ostinazione che forma gli eretici; errò Origene, ma siccome niuna definizione della Chiesa aveva condannato i suoi errori, non possiamo asserire esser morto fuori il grembo di lei. – Origene ritirossi in Cappadocia durante la persecuzione di Massimino, e a Tiro durante quella di Decio. Fu arrestato in questa seconda città, vi stette lungo tempo in prigione carico di catene, avendo al collo un collare di ferro e le pastoie ai piedi, soffrì diverse torture e fu spesso minacciato del fuoco; non si fece però morire, colla speranza di abbattere colla sua caduta un maggior numero di Cristiani. Egli stette sempre costante, e in questo frattempo scrisse alcune lettere per incoraggiare gli altri fedeli. Origene non sopravvisse lungamente dopo i tormenti sofferti pel nome di Gesù Cristo e morì in Tiro, l’anno 253, in età di 69 anni. Fu sepolto nella Cattedrale presso l’Altare Maggiore, e si pose il suo epitaffio sopra un pilastro di marmo, che durò lunghissimo tempo.

OPERE

1°- Le Esapli : Egli lavorò molto per dare un’edizione della Scrittura che fece in sei colonne e per tal motivo le intitolò Esapli:

– La l.a contiene il testo Ebraico della Scrittura scritta in caratteri ebraici: la 2.a lo stesso testo ebraico scritto in carattere greco, a beneficio di quelli che intendevano 1’ebraico senza saperlo leggere : la 3.a conteneva la versione di Aquila: la 4.a colonna quella di Simmaco: la 5.a quella de’ Settanta— e la 6.a quella di Teodozione. – Questa raccolta fu anche denominata Ottapli, che erano state poco prima trovate, senza saperne gli Autori, e che formavano otto colonne nel libro dei Salmi, in quello di Abacue, e forse anche d’alcuni altri Profeti. La quinta versione era stata rinvenuta a Gerico, e la sesta a Nicopoli, nell’Epiro. Le Tetrapli non contengono che le versioni di Aquila, di Simmaco, dei Settanta e di Teodozione, poste l’una di fronte all’altra. Non ci restano più oggidì che dei frammenti dell’Esapli di Origene. Il Di Monfaucon raccolse tutto ciò che poté trovarne e lo fece stampare a Parigi nel 1713 in due volumi in foglio. L’Opera originale di Origene, da lui stesso deposta, insieme agli altri suoi scritti nella Biblioteca di Cesarea, esistette lungo tempo. Credesi fosse perita, quando Cesarea fu distrutta dai Saraceni nel 653, dopo un assedio di sette anni. Vedi il Lexicon di Koffman.

2°- Dei commentarii sulla Scrittura: Huet pubblicò con dissertazioni quelli di cui si ha ancora il testo greco. Carlo di la Rue ridette gli stessi commentarii con addizioni, e quelli di cui non abbiamo più d’una sola traduzione latina.

3.° Il Periarcon (scritto prima del 231), ovvero i quattro libri dei principii, così intitolati, perché intendeva stabilire in essi quei principii, a cui è d’uopo appigliarsi in materia di Religione. È questo il più famoso scritto di Origene contro gli eretici, e quello in cui segue maggiormente il raziocinio umano e la Filosofìa di Platone. Lo scopo inoltre di Origene in questi libri era quello di rovesciare dai fondamenti le Eresie di Valentino, di Marcione, e degli altri seduttori, i quali per ritrovare la causa del male, avevano inventato due principii e volevano che ci fossero degli Spiriti e degli Uomini di due diverse nature, gli uni essenzialmente buoni e gli altri essenzialmente cattivi. Origene, al contrario, stabilisce non esservi che Dio; il quale è di natura buono, ed immutabile; che ogni creatura è capace del bene e del male, e che la cagione del male è l’imperfezione della creatura, la quale fa male uso della propria libertà. – Non ci resta più che una traduzione latina di quest’opera. Rufino, che ne è l’autore, dice d’aver corretti gli errori insinuativi dagli eretici. Questo non impedisce che vi si trovino ancora opinioni pericolose intorno alla preesistenza delle anime, sulla pluralità dei mondi, sulla natura degli astri, sull’eternità delle pene, sulla salvazione degli Angeli ribelli ecc. Si volle rimproverare ad Origene d’aver voluto accoppiare i principii della religione con quelli di varie sette filosofiche; egli è vero pertanto che non assume il tono affermativo, ed abbandona le proprie opinioni al giudizio dei lettori. Dice inoltre nel prologo, non doversi ammettere come articolo di fede se non ciò che accordasi con la tradizione della Chiesa e la dottrina predicata dagli Apostoli.

Un trattato sulla preghiera, scritto fra il 231 e 240. Origene dopo avere in esso  stabilita la necessità della preghiera e designate le disposizioni cui deve farsi questo santo esercizio, passa alla spiegazione della orazione domenicale.

Il libro del Martirio, scritto verso 1′ anno 235: È una esortazione delle più commoventi diretta ai cristiani detenuti in prigione pel nome di Gesù-Cristo.

Gli otto libri contro Celso, scritti verso l’anno 249. È questa la più completa e preziosa di tutte le Opere di Origene. Celso, cui Origene cominciò a confutare, era un filosofo Epicureo, vivente sotto il regno dell’Imperatore Adriano, e che non devesi confondere con un altro Celso, anche filosofo, vivente ai tempi di Nerone. La religione cristiana non aveva avuto ancora un avversario così formidabile, né chi l’attaccasse con tanta sottigliezza. Non sono da paragonarsi a Celso quelli, che dopo di lui scrissero contro il Cristianesimo. Di questa opera, ecco come ne parla un insigne Teologo: I soli otto libri di Origene contro Celso Filosofo Epicureo, lavoro a nostro credere, il più eccellente, che tramandato ci abbia in tal genere l’antichità, ci fan vedere dispersi, ed annientati d’una maniera trionfante i folli divisamenti, che quali novelle scoperte ha vomitato in questi ultimi tempi la miscredenza, e i fondamenti della Religione Cristiana per ogni lato invittamente assodati. Sicché questa sol’opera bastar potrebbe ad abbrobrio e confusione eterna dei miscredenti (Valsecchi: Verità della Chiesa Cattolica). – L’edizione delle Opere di Origene, fatta dai Benedettini è la più completa che abbiamo; essa fu incominciata da Carlo di la Rue, il quale pubblicò i due primi volumi. Il terzo, che egli aveva preparato, venne alla luce nel 1744, mercé le cure di Carlo Vincenzo di la Rue suo nipote. Quest’ ultimo dette nel 1759 un quarto volume con note giudiziosissime su diversi punti dell’Origeniana di Huet.

 

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (8), capp. XII-XIV

CAPITOLO XII

LA CONVERSIONE.

Situazione delle tre croci. — Perché quella di Nostro Signore Gesù Cristo in mezzo. — Belle spiegazioni di S. Efrem e di S. Cirillo. — Immagine sorprendente del giudizio finale. — Passo di S. Agostino e di S. Leone. — Il Buon Ladrone posto alla destra di Gesù Cristo: nome che gli danno le lingue dell’0riente. — Parole di Nostro Signore Gesù Cristo: Padre perdona loro ec. — Impressione che esso producono su Disma. — Sue parole al compagno. — Quale ne è il senso. — Sue parole al Nostro Signore Gesù Cristo: Ricordati di me ec. — Qual ne è il senso. — Disma continua nel suo mestiere di ladro. — Felicitazioni che glie ne fanno i Padri della Chiesa, S. Gian.Crisostomo, S. Ambrogio, S. Agostino, Sedulio.

Tal era circa al mezzo dì l’aspetto del Calvario. Sulla più elevata cima del colle la Croce del Figlio di Dio: un po’ al di sotto a destra, quella di Disma, a sinistra in pari altezza, l’altra del cattivo ladrone. Intorno alle tre croci un largo guardato dalla coorte Romana: a piè delle croci, i soldati addetti alla guardia immediata dei crocifissi: poco più lungi, Maria, Giovanni e le pietose donne, da un misterioso privilegio autorizzate a star presso la Croce del Salvatore: juxta Crucem stabant: al di fuori di quel cerchio, una turba tumultuosa di popolo, che andava e veniva alfin di godere dello spettacolo, e che simile a flutti incalzati da flutti cambiava continuamente di luogo, per far meglio intendere alla divina Vittima le bestemmie che contro di essa lanciava: prætereuntes blasphemabant. – Qui tutto è Mistero. Mistero in quell’ammasso di sarcasmi che cadono sulla santa Vittima: è questo il letterale compimento delle profezie. Mistero nel luogo che Gesù tiene in mezzo dei condannati: è questa la manifestazione della sua gran qualità di Mediatore; qualità distintiva che Egli ha nel Cielo, che ebbe sulla terra, così nel corso della sua vita, come alla sua morte, e che avrà il giorno del giudizio universale, e per tutta l’eternità. – « Il luogo proprio di un mediatore, dice s. Efrem, è nel mezzo; ed è nel mezzo dei due condannati del Calvario, che Gesù si fa conoscere Mediatore universale. Sempre e per ogni dove Egli è nel mezzo. In cielo è tra il Padre e lo Spirito Santo; sulla terra nasce in una stalla fra gli Angeli e gli uomini; ed è locato come la pietra angolare in mezzo ai popoli. Nell’antica alleanza sta in mezzo alla legge ed ai profeti, dei quali riceve gli omaggi: e nella nuova Ei mostrasi sul Taborre tra Mosè ed Elia. Sul Calvario è in mezzo a due ladroni, e al buono si fa conoscere Dio. Giudice eterno, Egli è collocato tra la vita presente e la futura; in mezzo ai vivi e i morti, principio della doppia vita del tempo e dell’eternità. » [Orat in sepulcr. Christi.] E che fa Egli posto così nel mezzo? « Egli fa due cose, risponde s. Cirillo. Egli frena i malvagi e francheggia i buoni, e a traverso di tutti i secoli, e presso tutti i popoli fa quel che faceva la colonna nel deserto. Oscura e luminosa, impediva che le due armate nemiche si confondessero fra loro; arrestava l’Egitto e proteggeva Israele. La provvidenza volle che sul Calvario il Cristo si trovasse in mezzo ai due ladroni, l’uno che si converte e si salva; l’altro che rimane impenitente e si danna; immagine di tutti gli eletti e di tutti i reprobi. » [Lib. III, De adorat.] – Ora egli è di fede che al giorno del giudizio, gli eletti saranno alla destra del divino giudice, ed alla sinistra i reprobi. « E si raduneranno, dice l’Evangelio, dinanzi a Lui tutte le nazioni, ed Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecorelle dai capretti e metterà le pecorelle alla sua destra, e i capretti alla sinistra. »  [Matth., XXV, 32, 33.] E perché nulla manchi alla esattezza della profetica immagine del Calvario, il Buon Ladrone era alla destra del Salvatore, ed il malvagio alla sinistra. Questa particolarità, è vero, non rilevasi dal Vangelo, ma come di tante altre la tradizione ce ne avvisa e non vi è luogo a dubbio. Su questo punto tutti i Padri sono di sentimento unanime, ed in prova ascoltiamo solamente S. Agostino e S. Leone. « Se ponete mente, dice il primo, la Croce stessa fu un tribunale. Nel mezzo sta il giudice: dall’un dei lati il ladrone che crede ed è salvato; dall’altro il ladrone che insulta ed è condannato. Così Gesù anticipatamente annunziava ciò che farà dei vivi e dei morti, collocati gli uni alla destra e gli altri alla sinistra. Il buon Ladrone figura quelli che saranno alla destra, ed il cattivo quelli che saranno alla sinistra, il Figlio di Dio era giudicato, e minacciava il giudizio.1 » [In Joan. Traci, xxxi, n. 11, ad fin., Opp., t. III, p. alter. p. 2023.]. Il vicario stesso del divino Crocifisso, s. Leone, aggiunge: « Gesù Cristo, Figlio di Dio, è sospeso alla croce che portò Egli medesimo sulle spalle. I due ladroni son crocifissi con lui, l’uno a destra, a sinistra l’altro, a fine di figurare fin sul patibolo la separazione di tutti gli uomini, che avrà luogo nel giorno dell’universale giudizio. Il ladrone che crede è l’immagine degli eletti; ed il ladro bestemmiatore è figura dei reprobi. » [Ser. IV. De Pass.]. Eco non meno fedele della tradizione, le lingue orientali chiamano ancora Lass al Jemin, il ladrone della mano destra, quello che noi conosciamo col nome di Buon Ladrone. [D’ Herbelot, Bibl. orient, p. 512, in fol.] – Frattanto elevati sulla croce erano i condannati, e la folla dei dotti e dei ricchi, più ancora che degli ignoranti e dei poveri poteva pascersi dello spettacolo di loro angoscia. Fino a quel punto Nostro Signore non aveva risposto ai sarcasmi ad alle bestemmie che con un sublime silenzio. Quando quasi temendo che la folgore non scendesse ad incenerire i colpevoli, alza gli occhi al cielo, e dalle moribonde sue labbra lascia sfuggire queste misericordiose parole: « Padre, perdona loro, conciossiaché non sanno quel che si fanno. » Come tutti gli spettatori, Disma le ha intese e cessa tosto di bestemmiare. Né di ciò pago volgesi al suo compagno, e lo sgrida dicendo: « Nemmen tu temi Iddio trovandoti nello stesso supplizio? e quanto a noi certo che con giustizia: perché riceviamo quel che era dovuto alle nostre azioni: ma questi nulla ha fatto di male. » Qual è il senso di queste sì inaspettate parole? Eccolo. « Che tutti costoro che son qui liberi, né come noi alla loro ultima ora, non temano Dio, ed insultino al Giusto che soffre, è sempre una empietà, una bassezza; ma che noi al momento di spirar l’anima, con i nostri insulti aggraviamo le pene del nostro compagno di supplizio, questo è più che bassezza, è crudeltà, è odioso attentato. Ché se noi siamo condannati, lo abbiamo meritato; ma questi non ha mai fatto alcun male, e muore innocente. » Qual è mai, o Disma, questo strano mistero? Che? tu condanni ciò che poc’anzi ti pareva bene, e nel tuo complice riprovi severamente quel che or ora ti permettevi senza scrupolo alcuno? Chi ti ha messo tali sensi nel cuore, e sulle labbra somiglianti parole? Che avvenne mai? Qual oracolo ti ha parlato? Qual miracolo vedesti tu? Ma ecco altro soggetto di sorpresa maggiore del primo. Dopo di aver sgridato il suo compagno, Disma rivolgesi al personaggio ignoto crocifisso accanto a lui, e gli dice: « Signore, ricordati di me giunto che tu sia nel tuo regno. » E Gesù gli risponde. « In verità ti dico che oggi sarai meco nel paradiso. » [Luc. XXXIII, 42, 43]. Qui la ragione si smarrisce. Come! o Disma, questo personaggio sconosciuto che insultavi poc’anzi lo chiami ora Signore, lo proclami re, e gli chiedi un posto nel suo regno? E questo crocifìsso che è presso a morire, coperto di piaghe e di sputi, abbeverato di oltraggi, spogliato di tutto fino anche della sua ultima veste, te lo promette per quel medesimo giorno! « Anche una volta, domanda s. Leone, che è questo mistero? Chi ha istruito questo ladrone? Chi gli ha dato ad un tratto la fede? Qual predicatore gli parlò? Pure egli proclama re e Signore il suo compagno di supplizio.2 » [Serm. 11, De Pass. Dom.] . « Non vi faccia meraviglia, risponde Disma; io continuo il mio mestiere di ladro, e Gesù il suo compito di Redentore. Io ho veduto al mio fianco un ricco personaggio, possessore di tutti i tesori della sapienza e della scienza di Dio, ed ho fatto a suo riguardo ciò che tante volte nel corso della mia vita feci con altri. L’occasione mi parve propizia; r ho arrestato prima che egli partisse e l’ho spogliato facendomi ricco delle sue spoglie. » – Ecco ciò che fece il Buon Ladrone; e i Padri della Chiesa non hanno che una voce per lodarlo di questo ultimo atto di brigantaggio. « L’avventuroso ladro, esclama s. Ambrogio, vede che poteva fare una ricca preda, e non perde un’istante. Sulla via del cielo arresta il Signore, e alla maniera dei briganti lo spoglia. 1 » Serm. v in Dom.III Adv.]. – S. Agostino di gran cuore si congratula con esso lui. « Fu ben fortunato questo ladrone. Sì, ben fortunato; egli non si contenta di tendere insidie lungo la via, ma arresta Colui che è la stessa via, il Cristo. Genere affatto nuovo di brigantaggio Ma in un batter d’occhio s’impadronisce della vita, e morendo si rende possessore immortale della sua preda.2 » [Ser.XLV in append. Apud Orilia, par. II, c. I. p. 54.]. – Un dei più grandi poeti cristiani, Sedulio, canta questa nuova impresa con un entusiasmo più schietto e meglio giustificato di quello col quale i poeti pagani celebravano le glorie degli antichi trionfatori. « Ei non cangiò professione, un ultimo atto di brigantaggio lo ha posto in possesso del regno dei cieli. » [Carm, v. Paschal.] – Conosciamo già il brigante nell’esercizio del suo mestiere. Ma come poté Disma conoscere il ricco passeggero? Chi gli ispirò l’audacia di assaltarlo? Chi poté rivelargli il segreto di rubargli? L’ignoriamo ancora. Il divino Crocifisso, esercitando l’officio di Redentore fin sul patibolo ce lo insegnerà.

CAPITOLO XIII.

CAUSE DELLA CONVERSIONE.

Causa efficiente la grazia. — Testimonianze di Cirillo di Gerusalemme, di S. Gregorio Magno, di Cornelio a Lapide. Cause in strumentali nella conversione di S. Matteo, di Zaccheo, di S. Pietro, di S. Paolo. — Nella conversione di Disma, la parola di Nostro Signore Gesù Cristo: Padre perdona loro: la preghiera della Beata Vergine, l’ombra di Nostro Signore Gesù Cristo. — Citazioni dei Padri e dei Dottori della Chiesa. — Risposta alla difficoltà tratta dalle tenebre sparse sul mondo. — Gesù Cristo muore colla faccia rivolta a Occidente. — Testimonianze della tradizione. Sedulio, S. Giov. Damasceno, Beda, Pietro de Natalibus, Spinelli, Molano.— Ragioni misteriose di questa situazione: eloquenti parole di Luca di Tuy.

“Quando Io sarò levato da terra, e messo in croce, aveva già detto il Salvatore, trarrò tutto a me”. Sì tutto, o mio buon Maestro, fìnanco gli assassini di strada. Egli tenne la parola, e Disma n’è la prova. Ma come fu egli convertito? … Nella conversione di lui come di tutte le altre, uopo è distinguere la causa efficiente o interiore, e la instrumentale o esteriore. La causa efficiente è quella che produce direttamente la conversione. La causa instrumentale è il mezzo del quale Iddio si serve quasi di veicolo, perché la causa efficiente giunga a produrre il suo effetto. Posto ciò, la causa efficiente della conversione di Disma, come della conversione di tutti i peccatori e di tutte le peccatrici che vissero, vivono e vivranno è la grazia. Come definirla? Dono gratuito, favore immeritato, luce che illumina lo spirito, impulso che tocca il cuore, incanto che attrae, forza che rompe e rovescia, principio divino, che alle ree inclinazioni del vecchio uomo sostituendo le nobili affezioni dell’uomo nuovo, crea un’essere novello, animato di novella vita, e di un peccatore fa un penitente, un giusto, un santo; questa è la grazia. – Essa deriva dalla infinita misericordia di Dio che mai si stanca, che nulla ributta, nulla esaurisce. In essa è il segreto di tutte le conversioni. [“In charitate perpetua dilexi te, ideo attraxi te, miserans.” -Jer., xxxi, 3]. – Se noi pertanto domandiamo a Disma la causa della sua, risponderà egli come s. Paolo. « Per la grazia di Dio sono quello, che sono: » Gratia Dei sum id quod sum. – Or facendo, se è lecito dir così, l’autopsia dell’anima di lui, tutti i Padri della Chiesa riconobbero la presenza di questo principio rigeneratore. « Qual potenza, o Ladrone, ti ha illuminato? esclama s. Cirillo di Gerosolima; chi ti ha insegnato adorare quest’uomo vilipeso, e come te, appeso alla croce? O luce eterna, sei tu che illumini i ciechi! Giusto è dunque che tu intenda questa parola: Confida; non perché le tue opere sianp tali da rassicurarti, ma perché ai tuoi fianchi è il Re che dona la grazia.» [Catech. XIII]. – S, Gregorio il Grande parla come s. Cirillo. Ladro insigne egli ascende in croce; vedete qual è in virtù della grazia, quando ne discende. Improvvisamente la grazia piove su lui; egli la riceve e la conserva in mezzo a quelle angoscie. [Moral., lib. XVIII, c. XL]. Un dotto commentatore domanda: in qual modo fosse convertito il Buon Ladrone: e risponde: « Interiormente per un singolare, e quasi miracoloso impulso di Dio, e per un’illuminazione dell’intelletto che gli rivelò la innocenza del Cristo, la dignità reale di esso, e il supremo di Lui potere capace di richiamare a vita i morti; in guisa che lo ravvisò pel Messia, Figlio di Dio e Redentore del mondo. » [Corn. a Lap., in Luc. XXIII, 42]. – La grazia; tale fu la causa efficiente della conversione di Disma, e su tal punto non può esservi dubbio alcuno. Ma quale fu poi la causa instrumentale? L’Evangelio riferisce molte subitanee conversioni delle quali ci è nota la causa instrumentale. S. Matteo era un pubblicano. « E che è mai un pubblicano? domanda il Crisostomo. Esso è un ladro patentato, peggiore dei ladri di strada. Costoro almeno si nascondono e forse arrossiscono quando spogliano il viandante; questi ruba con impudenza. » [De Chananaea, Opp. t. Ili, p. 518, n. 2]. Intanto quel pubblicano ad un tratto diviene un evangelista. Sì; ma egli ha inteso Gesù che passando gli ha detto: Seguimi!. – Zaccheo è un altro pubblicano, più ladro forse di Matteo, ed in un subito egli diviene un modello di penitenza e di santità. Sì ancora; ma egli intese Gesù che gli disse: « Zaccheo, presto cala giù, perché fa d’uopo ch’io alberghi quest’oggi in casa tua. » Pietro ha rinnegato il suo divino Maestro, e la sacrilega negazione era ancora sulle sue labbra, che il pentimento fece dei suoi occhi due fontane di lacrime. E quelle lacrime furono tanto cocenti, che due solchi formarono sulle sue guancie, e sì perenni che non cessarono di scorrer fino alla sua morte. Così è, ma Gesù aveva gettato uno sguardo sull’apostolo infedele. – Paolo è un furioso persecutore della Chiesa nascente, un lupo rapace, assetato del sangue degli agnelli di Gesù Cristo; e in men che non si dice, ei divenne un apostolo. Tutto ciò è pur vero; ma Paolo aveva sentito la possente voce che gli disse. « Saulo, Saulo, perché mi perseguiti? » In tutte queste conversioni istantanee, scorgiamo la causa strumentale della grazia; ma ove mai trovarla in quella del Buon Ladrone? « Ei non aveva visto alcun miracolo, riflette s. Leone; cessata era allora la guarigione degli infermi, l’illuminazione dei ciechi, la risurrezione dei morti; nè Disma conosceva i prodigi che erano per succedere. Ciò nondimeno egli proclama Signore e re il suo compagno di supplizio.  » [Serm. 2 De Pass.]. – Qual fu dunque per lui il movente esteriore della grazia efficiente? Ecco la risposta dei santi Dottori. Disma vedeva con stupore la pazienza inalterabile di Gesù in mezzo ai tormenti ed agli oltraggi, di che era abbeverato da ogni classe del popolo. Lo stupore di lui fu al colmo, quando sentì Gesù pregare per i suoi carnefici. « Questa divina preghiera, dice il dottissimo Tito vescovo di Bosra, fu probabilmente la causa strumentale della sua conversione » [Tit. Bosr., in Luc. Xxiii]. – Il Cardinale s. Pier Damiano, vescovo di Ostia, la trova nella preghiera della s. Vergine. Imperocché quella divina Madre a piè della Croce, incominciò l’officio suo di avvocata dei peccatori, e singolarmente dei peccatori che stanno sull’orlo dell’inferno. Collocata alla destra del suo divino Figliuolo, Ella era tra la Croce di Lui e quella del Buon Ladrone, tra il giudice ed il reo, tra il Redentore e lo schiavo. Madre di misericordia, chiede la grazia e l’ottiene [Apud Salmer., lib. X, tract. 40. De septem verbis]. – Il Padre Raynaud divide un tal sentimento, e lo esprime con i medesimi termini [c. vi, n. 13]. Il famoso Giovanni di Cartagena, spiega la preghiera della santa Vergine, e la misericordia di Nostro Signore coll’incontro nel deserto. Gesù e Maria rissovvenendosi della condotta che a lor riguardo tenne Disma allorché fuggivano in Egitto, vollero rimeritarlo arrestandolo sulla via dell’inferno, e ponendolo sulla via del cielo. Maria chiese per lui la grazia, e Gesù la concesse con una magnificenza degna di Colui, che non lascia senza ricompensa un semplice bicchiere di acqua fresca [Joan. Carthag., De sept. verb.]. – Altri, fra’ quali citeremo soltanto il dotto Spinelli [Lib. De Deipara, c. xxv. n. 4], trovarono la causa esteriore della conversione di Disma nell’influenza dell’ombra del sacrosanto Corpo di Nostro Signore, che proiettava su di lui, al momento in cui il Salvatore innalzato sulla croce pronunziava la preghiera del perdono: «Padre, perdona loro, conciossiachè, non sanno quel che si fanno. » – Il S. Paolo dell’età moderna, S. Vincenzo Ferreri riferisce questa opinione, e non la rigetta. « Si domanda, egli dice, perché dei due ladroni crocifissi con Nostro Signore, l’uno si converta e l’altro no. Alcuni trovano la ragione di ciò, nell’ombra del braccio del Redentore che giungeva a lui: e provano una tale spiegazione con un argomento a fortiorì tratto dall’ombra di S. Pietro, che sanava gli infermi, come si legge nel capo V. degli Atti degli Apostoli. Non è da far meraviglia dunque che l’ ombra di Nostro Signore risanasse l’ anima del Buon Ladrone. » – Cornelio a Lapide fa Io stesso ragionamento in sostegno delle parole di S. Vincenzio Ferreri. E non sappiamo poi del resto che  l’ombra sola della Croce guariva gli infermi? – Questa opinione, cui fa rispettata l’autorità dei suoi sostenitori, suppone che le tenebre non cominciassero immediatamente dopo la crocifissione dell’adorabile Vittima, e che sulla Croce il Salvatore avesse il viso rivolto a Occidente. Quanto alle tenebre, l’Evangelio dice che quelle si addensarono sulla terra dopo l’ora sesta, ab hora sexta, ma non ci fa conoscere se ciò avvenisse al principio preciso di quell’ora. Nulla dunque nel sacro testo impedisce di ammettere un leggero intervallo di luce tra la crocifissione di Nostro Signore e la conversione del Buon Ladrone. In questo intervallo l’ombra del Redentore si stese su Disma, e con la rapidità che si addice a Colui, che con una parola trasse il mondo dal nulla, quell’ombra salutare creò un uomo nuovo, chiamando il buon Ladrone dal nulla del peccato alla vita della grazia. – Che Nostro Signore poi sulla croce avesse il viso rivolto all’Occidente, è questa una tradizione generabilissima per la sua antichità, per le testimonianze che la confermano, e pei misteri che ci hanno rapporto. Di già Sedulio nel quinto secolo la cantava nel suo bel poema sulla vita del Salvatore. Più tardi la troviam menzionata in S. Giovanni Damasceno, nel venerabile Beda, in Pietro de Natalibus, nello Spinelli, in Molano, ed altri ancora. – Uno dei testimoni più gravi di questa tradizione, e al tempo stesso l’interpetre il più esplicito dei misteri che vi hanno attinenza, si è il sommo Teologo Spagnuolo Luca di Tuy. « Come il provano, egli dice, i versi di Sedulio, quando Nostro Signore moribondo impresse il segno della Croce sul mondo, aveva il capo volto all’Oriente, i piedi all’Occidente, la mano sinistra a Mezzogiorno, e la destra a Settentrione. Rivela questa posizione la dignità dell’emisfero Occidentale. – Sulla croce il Redentore del mondo aveva rivolto il viso all’Occidente, verso Occidente inchinò il capo spirando l’anima. Sacerdote eterno, Egli consacrò con l’immolazione del suo Corpo e l’effusione del suo Sangue l’Universo intero, ma particolarmente le regioni occidentali; perocché là Egli voleva stabilire nella pienezza della potestà il suo Vicario destinato a pascere le pecore e gli agnelli. Satana parve aver previsto Io stabilimento di quest’altissima dignità, di questa potenza ostile alla sua. Precipitato dalla altezza del cielo, ove pretendeva stabilire il suo trono per rendersi simile all’Altìssimo, non si tenne per vinto. Roma divenne la sua capitale nelle regioni dell’Occidente, e non vi ebbero empietà, ne abominevoli superstizioni di che non contaminasse quella città, che fu lo strumento della sua tirannide sul mondo intero. Nostro Signore Gesù Cristo, che era asceso sulla Croce per debellare il principe delle tenebre, e che aveva scelto Roma per la sua città di predilezione, chinò verso di quella il moribondo suo capo, a dimostrare che il suo ultimo sospiro andava a cacciare dalla sua rocca il principe e il dio di questo mondo, cui strapperebbe le armi e le spoglie, di che andava orgoglioso, e i cui altari rovesciati diverrebbero il piedistallo del suo trono. Da quel Iato ancora venne aperto il sacro costato del Salvatore e ne fluì sangue ed acqua; l’acqua destinata a purificar Roma ed il mondo contaminato da essa; il sangue destinato a riscaldarla perché fosse la città eterna, la regina delle città, l’inestinguibile focolare della scienza divina e della carità. Per manifestare il suo disegno e compiere l’opera sua, il divino Redentore chiamerà da ogni parte del mondo personaggi, che verranno a lavare col loro sangue la città del Re dei Re. La Giudea manderà Pietro, il capo del collegio Apostolico; la Cilicia Paolo, l’Apostolo delle genti; la Spagna il Levita Lorenzo; tutte le altre regioni dell’Universo schiere di martiri senza numero. Il principe degli spiriti maligni aveva accumulato in Roma, e fatto servire al suo culto sacrilego tutto ciò che vi era di meglio sulla terra, pietre preziose, marmi, oro, argento, le più ricche spoglie dell’umanità sottomessa al suo impero. Più di esso potente, il Figlio di Dio s’impadronì di tutte le di lui spoglie, e le distribuì ai suoi Apostoli ed ai suoi martiri, in guisa che tutto ciò che aveva servito al culto dei demoni serve ora alla gloria della Chiesa. Satana aveva tesaurizzato, ma non sapeva per chi tesaurizzava. – Aggiungiamo che la posizione di Nostro Signore sulla Croce, volto a Occidente, è una delle ragioni per le quali i primi Cristiani pregavano rivolti all’Oriente. Tali sono secondo i santi Dottori le cause strumentali o esteriori della conversione del buon Ladrone. Concorsero esse tutte ad operare un sì stupendo miracolo? O una sola ne fu l’esteriore strumento? Qualunque sia la risposta, abbiamo sempre ragione di ammirare la sapienza e la potenza di Colui, al quale tutti i mezzi son buoni per arrivare ai suoi fini.

CAPITOLO XIV.

MAGNIFICENZE DELLA CONVERSIONE.

Magnificenze per parte di Dio. — Cangiamento radicale e subitaneo che si opera in Disma. — La conversione di un peccatore miracolo più grande che non è la creazione del cielo e della terra; dottrina di S. Tommaso. — La conversione di Disma paragonata con quella della Maddalena, di S. Paolo, e di S. Pietro. — Più sorprendente di tutte le altre. — Sentimento dei Padri.

Il 2 di agosto 1767 Napoli fu testimone di uno strano spettacolo. Sul mattino il Vesuvio incomincia a gettare dense colonne di cenere e fumo, e senza iperbole né esagerazione, il sole ne fu oscurato a tal segno che sul mezzogiorno Napoli si trovò immersa in una notte oscura, come una notte d’inverno. L’orrore delle tenebre era accresciuto dal fracasso delle enormi pietre, che venivano lanciate fuori del cratere, e cadevano poi con tuoni e lampi di viva e sinistra luce. Gli abitanti spaventati credevano che fosse giunta l’ultima ora della loro città. Gli uni, e non senza ragione, temevano che quelle masse di ceneri ardenti, cadendo su delle materie infiammabili, non producessero un immenso incendio, del quale la bella ed opulenta Partenope sarebbe inevitabilmente la vittima: gli altri, che le campagne bruciate dalla lava del Vulcano, non divenissero affatto sterili. Nessuno certo pensava a ciò che in breve era per succedere. – Alla vista del pericolo, il popolo in folla era accorso al sepolcro di S. Gennaro, e grazie alla protezione di quel gran patrono dei Napoletani, in pochi istanti cambiò la scena. Le tenebre scomparvero, le ceneri si arrestarono, ed il sole si mostrò in tutto lo splendore dei suoi raggi sotto un cielo puro come uno specchio. [Orilia, lib. H, c. vi, p. 107]. Questo subitaneo e totale cambiamento, che pur talora sorprende nell’ordine naturale, gli annali religiosi ce lo dimostrano più meraviglioso ancora nell’ordine superiore della grazia. Ad una gioventù immersa nei disordini si vede succedere un’età matura ornata di eroiche virtù. Ed è questa una meraviglia, perché fu scritto: « Il giovinetto presa che ha sua strada, non se ne allontanerà nemmen quando sarà invecchiato. » [Prov., XXII, 6]. – Con un incomparabile chiarezza il buon Ladrone ci dà lo spettacolo di una simile trasformazione. Fin qui un velo nero, denso, lurido di sangue ricopre la persona e la vita di Disma. A’ nostri occhi, come agli occhi dei suoi contemporanei, apparve non solo come un brigante ordinario, ma come un brigante di qualità superiore; uno scellerato, la cui vita non fu che un lungo tessuto di assassinii e di furti; tigre assetata di sangue, spavento e terrore della contrada, onta dell’umanità, crocifisso fra gli applausi di tutto il popolo. – « Che vi fu mai, dice il Crisostomo, di più miserabile di quel Ladrone? E in un momento che vi fu mai di più felice? Egli aveva commesso innumerevoli assassinii, ed era condannato a morte. Quanti v’era a testimoni del suo supplizio, tanti erano accusatori dei suoi misfatti. Era al suo termine la sua vita passata nel delitto; ma poiché per un momento amò Dio come si deve, un’ineffabile felicità venne egli a conseguire. » [In Psalm. CXXVII, Exposìt., n. 2, p. 431]. E che era avvenuto mai? Un suono di quella voce interiore che spezza i cedri, e scuote le montagne, s’è fatto udire nel cuore di Disma. E quel cuore di pietra divenne un cuore di molle cera; quel cuore di bruto, un cuore di uomo; quel cuore di empio, un cuore di santo. Un raggio del sole di giustizia gli balenò sul volto, e quel volto ne fu irradiato. La sua schifosa bruttezza si è cangiata in sovrumana beltà, in angelica leggiadria: e la sua bocca sozza ancor tutta di bestemmie, distilla parole dolci come il miele e profumate come 1’umile violetta. Un lupo cerviero trasformato in agnello; un bestemmiatore cambiato in evangelista; un malvagio fatto santo, e santo canonizzato ancor vivo; tale si fu la incomparabile metamorfosi del Calvario. E nelle nostre scuole non parlano punto di tal meraviglia, mentre vi fan sudare dei mesi interi a spiegare le metamorfosi, spesso oscene e sempre ridicole, degli Dei della favola, cioè a dire, dei demoni! Aspettando che il senso comune torni a schiarire le menti umane, ricordiamo alcune delle magnificenze della conversione di Disma. – Essa fu magnifica per parte di Dio, magnifica per parte dell’uomo. – Magnifica per parte di Dio. Gesù era elevato sulla Croce. Una moltitudine di popolo insultante lo trattava come il rifiuto degli uomini. Nell’ordine della natura, strepitosi miracoli erano sul punto di rivelare la sua divinità. Il sole oscurato; profonde tenebre che coprivano il mondo e producevan notte a mezzodì; rupi spezzate fino alle più profonde loro latebre ; il velo del tempio lacerato, che mette in vista misteri fin allora sempre nascosi agli occhi dei profani; aperti i sepolcri pronti a rendere alla vita le vittime della morte; tanti straordinari miracoli dovevano strappare al Centurione il grido della fede: « Questuomo era veramente il Figlio di Dio. » Per manifestare nella sua pienezza tutta la potenza del divin Redentore, occorreva pur nell’ordine morale un fenomeno non meno meraviglioso. Con quella sapienza che sempre perviene a conseguire il suo fine, Gesù scelse il più difficile; la conversione istantanea, solenne, eroica di un peccatore, e di qual peccatore. » – I Padri della Chiesa ben compresero il fatto provvidenziale, e degnamente lo celebrarono. « Sulla sua Croce, dice il Crisostomo, il Signore operò due strepitosi miracoli: aprì il cielo chiuso al genere umano da ben quattro mila anni, e pel primo vi introdusse un ladrone. “Oggi, gli disse, sarai meco in paradiso”. Che diceste mai? Voi siete crocifìsso, voi inchiodato ad un patibolo, e per quel giorno stesso promettete il paradiso? Sì, io lo prometto per far rilevare e risplendere la infinita potenza, di cui sono investito sulla Croce. – Volli operare un tal miracolo, prova incomparabile del mio potere, non quando io risuscitava i morti; o imperava alle tempeste, o metteva in fuga i demoni, ma sebbene crocifisso, traforato mani e piedi da chiodi, abbeverato di oltraggi, coperto di sputi. Fu allora che io volli trasformare l’anima del ladrone. Così noi vediamo risplendere la sua potenza sul mondo materiale e sul mondo morale. Egli fa tremare la terra, fende da cima a fondo le rupi, e trasforma l’anima del ladrone indurita più delle rupi. » [De Cruce et Latr. n. 2]. – Se, come ce lo insegna s. Tommaso, la conversione di un empio è un opera più grande della stessa creazione del cielo e della terra, [2, q. 113, art. 9, Cor.] v’è poi da aggiungere che fra tutte le conversioni non ve n’ha alcuna che eguagli quella di Disma. [Luc. Burgen., in Inc., c. XXIII]. – Senza dubbio fu un prodigioso colpo di grazia la conversione di Maria Maddalena, che in pochi istanti da pubblica peccatrice divenne una delle più virtuose anime, di cui la storia abbia conservato memoria. A questo punto il Pontefice san Gregorio il Grande non esita a dire : « Egli è fuori dubbio che Iddio ha collocato nel cielo della Chiesa due grandi luminari, due Marie: Maria la Madre del Salvatore, e Maria sorella di Lazzaro. La prima, luminare maggiore, al fin di presiedere al giorno; cioè a dire al fin di essere il modello e la protettrice delle anime innocenti: la seconda, luminare minore, collocata ai piedi di Maria, onde rischiarar nella notte, ed essere il modello e la protettrice delle anime penitenti. 1 » [S. Greg. Magn. B. Albert. Magn., in Luc., c. vii]. La conversione della giovane principessa di Maddalo è ella più miracolosa di quella del Buon Ladrone? Col P. Orilia noi rispondiamo liberamente che no. Prima di convertirsi Maddalena era stata spettatrice di molti miracoli, e Disma non ne avea peranco veduto alcuno. Di ciò ne fa certi la tradizione. Uno dei miracoli più luminosi di Nostro Signore si fu la resurrezione del figlio della vedova di Naìm. Con altri moltissimi Maria Maddalena ne fu testimonio. Lo sventurato giovane era morto in peccato, ed aveva già toccate le pene dell’inferno. Tornato in vita, divenne un predicatore che gettò lo spavento nell’anima di quelli che lo ascoltarono. La sua morte fu per molti il principio dell’eterna vita; e di questo numero si fu Maria Maddalena, che il timore e la fiducia condussero ai piedi del Salvatore. Nella sua misericordiosa clemenza il buon Pastore volle scontrarsi con la smarrita pecorella. Immediatamente dopo la risurrezione del giovane, Egli si diresse alla casa di Simone il lebbroso, ove Maria, colpita dalla novità del miracolo, risolvé di presentarsi al taumaturgo, e di fare ciò che egli sarebbe per imporle. – Trovate voi nulla di somigliante nella conversione del Buon Ladrone? Ove sono i miracoli che 1’inducono a confessare i suoi peccati, e dall’abisso del vizio in un batter d’occhio lo facciano ascendere alla più alta perfezione? Fino a quel punto non conosciuto da lui, Nostro Signore non gli apparisce che l’obbrobrio del popolo suo, un verme ed un insigne malfattore; e in questo stato ei lo proclama suo Dio e suo Re. Mentre ei si trova sul suo patibolo, l’ignominia lo prega, lo adora, crede in Lui; e ciò nel momento che tutti lo insultano e l’abbandonano. [S. Bern., De Pass. Dom.t c. ix; id Arnold. Carnot., De sept. verbis.]. – Se ammirabile è la conversione di Maria Maddalena, non meno ammirabile è quella di s. Paolo; ma dobbiamo ripeterlo, assai più lo è la conversione di Disma. – Io veggo sulla via di Damasco il giovane persecutore alla testa dei suoi satelliti. Spinto dall’odio suo di fariseo contro Gesù di Nazaret, non respira che sangue e stragi. Guai alle pecorelle del Salvatore che cadranno nelle branche di questo lupo rapace. Il cielo non è più lontano dalla terra di quello che Saulo sia dal Cristianesimo. Nell’alto che ei rumina i progettati massacri, una voce dall’alto si fa sentire. Rapida come il lampo, poderosa come la folgore, essa rovescia a terra il minaccioso carnefice, e di un tal terrore lo riempie, che tutto smarrito esclama: « Signore, che vuoi Tu che io faccia?» La stessa voce degnasi di rispondegli; ed è condotto ad Anania, che termina di rivelargli quali fossero i disegni di Dio su lui. Il lupo è mutato in agnello; da persecutore Paolo diviene un Apostolo. Tal si fu il miracolo della sua conversione, ed è sì stupendo che servì di argomento a una dimostrazione innegabile della divinità di nostro Signore e del Cristianesimo. Ma la portentosa efficacia della grazia non si fa meglio sentire nella conversione del Buon Ladrone? Saulo ha inteso una voce dal cielo, che proclama la divinità di Colui che egli perseguita. Qual voce suonò mai all’orecchio di Disma? Nessun’ altra, se non la voce della sinagoga, che bestemmia ed oltraggia il suo compagno di pena. Qual luce sfolgorante aveva colpito di cecità i suoi occhi carnali per aprire gli occhi dell’ anima sua? Nessuna. Quale Anania aveva avuto Disma per esser confermato nella fede? Nessuno. Or ditemi; che più miracoloso: sottomettersi a quel Gesù che si mostra in cielo, e fa suonare dall’alto quella voce divina, la cui potenza atterra i cedri e scuote le montagne; o riconoscere umilmente per Dio quel Gesù inchiodato al patibolo, deriso, coperto di sputi, e sul momento di render l’anima come un semplice mortale? Nel primo caso vi ha un prodigio di onnipotenza capace dì convertire il più ribelle ed ostinato peccatore; nel secondo un prodigio di debolezza e di umiliazione, in apparenza più capace di togliere che di dare la fede. – Parleremo noi della conversione di s. Pietro? Essa fu istantanea, fu sincera. Ma Pietro già da tre anni era stato alla scuola di Nostro Signore, e testimonio dei suoi tanti miracoli: egli aveva altamente confessata la sua divinità: lo aveva poco prima ricevuto nella comunione: egli era stato eletto per essere il suo vicario. Ed appena che ebbe peccato, il buon Maestro degnavasi di gettar un dei suoi teneri sguardi sull’Apostolo infedele; e qual eloquenza in quello sguardo! Esso diceva: « Ah! Pietro, in questa guisa ricambi tu l’amor mio, e rispondi ai miei benefìzi? Così adempì la promessa che mi hai fatto di morire anziché abbandonarmi? Quando eravamo sul Taborre, non volevi più discenderne per meco rimanere, e prender parte alla mia beatitudine! Ed ora che mi vedi nelle angosce della mia passione, giuri di non conoscermi? » Chi avrebbe resistito a simili rimproveri venuti da un maestro, da un amico, da un padre, come il divin Redentore? Confrontiamo ora Disma con s. Pietro, la conversione dell’uno con quella dell’altro. Il Buon Ladrone era egli stato tre anni alla scuola di Nostro Signore? – No! Era egli stato venti volte testimonio dei suoi miracoli? No! Banditore delle sua divinità? No!. Ammesso alla sua mensa, e cibato della sua carne adorabile? No! E supposto che egli dovesse riconoscere per Dio il suo compagno di supplizio, non era però costretto a proclamare solennemente la sua divinità, ed esporsi così ad un accrescimento di torture. Nessuno a ciò l’obbligava. Senza voler nulla detrarre al merito della conversione del Principe degli Apostoli, diremo pure che s. Pietro non confessò già il suo divino Maestro in presenza di servi e delle ancelle del sommo sacerdote; non ritrattò la sua negazione, ed in prova del suo ravvedimento non seguì neppure Nostro Signore al Calvario. – Disma all’opposto confessa Gesù sulla croce, lo dichiara innocente, il difende contro coloro che l’oltraggiano, gli domanda perdono di suoi falli, ed al cospetto di tutti i suoi nemici lo proclama suo Signore e suo Dio. – Se vuolsi ravvisare in tutta la sua magnificenza l’opera onnipotente della divina misericordia, uopo è considerare puranco la conversione di Disma sotto il doppio rapporto della difficoltà e della prontezza. Gli illustri convertiti, che siamo venuti ricordando, non erano stati immersi nel vizio fin dalla loro prima età. Avevano avuto conoscenza dei principi morali; e questi per un tempo più o meno lungo, erano stati in un modo più o meno costante, la regola della loro condotta. – Quei giorni vissuti senza macchia di peccato erano come altrettanti preparativi di un novello edificio, e tanti ostacoli di meno all’ azione futura della grazia. Nulla di somigliante nel Buon Ladrone. Nato in mezzo ai ladri, quando toccò gli anni della ragione non aveva conosciuto che il furto, l’assassinio e il suo brigantaggio. Raggio di luce non era giunto mai a dissipare le tenebre della sua grossolana intelligenza. Nella sua virile età, mai un giorno senza delitto, e forse senza delitti di sangue. Quasi a migliaia conta il Crisostomo gli assassinii dei quali si era fatto reo. Intraprendere la conversione di un essere simile è lo stesso che voler trasformare in uomo un bruto, dar vita a un pozzo di granito, o giusta la espressione della Scrittura, render bianca la pelle di un Etiope. – « Prendete, dice il Padre Orilia, tutte le acque dell’oceano, e studiatevi di fare sparire il bruno dalla pelle di un Negro, o gli screzi dalla maculata pelle del Leopardo; le consumereste tutte senza venirne a capo. Del pari l’uomo che si è fatto del vizio quasi una seconda natura, e che a forza d’immergersi nel delitto impedì che si risvegliasse in lui il senso morale, o nel suo nascere lo ha empiamente soffocato, quest’uomo non può esser cambiato, se non per un miracolo della grazia, operante nella pienezza della sua forza. Tal era il caso di Disma » Ebbene! Quest’uomo, immerso fin al fondo nell’abisso del male, in un batter d’occhio si solleva al colmo della perfezione. In men ch’io noi dico, esso è trasformato, purificato da ogni sozzura, ornato da ogni virtù, a tal punto che per lui non v’ha, come per molti altri santi, né penitenza da farsi, né purgatorio a temersi. Egli è già purificato in modo da entrare subito in paradiso, buono da essere canonizzato: e lo fu di fatto. [G. Chrys., De Cruce et Ladr.].- « La misericordia divina ha tutto operato, dice il Crisostomo. Che aveva mai detto, che aveva mai fatto quel Ladrone? Aveva egli digiunato? Aveva pianto? Si era macerato, aveva fatto una lunga penitenza? Nulla affatto; ma sulla croce stessa, dopo la sua sentenza di morte, ottiene la salute. Ammirate la prontezza. Dal patibolo al cielo, dal supplizio alla gloria. » [In Gen. Serm. vii, n. 4, Opp., t. IV, p. 787]. Possiamo dunque conchiudere che nella conversione del Buon Ladrone la grazia del Signore sfolgora di una magnificenza incomparabile. Essa è nell’ordine morale il fiat creatore, il capo d’opera della destra dell’ Onnipotente, il consolante miracolo innanzi al quale ogni altro s’ecclissa: Hujus Iatronis pœnitentia non extat æqualis. – Aggiungeremo di passaggio, che la misericordia di Dio è sempre la stessa. Oggi ancora essa opera, se non col medesimo sfoggio, con la medesima prontezza almeno, e con la medesima efficacia. L’acqua del Battesimo scende sul capo del bambino, e al semplice tocco di quell’acqua vivificata dalla benedizione divina, la sua anima è all’istante purificata; il cielo gli è aperto, il suo luogo è fissato tra gli Angeli per tutta l’eternità! Altro miracolo. Quando nel tribunale della misericordia, la parola del sacerdote scende su di un’anima macchiata di colpa, sul momento quell’anima è trasformata. Tutti i legami che la incatenano son rotti: l’inferno è chiuso per lei; e se la contrizione è perfetta, può essa immediatamente entrare nel cielo. A questi tratti, che riempiono il cuore di confidenza e di amore, lo spirito ravvisa lieto l’opera di Dio: semplicità nei mezzi, prontezza e fecondità negli effetti.

GNOSI: TEOLOGIA DI sATANA (4): GNOSI E PLATONISMO

GNOSI E PLATONISMO -I-

[Elaborato dal volume di E. Couvert, “la Gnose contre la Foi”, cap. I]

Quando nel dicembre 1864, il Santo Padre, Papa Pio IX, pubblicò, insieme all’Enciclica “Quanta Cura”, il “Syllabus comprendente i principali errori del nostro tempo”, il primo errore condannato, al numero 1, fu il Panteismo così definito: “1. Nessun supremo, sapientissimo e provvidentissimo Nume divino esiste distinto da questa universalità di cose, e Dio altro non è che la natura stessa delle cose e perciò soggetto a mutazioni, e diventa Dio realmente nell’uomo e nel mondo, e tutte le cose sono Dio, ed hanno la stessissima sostanza di Dio; ed un’identica cosa è Dio con il mondo, e per conseguenza lo spirito con la materia, la necessità con la libertà, il vero col falso, il bene col male, e il giusto con l’ingiusto.  [Alloc. Maxima quidem, 9 giugno 1862.]. « … e diventa Dio realmente nell’uomo e nel mondo … ».  Queste parole rendono un suono sorprendentemente moderno ed evocano nettamente una certa teologia modernista oggi onnipresente. Così il Panteismo – lungi dall’essere una dottrina obsoleta, ricoperta da uno spesso strato di polvere delle biblioteche – è ben vivente ai nostri giorni, così come lo era nel 1864, tanto che il Papa lo pose in prima linea assoluta tra gli errori del tempo. Il Panteismo è praticamente sempre esistito nella cristianità, in modo più o meno larvato, poiché ha sempre costituito, per un certo numero di filosofi, di apologisti ed anche di teologi, una sorta di tentazione permanente. Come spiegare che questo errore tanto grossolano, offensive per la Maestà divina e per la ragione umana, abbia una vita così dura a morire? Due sembrano essere le cause essenziali, 1°- innanzitutto l’influenza di Platone, 2°- poi quella della gnosi alleata del neoplatonismo alessandrino. Questa doppia influenza la si ritrova nel 1°) Cristianesimo antico – lo stesso Sant’Agostino avrà un bel da fare per allontanarsene, ed Origene ne sarà segnato per sempre -, 2°) nella cabala giudaica, 3°) nell’umanesimo rinascimentale, 4°) nella scuola tradizionalista post-rivoluzionaria, 5°) nel romanticismo, e purtroppo persino 5°) in certe correnti religiose contemporanee e 6°) nell’ultramodernismo apostatico attuale del satanico “novus ordo” dei marrano-massoni usurpanti.

GNOSI E PLATONISMO:

LA DOTTRINA DI PLATONE del V secolo avanti Cristo …

È difficile esporre metodicamente il pensiero di Platone sminuzzato e disperso in una moltitudine di dialoghi socratici. Tenteremo comunque di riassumere l’essenziale del suo insegnamento. 1° – Platone pone in principio due mondi antinomici, il mondo delle Idee, increato, ed il mondo della Materia. 2° – Quest’ultima è informe, indeterminata ed inintellegibile; essa non è che il ricettacolo di tutte le forme possibili capaci di riceverle, ma non di darsi loro. Essa è detta comunque eterna, ingenerabile, increata; essa porta in se stessa dunque un carattere divino, come le idee. Il problema diventa allora quello di sapere qual è il dio di Platone. La risposta è oscura ed indecisa. 3° – La parola “Dio” (ὁ θέος) in lui, designa ordinariamente il Demiurgo, un «operaio divino», un architetto costruttore (δημιουργος, operaio), genio mediatore, incaricato di mettere ordine ed armonia in un caos primitivo. 4° – In Platone non c’è dunque la minima idea di “creazione”: ecco una nozione totalmente ESTRANEA al suo pensiero. 5° – L’uomo è un “duplice” ed appartiene ai due mondi. Questa dualità è l’effetto di una caduta, è una espiazione. 6° – L’anima è uscita al mondo delle Idee, essa cioè preesisteva alla nascita dell’uomo in questo mondo di materia e gli sopravviverà dopo la morte del corpo. 7° – È questa stessa preesistenza delle anime prima della nascita che è utilizzata come argomento principale dell’immortalità dell’anima nel Fedone. 8° – L’anima è incarcerata in un corpo, tra i corpi ed il ricordo delle idee è oscurato in essa. 9° – L’anima comporta tre parti:

.a) L’ἐπιθυμια o appetito inferiore, che risiede nel ventre e che la porta verso il corpo ed i piaceri sensuali;

  1. b) Il θυμος o cuore o appetito superiore che ha la sua sede nel petto e che la porta verso ciò che è bello e buono;
  2. c) Il νους o ragione che ha la sua sede nel capo e che è la facoltà di conoscere e di volere l’ordine intellegibile sotto la sovrana direzione del Bene. – 10° – Il filosofo cura la sua anima: staccandosi quanto più può dal corpo, egli trascorre la vita a liberare la propria anima, cioè a morire! 11° – Il corpo è un ostacolo per l’intelligenza: esso la spinge nella ricerca della verità. Le sue sensazioni ne abusano e turbano i suoi ragionamenti. Più essa si distacca dal corpo, più diviene se stessa, meglio ragiona. Chi dunque raggiungerà la verità, se non colui che si sarà sbarazzato del suo corpo? 12° – Così dunque fin quando saremo impigliati in un corpo, noi non potremo possedere se non in modo imperfetto la verità, oggetto del nostro amore. – 13° – La conoscenza non viene quindi dal sensibile. È solo attraverso la percezione sensibile che l’anima intraprende la ricerca della verità, rientrando in se stessa. La percezione delle apparenze sensibili è per essa un’occasione di ritrovare in essa, come un ricordo dimenticato o come una reminiscenza, la conoscenza intellegibile del mondo e delle Essenze o Idee. 14° – Le percezioni sono le eccitanti, e non l’origine della Scienza, …: “La dialettica ascendente”. Lungi dall’essere un movimento per cui il pensiero uscirebbe dall’anima per cercare l’essere, è al contrario il movimento mediante il quale il pensiero rientra nell’anima per ritrovarvi la scienza dell’essere che l’anima porta in sé, innata. 15° – Il maestro non insegna nulla al suo discepolo: Egli si contenta di risvegliare in lui la conoscenza che egli già porta nell’anima sua, ma che è come velata, oscurata, ottenebrata dal corpo. Il maestro è una “ostetrica” della verità. Come l’ostetrica fa nascere il bambino dal seno di sua madre, così il maestro fa uscire la “verità” dal seno dell’anima: questa è la maieutica di Socrate! – Infine Platone, nel “Banchetto”, 16° – Platone concepisce l’amore unicamente come un desiderio, un appetito del Bene per sé, un cammino per portare a perfezione ciò che è deficitario nella nostra anima in seguito alla caduta in questo mondo materiale, uno sforzo per riacquistare le Bellezza perfetta del mondo delle Idee. È un amore captativo, ripiegato su se stesso, che ignora il dono agli altri. Si chiama l’amore platonico. Ogni qual volta il platonismo farà irruzione nella nostra civilizzazione cristiana, si vedrà apparire questo amore (eros), che rifiuta la costruzione di un focolare stabilizzato nel matrimonio, che rifiuta i figli, e quindi la Vita, un amore sterile, che si auto divora, apparentato alla morte. È il mito di Isotta, è l’amore cortese, dei trovatori, l’amore platonico degli umanisti, è infine l’amore romantico, questa malattia dell’anima che ha imprigionato tutta la nostra letteratura.

LA LETTURA GNOSTICA DEL PLATONISMO DEL II SECOLO DOPO CRISTO!

 Intorno al II secolo dopo Gesù-Cristo, è apparsa una nuova scuola filosofica, quella dei neo-platonici. A partire dall’insegnamento di Platone, Plotino, Porfirio, Giamblico, Proclo, Ierocle ed i loro amici hanno ricostruito un “platonismo” nel quale hanno introdotto i miti di Orfeo e di Pitagora. Con questa sapiente amalgama, essi hanno presentato Platone come il discepolo iniziato ai misteri orfici ed alla setta pitagorica. « Ciò che Orfeo ha promulgato attraverso oscure allegorie, dice Proclo, Pitagora lo insegnò dopo essere stato iniziato ai misteri orfici e Platone ne ebbe piena conoscenza dagli scritti orfici e pitagorici. » – Nulla di più facile e di più scontato! È sufficiente ritrovare in Platone le diverse parti della dottrina esoterica dei misteri e si possono scoprire lo fonti alle quali si è “abbeverato”. La dottrina delle «Idee archetipe delle cose » esposta nel “Fedro” è collegabile ed analoga alla dottrina dei  « Numeri sacri » di Pitagora. Il Timeo dà una esposizione molto confusa e approssimativa di una cosmologia; la dottrina dell’anima, delle sue migrazioni e della sua evoluzione, attraversa tutta l’opera di Platone, ma principalmente la si ritrova nel “Banchetto” ed il “Fedone”. I nostri filosofi neo-platonici costituiscono allora la Scuola di Alessandria. Essi affermano una filiazione delle idee platoniche mediante uno studio comparato delle tradizioni orfiche e pitagoriche. « Questa filiazione, ci dice E. Schuré ne “I grandi iniziati”, tenuta segreta per secoli, non fu rivelata che dai filosofi alessandrini, perché furono i primi a pubblicare il senso esoterico dei Misteri. » Cosa diviene allora l’insegnamento di Platone, dopo questa “meravigliosa amalgama”? precedentemente, dai fedeli di Dioniso, l’anima era collegata al divino, e l’iniziato, prendendo coscienza di questo collegamento, entrava in estasi, in uno stato di sonnambulismo, in una “follia” divina. L’Orfismo aveva sviluppato questa intuizione divina in un « discorso sacro », che elaborò una saggezza filosofica. Ecco i temi trattati dai nostri filosofi neoplatonici:

  • Dualità dell’uomo, corpo ed anima.
  • Eccellenza dell’anima, di origine divina e di natura divina (teion di plotino) fatta per vivere nel soggiorno degli dei immortali, essendo l’anima una particella della divinità.
  • Come punizione per una colpa (?), l’anima è imprigionata in un corpo terrestre ove la sua divinità è offuscata; ma essa può essere liberata da questa cattività con l’iniziazione ai misteri e la via orfica, via ascetica e “purificante”.
  • Dopo la morte, essa scende nell’Ade, ove è giudicata (ma da chi?). se essa è impura, resta nell’Ade ove si reincarna in un corpo terrestre. È la metempsicosi! Se in seguito a successive reincarnazioni, arriva alla via orfica, alla purificazione, essa ritrova la sua divinità e raggiunge la società degli dei.

Plotino espone questa infermità dell’anima, questa “malattia dell’anima decaduta”: « Il tempo [vale a dire il nostro mondo corporeo] è il frutto di una dissociazione della vita dell’anima. » Essa deve dunque fuggire verso l’Eterno: « Rifugiamoci, egli dice, verso questa cara patria » (Enneadi). “Evadiamo dalla vita, dal tempo, dalla storia per ritrovare la nostra condizione divina ed immutevole”. – Non solamente i filosofi neo-platonici hanno costituito una nuova scuola di filosofia, la Scuola di Alessandria, ma essi hanno anche stabilito una liturgia per tutti i loro discepoli fedeli, desiderosi di risalire verso il soggiorno divino [con iniziazione e montata successiva]. Gerolamo Carcopino ci ha descritto come inizialmente esistesse questa basilica pitagorica della Porta Maggiore a Roma, ove gli iniziati utilizzavano i miti religiosi del paganesimo antico come i simboli del ritorno al mondo divino. Si sono anche studiate le tombe dei neoplatonici nell’impero romano. Nei confronti di questa nuova filosofia platonica, non si può che essere colpiti dalla sua somiglianza con la dottrina degli gnostici della stessa epoca, come è stata in precedenza esposta [v. num. precedenti]. I temi metafisici in realtà sono gli stessi, ma sbarazzati dalla stravagante mitologia degli gnostici e di ogni riferimento a Gesù-Cristo ed all’insegnamento del Vangelo. – Cos’è dunque questa risalita dell’anima platonica nel soggiorno degli dei con l’estasi, se non il ritorno all’ « unità primordiale » dei nostri gnostici? E si potrebbe così proseguire il parallelismo tra i due insegnamenti. Ma si pone allora la questione fondamentale: questo destino immortale nel mondo divino è una immortalità personale? Perde l’anima la sua personalità nell’ora precisa in cui perviene alla sua destinazione? Noi sappiamo dall’insegnamento degli gnostici che l’anima divinizzata si perde nel « Pleroma », nel Gran Tutto, ritorno dunque al “nulla”. Siamo in pieno Panteismo.

La dittatura intellettuale di Platone

Nel momento della massima diffusione del Cristianesimo nel mondo greco-romano, Platone regnava come maestro incontrastato sugli spiriti. Quando i filosofi, gli intellettuali si convertono al Crisrianesimo, vi introducono i modi di pensare ed i presupposti metafisici del Patonismo, senza rendersi conto che tra gli insegnamenti di Platone e di Gesù-Cristo, vi è una fondamentale opposizione ed una assoluta incompatibilità. Da ciò una ambiguità nelle loro risposte agli attacchi lanciati dai filosofi pagani: come manifestare simultaneamente la loro ammirazione per la filosofia pagana ed il loro attaccamento all’insegnamento del Vangelo? Noi vedremo che questa amalgama è impossibile e che, secondo il vigore della oro intelligenza o la fermezza della loro fede, gli uni o gli altri dovettero scegliere tra Platone e Gesù-Cristo. Eugène de Faye, nel suo “Origène” scrive: « A partire dal II secolo dell’era cristiana, tutti, filosofi, gnostici, sapienti, teologi cristiani, ritornano al “dio” di Platone. » Origene stesso, malgrado la sua opposizione alle tesi di Celso, aderisce agli insegnamenti di Platone. Egli accetta la dualità anima-corpo, la caduta dell’anima nella materia corporea considerata come una prigione. Nutre un grande rispetto per gli Astri, considerati come esseri intelligenti capaci di agire sulle anime (sono queste le tesi degli astrologi). Egli chiede soltanto che non li si adori. Si sforza poi maldestramente ed artificialmente di trovare analogie tra il linguaggio di Platone ed i dati biblici. Ma si sforza pure di difendere Dio dall’accusa di essere l’autore del male. Egli dice, come Celso che il Male è inerente alla materia. Egli è dunque impegnato incessantemente nella polemica contro Celso, perché deve marcare la sua ammirazione per la filosofia pagana, denunciandone le conseguenze quando viene a scontrarsi con l’insegnamento cristiano. « Origene, ci dice Porfirio, era Cristiano rispetto alle leggi, ma nelle credenze relative alle cose della divinità, era greco, e faceva convergere l’arte dei greci nelle favole straniere [cioè il Cristianesimo]. Egli frequentava in effetti, incessantemente, Platone. Le opere di Numenio, di Nicomaco, di Cronio, di Apollofane, di Longino di Moderato e degli uomini istruiti nelle dottrine pitagoriche erano il suo passatempo … fu da loro che conobbe il metodo allegorico dei Misteri dei greci, e li adattò in seguito alle scritture dei giudei. » Numerio d’Apamea chiamava Platone un « Mosè atticizzante »; per lui anche la materia era l’opera cattiva di un demiurgo. Anche i filosofi neo-platonici contro i quali lottavano, beneficiavano di un immenso prestigio. Porfirio era ammirato dagli apologeti cristiani. San Girolamo stesso era un suo ammiratore da giovane. San Agostino parla di lui con gran rispetto: « philosophus nobilis, magnus gentilium philosophus doctissimus philodophorum ». Egli lo pone al livello di Pitagora e di Platone. – Solo più tardi, dopo matura riflessione ed una migliore comprensione della fede cristiana, manifesterà la sua inquietudine e rigetterà tale ammirazione: « Laus ipsa, qua Platonem vel platonicos seu Academicos philosophos tantum extuli quantum impios nomine non opportuit, non immerito mihi diplicuit. » «Io ho lodato ed ammirato questi filosofi, quando essi erano invece degli uomini empi, ed ho avuto molta difficoltà ad allontanarmene. » Ciò che è l’esatta verità. Sant’Agostino non si è mai staccato dal Platonismo completamente ed anche quando lo rigettava esplicitamente, ne restava impregnato. [Vedi in Gnosi: teologia di satana (6)]

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IL MAGISTERO IMPEDITO: [di S. S. GREGORIO XVII] ORTODOSSIA: CEDIMENTI, COMPROMESSI (2)

IL MAGISTERO IMPEDITO:

[di S. S. GREGORIO XVII]

ORTODOSSIA: CEDIMENTI, COMPROMESSI (2)

[in: Riv. Dioces, Genov., 1961, pp. 270-308]

L’infiltrazione protestantica tra i cattolici.

Noi dobbiamo amare i nostri fratelli protestanti. Noi crediamo che la bontà divina è grande anche verso di loro, utilizzando le sante e rette intenzioni, tutt’altro che mancanti tra di essi. Noi preghiamo perché si avverino tutte le condizioni necessarie per una loro confluenza nella verità, quale fu fin da principio e quale i padri loro per tanti secoli accettarono. Noi intendiamo acquistare quella carità e umiltà che, dopo la Grazia di Dio, solo servono veramente ad avvicinare le anime. Se pertanto ci accingiamo a parlare, come è nostro preciso dovere, non è affatto contro di loro, quasi fossimo mossi da acredine e disprezzo, no. Non è di loro che qui discorriamo, ma di un clima che è rimasto immanente nella storia moderna da Lutero in poi e che agisce, non attraverso il proselitismo, ma attraverso forme culturali e stati d’animo. Si tratta di un «clima», che periodicamente compare nella storia si chiami esso giansenismo, o illuminismo, od altro che felpatamente ritorna ai giorni nostri. Parliamo adunque di questo «clima» ed insieme di debolezze infiltrate in mezzo a taluni cattolici. La infiltrazione, sulla quale richiamiamo l’attenzione, può talvolta consistere in proposizioni erronee e peggio, magari appena superate; ma qui prendiamo di mira piuttosto metodi, mode, problematiche, stati d’animo, simpatie, i quali, se li obblighiamo ragionando a svelarsi e risolversi nei rispettivi precedenti logici, finiscono coll’arrivare a principi tipicamente propri della Pseudoriforma. La «infiltrazione» non è la lotta; è qualcosa di peggio. Il Concilio Vaticano II costituisce un grande e provvidenziale appello, oltre che al mondo pagano a tutti i nostri fratelli separati [Il Santo Padre, è costretto a concedere qualcosa ai “nemici” che gli avrebbero censurato ed impedito la pubblicazione dello scritto. Ma paradossalmente egli ne trae spunto per affermare la Verità Cattolica di sempre, in contrasto con le evidenti eresie proclamate nel conciliabolo sunnominato. –ndr.-] È ovvio che si studino le questioni in modo da presentarle accessibili a chi vuole la verità e Cristo. È giusto che si eliminino tutte le ragioni non necessarie di dissenso. È cristiano che pertanto si dimostri la massima comprensione. Ma sarebbe insipiente, per riportare altri alla sponda giusta, cominciare a scivolare lungo la china. Chi scivola si perde e salva nessuno. Scriviamo adunque nell’intendimento di seguire il vero apostolico indirizzo del Concilio, ormai praticamente convocato. Il criterio teologico è il mezzo con il quale si giudica e si conclude in teologia. Esso viene ampiamente esposto e documentato in un trattato apposito, il De locis theologicis. Senza di esso non si fa la Teologia. Molti non sanno neppure che esista e tuttavia, mancando del «principio» necessario per discorrere di qualsiasi argomento relativo alla Rivelazione divina ed alla Chiesa, dissertano sul Cristianesimo, cercano di insegnarlo perfino alla sacra gerarchia. Le conseguenze sono facili ad immaginarsi. Il protestantesimo, riducendo tutto alla sola Parola di Dio scritta, rinnegando Tradizione, Magistero e Chiesa e riducendo tutto al «libero esame», ha annullato il trattato De locis theologicis. Se si vuole: ha annullato tutto l’importante corpo di dottrina cattolica, esposto e vagliato nel De locis theologicis. La infiltrazione gravissima protestantica sta nel fatto che, brano a brano, deformazione su deformazione, questo trattato lo si lascia cadere nel nulla. Abbiamo davanti pubblicazioni, nelle quali si parla con accento dubitativo della divina tradizione; abbiamo davanti esempi concreti di indipendenza da qualsivoglia criterio teologico nella interpretazione della sacra Scrittura… Nella prima parte di questa lettera si è parlato di un certo modo di intendere la teologia, la predicazione e le catechesi kerigmatiche, che non può armonizzarsi col sicuro senso cattolico. Quello che là abbiamo esposto può essere riletto e collocato qui. Si tratta di una via inconscia forse ai più, ma vera, per camminare verso il «libero esame». Un punto delicato e necessario del «criterio teologico» è costituito dal magistero ecclesiastico. Il magistero è solenne ed è ordinario. Nel magistero ordinario entrano tutti i vescovi della Chiesa Cattolica. Quando si raduna il Concilio, essi entrano anche in atti del magistero solenne. Si comincia a discutere la autorità dei vescovi. E non si dimentichi che la piramide per noi ha la sua base nella Chiesa. È essa che garantisce e spiega autenticamente la Parola di Dio. Se si comincia a discutere anche marginalmente questa base, messa da Cristo, si sa già dove si andrà a finire logicamente. Difesa la Chiesa è difeso tutto. Attaccata la Chiesa è attaccato tutto. Il diavolo questo lo sa molto bene. – Per capire quanto veniamo dicendo, occorrono due brevi premesse.

a)La Chiesa è la base concreta di tutto. L’abbiamo ripetuto or ora. Intatti Gesù ha consegnato tutto alla Chiesa. Quello che ha insegnato rimane vivente, e non cristallizzato, proprio perché affidato ad un organismo vivente. La stessa sacra Scrittura neotestamentaria è nata entro la Chiesa ed è posteriore alla Chiesa. La verità rivelata, nelle mutevoli epoche della storia, è garantita dall’azione viva del magistero ecclesiastico, il dogma e la morale in costanza vengono porti agli uomini in modo duraturo e sicuro da questa base. Abbiamo detto: la base della piramide. Senza tale base, ogni cosa perde una sostanziale sicurezza, può divenire incerta, discussa, compromessa. Non ci si può mai dipartire da questa verità certa ed essenziale. –  La Chiesa è dove sta Pietro. Infatti il ragionamento fatto per la Chiesa or ora può essere ripetuto per Pietro rispetto alla Chiesa stessa. Con Pietro sono i vescovi. Non si difende Pietro, se si attaccano i vescovi; non si difendono i vescovi se si attacca Pietro. I vescovi sono subordinati a Pietro e pertanto, nella affermazione ora fatta, non vi è la riversibilità perfetta, ma si afferma la unità gerarchica. Ogni fedele ha almeno due superiori dai quali non può prescindere mai, il proprio Vescovo e, al di sopra di lui, il Papa. – Come è vero che la Chiesa è la base della piramide in concreto, così è vero che un cattolico comincia ad essere vero cattolico e vero militante solo colla perfetta subordinazione al «suo» Vescovo, ai vescovi uniti e al Capo dei vescovi, il romano Pontefice. – Si tratta di verità elementari, indiscutibili, chiare.

b) E naturalissimo che quanti, o nell’inferno o in terra, vogliono attaccare il Regno di Dio, ossia la piramide, attacchino per prima la Chiesa che ne è la base. Questa naturalezza logica rende avvertiti. Non si attacca mai la base se non nella intenzione (anche recondita) di attaccare il rimanente. Gli attacchi alla Chiesa rivelano di natura loro questo logico diagramma, sempre più o meno intenzionale. Non vale staccare Cristo dalla Chiesa; chi attacca la Chiesa attaccherà Cristo o si forgerà un Cristo per suo uso e consumo, diverso da quello vero e pertanto si metterà fuori della via della salute. – Non sottovalutiamo mai gli attacchi fatti alla Chiesa di qualunque natura siano. Non para ventiamoci dietro alla considerazione che ci sono uomini… I giudei sbagliarono perché si paraventarono dietro al fatto che Gesù, per essere di oscura famiglia nazaretana, poteva sembrare a loro che rappresentasse nulla. – La storia dimostra quello che abbiamo detto. Alla corte di Ludovico il Bavaro, per parte di Marsilio Patavino, all’inizio del XIV secolo si insegnavano contro la Chiesa le stesse cose che, opportunamente dolcificate, vengono scritte oggi su qualche settimanale italiano. Ecco gli effati più comuni che insinuano a proposito della Chiesa:

– «La Chiesa ha nulla a vedere con l’ordine temporale».

E proposizione falsa, perché la Chiesa da Cristo è stata costituita società perfetta e visibile, nonché dotata di mezzi che entrano nell’ordine temporale appunto perché sensibili e non solamente spirituali.

– «La Chiesa è cosa indifferente per la comunità statale, la quale pertanto sotto questo aspetto è di natura sua essenzialmente laica».

Si tratta di proposizione falsa, perché suppone che lo Stato sia un ente giuridico assolutamente neutro. Lo Stato, espressione giuridica della società di uomini organizzati civilmente, anche se è ente solo morale risulta dalla comunità di uomini concreti, rappresenta uomini concreti, guida uomini concreti ed è gestito da uomini concreti. Per tutti questi motivi la obbligazione morale, che segue sempre ogni uomo e tutti gli uomini anche associati, ricade sullo Stato, quanto è possibile alla sua natura, e ricade totalmente sugli uomini che lo gestiscono e che sono capaci in modo pieno di responsabilità morale. – Dunque la legge eterna vale anche per lo Stato e non esiste onestamente lo Stato neutro. Anche lo Stato di per sé deve essere ossequente alla volontà divina, non meno, anzi, più del privato cittadino. Dunque lo Stato deve rispettare la volontà divina manifestata attraverso la Rivelazione. Che molte volte non sia in zona di luce e in capacità di fare questo purtroppo lo sappiamo; ma l’ordine divino nel cosmo non cambia se si hanno situazioni politiche tali da non favorire (a loro danno) la osservanza della legge di Dio. Che poi anche accada nella storia più o meno lontana esserci taluni Stati dichiaratamente neutri meno nocivi di Stati altrettanto dichiaratamente cattolici, è ben noto a tutti. Ma si tratta di un bene per accidens e non di un bene per sé. La legge divina non cambia. Un cattolico non può sostenere una proposizione come quella in aggetto.

– «La Chiesa non ha il diritto di dare in nessuna contingenza ai Cattolici, consigli od ingiunzioni che non riguardano fatti religiosi».

La proposizione, così come suona, non regge. Infatti la Chiesa può fare quello che ritiene giusto per la sua libertà e per il bene delle anime. Il giudizio di colleganza tra fatti estranei alla sua diretta competenza e il suo specifico scopo le appartiene in modo insindacabile. Infatti, se così non fosse, non potrebbe provvedere ase stessa e non sarebbe società perfetta. La colleganza tra fatti meramente terreni e la sua missione è molte volte ben evidente, sia cerche quei fatti incidono sul bene delle anime, sia anche per altri motivi contingenti. – Queste ed altre proposizioni tendono a scavare un corridoio che da una parte e dall’altra imprigioni la Chiesa, la metta eventualmente alla mercé di altre forze, la allontani da ogni presenza nella società umana. E un tentativo che sta nella stessa via della negazione. Anche qui la infiltrazione protestantica è evidente. La cosa diventa meglio configurata se si riflette al combinato tentativo di sminuire la valenza della sacra gerarchia e dell’ordine sacro con la attribuzione ai laici di una funzione di guida o di mediazione che non è affatto nel divino concetto di Cristo e che in fondo mira ad una laicizzazione della Chiesa. Di questo abbiamo trattato a suo tempo nella nostra lettera Ortodossia, errori, pericoli ed a quella rimandiamo, avvertendo solo che in proposito noi siamo dinanzi ad una vera infiltrazione protestantica. – Lo stesso si può dire di un certo concetto «comunitario». Non c’è dubbio che la parola «comunitario» può essere usata benissimo ed è da molti usata benissimo. Non però da tutti. Infatti, mentre può servire a sottolineare il carattere di «unità vivente» e di «famiglia di Dio» che ha la Chiesa e che si irradia su tutte le sue manifestazioni, può contenere, e di fatto contiene nella palese intenzione di taluni, due aspetti che non possono essere accettati: si tratta anzitutto di una accentuazione democratica tendenzialmente restrittiva del carattere gerarchico della Chiesa e per questo vale quanto si è detto sopra; si tratta assai più frequentemente di una messa in luce della azione pubblica e liturgica della Chiesa, che vuole ignorare la presenza del rapporto individuale – pietà privata – tra i singoli fedeli e Dio. – Le chiese cattoliche sono destinate, sì ed anzitutto, alla assemblea dei fedeli in taluni momenti, ma sono pure destinate durante l’intera giornata, per la presenza del tabernacolo e del confessionale, all’incontro santifìcatore e purificatore dei singoli fedeli col loro Signore. Cosa che molti architetti moderni ignorano magnificamente, senza che molti li riprendano. Di questo discorreremo più avanti, perché rientra in un certo concetto di «spogliazione» di cui ci dovremo occupare. – Ci rendiamo ben conto che l’argomento dei «laici» è perfettamente ortodosso quando tende a farli partecipare di più nella loro posizione subordinata alla attività della Chiesa e, soprattutto, all’apostolato. Così la idea comunitaria è eccellente quando mira a combattere un individualismo contrastante col grande precetto del Signore. Non è di questo che qui ci lamentiamo; è solamente degli equivoci ai quali si prestano spesso i modi nuovi di porre idee antiche, nonché i termini nuovi e per nulla necessari. – Il razionalismo in storia legge ed interpreta i fatti escludendo a priori in essi qualsivoglia realtà o causalità soprannaturale. Il che è chiaro. Ma, per mantenere in pregiudizio suo, dato che esistono fatti soprannaturali dalle nitide risultanze esterne e rilevabili, è obbligato ad andare oltre ed essere palesemente irrazionale. Ossia arriva a negazioni pure e semplici contro i fatti. Per farlo con minor onta dà credito a quello cui non si potrebbe dare scientificamente credito, passa dall’argomento di rassomiglianza alla conclusione di dipendenza e viceversa, etc, dimenticando sempre le valide regole del sillogismo. Per questa via il razionalismo arriva a severità in alcuni settori ed a larghezze in altre; ha simpatie di elezione ed antipatia di repulsione, assimila le enfasi e le condanne di moda. L’elenco delle conseguenze sarebbe lungo. Esso sta tutto nel principio razionalistico, che non sempre ostenta, ma in ragione di questo principio, dovendo deviare il suo corso a fatti ad esso ostici, si trova necessitato a manifestazioni irrazionali. – Esistono scrittori che sanno e vogliono essere razionalisti. Di questi non ci occupiamo. Esistono scrittori che non vogliono essere razionalisti, ma sono messi in gran rispetto dal razionalismo, dalle sue pompose affermazioni, dalle sue severe conclusioni e finiscono, anche a non volerlo, col far propri i canoni secondari del razionalismo stesso. Essi mettono in pace la propria coscienza dicendo a se stessi che la verità non teme oltraggio, che seguono la rigorosità scientifica, che chi dice male di se stesso o della propria parte è maggiormente credibile di chi ne dice bene, perché in tal modo è disinteressato. Qualche ragione c’è sempre per giustificarsi, è solo questione di adattarla convenientemente, di dire o capire in parte, soprattutto di tacere gli aspetti molesti. Ora noi ci occupiamo di costoro e la ragione la si vedrà appresso. E opportuno esemplificare. In un’opera illustre, analizzandola pazientemente, siamo rimasti colpiti da un fatto strano. Il discorso portava ad eretici: costoro avevano tutte le scuse. Il discorso portava a Papi: questi avevano tutte le severità. Il contrasto era marcato e penoso. I centuriatori di Magdeburgo, se fossero vivi, avrebbero di che essere soddisfatti. La verità è eguale per tutti, siamo d’accordo; tuttavia la compiacenza per gli uni e la animosità per gli altri, anche se poteva essere uno «snob» qualunque, non era più questione di verità. Compiacenza e animosità sono sentimenti, non strumenti di verità e di scienza. Abbiamo ipotizzato anche un’altra spiegazione, che cambia nulla: si coltiva molto una virtù singolare, quella di fare qualcosa che piaccia ai propri avversari o nemici. Virtù o no: essa non dovrebbe entrare in storia. E tuttavia in storia entra il complesso di inferiorità verso il togato razionalismo, dalle molte citazioni e dalle imponenti bibliografie, con tuttavia la sostanza descritta sopra. – La storiografia di taluni cattolici sta mettendo sotto inchiesta i Papi che hanno difeso tutto. Non importa neppure che ci sia la santità di mezzo. Le virtù ammirate sono quelle di lasciar correre, di sopportare, di abbandonare il campo, il che sarebbe «avere la mente larga». San Pier Damiani ed in genere i riformatori non hanno più buona stampa. Sarebbe difficile difenderli dalla taccia di esagerazione, o di avidità politica. – Molti fatti soprannaturali non hanno lasciato una scientifica documentazione. Niente di strano: spesso l’ultima cosa che viene in mente, quando essi avvengono, è quella di chiamare un notaro per redigere regolare istrumento di constatazione. Dimostrare autentica fobia contro il soprannaturale conosciuto per tradizione veneranda e non più scientificamente documentabile, quando si sa che, dimostrato un solo miracolo, tutti i miracoli diventano possibili e non espungendi a priori, è accettazione del razionalismo. Forse anche per paura o per complesso di inferiorità. – Non che si chieda di ammettere per dimostrato quello che non lo è; si chiede solo di non avere la fobia verso quello di cui Gesù Cristo ha riempito il suo pellegrinaggio terreno ed al quale ha affidato di dimostrare per tutti i tempi la verità del suo divino intervento. La scienza è una cosa, ma non va confusa colla paura, colla acredine e coi complessi di inferiorità rispetto al razionalismo. – Il razionalismo gode di svuotare tutto quanto riguarda la Chiesa, di ridurla ad una larva, di umiliare persone e fatti verso i quali si è sempre avuta venerazione. Un certo razionalismo, astrattamente parlando, si è rivelato in tutti i cicli storici, ma nessuno può dubitare che quello oggi invadente sia, e nel metodo e nel principale oggetto, un frutto di area protestantica. Abbiamo qui scelto la storia, ma tracce qualificate di una tale infiltrazione si trovano anche altrove. Il protestantesimo ha fatto uso grande della sacra Scrittura. L’ha mantenuta come libro divino, almeno il protestantesimo storico. È difficile parlare di molte sette protestanti. Circa la interpretazione della sacra Scrittura ha bandito il principio del libero esame; ossia il principio più incongruente che sia mai esistito, tanto più incongruente in quanto applicato ad un libro ritenuto di origine divina. Infatti il libero esame permette di seguire i limiti personali, le carenze personali, le fissazioni personali, le passioni, i ripicchi e i comodi personali, nonché tutte le suggestioni altrui, le quali entrate nell’anima, non importa in che modo dall’esterno, diventano tare personali. – Col libero esame ha aperto la porta al razionalismo in una forma tale che ne ha portato, esso per il primo, le conseguenze. Mentre faceva questo, teneva la Bibbia nei templi al luogo d’onore e, abolita pressoché tutta la divina liturgia, colla Bibbia sostituì tutto o quasi. – Ogni predicatore parlò sempre a titolo personale e, se talvolta non lo fece, fu incongruente. La Bibbia fu magnificata e fu svuotata. Magnificarla da una parte e svuotarla dall’altra è segno di infiltrazione protestante. Metterla in onore ed applicarle sornionamente qualche canone, che riflette il libero esame, è certamente cosa degna dello stesso giudizio. – Il cattolicesimo ha nel patrimonio della sua fede la verità dell’ispirazione delle sacre Scritture. Esso crede che tale libro sia di Dio. Tale fede ha mutuata dalla Parola di Dio scritta e dalla divina tradizione. La arduità del tema permette si possano fare molte questioni marginali, che qui non ci interessano. Resta la verità certa della ispirazione biblica e questa per ora è sufficiente. – Un libro che ha per autore primo, vero ed adeguato, Iddio è, sotto un certo aspetto, terribile a considerarsi da noi piccoli uomini. L’autore vero del libro sa tutto ed è provvidente rispetto a tutto. Tale autore sa di tutti i cambiamenti di ingegno letterario, di gusto e di pazzia che si susseguiranno nel mondo fino alla sua fine. Come provvidente, il libro è stato fatto in modo da evitare gli insormontabili ostacoli di tutti i tempi, da portare a tutti i tempi la stessa novella e da offrire per tutti i tempi con verità, coerenza e senza inganno quello che può dare un libro animato ed in certo modo vivente, perché opera di Dio. Si tratta di un libro, insomma, che deve guidare il genere umano in tutte le sue tortuosità e con inenarrabili fecondità. – Per tale motivo gli uomini finiranno di trarre dalla Bibbia, nel pellegrinaggio terreno, quello che vi debbono trarre solamente il giorno del giudizio universale. Gli uomini salvi in cielo lo considereranno in altra luce, della quale non ci è dato parlare, la luce della visione eterna. Questo libro che, per essere opera del divino Provvidente, ha da dire in unità e coerenza qualcosa a tutte le età venienti, porta con sé naturalmente enigmi per la nostra età; gli enigmi stanno sempre dove entra Dio e rappresentano il margine col quale Egli nell’opera sua sopravanza la nostra corta intelligenza. Per questo motivo abbiamo detto trattarsi sotto un certo aspetto di un libro «terribile», da aprirsi in ginocchio con assoluta venerazione. Un libro simile, perché divino, non potrà mai essere letto avendo come criterio primo e dirimente uno strumento o criterio meramente umano. La logica è evidente. E per tale motivo che il primo e supremo criterio per leggere debitamente la Sacra Scrittura non può essere che uno strumento divinamente garantito. Esso è il Magistero ecclesiastico interprete di una divina tradizione. Contro questa verità cattolica non c’è che il libero esame, ossia la fine di tutto! – La penetrazione scientifica, che riuscisse ad ottenere effetti contrari alla fede, all’intendimento divino, al rispetto di quanto sempre ci sopravanza se entra in campo Dio, non sarebbe più né scientifica, né cattolica. Dove entra Dio, la scienza stessa insegna od almeno intuisce che non si compiono certi passi. Il protestantesimo è spogliazione. H a spogliato la Chiesa del suo stesso essere, della sua tradizione. Ha spogliato la sacra Bibbia del necessario ed insostituibile canone di interpretazione. Ha spogliato la liturgia, dalla quale ha eliminato in sostanza quasi tutti i Sacramenti e lo stesso divin Sacrificio, sicché ne è rimasto un po’ di letture, di canti e di sermoni. Ha allora logicamente spogliato le chiese delle immagini sacre, del tabernacolo, spesso dell’altare – non del pulpito, diventato semplice suppedaneo di uomini e non di ministri di Dio -, nelle sacre solennità. Questi templi protestanti, inutili ad una divina regia liturgica, hanno teso a prendere, non appena una certa sopravvivente tradizione cattolica è svanita, un aspetto simile ai luoghi che nulla hanno di sacro. Comunque quando gli si è presentata una conformazione architettonica al tutto laica, non hanno avuto nulla da opporre. E a buon diritto. A che certe concezioni architettoniche per accogliere una assemblea quasi simile a tutte le altre assemblee? E così, dove si trova la spogliazione, si trova il senso protestante. Ora guardiamo. In questa nostra lettera abbiamo già elencato un certo numero di spogliazioni: a proposito della tradizione, della teologia, del criterio teologico, della Chiesa… Tutti quegli argomenti potrebbero essere ripetuti, a nuovo titolo ed a buon diritto qui. Essi denunciano una probabile origine comune. Una spogliazione, con giustificazioni persino di sapore pastorale, viene fatta a carico del giorno del Signore e di questa ci occuperemo in lettera a parte, ugualmente diretta al nostro clero. Nella prassi liturgica, molti ormai si sono ridotti alla sola santa Messa. Noi abbiamo già scritto più di una volta che, per salvare la pratica della Messa nel popolo, bisogna salvare dell’altro: la rimanente preghiera pubblica, la catechesi inserita nel culto divino e, quanto è possibile, tutto l’ordo liturgicus. Non è vero che gli uomini abbiano molto da fare: mai gli uomini civili hanno fatto tante feste ed un orario lavorativo così contratto come ai nostri giorni. Non è dunque qui il motivo per cui non si può dare a Dio un maggiore tempo ed è assolutamente insipiente cercare ragioni per giustificare autentici difetti. – Osservate la spogliazione operata e subita a proposito dei tempi sacri di penitenza. Qualcuno ha persino vergogna a parlarne e teme di essere tacciato di retrogrado. Spogliazione anche qui. Queste cose non si accettano fatalisticamente, come un male necessario. Molti continuano a gettare il discredito su tutte quelle pratiche della pietà privata che preparano il fervore della azione liturgica e che costituiscono una sorta di avvicinamento facile per le singole anime a Dio. Senza questa riduzione in volgare moltissimi perdono addirittura il senso della preghiera ed è opportuno riflettere quale sia il grado di decoro spirituale di una assemblea liturgica di fedeli, nella quale per mancanza di allenamento personale i singoli stanno a guardare e non sanno più pregare od aver consuetudine e dimestichezza con le cose sante. Ad un popolo che deve ogni mattina emergere dalle nebbie di una materialità sempre più accentuata, per non dire di peggio, non si può togliere o decurtare quella prassi di pietà che costituisce in sostanza una reale traduzione delle cose difficili e solenni. Ma quando l’istinto della spogliazione è entrato, esso ha come prima tappa il fanatismo. Leggersi in proposito la storia del XVI secolo.Le mode artistiche meritano sotto questo profilo una particolare attenzione. Non è un mistero per nessuno che segua i fatti culturali come i modelli di chiese più divulgati e creduti sono quelli concepiti in area protestante. Non è affar nostro discorrere qui della fantasia e della capacità creativa artistica, rivelatasi spesso tarda nei secoli passati in talune zone, dove fino a cinque lustri innanzi non si sapeva fare una chiesa la quale non riprendesse il modello di cinque e fino sei e sette secoli addietro. Sarebbe interessante occuparsene. Ma qui ci interessa il fatto che i modelli decantati e quasi imposti come tipo sono cresciuti là ove il tempio serve solo per un’ora la settimana, e serve solo per qualche canto, lettura e sermone. Là è logico ci sia una spogliazione. Perché dovrebbero essere caldi i muri quando sono destinati ad una assemblea che ha spento la regia, la coreografia, il simbolo, il dramma e con essi le divine rappresentazioni di misteri reali ed efficienti sotto simboli materiali?Così si è giunti alla infatuazione di credere distinzione quello che è solo spogliazione. Gli ornati possono certo essere triti, accademici, volgari; ma esistono ornati che non sono tutto questo. Eppure tutto è cacciato. Gli altari, in nome della semplicità, sono più valevoli manto più simili alla primitiva sovrapposizione di alcune pietre con ma monotonia impressionante. I tabernacoli ridotti a scatolette tollerate e sformate, nonostante la chiara mente della Chiesa espressa nel decreto della S. C. dei Riti del 3 settembre 1958. La miseria dei tabernacoli è il segno della miseria nella stima di cose divine. In questa nostra diocesi abbiamo riservato a Noi personalmente la approvazione di qualunque tabernacolo costruendo e siamo ben decisi ad impedire che la irrazionalità e la irriverenza si impadronisca del primo sia pure materiale omaggio a Gesù Cristo. E tutto perché? Arte? No; spogliazione. Citiamo testi certamente autorevoli oggi in campo di arte e lodati, probabilmente in modo inavvertito, anche dai cattolici.

– «Il criterio supremo della architettura del secolo XX è la fabbrica».

La Chiesa va bene se assomiglia a una fabbrica. Tutto si spegne. Anche gli uomini ad una certa ora del giorno abbandonano la fabbrica, ove sentono di essere stati meno uomini, e fuggono: neppure si voltano a guardarla.

– «L’artista è completamente libero riguardo alla natura e non può essere giudicato che in rapporto alla propria personalità».

L’opera d’arte evidentemente dovrebbe allora interessare solo l’artista, non gli altri. L’opera è una sua manifestazione intima.

– «I principi della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino autorizzano l’artista a manifestare liberamente le sue opinioni e soprattutto la sua responsabilità personale. Si scopre che libertà e sensibilità sono consorelle. L’artista non obbedirà che alle proprie suggestioni… Egli sarà invitato ad affrancare la sua individualità, a tradurre delle impressioni «egoiste» sentite davanti alla vita… la caratteristica del rinascimento del XX secolo apparirà più decisamente quando l’egotismo «sottometterà l’altruismo, quando il culto della personalità dominerà quello tradizionale della socialità». – Nessuna legge: solo se stessi! Con questo criterio si erigeranno templi a Colui che, senza peccato, è andato in Croce per tutti gli altri? Il cammino verso l’«egotismo», che sarebbe meglio chiamare chiaramente «egoismo», è sempre nella direzione dell’isolamento e della povertà dell’essere, anche se c’è la ricchezza di vibrazioni. La carica conseguente sarà disperata. Ecco la volontà della spogliazione e del brutto. – Gli uomini annoiati per non avere un senso di vita, che sia riflesso eterno, strappano e dilaniano quello che trovano. Fare così lo chiamano anche esistenzialismo. – Diventa sempre più chiaro il fenomeno di una progressione filosofica, nata da una rivolta religiosa e che invade il campo dell’arte al punto per cui bene spesso non è questione di arte quanto di affermazioni ideologiche. Il peso di questa progressione filosofica, che è recentemente arrivata al misticismo del «nulla», appare invadere ed animare un campo che noi ci ostiniamo a chiamare ancora «arte» e che spesso è solo travatura d’uno stato d’animo o di un filosofema senza armonia. – L’importante è avvertire l’abbinamento del diagramma filosofico con quello artistico, il facile predominio del primo. Allora si capisce quale sapore abbiano le spogliazioni. Concludiamo questo capitolo.

La rivolta contro l’ordinamento ecclesiastico, contro il carattere assoluto della verità, contro la legge, la affermazione del determinismo insieme alla proclamazione di una ineluttabilità della colpa e pertanto di una ineluttabilità della licenza, la rivolta contro i legami di verità dell’intelletto hanno caratterizzato il triste avvenimento del XVI secolo, al quale resta tuttavia legato per più lati il filo della attuale storia. Tutti questi elementi si vedono ricomparire, anche mimetizzati, anche solo sussurrati. È la infiltrazione. E non si tratta di episodi staccati, si tratta di una trama che ha una volontà distruttiva.

Non ha ragione chi grida forte per il solo fatto di gridar forte.

I cedimenti e i compromessi a danno dell’ortodossia, almeno in forma potenziale, non avvengono solo a proposito di argomenti abbastanza definiti, come quelli dei quali ci siamo occupati fin qui. Avvengono o possono avvenire su qualunque argomento, in qualunque momento, per qualsivoglia ragione se c’è di mezzo la ignoranza teologica, la presunzione morale, la rivincita dei falliti, la invidia degli insoddisfatti, la sete di giustificazione dei deboli caduti. Sotto questo profilo diventa interessante studiare e denunciare non i punti in cui p ò vulnerarsi la ortodossia, ma la ragione, la grande ragione permanente per la quale si può perdere la testa e, a proposito di qualunque oggetto, mettere in palio la stessa ortodossia. Quale è questa ragione permanente? E il rumore, la potenza materiale, la imperterrita sicumera, la regia del gran mondo. Tutto questo dà la impressione del diluvio, del giudizio universale; fa credere di essere caduti fuori strada, di essere miseri, piccoli, ridicoli, incapaci; dona una sorta di collasso psicologico e finisce col far scappare in tutte le direzioni o col convincere ad acchiappare correndo gloriosi carrozzoni, apparentemente signori di tutte le strade. Il mondo ha ragione, anche se fa cose insensate e caduche, perché grida forte. Ma non è affatto vero. E una illusione. Anche se non è vero, l’effetto c’è. Purtroppo. Ecco gli animosi, i mali vanno a ridimensionare tutti i margini della ortodossia, perché hanno la impressione di essere altrimenti ritenuti arretrati. Fuggono a precipizio in talune direzioni, perché vedono fuggire. Se non ci fossero di mezzo questioni ben serie e gravi doveri, sarebbe divertente assistere a raduni ove la educazione impartita ha i suoi frutti in affermazioni del genere: «In talune circostanze bisogna disobbedire alla Chiesa». – Ecco gli intelligenti, i quali, visti i cartelloni teatrali di questo o quell’altro centro, spesso composti con lavori di più che dubbia moralità, ritengono essere ormai definitivamente tramontata la moralità e cercano di ridurla opportunamente nei libri e nelle affermazioni, per non trovarsi con nessun compagno sulla strada della virtù. – Ecco i pusilli i quali, andando a zonzo per un centro mondano e rilevando ovunque atteggiamenti al tutto materiali e sfrenatamente impudenti, testimoniano a se stessi che ormai la causa del bene è perduta e che è meglio far finta di acclimatarsi, magari per fare «del bene alle anime». Il chiasso, il volume, la parata esterna, la facile vittoria degli elementi riottosi, la potenza, la propaganda, la grande orchestra subissano e da questa terrorizzante esperienza si animano le fughe in direzione del razionalismo, del marxismo, del modernismo, della rivoluzione, della indisciplina, della politica squinternata, dei tradimenti, dei veri suicidi. Tutto è montatura ed è sufficiente non guardarla, camminando sereni per la propria strada. E montatura perché ogni notte, ogni stanchezza, ogni malattia, ogni aridità interiore (questa soprattutto), ogni rimorso distrugge alla base tutto questo. E montatura, perché tutto questo è sotto il terrore del mago apprendista, il quale è riuscito a scatenare le forze e non riesce più ad imbrigliarle, ma sta per esserne sommerso. E montatura, perché il male si vede ed il bene assai meno. E montatura perché la voce più forte è quella di Dio. E montatura perché, anche invisibilmente, tra tutto questo avanza l’opera della grazia di Dio e incessantemente si consumano gli olocausti dei veri credenti, degli autentici fedeli. La minore visibilità del bene è favorevole alla maggiore virtù ed al più grande merito. Tutto questo che fa la voce grossa impallidirebbe a morte immediatamente solo che sprizzasse la scintilla della guerra nel mondo. E da questa ormai solo la misericordia di Dio ci salva. Non val la pena di fuggire dinanzi ad un nemico che fugge, né di dar credito ad una voce pur forte, ma ogni giorno arrochita dalla morte. Vogliamo discorrere qui brevemente di alcuni effetti della «voce grossa». Un effetto potrebbe essere la imitazione. In realtà il misterioso fluido delle impressioni porta alla imitazione. Comprendere il tempo e gli uomini, sfruttare gli strumenti onesti in ordine all’apostolato, ma sempre e solo come strumenti, sviluppare le doti di relazione per adeguarsi meglio allo stato d’animo ed ai bisogni dei propri fratelli non è «imitare». Questo è scegliere con discernimento ed accettazione dopo un giudizio obbiettivo e indipendente. La imitazione è simile ad una procura generale, rilasciata a chi non si conosce, almeno nel caso del quale ci stiamo occupando. Essa, sempre in questo caso, non è scelta ragionata; è accettazione di criterio e di linea. In casa nostra possono farsi adeguamenti e aggiornamenti di metodo o di strumenti. Nulla ci sarà da dire quando questo accadesse «scegliendo» oculatamente e niente affatto «imitando». – Il tema di giudizio fondamentale sul «mondo» che il divin Salvatore ci ha lasciato deve stare in testa a tutte le nostre considerazioni ed azioni. E per questo che dobbiamo trovarci pronti a fare di tutto, che sia onesto e decoroso, ma sempre con lo spirituale «distacco» di chi si serve di strumenti per uno scopo, che sta ben oltre ed assolutamente «mai» per avere il «consenso soddisfatto» del mondo. – Un deplorevole effetto della «voce grossa» potrebbe essere la ambizione». La «inibizione» blocca e contrae la iniziativa e la vita. Nel caso, il blocco o la contrazione sarebbero frutto del malevolo giudizio, del clamore pubblicitario, della avversa opinione, della canea montata, ossia sarebbero sempre il frutto della «voce grossa». Tutti questi spiacevoli modi che gli uomini illegittimamente hanno per far paura agli altri possono venire considerati freddamente e con distacco, per ragionare in una linea di prudenza. Ma non debbono mai essere immessi nel campo emotivo, dove generano solamente paura, silenzio, passività, fuga. È meglio, anziché bloccare se stessi o contrarsi, avere la disposizione a creare onestamente negli altri delle emozioni. – Un caso abbastanza diffuso di «inibizione» si ha quando viene lanciata la accusa di «integralismo». Prima di chiudere questa lettera con è male parlare di tale faccenda. La parola «integralismo», appunto perché termina in «ismo», indica secondo la comune accettazione della nostra lingua un fatto «deteriore» e come tale un fatto in qualche modo spregevole. Esso indica infatti rigidità, consequenziarietà fanatica, esagerazione. Questo per la significazione in sé. Veniamo ora all’uso ed alla logica colla quale si lancia l’accusa di integralismo, quella che inibisce e contrae. A chiunque si renda scomodo per il fatto di voler aderire in tutto a Cristo ad alla Chiesa (che è poi obbiettivamente la stessa cosa), a chiunque ricusa di fare decurtazioni alla verità cattolica, alla prassi cattolica, alla coerenza cattolica, si getta in faccia l’accusa: «sei un integrale». Se qualcuno afferma che si deve obbedire alla Chiesa in qualunque piano, ove essa crede di intervenire, lo si rimprovera od irride: «sei un integrale». Se qualcuno non si fa prendere dalla smania di correre dove corrono tutti, solo perché corrono e senza ragione concreta, gli si dice: «sei un integrale». L’uso di questa parola nel senso deteriore è «guidato» dalla disonesta intenzione di creare un complesso di goffaggine e di ridicolo, ossia un complesso psicologico di inferiorità e mettere così in stato di essere arrendevole o inattivo, non per convinzione ragionata, ma per pura emotività. L’uso di usare parole caratteristiche per ottenere effetti psicologici (a tutti gli scopi) è vecchio. Un tempo si diceva per mettere paura «ha detto male di Garibaldi» e i poveretti, davanti a tale nefandezza solo ipotizzata, ammutolivano e andavano a nascondersi. In questo nostro momento si usano nel campo politico alcuni epiteti, che hanno la stessa logica, la stessa legittimità, lo stesso decoro e, spesso, lo stesso effetto, denotando disonestà da una parte, vigliaccheria dall’altra. – Ma noi, cari confratelli, non dobbiamo badare alle parole. Esse sono e restano parole. Le parole si possono udire e non ascoltare. Guai a chi di noi si riducesse in qualche parte del suo dovere, perché qualcuno gli lancia un titolo di scherno. L’uso illegittimo delle parole è come l’uso delle lettere anonime; basta non ascoltare e non leggere e le parole cadono, le lettere anonime non si scrivono. Queste cose insegnatele ai fedeli, specialmente a coloro che intendono militare spiritualmente nell’apostolato. Non mancano tentativi di gettare la divisione tra noi e di rendere inoperanti le forze migliori coll’uso sadico di una terminologia sfrecciante, si tratti di «integrale» od altro che tutti sanno. – Non disprezzate nessuno, ma disprezzate questi termini, questi metodi, e tirate avanti tranquilli. Lasciate dire: quando i carri armati hanno consumato la benzina, anch’essi si fermano. Ma se c’è qualcosa che è capace di fare andare in bestia il diavolo, usatelo. Con quello basta il segno della santa Croce. La «voce grossa» è voce moritura. L a Provvidenza e la grazia non sono affatto moriture. Cari confratelli, una seconda volta abbiamo scritto per difendere voi dalle insinuazioni del male. Il mondo prova effetti di dissoluzione a causa del malo uso della materia, resa molto obbediente, molto servizievole, ma anche molto tiranna. Questo rende noi più fastidiosi, noi che dobbiamo difendere il sacro deposito lasciatoci da Cristo e che dobbiamo, contro il prevalere della materia, continuare a salvare le anime. Anche di coloro che ci irridono. – Non temete mai, che chi irride è debole. Chi soffre, per generosa accettazione e con Gesù Cristo, è forte e può come Lui sempre vincere proprio nel momento in cui per il mondo se ne va in Croce. Non guardatevi intorno, guardate in alto e non temete. Ma restate fedeli alla verità!

 Fine. [Grassetti e colori sono redazionali]

 

IL MAGISTERO IMPEDITO: [di S. S. GREGORIO XVII] ORTODOSSIA: CEDIMENTI, COMPROMESSI (1)

ORTODOSSIA: CEDIMENTI, COMPROMESSI (1)

[in: Riv. Dioces. Genov., 1961, pp. 270-308]

II – Ortodossia

Cari confratelli, il 1 agosto 1959, indirizzandovi una nostra lettera dal titolo Ortodossia, errori, pericoli, [Lettera pastorale scritta il 7 luglio 1961; «Rivista Diocesana Genovese», 1961, pp. 270-308], vi assicuravamo che avremmo continuato l’opera di denuncia contro gli errori soprattutto sottili, in lettere successive. Siamo qui per compiere insieme una promessa ed un dovere insiti nel nostro ufficio. Noi scriviamo per la verità, ben sapendo che solo sulla verità si erige il bene e che la fede, prima condizione per salvarsi, è di natura sua legata all’ortodossia, cioè alla verità. – In questa nostra lettera vogliamo intrattenervi su taluni indirizzi intellettuali e pratici che o si avviano a violare il sacrario della ortodossia cattolica, o contengono in sé i germi dai quali nascono, prima o poi, contraddizioni o, almeno, incongruenze colla stessa ortodossia cattolica. – Non certamente voi, cari sacerdoti di questa nostra diocesi, ma altri si adonteranno per il fatto che difendiamo la ortodossia. È già accaduto e accadrà ancora. Esiste gente che ha il sottaciuto pensiero di una mutazione universale delle cose, dalla quale nulla si salverà o si potrà salvare. Per essi il problema della ortodossia è quello di «adattare» o di «interpretare», non quello di difendere inalterato il deposito lasciatoci dagli Apostoli. Pertanto si offendono di chi difende la ortodossia; ma hanno torto, perché non vedono i punti fissi di questo gran mondo in cammino ed in movimento perenne, punti fissi che testimoniano della immobilità nella realtà e verità ultima. Essi non capiscono che cosa vogliano dire e testimoniare la loro stessa nascita e morte, punti non certo soggetti a mutazione, come molti altri. Noi reagiamo e reagiremo sempre, finché Dio ci darà vita, a questa equivoca illusione, ben sapendo che solo credendo e credendo a quello che ha voluto il Signore Nostro Gesù Cristo, senza adulterazioni e senza riduzioni, noi avremo la vita eterna (cfr. Gv. XX,31). – Ora, come già abbiamo avvertito nella precedente analoga e sopra citata lettera, non si tratta tanto di combattere contro aperte e formali eresie, ma contro infiltrazioni caute e viperine, le quali contano sulla grandissima ignoranza religiosa di moltissimi laici e sulla poca scienza teologica di non pochi dello stesso clero. Una parte di libri o di periodici, i quali si prestano alla infiltrazione di mentalità errate o pericolose, è talvolta passata sotto occhi ai quali una maggiore precisione teologica avrebbe certamente dato un senso di allarme e di motivato disgusto. Sappiamo finalmente che tutto l’argomento nel quale entriamo si troverà innanzi obiezione o addirittura condanna, per l’istanza della modernità, volendosi intendere come passatismo, conservatorismo, sclerosi, etc. tutto quanto difende la Tradizione. Se qui si parla di «passato» si intende accennare a quel «passato» che sono i fatti e i detti di Gesù Cristo, alla tradizione apostolica, all’opera magisteriale e di regime svolta nei secoli dalla Chiesa. – Sarà opportuno intenderci subito sulla modernità, senza bisogno di ripetere quanto vi abbiamo scritto in una nostra lunga lettera in proposito nel 1950. La modernità sarà nella comprensione e nella adeguazione ai tempi che si vivono, ma non è affatto nel contrarre le malattie, le menomazioni e le pazzie dei tempi che si vivono. Chi le contrae non è moderno, è malato. Chi se ne difende probabilmente sarà sempre in vantaggio sui tempi. Fare sacrifici, anche a danno della verità, per adeguarsi a malattie è accettare vie false e ridicole. Non crediamo che siano ancora a punto, per tutti i paesi, le statistiche obbiettive sul pauroso aumento delle malattie nervose, delle malattie mentali, delle anormalità. Da quello che si conosce, le cose si delineano preoccupanti. Ma se ci si prova a far proseguire la curva fino al 2000 colla stessa progressione (ed è poco perché la progressione aumenta), ci si deve domandare che cosa succederà allora. E questo non è un divertimento per quanti possono sperare di esserci, mentre è una pace per quanti possono presumere di non essere più in questo mondo. Se pure non accada che Dio, prima del 2000, abbia già permesso la punizione terribile alle presunzioni del mondo e alle paure di coloro che alle presunzioni non hanno per vigliaccheria resistito a tempo. Non tiriamo dunque in campo termini equivoci. Essi, del resto, verranno ancora discussi nel corso di questa nostra non breve lettera.

La lotta alla divina tradizione

La sacra Scrittura non è il solo fonte della rivelazione divina e pertanto non è la sola fonte dalla quale possiamo e dobbiamo sapere la «Parola di Dio». Ciò significa che non tutta la parola di Dio è stata consegnata allo scritto come accade nei Vangeli, negli Atti degli Apostoli, nelle Lettere apostoliche, nella Apocalisse. Vi è un margine che sta certamente oltre gli scritti apostolici. Del resto la Chiesa per qualche tempo nulla ebbe di scritto ed ebbe quello che possediamo noi solamente in tempo successivo, pur non eccedendo cronologicamente la vita del più longevo tra gli apostoli. Essa visse sostanzialmente di divina tradizione, poi a poco a poco, prima che si estinguesse la favilla diretta degli Apostoli, ebbe la Scrittura neotestamentaria. La Scrittura attinse da essa, ossia da quanto era stato consegnato a viva voce da Gesù e dai suoi autorizzati interpreti. La esistenza ed il valore della divina Tradizione appartengono alla fede cattolica e rinnegare la Tradizione è andare senz’altro fuori della ortodossia. – Gli antichi Concili hanno iniziato da una professione di fede nella Tradizione; alla stessa tutti si sono richiamati. Il Concilio di Trento, pur non avendo trattato a fondo l’argomento, afferma ed insegna esplicitamente la divina tradizione nella sua IV sessione; Pio IV riprende nettamente l’affermazione nella Professio Fidei Tridentina, imposta attraverso la Bolla Jnjunctum nobis del 13 novembre 1564. Non meno chiaramente si esprime il Concilio Vaticano I nel capitolo III de Fide. Di una cosa tanto chiara si nota in molti scrittori uno strano silenzio. Dobbiamo ricordare che Lutero si è divaricato dalla Chiesa tra l’altro per aver rigettato la divina tradizione, almeno nella sostanza. Al silenzio si aggiungono alcuni dati, che vanno ponderati con cura.

Teologia, predicazione, catechesi kerigmatica.

Se ne parla molto. Premettiamo che per kerigma si intende la «predicazione o il messaggio» di Gesù Cristo. Ma di tutto questo si può parlare in due sensi, l’uno buono, lodevole, utile; l’altro non accettabile dal senso cattolico.

a) senso buono.

La teologia, predicazione, catechesi kerigmatiche sono quelle che si attengono preferibilmente, ma non esclusivamente, al «messaggio scritto» di Nostro Signore. Tanto fanno per una duplice istanza, di essenzialità e di concretezza. La bontà di questo modo di concepire la «teologia kerigmatica» è garantita dal fatto che si attiene al « messaggio » e non esclude affatto il resto; ha cioè l’intenzione di cogliere ed incidere l’immediato ed essenziale della parola di Dio, facendo reazione al troppo dilagare di pensieri di uomini. Nessuno può negare che ci sia bisogno di un onesto richiamo all’essenziale, garantito da Dio.

b) senso cattolicamente non accettabile.

La teologia, predicazione, catechesi kerigmatiche contengono una affermazione negativa (larga in modo diverso). Cioè: che non ci si fida più di quanto sta oltre il nudo messaggio scritto, o lo si ritiene mutile, o lo si giudica aggeggio umanamente superaddito, tale pertanto da doversi ignorare volutamente o da doversi espungere. Nessuno vorrà mettere in dubbio che il kerigma così inteso non è cattolicamente accettabile; perché il modo diverso (a seconda delle diverse disgiuntive elencate) partecipa della posizione o addirittura della eresia protestantica. Infatti. Che cosa ci sta oltre il nudo messaggio di Cristo contenuto nella sacra Scrittura? Ci sta: la divina tradizione, l’opera di deduzione, esplicitazione, applicazione, ulteriore intellezione della parola di Dio sia scritta che tradita. Ora: quanto alla divina tradizione, abbiamo già parlato sopra e non occorre ripetere; basti dire che espungere la divina tradizione è la stessa cosa empia che espungere la sacra Scrittura. Si tratta infatti di un fonte della rivelazione divina. Per il rimanente (deduzione, etc), quanto è direttamente garantito dal magistero della Chiesa, sia ordinario che solenne, non può venire escluso, pena il rifiutare il Magistero stesso, ciò che implica la eresia protestante. – Il dovere di accettare quanto è presentato col consenso dei padri, o dei teologi, etc. (siccome si insegna nel trattato de locis theologicis), che è criterio certo di verità, lega proprio per la connessione col magistero infallibile della Chiesa. Accanto a tutto questo c’è un opera di delucidazione, di approfondimento, di sintesi, etc. fatta dalla teologia. Tale opera, per quanto beneficia del Magistero o del «consenso» dei quali si è discorso or ora, ha la stessa garanzia. Per quanto rappresenta l’indagine personale del teologo o di alcuni teologi, vale tanto quanto gli argomenti portati, nonché la serietà ed il sensus catholicus del metodo seguito. In questo campo si trova adunque l’opinabile e il discutibile. Per questa facoltà di opinare nel margine di ricerca, teologi hanno discusso anche tutta la vita. Tuttavia sarebbe nell’errore chi disprezzasse a priori questo lavoro dei teologi o della teologia. Esso, nella peggiore delle ipotesi, ha sempre rappresentato il necessario tentativo od allenamento per aiutare gli uomini a capire meglio la rivelazione divina ed a trarne più utili e salutari frutti. Taluni punti non si sono dilucidati bene se non attraverso una ridda di ipotesi e di opinioni spesso tra loro discordanti. Restringersi oggi soltanto al kerigma significherebbe probabilmente un arresto alla utilizzazione delle infinite ricchezze contenute nella «Parola di Dio». Il mondo, probabilmente, ha ancora da vivere e da camminare ed avrà necessità di trarre al giusto momento quella ricchezza e consolazione che la infinita paternità di Dio ha predisposto per i bisogni di tutte le diverse epoche nel fugace pellegrinaggio terreno. – C’è tuttavia qualcosa di più profondo e forse di più grave in questo modo inaccettabile di concepire il kerigma e pertanto la teologia, la predicazione e le catechesi kerigmatiche da parte di taluno, si tratti di buona fede o di mala fede (non siamo in grado di giudicarne). In costoro il misconoscimento o disprezzo della teologia lascia trasparire abbastanza la sfiducia nella ragione (agnosticismo kantiano), la opinione del «vuoto» o della inconsistenza delle nostre rappresentazioni intellettuali (nominalismo), la dottrina della doppia verità e pertanto del relativismo colla presunzione di tenere la porta aperta ad ogni evoluzione ed ulteriore creazione (idealismo). Costoro risuscitano il modernismo, solennemente condannato da Pio X. Essi dimenticano che per difendere una sola verità occorre difendere tutta la verità e che la verità è la base di tutto, anche della vita e dell’atto esistenziale. Ma qui non ci è sufficiente un giudizio, e lo abbiamo dato netto, ci occorre approfondire un punto. Coloro i quali ostentano sufficienza e disprezzo per la teologia, come se fosse in buona parte un garbuglio di filosofemi di nostra invenzione, non riflettono ad un punto, che è il seguente:

La divina rivelazione ha un contenuto reale e pertanto vero.

Mettere in dubbio questo non è eresia, è apostasia, perché è rinnegare tutto. Orbene, che significa avere la Rivelazione un contenuto reale vero? Significa che essa, così come è, e cioè nella sua espressione umana, corrisponde veramente ad una realtà obbiettiva divina. Ciò significa che i suoi mezzi espressivi – termini, costruzioni, immagini, sintesi, procedimento discorsivo e raziocinativo- , pur essendo «umani» e di comune corso nel pensiero e linguaggio umano, esprimono con verità (sia pure analogica) realtà terrestri e realtà celesti. – Andiamo avanti. Quelli che ho chiamato «mezzi espressivi» della Rivelazione sono gli stessi usati per qualunque indagine, costruzione od affermazione filosofica, letteraria, scientifica. Se hanno un valore per esprimere realtà rivelate sia terrestri che divine, hanno un valore nel puro e semplice pensiero umano. Anzi, prima lo hanno in questo,poi in quello. Essi, come connotano una realtà divina mentre servono alla Rivelazione, presuppongono la capacità di connotare una realtà terrestre, obbiettiva, concreta. Ossia: i termini del linguaggio e del pensiero, assunti dalla Rivelazione, rimandano ad una obiettiva filosofia umana e stabiliscono un rapporto di valore in quella; la quale, se valore non avesse, neppure servirebbe ad esprimere con valore cose divine. In breve: la assunzione di termini espressivi da parte della Rivelazione stabilisce un rapporto con quelli, col loro valore, col pensiero umano, col valore di questo. – Se così non fosse, ossia i termini assunti dalla Rivelazione non portassero in obiettiva e vera (sia pure analogica) cognizione di cose divine, Dio avrebbe rivelato nulla, non esisterebbe la Rivelazione, la tenebrosa solitudine caratterizzerebbe l’umana esistenza. – Il giorno in cui si negasse questo rimando della Rivelazione ad una filosofia umana, comune ed intramontabile per essere percepita ed intelletta, ad essere logici, si finirebbe col negare la rivelazione divina. Il che, siccome si è detto sopra, sarebbe non solo eresia, ma apostasia. Se i termini che io leggo nella Bibbia non hanno definizione sufficientemente intelleggibile e certa, la Bibbia cessa di dirmi qualunque cosa. E a questo punto che bisogna affrontare molte questioni poste con colpevole leggerezza da uomini insipienti. Ecco chiaro il motivo per cui il solo kerigma mi dice nulla, se non suppongo che i suoi termini hanno un valore obiettivo e durevole. Ecco il motivo per il quale nessuno può disprezzare la teologia, non solo quando fa le sue conclusioni teologiche, le sue applicazioni, etc, appoggiandosi ad un consenso e in definitiva ad un magistero divinamente costruito, ma anche quando diventa speculativa ed (indagando il valore umano dei termini e concetti assunti, oggetto della filosofia) illumina a buon diritto e con giusto criterio un pensiero divino tradotto a noi con rappresentazioni intellettive, le quali sono pure umane. La teologia non può essere ridotta alla filologia. Che mi importa della Incarnazione, se io non posso dare un valore a questo termine? Vi prego di passare tutte le parole che si trovano nella Rivelazione e porvi la stessa domanda. Affermare che la teologia non ha alcun contatto colla filosofia, che non è utile alcun sussidio derivato da questa, che basta il suono delle parole, è affermare una proposizione senza senso e anche contraddittoria per la pretesa di sapere, mentre si prescinde da quel valore obiettivo in base al quale si «sanno» i termini e senza del quale si sogna e non si apprende, si creano ombre inconsistenti, si getta tutto e tutti in quella relativa evoluzione senza appoggio, che è precisamente il modernismo. – Quale filosofia? Per rispondere occorre una osservazione previa. Esiste una somma di termini, di concetti, di principi che tutti gli uomini hanno sempre avuto ed hanno tuttavia, tutti, quando non si pongono in posizione riflessa, ossia artificiosa. Da quelli derivano conclusioni maggiori, legittime e ferme. Questi li ritrovo in tutti gli atti concreti degli uomini che vi si uniformano. Anche il filosofo, che nega il principio di causalità, non mette il dito sul fuoco per non scottarsi ed in tal modo, quando non è in posizione pregiudiziale, perché malamente e artificialmente riflessa, afferma continuamente quello che in qualche cattedratico momento nega. Si disegna così una filosofia perenne, strettamente imparentata con tutti i principi scientifici, veramente passati in patrimonio incontrovertibile della scienza, la quale vi ritorna ogni giorno per non morire. – Accanto a questa filosofia perenne esistono le filosofie, ora presuntuose ora rinunciatarie; ora astratte, ora troppo concrete; ora intellettualistiche, ora emotive, ora fantastiche. Queste hanno sempre qualche grano di saggezza; ma vanno e vengono come le mode, muoiono, risorgono e muoiono ancora. Esse hanno molte ragioni per dimostrare tale loro singolare andamento. Sono di pochissimi uomini, per quanto, tradotte in letteratura e così volgarizzate, hanno influenza anche su tutti gli uomini. Ma passano. Non è affar nostro in questa lettera discorrere delle ragioni dello strano fenomeno di contraddizioni, che talvolta a qualche spirito poco informato e meno avveduto suggeriscono tentazioni sconfortate di acre scetticismo. E sufficiente quello che abbiamo detto. – Ora abbiamo innanzi i due filoni del pensare umano. L’uno resta, l’altro muta. L’uno sgorga dalla natura, dal vergine raziocinare, dalla perenne ed identica constatazione della esperienza; l’altro ha origini opposte ed effimere. Ma un pensare universale ed identico, al quale tutto ritorna, c’è! E a questo evidentemente che si rivolge la teologia quando vuol indagare, usando di un suo diritto e compiendo un suo dovere. E per questo che la teologia, lasciando ai suoi margini le lotte di ulteriori indagini e di ipotesi di lavoro, ha avuto un filone costante, pur non essendo quasi mai stata nuda enunciazione di un kerigma, che per la sua divina sostanza dovrà essere pensato nel tempo e nella eternità e per la sua semplicità chiede l’ausilio interpretativo dell’umano linguaggio intellettuale. – E la filosofia tomistica? Nessuno che senta cattolicamente può accantonare l’enciclica Æterni Patris (4 agosto 1879) di Leone XIII. Quella enciclica è intramontabile. La risposta è facile. La Chiesa ha indicato come sussidio maggiore, tra tutta la produzione filosofica, quella di S. Tomaso d’Aquino, perché, oltre al pregio di sistemazione limpida ed universale del pensiero, aveva la qualità di essere aderente alla filosofia perenne. Ed è in questa aderenza che sta la forza di S. Tomaso. Non fu l’unico; fu l’unico a raggiungere un’altezza (che solo un altro grande può contendergli), unita ad una sistemazione scolastica. Come si vede la questione del kerigma non è questione così semplice, siccome appare a taluni. Essa involve questioni di fondo, che si impongono alla prudenza ed alla umile meditazione di chi ama la verità, perché ama Dio. Il discorso continuerà a proposito di un argomento che segue.

La cultura

Siamo dinanzi ad un argomento a proposito del quale occorrono talune gravi chiarificazioni coraggiose. Infatti la «cultura», o quello che non sempre a ragione si chiama «cultura», è diventata come il bosco di Efraim, del quale dice il secondo libro di Samuele, a proposito di una celebre e disgraziata battaglia tra fratelli, che «furono un numero molto più grande quelli che di tra il popolo uccise il bosco, che non gli accoppati dalla spada in quel giorno» (2 Sam. 18, 7-8). – E infatti nel campo della cultura che, sia dal punto di vista intellettuale, sia dal punto di vista pratico, appaiono cedimenti. Rispetto a questi cedimenti noi abbiamo il dovere di mettere in guardia i nostri confratelli. Si tratta di un discorso che, per ora, cominciamo soltanto. Per essere più sistematici è opportuno distinguere la cultura in senso soggettivo dalla cultura in senso oggettivo. La cultura in senso soggettivo è una qualità acquisita nello spirito umano dallo studio od almeno dall’apprendimento della natura, del pensiero altrui, delle lettere, delle scienze, delle arti, dei fatti. Questo studio od apprendimento è solo una fase necessaria per raggiungere la qualità sopraddetta. Infatti non basta l’apprendimento, ma occorre l’assimilazione degli elementi appresi, l’esercizio circa i medesimi in modo da conquistare – per la intelligenza stessa, per la intuizione, per il gusto, il sentimento e le rispettive capacità espressive — una nuova perfezione, una maggiore ed anche superiore finezza, una più feconda forza creatrice, doti di distinto pregio, più limpida armonia, saggezza. Infatti questo è quanto pensano gli uomini, magari indistintamente, allorché chiamano «colto» un loro simile. Nella – qualità spirituale che noi chiamiamo «cultura» è evidente il connubio tra gli elementi provenienti dall’esterno e la esercitazione e maturazione interiore; non è meno evidente il rifluire di tutto all’esterno, alla vita associata, con quelle manifestazioni irradianti sull’ambiente e sulle cose, dalle quali noi misuriamo l’«uomo di cultura», nonché la esistenza di un livello civile. La cultura in senso oggettivo è formata da tutto il patrimonio di pensiero, di scienza e di arte, di mezzi espressivi, sia fissato nei documenti e monumenti di qualunque genere, sia vivente nelle istituzioni, nei costumi, negli usi, nelle risorse crescenti di impiego della natura, o nel tenore di vita e nei rapporti tra gli uomini, nonché nel livello spirituale della loro esistenza; è formata ancora dal complesso di strumenti dei quali si mantiene e si aumenta il patrimonio stesso. Questo patrimonio assimilato e vivente, questa strumentazione amplissima confluiscono a determinare un livello, per sé sempre più alto, di attività spirituale e di situazione materiale. E importante notare come nella cultura in senso tanto soggettivo che oggettivo entra la libertà umana, anche scapigliata, colle sue mutevolezze, col gioco delle sue ombre illusioni errori, col peso delle sue passioni, colla vicenda delle sue colpe. Il gioco della libertà è reciproco; va cioè dalla cultura soggettiva a quella oggettiva e viceversa. E difficile determinare in questa reciprocità il valore dei rapporti. Tanto basta per stabilire con chiarezza che la cultura non è una astrazione angelica; è solamente un campo in cui tutto può essere pulito e sozzo a seconda del comportamento degli uomini, in cui generalmente, come è proprio di ogni settore umano, bene e male facilissimamente si mescolano. – È dunque grave errore parlare della «cultura» come di una entità a sé stante, esente da colpa originale e da deformazione. E cosa grande come è grande l’uomo ed è corruttibile come è corruttibile l’uomo. Abbiamo cercato di delineare sopra un concetto chiaro e scolastico, perché è inutile istituire un discorso su un argomento del quale o non si dicono o addirittura non esistono i contorni definienti. Tuttavia le cose vanno ben altrimenti nelle accezioni e confusioni correnti. Non che si tratti di definizioni (almeno nella maggior parte dei casi). Infatti la moda aborre freneticamente dalle definizioni ed il margine di incerto, quello lasciato dal tacere delle definizioni, oltre a permettere a ciascuno di dire quanto crede senza alcun obbligo di sola verità, crea un alone assai largo di incerto, di inafferrabile e di volubile, il quale alone fa parte sostanziale della cultura oggi ufficiale. Noi sappiamo benissimo che avremo fiere condanne, non tanto per quello che diciamo, quanto per aver dovuto portare l’argomento fuori dell’incerto comodo e versatilissimo. Comunque le cose stanno così. – Quando si vogliono recensire i diversi concetti di «cultura» conviene guardare ai fatti. Sono essi che presentano l’equivalente di bene o male congegnate definizioni. Guardiamo i fatti . Si tacciano come avversari della cultura coloro che non seguono le mode correnti letterarie, artistiche e filosofiche. Le mode correnti sono fatte da un certo numero di «centri», di «salotti», di «riviste», di « premi letterari ed artistici», e soprattutto di imprese industriali editoriali. La nota più rilevata è che nella maggior parte dei casi, qual motore aggiunto o motore unico, ci si scopre l’«affare economico», le mode correnti fanno avanzare e retrocedere gli astri; talvolta incappano in figure od iniziative che hanno indiscutibile valore; molte volte i valori creano, visto che non ne trovano. Le mode, da che mondo è mondo, sono sempre state associate alla frivolezza, al fanatismo ed alle reazioni. Certo, non sempre nella stessa misura. Ad osservare questo verrebbe di affermare la seguente definizione: « la cultura è quello che nelle anime e negli ambienti depongono un certo numero di mode più o meno fra loro organizzate». Non è una definizione incoraggiante. Si tacciano come avversari cella cultura coloro che non bevono, coi più ampi segni di consenso intimo, alle sorgenti dell’idealismo, del marxismo, dello esistenzialismo, del laicismo. Non abbiamo alcuna idea di discorrere qui del merito di queste vicende intellettuali. Ci preme solo trarre da questo contegno la definizione di cultura, che è evidentemente «sentita», alimento nel subcosciente, da gravi anatematizzatori. Essa è la seguente: «la cultura è lo stato dello spirito umano e della società in cui esso vegeta, allorché l’uno e l’altra si lasciano profondamente imbibere dallo idealismo, dal marxismo, dall’esistenzialismo, etc » . Tale definizione è meno incoraggiante della precedente, perché oltre tutto, affetta da un particolarismo rispetto al tempo e alle cose, con segni di aggravata caducità. – Si tacciano come avversari della cultura coloro che non accettano il dogma della evoluzione di tutte le cose, magari colla sottaciuta idea che conta la evoluzione in se stessa e non contano le cose in evoluzione. Se da un ambiente più sostenuto si scende ad un ambiente meno sostenuto, come se da un teatro ci riducessimo al teatrino delle marionette, si trovano tacciati come avversari della cultura quelli che non credono alla fantascienza. La scienza, quando è vera, è altra cosa ed è pienamente rispettabile. E opportuno ascrivere al seguito della fantascienza tutto il pensare e scrivere, che ritiene, con lo spostamento delle cognizioni fisiche e delle applicazioni tecniche, cambiare l’uomo e i principi dai quali fu retto fin qui. Al fondo di tutto questo si compone così una definizione: «la cultura si raggiunge al momento in cui ci si abbandona ad una corrente che cammina in avanti, verso un mondo privo di qualsiasi elemento in comune con quello nel quale siamo, ahimé!, troppo presto nati». – Si tacciano di avversari della cultura coloro che si rifiutano di abolire in ogni manifestazione del pensiero e dell’arte o della attività umana il diritto supremo della legge eterna, della verità di Dio. Difatti quando si osa dire che la morale e la verità stanno prima e sopra la cultura, i suoi strumenti, i suoi ozi e i suoi trionfi, si è investiti da un urlo che parrebbe tremendo. Ecco dunque la definizione che ne deriva: «la cultura è lo stato di evoluzione intellettuale e tecnica dell’uomo che ha abolito ogni assoluto e pertanto ha abolito Iddio». Questa definizione è la più rispondente al momento attuale di confusione delle lingue. – A taluni, che si dicono cristiani e lo sono in verità assai poco, vorremmo ricordare come essi tacciano di avversari della cultura quanti respingono il razionalismo. Dovremmo dire dunque che essi definiscono la «cultura» così: «adeguazione al razionalismo» ossia a quello che può essere eresia ed apostasia? Alle cose si dà il nome che meritano. Noi potremmo continuare coi fatti e colle definizioni relative. Chiediamo ai nostri confratelli di prendere atto della confusione regnante nell’argomento. Il prendere atto della confusione e della miseria su cui essa si regge è altro punto importante per lo scopo per il quale scriviamo. Si comprende però perché mai dissennatamente si parli di abolire la cultura classica greca e latina, la maggiore che abbia avuto la vita civile; perché si sostenga di dare solo o quasi solo una cultura tecnica, la quale difficilmente diverrà cultura per la assenza dell’aspetto più umano, ma in compenso renderà gli uomini schiavi dei tiranni. Infatti i tiranni sanno come usare le tecniche, tremano davanti ad ogni espressione del pensiero, ossia della humanitas. In tutto questo le più colpite sono la intelligenza, che viene o negata o anestetizzata, e la verità di cui si tace quasi sempre. Intanto il termometro scende. Il passato non dovrebbe esistere più: tradizione, patrimonio classico, autorità, … tutto ciarpame in nome della cultura. Un’orgia dello stesso tipo fu fatta in altro tempo in nome della libertà. Era il tempo in cui fu inventata la ghigliottina e fu usata più che in ogni altro tempo la ghigliottina. Quando si parla di cultura, si osservi bene questo panorama. Noi siamo qui a difendere la cultura. Ma per farlo dobbiamo denunciare le sue contraffazioni. Infatti diviene ora valevole una conclusione generale: mentre per cultura si dovrebbe intendere una somma di elementi positivi e veri, la loro assimilazione per la maggiore resa anzitutto spirituale dell’uomo, molti e forse troppi per cultura intendono piuttosto una elezione di metodi negativi, reazionari ed anarchici. Così la cultura pare a loro l’estremo grido di una libertà contro ogni legge, fosse pure in sostanza contro Dio stesso. Il fatto così inquadrato attenta anime che si credono cattoliche. Abbiamo voluto insistere sul concetto obbiettivo, visto anche in controluce, perché la «cultura» è in se stessa una cosa seria e sommamente utile, nonché per dare il criterio di distinzione da tutte le sue forme aberranti. Riassumiamo ora come sono andati i fatti e quale è stata l’anima che li conduce, in modo da vedere l’aspetto maggiormente permanente e sempre in modi diversi risorgente nella cosiddetta «cultura», che può essere e può non essere veramente tale. – Coll’umanesimo, venuto dopo la stanchezza d’un tramonto del Medio Evo, per reazione, per acquisizione splendida di elementi antichi, per bisogno di novità malamente interpretata, per colpa di coloro che hanno avuto troppi pensieri terreni, si è formata una concezione particolare. Essa non era aliena dal riprendere, dopo mille anni, un certo tono pelagiano. Eccola. L’uomo di lettere, di studio se non sempre di scienza, di mondo, si è creduto capace di organizzare colle sue sole forze tutto il suo destino e la sua felicità terrestre. Ha talvolta continuato a credere nella Rivelazione; ma ha cominciato a credere che quella valesse per la vita eterna e non fosse più affatto necessaria a regolare o condurre le vicende terrene. Era la più o meno esplicita negazione del soprannaturale che eleva la natura, non riconoscendo che i due aspetti si componevano per dare alla vita la sua equilibrata e salutare base. La vecchia gnosi docéta non riconosceva il vero corpo umano di Cristo, perché non era capace di pensare al supremo connubio tra qualcosa di materiale o terreno e quello che, ben più alto, aveva carattere e realtà divina. Il punto che serve a qualificare tutto nella Rivelazione del divin Salvatore è la Incarnazione, il mistero della unione ipostatica, tipo di tutte le altre disposizioni della Provvidenza per il mondo redento. – Comunque l’uomo di lettere, che si riteneva capace di far tutto da sé in questo mondo, operava, quasi non rendendosene conto, una separazione tra la redenzione e la terra, tra il cristiano e l’uomo. Faceva di più: sotto la spinta protestantica, che tentò di abolire la Chiesa, continuazione storica del Cristo, indusse per quella separazione la totale indipendenza, anche la opposizione in funzione di indipendenza. E la indipendenza filtrò dovunque contro gli stessi principi e valori che in seno alla natura, ben usata, avrebbero finito col fare dar ragione a Dio. Così oggi spesso l’uomo di lettere, di scienze e di arte, o di pensiero, non solo si sente indipendente da una rivelazione, ma è diventato indipendente da una intelligenza logica, da una verità obbiettiva, da un sentimento di universale armonia, da una nobiltà morale, che pure avrebbe trovato in qualche modo, anche se non perfetto, nel campo della natura. E dice e fa quello che vuole; fa scempio di quello che crede. Come se non dovesse morire e non portasse dentro di sé la testimonianza della sua immortalità! Non si accorge di ripetere solo una storia vecchia assai e della quale con pochi rimandi abbiamo descritto le ragioni e le fasi. E per questo motivo che esiste il laicismo: la lotta contro la Chiesa è solo un aspetto della lotta di indipendenza contro il soprannaturale della Rivelazione. È storia vecchia, nella nostra epoca moderna ebbe la sua più clamorosa vicenda coll’illuminismo, in quanto l’illuminismo parve segnare vittorie. Poiché una delle pagine più grandi della lotta sotto questo profilo, per la esaltata ricchezza di sommi ingegni e per lo slancio di vivaci ardimenti, si svolse in Francia sotto Luigi XIV, è sufficiente vedere che cosa rappresentino, da una parte il Tartuffe di Molière e dall’altra le prediche di Bossuet, lo splendore di Versailles e la fondazione della trappa compiuta, in reazione, dall’ex damerino l’Abate de Rancè. Episodi forse, ma episodi rivelatori al sommo della vera vicenda della cultura e del suo intimo significato. I termini si ripropongono oggi ed è singolarissimo quanto indicativo che, allorché il gran mondo tenta entrare nella Chiesa (o si trova sui margini vicini ad essa), non riproponga la tesi di Sartre, ma riprenda in parte il linguaggio della Action Française e, più indietro, dello illuminismo. Si tratta infatti della dottrina dei due piani separati, il terrestre e il celeste: «il mondo si occupi in piena indipendenza da ogni legge e criterio soprannaturale del primo, la Chiesa si occupi del secondo; gli uomini siano solamente uomini nel mondo e si mescolino a tutte le vicende e pensieri e passioni, siano invece dei cristiani in chiesa». Per taluni cattolici la cultura è tutta qui: dire e rifriggere, magari, ed accade spesso senza alcuna venustà letteraria, questa grande cosa terribilmente vecchia e vecchia come il docetismo, come il pelagianesimo. Si tratta insomma della lotta fra Cristo e il mondo, tra Dio creatore e l’uomo che tenta l’avventura del figliol prodigo e vuole assolutamente andarsene per conto proprio, finendo col mangiare ghiande. Tutta la storia è narrata già nel Vangelo di S. Luca al cap. XV. In questa lotta, se il cattolico entra ad un certo modo, può essere non se ne accorga (e Dio conceda il beneficio della ignoranza invincibile), tuttavia accetta molte conseguenze, delle quali, ove conoscesse le premesse, avrebbe orrore. – La vera cultura continua, come continua la missione dell’uomo in questo mondo e per essere se stessa, grande e aderente alla scienza ed alle scoperte, non ha affatto bisogno di scender a mettersi in contrasto col suo Signore. Abbiamo scritto perché foste avvertiti e perché possiate avvertire altri.

Cultura e tecnica

Ecco un altro punto sul quale si possono avere dei cedimenti dannosi e, soprattutto, falsi. Esiste una presentazione, effettuata coi mezzi propri degli ambienti di «cultura» che può essere riassunta come segue. – « Si deve considerare il complesso delle nozioni scientifiche (matematiche, fisiche, naturali di qualunque piano) come le vere espressive della nostra età, come le vere efficienti per il suo domani di benessere terreno, come nettamente distinte e nettamente superiori all’altro complesso di nozioni riassunte sotto il termine « umanesimo» e che comprendono pensiero filosofico, letteratura, arte, diritto, storia, etc ». Dunque: due complessi. Valutazione di superiorità assoluta per il complesso scientifico, tecnico, rispetto al complesso umanistico. Previsione di futura larga inutilità per il complesso umanistico e sua necessaria condanna, se non a scomparire, almeno ad assolvere solo una funzione marginale; e comunque: anche nel superstite umanesimo, prevalenza assoluta del dato positivo, erudito, statistico, nonché cella critica (soprattutto bibliografica) rispetto a tutto il rimanente questo è del resto quello che si fa già in larghissima misura). Infine opportunità di abolire quanto è possibile i due fulcri culturali classici che sono la cultura greca e la cultura latina e di sostituire una istituzione sostanzialmente tecnica, pedagogicamente e didatticamente adeguata alle nuove concezioni neopositivistiche. La questione ci riguarda per molti titoli, anche di fondo. Affinché voi, cari confratelli, siate in grado di giudicare, sottoponiamo diverse considerazioni che appaiono opportune.

a) Le nozioni scientifiche (intendendo scientifico secondo la proposizione or ora fatta) si raggiungono sperimentalmente solo attraverso l’accidens quantitatis che è una fondamentale caratteristica della materia e, per noi, la porta di accesso alle altre caratteristiche della materia stessa. Questo dato sperimentale può trovare nell’intelletto sviluppi e sintesi, ma non ne abbandona mai del tutto la unilateralità nella quale sta il fondamento su cui sorge. Si tratta dunque sempre di nozioni che, per quello che riguarda l’uomo, sono «parziali».

b) Le nozioni scientifiche (sempre nel senso sopraddetto) riguardano direttamente solo la materia; indirettamente riguardano fenomeni psicologici, ma in quanto controllabili dal dato sperimentale. Si tratta dunque di nozioni, le quali per altro titolo, collegato col primo, ma da esso diverso, sono ancora «parziali».

c) La «parzialità» è ovviamente rispetto all’uomo che:

– mediante la intelligenza supera il margine, per lui non impreteribile, dell’accidens quantitatis e può adire indefiniti oggetti in tutte le direzioni;

– mediante il sentimento ha aperto un campo al tutto estraneo al limite di quantità, anche se la quantità ne può misurare talune manifestazioni;

– mediante la intuizione è in grado di superare e prevenire moltissimi procedimenti della pura esperienza scientifica (siccome è accaduto per le più grandi scoperte);

– mediante le attività religiosa, morale ed artistica raggiunge realtà e rappresentazioni, non altrimenti raggiungibili;

– mediante la «vita», il cui misterioso principio sta dentro di lui unitario e continuo, ha una sovrana indipendenza di essere dal mondo che lo circonda. Al di là del mondo rappresentato dalle nozioni scientifiche sta un mondo incredibilmente più vasto e più vario. La cosa più curiosa e più misteriosa dell’umana esperienza resta la libertà degli uomini e pertanto la storia forgiata col diretto concorso di questa stessa libertà.

d) La «parzialità», della quale abbiamo discorso, dice chiaro che il complesso di tutte le nozioni scientifiche e tecniche presenti e future non sarà mai sufficiente a costituire per l’uomo una «cultura» che lo adegui convenientemente. La parte non vale mai il tutto.

e) Che se si volesse instare ed ottenere una «valutazione» di questa «parzialità», e stabilirne il rapporto rispetto al «rimanente» (se più, se meno), basterà ricordare qualcosa di quanto già detto. Un complesso di nozioni contratto entro le possibilità offerte da un solo accidente della materia stessa non sarà mai alla pari del complesso offerto da tutti gli accidenti e dalla sostanza stessa delle cose. Questo se si sta nel piano puramente materiale. Si aggiunga il piano spirituale, immenso, divino, eterno e si avrà una idea di come si facciano piccole, anche se ben importanti, le proporzioni culturali dell’elemento in oggetto. A questo punto ci rifacciamo semplicemente a quello che già abbiamo scritto nella precedente nostra Pastorale Ortodossia, errori, pericoli, dove abbiamo analizzato, a proposito di conquiste scientifiche quello che per gli uomini è il «meno» e quello che per loro sarà eternamente il «più». – Forse taluni non si accorgono affatto che nel difendere certe applicazioni od opposizioni, in verità, accettano premesse positivistiche, materialistiche, marxiste, in contrasto insanabile colla loro fede, ma in contrasto pure col più elementare buon senso e colla poesia che ha sempre, vivaddio, alitato sul mondo ben prima ed oltre tutte le formule.

f) Precisato tutto questo riconosciamo come il complesso scientifico tecnico diventa grande strumento per la vita e per le attività degli uomini diverse da quella scientifica. Esso permette di sviluppare l’agio, la ricerca, l’esperienza, la giustizia, le risorse. Per esso è possibile redimere il mondo dalla fatica bestiale e fare una più larga e più equa distribuzione dei beni della terra. Per esso si può rendere economicamente e pertanto umanamente più indipendente il singolo uomo. Per esso si propongono indefiniti oggetti che offriranno maggiore cognizione della Provvidenza e del Creatore. Ma si tratterà sempre di una parte, non della parte maggiore o sola costitutiva della cultura.

– Stiamo dunque attenti: per il bene degli uomini i vari aspetti vanno sommati e non reciprocamente elisi. Quando il mondo fosse tutto tecnico, il pensiero raffermo, nessuno libererebbe più gli uomini dalle tirannie; anestetizzato e meschino l’uomo sarebbe prigioniero. L’accidens quantitatis è sempre una cortina; l’anima sola ha la libertà di spaziare ovunque ed a questo le serve anzitutto la humanitas. Oltre, sta la parola e la grazia di Dio. Anche queste, che sono il «più», vanno computate e non appartengono certo alle nozioni dette scientifiche. Almeno per quelli che sono e si dicono cristiani. – L’attentato, che si sta facendo oggi (anche influendo in istituzioni giuridiche), è in realtà un attentato alla umanità, senza tener conto che il latino non lo vogliono soprattutto perché è uno strumento della Chiesa, con il quale essa si collega attraverso i tempi e attraverso lo spazio, ma perché distruggendo il latino è distrutta gran parte della humanitas. – Il rapporto tra la fede cattolica e la «cultura» è basato su alcuni principi, i quali debbono essere chiari e ben compresi.

a) Lo scopo del Regno di Dio in terra, e pertanto della Chiesa, è quello di continuare la missione redentrice di Gesù Cristo e pertanto di rendere gloria a Dio portando in cielo le anime.

b) Ogni altro scopo è secondario; non solo, ma deve essere ordinato in tutto a quello, che resta supremo.

c) Il Regno di Dio usa anzitutto e soprattutto i mezzi stabiliti da Gesù Cristo, per il raggiungimento dello scopo eterno, che rimane massimo anche per gli uomini singoli od associati. Tali mezzi sono: la fede, la grazia, la legge con tutti i relativi strumenti molto ben determinati nella rivelazione divina. Gli altri mezzi e strumenti sono secondari; debbono essere assunti ed ordinati secondo la ragione di quelli che rimangono principali.

d) La fede ha per oggetto la verità che Dio ha rivelato. Tali verità affermano anzitutto che esiste una verità assoluta, la quale, essendo manifestata attraverso forme intellettuali accessibili ed usate dall’intelletto umano, irradia una luce di sicurezza e di valore sulle verità di diritto naturale. La fede impone così un primato della verità, dalla quale pertanto nessuna attività umana può prescindere.

e) La grazia ha per contrapposto il decadimento del peccato dal quale eleva e redime, nonché la debolezza propria della natura umana anche come conseguenza del peccato stesso. Ossia la grazia afferma la esistenza del peccato e della debolezza, entrambi non come oggetto di umano trastullo, ma come termini dai quali e non contro i quali si deve risorgere.

f) La legge impone doveri, che sono proporzionati al fatto della divina adozione (lo stato più alto nel quale venga a trovarsi ed a crescere l’uomo). Ad essa tutto il rimanente rimane sottoposto. La legge divina poi, qualunque essa sia, naturale o sopranaturale, vincola ogni atto umano e non lascia pertanto alcuna area neutra, nella quale non entri la ragione di moralità.

g) Con la fede (accettazione di verità superne), con la legge (ordinamento degli atti verso un fine eterno e pertanto disposizione dei medesimi secondo superiore intelligenza, superiore armonia e superiore bellezza) il Regno di Dio dà e costituisce di per se stesso una «cultura» per gli uomini, essenziale, insostituibile, superiore.

h) Considerando che il Regno di Dio in terra è tutto definito e valutato dal suo fine proprio ed eterno, si deduce che non ha come fine suo essenziale e diretto quello di promuovere «la parte umana della cultura degli uomini». – Tutto ciò significa: che il Regno di Dio potrebbe anche non occuparsene, quando ciò non fosse richiesto da altre giuste considerazioni; che in ogni modo la parte «umana» della cultura occuperebbe sempre solo un posto secondario e al tutto subordinato. Ciò per le ragioni sopra dette: prima la salvezza delle anime nella gloria di Dio, poi tutto il resto.

i) Il Regno di Dio in terra mette a nudo, sia per la forza diretta della verità e della legge che porta con sé, sia per discriminazione operata dal confronto, tutto quello che c’è o ci può essere di errore, di deformazione, di debolezza, di malo uso della libertà nella parte «umana», nella cultura degli uomini. Questa funzione illuminativa e discriminatoria ha lo stile netto, solenne e vivacissimo che ebbe Cristo stesso quando si levò contro le deformazioni di tutti i generi nel suo tempo in mezzo al suo popolo. – Dunque non è tutto buono nella «cultura» umana, e nulla può sfere accettato per il fatto solo che a titolo vero od appariscente appartiene alla «cultura». Ossia: l’essere o il parere cultura non dispensa affatto dalla grande distinzione tra il bene ed il male e non autorizza ad assumere a titolo di cultura quello che è in se stesso un male. Il primo grande rapporto tra il Regno di Dio e la cultura umana sta in questa illuminazione, discriminazione, classificazione, che rientra nella distinzione tra «Cristo» e il «mondo». Quello che è vero e onesto, seriamente scientifico, vera e pura espressione di arte, non cadrà sotto questa condanna o discriminazione.

l) La cultura propria del Regno di Dio, della quale si è parlato sopra, implica ed istilla una particolare simpatia, un profondo interesse, una amabile sollecitudine per la «parte puramente umana della cultura». Ciò purché non sia contaminazione di errore, attentato alla debolezza, provocazione al disordine ed al peccato. Vi è una singolare naturalezza, perché la Rivelazione divina, entrando negli uomini con un loro atto di fede (ossia di intelletto), volge la elezione di simpatia verso ogni uso ed elevazione della intelligenza umana e del complesso nel quale la intelligenza è signora e regina. – Ossia: premessa una ben netta e chiara distinzione e valutazione, il Regno di Dio in terra ama, non odia, favorisce, non disprezza la integrale cultura degli uomini. Anche perché alla medesima apporta il divino contributo ed il divino criterio della Parola di Dio.

m) L’opera del Regno di Dio trae certamente vantaggio dalla «cultura» umana, quando essa è onesta ed in quanto essa è onestamente assunta. Fino a questo punto non abbiamo affatto invocato la verità storica. Potevamo anche farlo. In realtà della conservazione della cultura antica e dell’avviamento di tutta la cultura moderna il mondo va debitore alla Chiesa. L o stesso ordine degli studi medi, ad onta di tutte le riforme, ricalca ancor oggi la Ratio studiorum che S. Ignazio dettò per le sue fondazioni. Ci furono contrasti, dei quali non è affare nostro discorrere qui, ma alla luce dei principi detti sopra si è in grado di capire l’intima logica di tali contrasti. Per la Chiesa il divino impegno di salvare le anime ha sempre la precedenza e, se si comprende che cosa sia il salvare l’anima, nessuno, in via di massima, le vorrà dare torto. Gli episodi singoli seguono talvolta i difetti piuttosto che le «linee» della Chiesa. Non è dunque a questi episodi che si deve soltanto guardare per esprimere un giudizio complessivo. – Noi abbiamo scritto questa parte nell’intento di servire i confratelli della nostra diocesi, perché avevamo obbiettivi ben definiti. Essi saranno chiari in queste conclusioni. E sarà anche chiaro perché l’argomento trattato sta sotto il generale titolo di Ortodossia: cedimenti, compromessi. – Nel voler portare la Chiesa verso la «cultura moderna» talvolta si cela un pericoloso equivoco. Ciò significa che si possono dire cose vere e cose false; che si possono adottare orientamenti ragionevoli e orientamenti irragionevoli. L’equivoco si evita discernendo accuratamente tra i primi e i secondi. Sta di fatto che taluni cattolici appaiono investiti di questa missione: portare la Chiesa verso la «cultura moderna». Nessuno dubita delle intenzioni. Si tratta di valutare le azioni.

a) Se nell’intendimento di portare la Chiesa verso la «cultura moderna» si celasse, come di fatto in taluni si cela, l’idea che, senza un bagno di «cultura moderna», la Chiesa non può rimanere giovane o compiere la sua missione, si sbaglia. – La Chiesa ha dal suo divin Fondatore tutti i mezzi necessari per assolvere il suo compito. Può giovarsi di tutto, senza fallo; ma altro è dire che qualcosa le giovi, altro è dire che qualcosa le è necessario od è condizione perché essa operi.

b) È fuori dubbio che per «bagno di cultura moderna» si intende da taluni una certa evoluzione, se non una completa evoluzione, una adozione anche parziale del relativismo, un modo interpretativo del dogma e della Parola di Dio che si avvicini al «libero esame», una rielaborazione della morale, tale da far accettare la zaffata immonda di molte espressioni scritte e figurate nella «cultura moderna» stessa. – Il grosso equivoco, il pericoloso cedimento sta proprio qui. Non manca chi stabilisce termini di una evoluzione, la quale va fuori della retta dottrina. Tuttavia nella maggior parte dei casi si parla in modo generico e tale che impedisce un giudizio preciso. Ma il timore lo si prova precisamente dinanzi al parlare generico di evoluzione. Infatti chi parla troppo generico o è perché non sa o è perché nasconde di peggio. Pelagio e Celestio con il loro parlare generico nella più insidiosa eresia della storia cristiana tennero a bada per qualche tempo le condanne, e a disincantare la questione dalle nebbie ci volle un sinodo palestinese. Pertanto il parlare generico di ma evoluzione o, se piace, di una cultura moderna che liberi la Chiesa e la metta sulla strada di una evoluzione generica, purtroppo, autorizza a decidere niente, autorizza a sospettare tutto. Anche il peggio., già debitamente condannato dalla Enciclica Pascendi e nel decreto Lamentabili di san Pio X . Lo stesso deve dirsi se l’avvicinamento alla cultura moderna ha per scopo di farle assorbire relativismo, idealismo, amoralismo. – Quando si accarezzano espressioni letterarie e filosofiche che o stanno su certe sponde o a certe sponde mirano, non si tenta forse di attirare i cattolici e la Chiesa stessa su un terreno che non è più di Gesù Cristo? Per «cultura moderna» si intendono anche certe sue «istanze», le quali riscuotono al momento e per motivi passeggeri un interesse di un determinato tipo. La libertà e la democrazia possono essere di tutti i tempi. Oggi costituiscono per molti un ideale, che ha sfumature interessanti. La libertà viene, in questo cono d’ombra, presentata anche come uno svincolo da ogni legge, da ogni superiorità ed autorità. E la vendetta di chi non può che essere piccolo, contro quello che ritiene sia grande. La democrazia, che è degnissima cosa, nel parlare e nel costume di taluni è una forma di sentirsi superiori ad ogni pur necessario ordine costituito, senza limiti e senza remore. – Ora, a leggere certi scritti e ad esaminare certi contegni, si deve dedurre che «condurre la Chiesa verso la cultura moderna», significhi proprio portarla verso quel concetto di libertà e democrazia. Essi sognano i tempi in cui i vescovi faranno i salariati e il Papa riprenderà a pescare con le reti di S. Pietro. Sarebbe un bel successo. – Non si creda che intendiamo scherzare. Si tratta di anarchia, di indisciplina, di incapacità ad osservare una legge, di invidia, di rancore, di spirito di rivincita. Si tratta di creare miti i quali suppliscano a quello che non c’è. A questo punto la «cultura» non c’entra più; c’entra tuttavia il suo cartellone. Perché il suo cartellone si inalbera ovunque c’è uno stampato, un convegno, un raduno, o qualche Balatrone che, suspendens omnia naso comechessia, fa un po’ di retorica. C’entra poi sempre dove ci sono fogli, concorsi e premi.

d) Nella cosiddetta cultura moderna tengono i «primi posti» la forma, l’arte intesa come forma espressiva od intuitiva, la originalità, la vampa di indipendenza, l’audacia di giudizio spregiudicato, l’avventura di negazioni, «l’angoscia del dubbio». – Forse domani alcuni di questi «primi posti» saranno qualificati fuori della «cultura» e magari nella «patologia»; ma per oggi è così. In questo caso «portare la Chiesa verso la cultura moderna» significa tentare di addormentarla perché, sotto la forma e l’arte, non si prenda più pena per la sostanza, per il fine eterno, per il peccato commesso, per lo svuotamento della intelligenza e della vita. Vale la pena di soffermarsi e riflettere. – La «forma» (sia letteraria, sia artistica) non è mai sola «forma», a meno che non ci si riduca ad una decadenza retorica, che blatera senza dire. Ogni «forma» vera, letteraria od artistica, è quello che è perché trasuda in essa una sostanza interiormente espressa e sentita. Per tale motivo la questione della «forma» nella cultura è questione grave e difficile, da trattarsi con rispetto e con misura. E può anche essere che, per influsso di alta intelligenza e alta emozione, sia notevole e di pregio persino la forma che avvolge una sostanza indegna. In questo caso la «forma» non dispensa mai dal giudizio netto e vero sulla sostanza indegna. – Dinanzi alla «forma» che avvolge ed esprime una sostanza indegna o che mette in opera un attentato alla onestà delle anime (sia letteraria, cinematografica od altro), non si può fingere di non vedere. – Si potrà far capire che, colle riserve e condanne sulla sostanza, si apprezza l’intelligenza e la sensibilità. Ma il giudizio deve essere discriminato e non sciocco. Si potrà addolcire con oneste risorse qualche giudizio «vero» e «discriminante»; in tal modo si potrà fare dell’apostolato verso i lontani. Con essi, quando non v’è l’occasione di doversi esprimere, si potrà anche tacere. Qualche volta. Ma intendere un apostolato verso letterati ed artisti come un perenne atto di «contrarre» la verità, per piacere a loro e persuaderli meglio, non è onesto. Non sunt facienda mala ut veniant bona! Del resto la nostra personale esperienza di ben trent’anni in questo campo ci avverte che i pensatori o letterati o registi, etc., poco in linea colla verità e la legge di Dio, se apprezzano la nostra amabilità sincera verso di loro, apprezzano soprattutto la nostra coerenza. Nessuno di costoro, se è intelligente davvero, stima chi nasconde qualcosa. Misura, cortesia, carità squisita, comprensione sono grandi armi per l’apostolato (soprattutto la pazienza); ma valgono poco se creano una verità effimera, diversa da quella obbiettiva, tirata per la occasione entro il letto di Procuste. Il gioco, ai veramente intelligenti, almeno, rimane sempre scoperto. Per gli altri non è onesto.

e) Nella cosiddetta «cultura moderna» hanno forza di assioma alcuni effati, i quali sono fortemente discutibili o addirittura erronei. Soprattutto hanno la durata delle cose effimere. Eccone un esempio.

La filosofia deve essere originale. Non si ammettono ripetizioni».

Nessuno nega che la originalità sia indice di ingegno. Ma se la originalità diviene canone supremo, esso vince sulla verità ed immette valevole quanto è originale anche se non risponde ad una verità obbiettiva. La filosofia ha del cammino da percorrere; ma nessuno può imporle di rinnegare quello che è seriamente acquisito, soprattutto se verte su principi supremi, su fondamenti universali, su problemi di fondo.

«La problematica e la critica non hanno limiti nei loro diritti».

Ciò è falso per ragioni evidenti. Anzitutto non può essere problematico quello che è evidente o seriamente dimostrato. In secondo luogo la critica ha luogo ove resta ancora possibile un giudizio; sia perché si tratta di affermazione particolare, sia perché si tratta di aspetti diversi, sia perché pencolano dubbi seri, sia perché si sta nel campo dell’opinabile. Insomma: si giudica quando c’è da giudicare, se se ne hanno la competenza e gli strumenti adeguati. Fuori di questo limite si cade per lo meno nell’arbitrario e  probabilmente nel falso e nell’ingiusto.

La demolizione del passato e di ogni tradizione fa parte del rinnovarsi dello spirito umano».

Non si demolisce per demolire, ma si demolisce solo quello che non ha diritto di esistere e non ha ragione per esistere. L’assioma pertanto nel suo carattere assoluto è falso, perché abbisogna di molte distinzioni e deve essere contratto a casi particolari, nonché documentati. In secondo luogo la nostra vita e i suoi strumenti, senza soluzione di continuità, appartengono al passato, il quale continua ad essere il centro sul quale ruotano i fatti e sul quale si stabiliscono via via le acquisizioni nuove. In terzo luogo gli elementi sostanziali perché l’uomo viva da uomo rimangono invariati: la famiglia, la socialità, l’amore, la morale, l’istinto, il dato biologico; il cosmo nella sua materia e nelle sue leggi, i fondamentali bisogni della luce, del buono, del bello, dell’ordine, dell’avvenire, anche oltre la morte, la quale continua ad essere signora unica di coloro che non si piegano a Dio. – Si aggiunga che la volontà della demolizione è frutto di una ira indiscriminata ed indistinta, segno a sua volta di una deformazione e di una inutile pena. Il rinnovarsi dello spirito umano, dato che le cose sono quelle che sono, avviene acquistando e componendo nuove esperienze; perdendo quello che ha incrostato ed appesantito l’anima; ritornando continuamente ad un equilibrio, senza alcun compromesso. La rinnovazione è insomma un atto positivo e non negativo. L’uomo non vive di rabbia contro se stesso, contro il cielo e contro la terra. Per molte persone la «cultura» è leggere libri che propalano simili panzane. Per altre la «cultura» è fingere di prendere sul serio, imbastendo critiche elogiative, i medesimi libri. Al qual proposito badiamo di non dimenticare che per taluni ambienti la «cultura» è data dal leggere e dissertare ogni anno su quella dozzina di libri che invadono un certo numero di salotti e li invadono perché sostenuti da una organizzata propaganda, orientata solamente sul guadagno.

«La cultura è essenzialmente soggettiva e deve riflettere stati dello spirito umano».

La affermazione così come è detta è falsa. La ragione è che se la cultura dovesse solo rappresentare stati dello spirito umano (col che si intende sempre e positivamente escludere il raziocinio), dovrebbe mettere da parte la storia, la scienza positiva e tutti gli strumenti coi quali si aiutano gli uomini a passare dallo stato di ignoranza allo stato di cultura. Tutti gli insegnanti dovrebbero limitarsi ad aiutare i loro alunni a interpretare i propri stati d’animo. In tal caso la diversità tra il mondo della cultura ed una grigia clinica psicanalitica sarebbe ben poca. – Esagerazione questa? Solo lo sviluppo logico di una affermazione che ha un significato ben preciso. Tanto basta perché si veda che la proposizione non regge, anche se per avventura avesse in sé qualche elemento accettabile. E l’ha di fatto, perché la cultura ha molte sorgenti, alcune obbiettive ed altre soggettive. Voler negare la incidenza soggettiva nella letteratura e nell’arte sarebbe accollarsi un torto evidente. Tuttavia c’è diversità fra dato soggettivo e stato d’animo. Essi coincidono solo in parte. Il dato soggettivo abbraccia quanto è all’interno; lo stato d’animo si restringe ad un settore di emotività. Tutta l’arte è pervasa anche dal mondo soggettivo; chi potrebbe negarlo? Ma se lo stesso mondo soggettivo disdegna certe sue manifestazioni e tende solo ad esprimere l’istinto (comechessia), certamente impoverisce. Potrà continuare ad addurre qualcosa al mondo della cultura; ma resta ben lontano dal costruirlo da solo e soprattutto resta incapace di costruirlo bene. Gli antichi hanno raccontato qualche volta delle favole, anche con grande saggezza; ma le favole si raccontano ai bimbi nella fase di crescita della loro innocente fantasia. Si narrano anche ai grandi; ma non come favole, bensì in modi abbastanza decorosamente togati. La proposizione, che ha momenti di meritata prosperità, vive esclusivamente di linfa idealistica e sottrae agli uomini forse la parte migliore della loro complessiva esperienza terrestre. Essa costituisce un limite culturalmente dannoso. – L’uomo non vive un sogno che naturalmente si dissolva nel nulla. Quel sogno riassume tutta la popolazione culturalistica anticattolica moderna. Nessuno di noi può recitare il «Credo» e poi, anche solo indirettamente, barare colla parte decisamente avversa al «Credo». Per lo stesso motivo nessuno può ritenere terreno neutro quello in cui stanno, aperte o palliate, se non tutte le affermazioni, almeno tutte le premesse di una negazione totale della fede. Noi sappiamo al contrario che la vita non è un sogno, ma una realtà di prove preziosa e pericolosa. Come non si dissolve la vita nel sogno, neppure si dissolve la verità nella illusione. Verità, bene e bellezza continuano a essere le grandi linee orientative di una cultura, qualunque essa sia. – L’indirizzo culturalistico moderno mantiene ben pochi rapporti con la verità di cui non ha neppure il senso, col bene di cui ha sovente il disprezzo, col bello di cui non ha, si direbbe, neppure più la capacita, pur tradendone ad ogni passo la incommensurabile sete. Formule, che sembrano culturali, contrabbandano invece uno stato di alterazione e di malattia. Di fatto il clima di catastrofe cresce nel mondo e prima responsabile ne è la cultura. – A noi interessa gettare il grido di allarme: perché il clero e i veri cattolici si ricordino che la missione della Chiesa sta prima e sopra la cultura, perché non si apra la porta al complesso di inferiorità il quale induce a scimmiottare quanto fa il « mondo »; perché non si apra, magari umidamente, la porta a fantasie e dissolvimenti, contrabbandati quale cultura e che invece non sono altro se non corruzioni dello stesso umano valore. – Noi vogliamo la cultura, ma ci riserviamo integro il diritto di giudicare se lo sia, oppure se non sia tutt’altro. Noi non abbiamo scritto contro la vera cultura, ma solo contro le sue deformazioni, che tentano di dividere e di macerare il campo cattolico. In tali settori l’intento diabolico è riuscito e questo constatiamo con infinita amarezza. – La Chiesa, pur non essendo mandata a fare per sé una azione di umana cultura, come si è detto, ha il diritto di intervenire e prendere iniziative tanto quanto ha il diritto di attendere alla educazione e quanto ha il diritto di promuovere in ogni settore il bene delle anime, l’indirizzo cristiano della società. Quello che deve rimanere è la distinzione tra la vera cultura e le deformazioni della medesima o quelle subdole sostituzioni, le quali coincidono di fatto cogli strumenti della falsità e della colpa. Strane fissazioni, artificiose limitazioni, illusioni proiettate per lasciare in ombra realtà e responsabilità eterne, ingenui fantasmi e petulanti chimere sembrano solcare la cosiddetta cultura moderna. La anarchia dal raziocinio e dai principi di esso pare esserne gran vanto. Essa costruisce una sorta di satellite artificiale sul quale, a piacimento, nulla trattiene più la esplosione dell’istinto e della irresponsabilità. Chi vuole la cultura deve avere la saggezza di cercare al di là del satellite artificiale o, meglio, deve cercare sulla terra vergine i lineamenti coi quali l’ha fatta Iddio. E ormai chiaro: non parliamo di quello che merita e meriterà sempre il nome di cultura. Parliamo della «cosiddetta cultura», fatta non della ricerca, delle biblioteche, della saggezza di tutti i tempi, della pensata responsabile esperienza d’oggi sommata con quella di ieri, ma fatta dai salotti, dalle riviste di moda, dalle ombre peccaminose delle quinte, dai premi, soprattutto da mali istinti politici e dagli ingordi affari. – Questo richiamato e premesso, invitiamo i nostri confratelli ad osservare il rapporto che c’è tra il «mondo» e la «cosiddetta cultura». Si tratta del «mondo» del quale il Salvatore ha duramente sentenziato, ambiente di peccato, di rivolta, di negazione e di vendetta. La «cosiddetta cultura» è espressione di quel mondo. Oggi ne è lo strumento più diretto e penetrante. – Ascoltiamo ora la Parola di Dio. Scrive san Paolo nella I ai Corinti (I, 18 sgg., II, 1 sgg.): «La Parola della Croce infatti è stoltezza per coloro che se ne vanno in perdizione, ma per noi, che siamo sulla via della salvezza, è forza di Dio, poiché fu scritto: «Manderò a male la saggezza dei savi e renderò vana la intelligenza degli intelligenti». Dov’è il sapiente? Dove il letterato? Dove il filosofo di questo mondo? Non ha forse Dio resa stolta la sapienza di questo mondo? Infatti non avendo il mondo con tutta la sua sapienza conosciuto Dio nelle opere della sapienza divina, piacque a Dio salvare i credenti colla stoltezza della predicazione. Invero i Giudei domandano miracoli e i Greci ricercano la sapienza; noi invece predichiamo Cristo crocifisso, che è uno scandalo per i Giudei, una stoltezza per i gentili, ma per quelli che da Dio sono chiamati, siano essi Giudei o Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio. Sì, la stoltezza di Dio è più forte di tutta la potenza umana. Considerate fratelli la nostra vocazione: tra voi non ci sono né molti uomini sapienti secondo la carne, né molti potenti, né molti nobili. Ma invece Dio ha scelto gli stolti agli occhi del mondo per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, e gli ignobili e spregiati dal mondo e ciò che nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessuno possa darsi vanto dinanzi a Dio. Orbene per mezzo suo voi siete con Cristo Gesù il quale per opera di Dio divenne nostra sapienza e giustizia e santificazione e redenzione […] Io pure quando venni da voi, fratelli, non venni ad annunziarvi il messaggio di Dio con sublimità di eloquio o di sapienza, poiché mi proposi di non sapere altro in mezzo a voi che Gesù Cristo e Gesù crocifisso […] Affinché la vostra sapienza non sia basata sopra l’umana sapienza, ma sulla potenza di Dio. Parliamo, sì, noi pure di sapienza, tra i perfetti, ma non già della sapienza di questo mondo, né dei principi di questo mondo ridotti all’impotenza, ma parliamo della sapienza di Dio, avvolta in un arcano, sapienza nascosta, che Dio prima dei secoli preordinò per gloria nostra». – Quanto abbiamo scritto in questo capitolo, cari confratelli, abbiamo scritto per prepararvi a leggere questo grande brano della sacra Scrittura. In esso è chiaro che dobbiamo sacrificare tutto per salvare la verità di Dio (ove occorra); è chiaro che questa non è sostituibile da alcuna «cultura» umana; è chiaro che se la cultura si proclama indipendente da Dio «è ridotta all’impotenza».

[Continua …]

 

UN’ENCICLICA AL GIORNO, TOGLIE I MODERNISTI APOSTATI DI TORNO: CARITATE CHRISTI COMPULSI [Pio XI]

La “Critate Christi compulsi”, se ci fosse il Santo Padre liberamente operante, sembra una enciclica scritta quest’oggi. La prima parte è praticamente copiabile da tutti i cosiddetti “complottisti” del nostro tempo [… anche da quelli falsi e prezzolati dal sistema], in quanto ne anticipa le rivelazioni più o meno attendibili, circa gli aspetti economici, finanziari, sociali del nostro mondo-fiction, sul monopolio mondiale dei pochi soggetti che gestiscono la vita dell’intero pianeta [quasi tutti settari e appartenenti alle conventicole della “sinagoga di satana”], con mente lucida e veritiera. Quanto però manca ai nostri Don Chisciotte complottisti, veri o fasulli che siano, è la ricerca di una soluzione valida agli aspetti che adombrano in vista di una ineluttabile drammatica fine dell’umanità. E qui il Santo Padre propone l’unica via di soluzione a tutti i problemi dell’epoca, ed ancor più oggi che sono moltiplicati per mille, con lo spettro ventilato di crisi economiche, guerre planetarie e sciagure nucleari. La soluzione è, come tutte le cose di Dio, semplice ed alla portata di ogni uomo di buona volontà che è chiamato a fare la sua parte senza defilarsi. È la stessa ricetta che la Vergine ha già da tempo presentato ai fedeli, ultimamente a Fatima: 1°- ritorno a Dio e alla sua “vera” unica Chiesa, in particolare con la devozione ai Sacratissimi Cuori di Gesù e della Vergine Maria; 2°- la preghiera, e la penitenza. Ed è proprio su quest’ultima che il Pontefice pone un accento più marcato. Ancora oggi si può accennare con cautela alla preghiera come mezzo di pratica religiosa, ma a parlare di “penitenza”, tutti fanno orecchie da mercante. Ognuno vuol godere, darsi alla bella vita, al benessere, ai piaceri dei sensi … nessuno vuol sentir parlare di “penitenza”! Eppure è proprio questo il messaggio che Gesù ci ha proposto fin dall’inizio della sua missione terrena per giungere alla salvezza eterna ed alla pace dell’anima in questa valle di lacrime della quale siamo ospiti passeggeri.  Non c’è salvezza senza penitenza, non c’è resurrezione senza croce! Bando quindi agli sterili complottismi, ascoltiamo ed obbediamo al Santo Padre Pio XI che, come un gran medico, dopo una buona diagnosi ed una prognosi infausta senza ricorrere alla giusta terapia, ci offre una ricetta sicura e sperimentata da millenni per uscir fuori indenni dalla lebbra del mondo, malattia infinitamente più grave di quella del corpo, perché falcia un numero immenso ed incalcolabile di anime per portarle all’eterna dannazione: “Caritate Christi compulsi, Catholicæ Ecclesiæ filios atque adeo cordatos nomine universos … “

LETTERA ENCICLICA

“CARITATE CHRISTI COMPULSI”
DEL SOMMO PONTEFICE
PIO XI
AI VENERABILI FRATELLI PATRIARCHI,
PRIMATI, ARCIVESCOVI, VESCOVI
e agli altri Ordinari locali che hanno pace e comunione con la Sede Apostolica
SUL CUORE DI GESÙ

 

Venerabili Fratelli, salute e Apostolica Benedizione.

La carità di Cristo Ci spinse ad invitare, con l’Enciclica Nova impendet del 2 ottobre dell’anno scorso, tutti i figli della Chiesa Cattolica, anzi tutti gli uomini di cuore, a stringersi in una santa crociata di amore e di soccorso, onde alleviare un poco le terribili conseguenze della crisi economica in cui si dibatte il genere umano. E veramente con mirabile e concorde slancio risposero al Nostro appello la generosità e l’operosità di tutti. Ma il disagio è andato crescendo, il numero dei disoccupati in quasi tutte le regioni è salito, e di ciò profittano i partiti sovversivi per la loro propaganda; conseguentemente l’ordine pubblico è sempre più minacciato, e il pericolo del terrore e dell’anarchia incombe sempre più gravemente sulla società. In tale stato di cose la stessa carità di Cristo Ci stimola a rivolgerCi di nuovo a voi, Venerabili Fratelli, ai vostri fedeli, a tutto il mondo per esortare tutti ad unirsi e ad opporsi con tutte le forze ai mali che opprimono l’intera umanità e a quelli ancora peggiori che la minacciano.

I

Se riandiamo con la mente alla lunga e dolorosa serie di mali che, triste retaggio del peccato, hanno segnato all’uomo decaduto le tappe del pellegrinaggio terreno, dal diluvio in poi, difficilmente c’incontriamo in un disagio spirituale e materiale così profondo, così universale, come quello che ora attraversiamo: anche i più grandi flagelli, che pure lasciarono tracce indelebili nella vita e nella memoria dei popoli, si abbattevano ora sopra una nazione, ora sopra l’altra. Ora invece l’umanità intera è stretta dalla crisi finanziaria ed economica così tenacemente, che quanto più si agita, tanto più insolubili ne sembrano i lacci; non vi è popolo, non vi è Stato, non società o famiglia che, in un modo o in un altro, direttamente o indirettamente, più o meno, non ne senta il contraccolpo. Quegli stessi, assai pochi di numero, che sembrano avere nelle loro mani, insieme con le ricchezze più ingenti, le sorti del mondo; quegli stessi pochissimi uomini che, con le loro speculazioni, sono stati e sono in gran parte la causa di tanto male, ne sono essi stessi ben sovente le prime e più clamorose vittime, trascinando con sé nell’abisso le fortune di innumerevoli altri; verificandosi in modo terribile e per tutto il mondo quanto lo Spirito Santo aveva già proclamato per i singoli peccatori: « Per quelle cose per le quali uno pecca, per le medesime è tormentato » [1]. – Lacrimevole condizione di cose, Venerabili Fratelli, che fa gemere il Nostro cuore paterno e Ci fa sentire sempre più intimamente il bisogno di imitare, secondo la Nostra pochezza, il sublime sentimento del Cuore SS. di Gesù: « Ho compassione di questa folla » [2]. Ma ancor più lacrimevole è la radice da cui nasce questa condizione di cose: poiché, se è sempre vero quello che afferma lo Spirito Santo per bocca di San Paolo: « Radice di tutti i mali è la cupidigia » [3], molto più ciò è vero nel caso presente.  – E non è forse quella cupidigia dei beni terreni, che il Poeta pagano chiamava già con giusto sdegno « esecranda fame dell’oro »; non è forse quel sordido egoismo, che troppo spesso presiede alle mutue relazioni individuali e sociali; non è insomma la cupidigia, qualunque ne sia la specie e la forma, quella che ha trascinato il mondo all’estremo che tutti vediamo e tutti deploriamo? Dalla cupidigia, infatti, proviene la mutua diffidenza, che inaridisce ogni commercio umano; dalla cupidigia, l’esosa invidia che fa considerare come proprio danno ogni vantaggio altrui; dalla cupidigia, il gretto individualismo che tutto ordina e subordina al proprio vantaggio, senza badare agli altri, anzi conculcando crudelmente ogni diritto altrui. Di qui il disordine e lo squilibrio ingiusto, per cui si vedono le ricchezze delle nazioni accumulate nelle mani di pochissimi privati, che regolano a loro capriccio il mercato mondiale, con danno immenso delle masse, come abbiamo esposto l’anno scorso nella Nostra Lettera Enciclica Quadragesimo anno.

Se questo stesso egoismo (abusando del legittimo amor di patria e spingendo all’esagerazione quel sentimento di giusto nazionalismo, che il retto ordine della carità cristiana non solo non disapprova, ma con proprie regole santifica e vivifica) si insinua nelle relazioni tra popolo e popolo, non vi è eccesso che non sembri giustificato; e quello che tra individui sarebbe da tutti giudicato riprovevole, viene considerato ormai come lecito e degno d’encomio se si compie in nome di tale esagerato nazionalismo. Alla grande legge dell’amore e della fraternità umana, che abbraccia tutte le genti e tutti i popoli in una sola famiglia con un solo Padre che sta nei cieli, subentra l’odio che spinge tutti alla rovina. Nella vita pubblica si calpestano i sacri princìpi che erano la guida di ogni convivenza sociale; vengono manomessi i solidi fondamenti del diritto e della fedeltà su cui dovrebbe basarsi lo Stato; sono violate e chiuse le sorgenti di quelle antiche tradizioni che nella fede in Dio e nella fedeltà alla sua legge vedevano le basi più sicure del vero progresso dei popoli.  – Approfittando di tanto disagio economico e di tanto disordine morale i nemici di ogni ordine sociale, si chiamino essi « comunisti » o con qualunque altro nome — ed è questo il male più tremendo dei nostri tempi — audacemente si adoperano a rompere ogni freno, a spezzare ogni vincolo di legge divina o umana, ad ingaggiare apertamente o in segreto la lotta più accanita contro la religione, contro Dio stesso, svolgendo il diabolico programma di schiantare dal cuore di tutti, perfino dei bambini, ogni sentimento religioso, poiché sanno molto bene che, tolta dal cuore dell’umanità la fede in Dio, essi potranno fare tutto quello che vorranno. E così vediamo oggi quello che mai si vide nella storia, spiegate cioè al vento senza ritegno le sataniche bandiere della guerra contro Dio e contro la religione in mezzo a tutti i popoli e in tutte le parti della terra.  – Non mancarono mai gli empi, non mancarono mai neppure i negatori di Dio; ma erano relativamente pochi, singoli e solitari, e non osavano o non credevano opportuno svelare troppo apertamente il loro empio pensiero, come pare voglia insinuare lo stesso ispirato Cantore dei Salmi, quando esclama: « Disse lo stolto in cuor suo: Dio non c’è » [4]. L’empio, l’ateo, uno fra la moltitudine, nega Dio, suo Creatore, ma ciò nel segreto del suo cuore. Oggi invece l’ateismo ha già pervaso larghe masse di popolo; con le sue organizzazioni si insinua anche nelle scuole popolari, si manifesta nei teatri, e per diffondersi si vale di proprie pellicole cinematografiche, del grammofono, della radio; con tipografie proprie stampa opuscoli in tutte le lingue; promuove speciali esposizioni e pubblici cortei. Ha costituito propri partiti politici, proprie formazioni economiche e militari. Questo ateismo organizzato e militante lavora instancabilmente per mezzo dei suoi agitatori con conferenze e illustrazioni, con tutti i mezzi di propaganda occulta e manifesta in tutte le classi, in tutte le strade, in ogni sala, dando a questa sua nefasta operosità l’appoggio morale delle proprie Università e stringendo gl’incauti tra i vincoli potenti della sua forza organizzatrice. Al vedere tanta operosità posta al servizio di una causa così iniqua, Ci viene davvero spontaneo alla mente e al labbro il mesto lamento di Cristo: « I figli di questo mondo sono nel loro genere più scaltri dei figli della luce » [5].  – I capi e gli autori di tutta questa campagna di ateismo, traendo partito dalla crisi economica attuale, con dialettica infernale cercano di far credere alle masse affamate che Dio e la Religione sono la causa di questa universale miseria. La santa Croce del Signore, simbolo di umiltà e povertà, viene posta insieme con i simboli del moderno imperialismo, come se la Religione fosse alleata con quelle forze tenebrose che producono tanti mali in mezzo agli uomini. Così tentano, e non senza effetto, di congiungere la guerra contro Dio con la lotta per il pane quotidiano, con il desiderio di possedere un terreno proprio, di avere salari convenienti, abitazioni decorose, una condizione di vita insomma che convenga all’uomo. I più legittimi e necessari desideri nonché gl’istinti più brutali, tutto serve al loro programma antireligioso, come se l’ordine divino stesse in contraddizione col bene dell’umanità e non né fosse al contrario l’unica sicura tutela; come se le forze umane con i mezzi della moderna tecnica potessero combattere le forze divine per introdurre un nuovo e migliore ordinamento di cose. Orbene, tanti milioni di uomini, credendo di lottare per l’esistenza, si aggrappano purtroppo a tali teorie con un totale capovolgimento della verità, e schiamazzano contro Dio e la Religione. Né questi assalti sono solamente diretti contro la Religione cattolica, ma contro quanti riconoscono ancora Dio come Creatore del cielo e della terra e come assoluto Signore di tutte le cose.  – E le società segrete, che sono sempre pronte ad appoggiare la lotta contro Dio e contro la Chiesa da qualunque parte venga, non mancano di rinfocolare sempre più questo odio insano che non può dare né la pace, né la felicità ad alcuna classe sociale, ma condurrà certamente tutte le nazioni alla rovina.  – Così questa nuova forma di ateismo, mentre scatena i più violenti istinti dell’uomo, con cinica impudenza proclama che non ci sarà né pace né benessere sulla terra, finché non sia sradicato l’ultimo avanzo di religione e non sia soppresso l’ultimo suo rappresentante. Come se con ciò potesse venir soffocato il mirabile concento, nel quale il creato « canta la gloria di Dio » [6].

II

Sappiamo molto bene, Venerabili Fratelli, che vani sono tutti questi sforzi, e che nell’ora da Lui stabilita « si leverà Iddio e si disperderanno i suoi nemici» [7]; sappiamo che « non prevarranno le porte dell’inferno » [8]; sappiamo che il nostro Divin Redentore, come fu di lui predetto, « con la verga della sua bocca percuoterà la terra e col soffio delle sue labbra darà morte all’empio » [9] e terribile soprattutto sarà per quegli infelici l’ora in cui cadranno « nelle mani del Dio vivo» [10]. E questa fiducia inconcussa nel finale trionfo di Dio e della Chiesa Ci viene, per l’infinita bontà del Signore, ogni giorno confermata dalla vista consolante dello slancio generoso di innumerevoli anime verso Dio in tutte le parti del mondo e in tutte le classi sociali. È davvero un soffio potente dello Spirito Santo quello che ora passa su tutta la terra, attirando specialmente le anime giovanili ai più alti ideali cristiani, elevandole al di sopra di ogni rispetto umano, rendendole pronte ad ogni anche più eroico sacrificio; un soffio divino, che scuote tutte le anime, anche loro malgrado, e fa sentire un interno travaglio, una vera sete di Dio, anche a quelle che non osano confessarlo. Anche il Nostro invito ai laici di partecipare all’apostolato gerarchico nelle file dell’Azione Cattolica è stato dappertutto docilmente e generosamente accolto; va crescendo continuamente nelle città e nelle campagne il numero di coloro che con tutte le forze si adoperano alla propaganda dei princìpi cristiani e alla loro attuazione pratica anche nella vita pubblica, mentre essi stessi si studiano di confermare le loro parole con gli esempi della loro vita intemerata.  – Ma nondimeno davanti a tanta empietà, a tanta rovina di tutte le più sante tradizioni, a tanta strage di anime immortali, a tanta offesa della Divina Maestà, non possiamo, Venerabili Fratelli, non esprimere tutto l’acerbo dolore che ne proviamo; non possiamo non alzare la Nostra voce, e con tutta l’energia dell’animo apostolico prendere le difese dei conculcati diritti di Dio e dei più sacri sentimenti del cuore umano che di Dio ha assoluto bisogno. Tanto più che queste squadre pervase da spirito diabolico non si contentano di schiamazzare, ma uniscono tutte le loro forze per eseguire quanto prima i loro nefasti disegni. Guai all’umanità se Dio, così vilipeso dalle sue creature, lasciasse, nella sua giustizia, libero corso a questa fiumana devastatrice e si servisse di essa come di flagello per castigare il mondo! – È dunque necessario, Venerabili Fratelli, che instancabilmente ci opponiamo « quale muro per la casa d’Israele »[11], unendo anche noi tutte le forze nostre in un’unica e solida schiera compatta contro le malvage falangi, nemiche di Dio non meno che del genere umano. Infatti in questa lotta si discute veramente il problema fondamentale dell’universo e si tratta la più importante decisione proposta alla libertà umana: per Dio o contro Dio. È questa di nuovo la scelta che deve decidere le sorti di tutta l’umanità: nella politica, nella finanza, nella moralità, nelle scienze, nelle arti, nello Stato, nella società civile e domestica, in Oriente e in Occidente, dappertutto si affaccia questo problema come decisivo per le conseguenze che ne derivano. Così gli stessi rappresentanti di una concezione del tutto materialistica del mondo vedono sempre ricomparire davanti a sé la questione dell’esistenza di Dio che credevano già soppressa per sempre, e sono sempre costretti a riprenderne la discussione. Noi quindi scongiuriamo nel Signore, tanto i singoli che le nazioni, a voler deporre, davanti a tali problemi e in tempo di così accanite lotte vitali per l’umanità, quel gretto individualismo e basso egoismo che accecano anche le menti più perspicaci e fanno inaridire anche ogni più nobile iniziativa, per poco che questa esca dai limiti del ristrettissimo cerchio di piccoli e particolari interessi: si uniscano tutti anche con gravi sacrifici per salvare se stessi e l’intera umanità. In tale unione di animi e di forze devono naturalmente essere i primi coloro che si gloriano del nome cristiano, memori della gloriosa tradizione dei tempi apostolici, quando « la moltitudine dei credenti formava un sol cuore e un’anima sola » [12]; ma vi concorrano lealmente e cordialmente anche tutti gli altri che ancora ammettono un Dio e lo adorano, per allontanare dall’umanità il grande pericolo che minaccia tutti. Infatti il credere in Dio è il fondamento incrollabile di ogni ordinamento sociale e di ogni responsabilità sulla terra; perciò tutti coloro che non vogliono l’anarchia e il terrore devono energicamente adoperarsi perché i nemici della religione non raggiungano lo scopo da loro così apertamente proclamato.  – Sappiamo, Venerabili Fratelli, che in questa lotta per la difesa della religione si devono usare anche tutti i legittimi mezzi umani che sono a nostra disposizione. Perciò Noi, seguendo le orme luminose del Nostro Predecessore Leone XIII di s. m., con la Nostra Enciclica Quadragesimo anno abbiamo con tanta energia sostenuto una più equa ripartizione dei beni della terra e abbiamo indicato i mezzi più efficaci che dovrebbero ridonare la salute e la forza all’ammalato corpo sociale e ridare la tranquillità e la pace ai suoi membri doloranti. Infatti l’irresistibile aspirazione a raggiungere una conveniente felicità anche sulla terra è posta nel cuore dell’uomo dal Creatore di tutte le cose, e il Cristianesimo ha sempre riconosciuto e promosso con ogni impegno i giusti sforzi della vera cultura e del sano progresso per il perfezionamento e lo sviluppo dell’umanità. – Ma di fronte a questo odio satanico contro la religione, che ricorda il « mistero d’iniquità » di cui parla San Paolo [13], i soli mezzi umani e le provvidenze degli uomini non bastano; e Noi crederemmo, Venerabili Fratelli, di venir meno al Nostro apostolico ministero se non volessimo additare all’umanità quei meravigliosi misteri di luce, che soli nascondono in sé la forza di soggiogare le scatenate potenze delle tenebre. Quando il Signore, scendendo dagli splendori del Tabor, risanò il giovinetto malmenato dal demonio, che i discepoli non avevano potuto guarire, all’umile domanda di essi: « Per qual motivo non lo abbiamo potuto scacciare noi? », rispose con le memorande parole: «Questo genere non si scaccia se non con l’orazione e il digiuno »[14]. Ci pare, Venerabili Fratelli, che queste divine parole si debbano appunto applicare ai mali dei nostri tempi, che solo « per mezzo della preghiera e della penitenza » possono essere scongiurati.  – Memori dunque della nostra condizione di esseri essenzialmente limitati e assolutamente dipendenti dall’Essere supremo, ricorriamo innanzi tutto alla preghiera. Sappiamo per fede quanta sia la potenza dell’umile, confidente, perseverante preghiera; a nessuna altra pia opera furono mai annesse dall’Onnipotente Signore così ampie, così universali, così solenni promesse come alla preghiera: « Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto, perché chiunque chiede, riceve; chi cerca, trova; e a chi bussa sarà aperto » [15]. In verità, in verità vi dico: quanto domanderete al Padre in nome mio, egli ve lo concederà » [16].  – E quale oggetto più degno della nostra preghiera e più corrispondente alla persona adorabile di Colui che è l’unico «Mediatore tra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù »[17], che l’implorare la conservazione in terra della fede nel solo Dio, vivo e vero? Una tale preghiera porta già in sé una parte del suo esaudimento: infatti, dove un uomo prega, là egli si unisce con Dio, e per così dire mantiene già sulla terra l’idea di Dio. L’uomo che prega, con la sua stessa umile posizione professa davanti al mondo la sua fede nel Creatore e Signore di tutte le cose; unendosi poi con gli altri in preghiera comune, con ciò stesso riconosce che non solamente l’individuo, ma anche l’umana società ha un supremo Signore assoluto sopra di sé.  – Quale spettacolo non è mai per il cielo e per la terra la Chiesa che prega! Da secoli, ininterrottamente, da una mezzanotte all’altra si ripete sulla terra la divina salmodia dei canti ispirati; non c’è ora del giorno che non sia santificata dalla sua liturgia speciale; non c’è alcun periodo grande o piccolo della vita che non abbia un posto nel ringraziamento, nella lode, nella orazione, nella riparazione della preghiera comune del corpo mistico di Cristo che è la Chiesa. Così la preghiera stessa assicura la presenza di Dio tra gli uomini, come lo promise il Divin Redentore: «Dove sono due o tre persone riunite nel mio nome, io sono in mezzo a loro »[18]. – La preghiera toglierà di mezzo, inoltre, la causa stessa delle odierne difficoltà da Noi sopra accennate, cioè l’insaziabile cupidigia dei beni terreni. L’uomo che prega guarda in alto, ai beni cioè del cielo che egli medita e desidera; tutto il suo essere s’immerge nella contemplazione del mirabile ordine posto da Dio, che non conosce la smania dei successi e non si perde in futili gare di sempre maggiore velocità; e così quasi da sé si ristabilirà quell’equilibrio tra il lavoro e il riposo che con grave danno della vita fisica, economica e morale, manca del tutto all’odierna società. Se coloro che, per la sovrabbondante produzione industriale, sono caduti nella disoccupazione e nella povertà, volessero dare il tempo conveniente alla preghiera, il lavoro e la produzione rientrerebbero ben presto entro i limiti ragionevoli, e la lotta che ora divide l’umanità in due grandi campi di combattenti per gl’interessi passeggeri, resterebbe assorbita nella nobile, pacifica, lotta per l’acquisto dei beni celesti ed eterni.  – In tal modo si aprirebbe la via anche alla tanto sospirata pace, come egregiamente accenna San Paolo là dove congiunge appunto il precetto della preghiera con i santi desideri della pace e della salute di tutti gli uomini: « Raccomando dunque prima di tutto che si facciano suppliche, orazioni, voti, ringraziamenti, per tutti gli uomini; per i re e per tutti coloro che sono al potere, affinché possiamo trascorrere una vita quieta e tranquilla con tutta pietà e dignità. Infatti, questa è una cosa bella e gradita al cospetto del Salvatore Dio nostro, il quale vuole che tutti gli uomini si salvino ed arrivino alla conoscenza della verità » [19]. Per tutti gli uomini si implori la pace, ma specialmente per coloro che nell’umana società hanno le gravi responsabilità del governo; come potrebbero essi dare la pace ai loro popoli, se non l’hanno in se stessi? Ed è precisamente la preghiera quella che, secondo l’Apostolo, deve apportare il dono della pace: la preghiera che si rivolge al Padre celeste, che è Padre di tutti gli uomini; la preghiera, che è l’espressione comune dei sentimenti di famiglia, di quella grande famiglia che si estende al di là dei confini di qualunque paese e di qualunque continente.  – Uomini che in ogni nazione pregano lo stesso Dio per la pace sulla terra non possono essere insieme i portatori della discordia tra i popoli; uomini che si rivolgono nella preghiera alla Divina Maestà, non possono fomentare quell’imperialismo nazionalistico che di ciascun popolo fa il proprio Dio; uomini che guardano al « Dio della pace e della carità » [20], che a Lui si rivolgono per mezzo di Cristo, che è « nostra pace » [21], non si acquieteranno finché finalmente la pace, che il mondo non può dare, discenda dal Datore di ogni bene sopra « gli uomini di buona volontà » [22]. « Pace a voi » [23] fu il saluto pasquale del Signore ai suoi Apostoli e primi discepoli; e questo benedetto saluto da quei primi tempi sino a noi non è mai venuto meno nella sacra Liturgia della Chiesa, ed oggi più che mai esso deve confortare e risollevare gli esulcerati ed oppressi cuori umani.

III

Ma alla preghiera bisogna aggiungere anche la penitenza: cioè lo spirito di penitenza, e la pratica della penitenza cristiana. Così ci insegna il Divin Maestro, la cui prima predicazione fu appunto la penitenza: «Cominciò Gesù a predicare e a dire: Fate penitenza » [24]. Così ci insegna pure tutta la tradizione cristiana, tutta la storia della Chiesa: nelle grandi calamità, nelle grandi tribolazioni della Cristianità, quando era più urgente la necessità dell’aiuto di Dio, i fedeli, o spontaneamente o più spesso dietro l’esempio e le esortazioni dei sacri Pastori, hanno sempre impugnato tutte e due le validissime armi della vita spirituale: l’orazione e la penitenza. – Per quel sacro istinto da cui quasi inconsapevolmente si lascia guidare il popolo cristiano, quando non è traviato dai seminatori di zizzania, e che non è poi altro se non quel « senso di Cristo » [25] di cui parla l’Apostolo, i fedeli hanno sempre sentito subito in tali casi il bisogno di purificare le loro anime dal peccato con la contrizione del cuore, col sacramento della riconciliazione, e di placare la divina Giustizia anche con esterne opere di penitenza.  – Sappiamo certo e con voi, Venerabili Fratelli, deploriamo che ai nostri giorni l’idea e il nome di espiazione e di penitenza hanno perduto presso molti la virtù di suscitare quegli slanci di cuore e quegli eroismi di sacrificio, che in altri tempi sapevano infondere, presentandosi agli occhi degli uomini di fede come sigillati di un carattere divino ad imitazione di Cristo e dei Santi suoi; né mancano alcuni che vorrebbero mettere da parte le mortificazioni esterne come cose di tempi passati; senza parlare poi del moderno « uomo autonomo » che disprezza la penitenza come espressione di indole servile. Ed è ovvio infatti che quanto più si affievolisce la fede in Dio, tanto più si confonda e svanisca l’idea di un peccato originale e di una primitiva ribellione dell’uomo contro Dio, e quindi ancor più si perda il concetto della necessità della penitenza e dell’espiazione. – Ma noi invece, Venerabili Fratelli, dobbiamo per obbligo dell’ufficio pastorale tenere in alto questi nomi e questi concetti, e conservarli nel loro vero significato, nella loro genuina nobiltà e ancor più nella loro pratica e necessaria applicazione alla vita cristiana.  – A questo Ci spinge la stessa difesa di Dio e della Religione, che stiamo propugnando, poiché la penitenza è di natura sua un riconoscimento e ristabilimento dell’ordine morale nel mondo, che si fonda nella legge eterna, cioè nel Dio vivente. Chi dà soddisfazione a Dio per il peccato, riconosce con ciò stesso la santità dei supremi princìpi della moralità, la loro interna forza di obbligazione, la necessità di una sanzione contro la loro violazione. Ed è certo uno dei più pericolosi errori dell’età nostra l’aver preteso di separare la moralità dalla religione, togliendo così ogni solida base a qualunque legislazione. Questo errore intellettuale poteva forse passare inosservato ed apparire meno pericoloso quando si limitava a pochi, e la fede in Dio era ancora un patrimonio comune dell’umanità e tacitamente si presupponeva anche di quelli che più non ne facevano aperta professione. Ma oggi, quando l’ateismo si diffonde nelle masse popolari, le conseguenze pratiche di quell’errore diventano terribilmente tangibili ed entrano nel mondo delle tristissime realtà. Invece delle leggi morali, che svaniscono insieme con la perdita della fede in Dio, si impone la forza violenta che conculca ogni diritto. L’antica fedeltà e correttezza nell’agire e nel mutuo commercio, tanto decantate perfino dai retori e poeti del paganesimo, ora cedono il posto a speculazioni senza coscienza, tanto nei propri come negli affari altrui. E difatti come può sostenersi un contratto qualsiasi, e quale valore può avere un trattato, se manca ogni garanzia di coscienza? E come si può parlare di garanzia di coscienza, dove è venuta meno ogni fede in Dio, ogni timor di Dio? Tolta questa base, ogni legge morale cade con essa; e non vi è più nessun rimedio che possa impedire la graduale ma inevitabile rovina dei popoli, delle famiglie, dello Stato, della stessa umana civiltà.  – La penitenza dunque è come un’arma salutare posta in mano dei prodi soldati di Cristo, che vogliono combattere per la difesa e il ristabilimento dell’ordine morale dell’universo. È un’arma che giunge proprio alla radice di tutti i mali: alla concupiscenza, cioè, delle materiali ricchezze e dei dissoluti piaceri della vita. Per mezzo di volontari sacrifìci, per mezzo di rinunce pratiche, anche dolorose, per mezzo delle varie opere di penitenza, il cristiano generoso reprime le basse passioni che tendono a trascinarlo alla violazione dell’ordine morale. Ma se lo zelo della divina legge e la carità fraterna sono in lui tanto grandi quanto devono esserlo, allora non solo si dà all’esercizio della penitenza per sé e per i suoi peccati, ma si addossa anche l’espiazione dei peccati altrui, ad imitazione dei Santi che spesso eroicamente si facevano vittime di riparazione per i peccati di intere generazioni; anzi ad imitazione del Redentore divino, che si è fatto « Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo »[26].  – Non c’è forse, Venerabili Fratelli, in questo spirito di penitenza anche un dolce mistero di pace? «Non c’è pace per gli empi » [27], dice lo Spirito Santo, perché vivono in continua lotta ed opposizione con l’ordine stabilito dalla natura e dal suo Creatore. Solamente quando questo ordine verrà ristabilito, quando tutti i popoli fedelmente e spontaneamente lo riconosceranno e lo professeranno, quando le interne condizioni dei popoli e le esterne relazioni con le altre nazioni si fonderanno sopra questa base, allora soltanto sarà possibile una pace stabile sopra la terra. Ma non basteranno a creare quest’atmosfera di pace duratura né i trattati di pace, né i patti più solenni, né i convegni o le conferenze internazionali, né gli sforzi anche più nobili e disinteressati di qualunque uomo di Stato, se prima non siano riconosciuti i sacri diritti della legge naturale e divina. Nessun dirigente della economia pubblica, nessuna forza organizzatrice potrà mai condurre le condizioni sociali a pacifica soluzione, se prima nel campo stesso dell’economia non trionfi la legge morale basata su Dio e sulla coscienza. Questo è il valore fondamentale di ogni valore, tanto nella vita politica quanto in quella economica delle nazioni; questa è la moneta più sicura, tenuta ben salda la quale, anche tutte le altre saranno stabili, essendo garantite dall’immutabile ed eterna legge di Dio. – Ed anche ai singoli uomini la penitenza è apportatrice di vera pace, distaccandoli dai beni terreni e caduchi e sollevandoli ai beni eterni, donando loro anche in mezzo alle privazioni ed alle avversità una pace che il mondo con tutte le sue ricchezze e i suoi piaceri non può dare. Uno dei cantici più sereni e più lieti che mai si siano uditi in questa valle di lacrime non è forse il celebre «Cantico del sole e delle creature » di San Francesco? Ebbene, chi lo compose, chi lo scrisse, chi lo cantò era uno dei più grandi penitenti, il Poverello di Assisi, che non possedeva assolutamente nulla sulla terra e portava nel suo corpo estenuato le dolorose stimmate del suo Signore Crocifisso.  – La preghiera, dunque, e la penitenza sono i due potenti spiriti che in questo tempo ci sono dati da Dio perché riconduciamo a Lui la smarrita umanità che gira qua e là senza guida: sono gli spiriti che devono dissipare e riparare la prima e principale causa di ogni ribellione e di ogni rivoluzione, la ribellione cioè dell’uomo contro Dio. Ma i popoli stessi sono chiamati a decidersi per una scelta definitiva: o essi si affidano a questi benevoli e benèfici spiriti e si convertono, umili e pentiti, al loro Signore e Padre delle misericordie, oppure abbandonano se stessi e il poco che ancora resta di felicità sulla terra in balìa del nemico di Dio, cioè allo spirito di vendetta e di distruzione. – Non Ci resta quindi altro che invitare questo povero mondo che ha sparso tanto sangue, che ha aperto tanti sepolcri, che ha distrutto tante opere, che ha privato di pane e di lavoro tanti uomini, non Ci resta, diciamo, che invitarlo con le tenere parole della sacra Liturgia: « Convèrtiti al Signore Dio tuo! ».

IV

E quale più opportuna occasione possiamo Noi indicarvi, Venerabili Fratelli, per tale unione di preghiere e di riparazioni, se non la prossima festa del Sacro Cuore di Gesù? Lo spirito proprio di tale solennità — come abbiamo quattro anni or sono ampiamente dimostrato nella Nostra Lettera Enciclica Miserentissimus — è appunto spirito di amorosa riparazione, e perciò abbiamo voluto che in tal giorno ogni anno in perpetuo si faccia, in tutte le chiese dell’orbe, pubblico atto di ammenda per le tante offese che feriscono quel Cuore divino.  – Sia dunque quest’anno la festa del Sacro Cuore per tutta la Chiesa una santa gara di riparazione e di impetrazione. Accorrano numerosi i fedeli alla mensa Eucaristica; accorrano ai piedi degli altari ad adorare il Salvatore del mondo sotto i veli del Sacramento, che voi, Venerabili Fratelli, procurerete sia in tal giorno solennemente esposto in tutte le chiese; effondano in quel Cuore Misericordioso, che ha conosciuto tutte le pene del cuore umano, la piena del loro dolore, la fermezza della loro fede, la fiducia della loro speranza, l’ardore della loro carità. Lo preghino, interponendo anche il potente patrocinio di Maria Santissima, Mediatrice di tutte le grazie, per sé e per le loro famiglie, per la loro patria, per la Chiesa; lo preghino per il Vicario di Cristo in terra e per gli altri Pastori, che con  lui dividono il formidabile peso del governo spirituale delle anime; lo preghino per i fratelli credenti, per i fratelli erranti, per gl’increduli, per gl’infedeli; e infine per gli stessi nemici di Dio e della Chiesa, affinché si convertano.  – E questo spirito di preghiera e di riparazione si mantenga poi intensamente vivo ed operoso in tutti i fedeli anche per l’intera Ottava, del qual privilegio liturgico Noi abbiamo voluto fosse insignita questa Festa. Durante tali giorni si facciano, nel modo che ciascuno di voi, Venerabili Fratelli (secondo le circostanze locali) crederà opportuno prescrivere o suggerire, pubbliche preghiere ed altri devoti esercizi di pietà secondo le intenzioni da Noi brevemente sopra accennate: « al fine di ottenere misericordia e trovare grazia per essere aiutati al momento opportuno » [28]. – Sia quella, davvero, per tutto il popolo cristiano un’Ottava di riparazione e di santa mestizia; siano giorni di mortificazione e di preghiera. Si astengano i fedeli dagli spettacoli e dai divertimenti anche leciti; i più agiati sottraggano anche volontariamente, in spirito di cristiana austerità, qualche cosa dalla sia pure moderata misura del consueto modo di vita, largheggiando piuttosto coi poveri il frutto di tale sottrazione, essendo anche l’elemosina un ottimo mezzo per soddisfare alla divina Giustizia e attirare le divine misericordie. I poveri, e tutti coloro che in questo tempo sono sotto la dura prova dello scarso lavoro e dello scarso pane, offrano con eguale spirito di penitenza, con maggiore rassegnazione le privazioni loro imposte dai tempi difficili e dalla condizione sociale che la Divina Provvidenza, con imperscrutabile ma pur sempre amoroso disegno, ha loro assegnato: accettino con animo umile e confidente dalla mano di Dio gli effetti della povertà, resi più duri dalle strettezze in cui si dibatte attualmente l’umanità; si elevino più generosamente fino alla divina sublimità della Croce di Cristo, ripensando che, se il lavoro è tra i maggiori valori della vita, è però stato l’amore di un Dio paziente quello che ha salvato il mondo; si confortino nella certezza che i loro sacrifici e le loro pene, cristianamente sopportati, concorreranno efficacemente ad affrettare l’ora della misericordia e della pace. – Il Cuore divino di Gesù non potrà non commuoversi alle preghiere ed ai sacrifici della sua Chiesa e finirà col dire alla sua Sposa che geme ai suoi piedi sotto il peso di tante pene e di tanti mali: «Grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri »[29]. – Con questa fiducia, avvalorata dal ricordo della Croce, sacro segno e prezioso strumento della nostra santa redenzione, di cui oggi celebriamo la gloriosa Invenzione, a Voi, Venerabili Fratelli, al vostro clero e popolo, a tutto l’orbe cattolico impartiamo con paterno affetto l’Apostolica Benedizione.

Dato a Roma, presso San Pietro, nella festa dell’Invenzione della Santa Croce, 3 maggio 1932, undecimo del Nostro Pontificato.

PIUS PP. XI

 

[1] Sap., XI, 17.

[2] Marc., VIII, 2.

[3] I Tim., VI, 10.

[4] Ps. XIII, 1, et LII, 1.

[5] Luc., XVI, 8.

[6] Ps. XVIII, 2.

[7] Ps. LXVII, 2.

[8] Matth., XVI, 18.

[9] Is., XI, 4.

[10] Hebr., X, 31.

[11] Ezech., XIII, 5.

[12] Act., IV, 32.

[13] II Thess., II, 7.

[14] Matth., XVII, 18-20.

[15] Matth., VII, 7-8.

[16] Ioann., XVI, 23.

[17] I Tim., II, 5.

[18] Matth., XVIII, 20.

[19] I Tim., II, 1-4.

[20] II Cor., XIII, 11.

[21] Ephes., II, 14.

[22] Luc., II, 14.

[23] Ioann., XX, 19, 26.

[24] Matth. IV, 17.

[25] I Cor., II, 16.

[26] Ioann., I, 29.

[27] Is., XLVIII, 22.

[28] Hebr., IV, 16.

[29] Matth., XV, 28.

 

 

DOMENICA XV dopo PENTECOSTE

In nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti. Amen.

Introitus
Ps LXXXV:1; 2-3
Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die. [Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]
Ps LXXXV:4
Lætífica ánimam servi tui: quia ad te, Dómine, ánimam meam levávi.
[Allieta l’ànima del tuo servo: poiché a Te, o Signore, levo l’ànima mia.]

Inclína, Dómine, aurem tuam ad me, et exáudi me: salvum fac servum tuum, Deus meus, sperántem in te: miserére mihi, Dómine, quóniam ad te clamávi tota die. [Volgi il tuo orecchio verso di me, o Signore, ed esaudiscimi: salva il tuo servo che spera in Te, o mio Dio; abbi pietà di me, o Signore, che tutto il giorno grido verso di Te.]

Oratio

Orémus.
Ecclésiam tuam, Dómine, miserátio continuáta mundet et múniat: et quia sine te non potest salva consístere; tuo semper múnere gubernétur.
[O Signore, la tua continua misericordia purífichi e fortífichi la tua Chiesa: e poiché non può essere salva senza di Te, sia sempre governata dalla tua grazia.]

Lectio
Léctio Epístolæ beáti s. Pauli Apóstoli ad Gálatas.
Gal V:25-26; 6:1-10
Fratres: Si spíritu vívimus, spíritu et ambulémus. Non efficiámur inanis glóriæ cúpidi, ínvicem provocántes, ínvicem invidéntes. Fratres, et si præoccupátus fúerit homo in áliquo delícto, vos, qui spirituáles estis, hujúsmodi instrúite in spíritu lenitátis, consíderans teípsum, ne et tu tentéris. Alter alteríus ónera portáte, et sic adimplébitis legem Christi. Nam si quis exístimat se áliquid esse, cum nihil sit, ipse se sedúcit. Opus autem suum probet unusquísque, et sic in semetípso tantum glóriam habébit, et non in áltero. Unusquísque enim onus suum portábit. Commúnicet autem is, qui catechizátur verbo, ei, qui se catechízat, in ómnibus bonis. Nolíte erráre: Deus non irridétur. Quæ enim semináverit homo, hæc et metet. Quóniam qui séminat in carne sua, de carne et metet corruptiónem: qui autem séminat in spíritu, de spíritu metet vitam ætérnam. Bonum autem faciéntes, non deficiámus: témpore enim suo metémus, non deficiéntes. Ergo, dum tempus habémus, operémur bonum ad omnes, maxime autem ad domésticos fídei.

Omelia I

DOMENICA XV DOPO PENTECOSTE

[Mons. Bonomelli: Nuovo saggio di Omelie; vol. IV Omelia V.- Torino 1899]

“Se viviamo in ispirito, facciamo anche di camminare in ispirito. Non sia che siamo vanitosi, provocando od invidiando gli uni gli altri. Fratelli, se alcuno sia soprapreso da qualche colpa, voi, che siete spirituali, rinfrancate questo tale in ispirito di mansuetudine, badando a te stesso, che ancor tu non sia tentato. Sopportate a vicenda le molestie, e così adempirete la legge di Cristo. Perché se alcuno stima d’essere alcun che, essendo nulla, inganna se stesso. Ciascuno pertanto metta a prova l’opera sua, e allora avrà il vanto in se stesso e non in altri, perché ciascuno porterà il suo peso. Colui poi che viene istruito colla parola, faccia parte d’ogni suo bene a chi lo istruisce. Non vi ingannate; Dio non si schernisce; perciocché quello che l’uomo avrà seminato, quello ancora mieterà. Onde chi semina nella sua carne, dalla carne altresì mieterà corruzione; chi poi semina nello Spirito, dallo Spirito mieterà vita eterna. Intanto nel fare il bene, non ci venga meno l’animo, che alla sua stagione mieteremo  con sicurezza. Mentre adunque abbiamo tempo, facciamo bene a tutti, ma principalmente a quelli che hanno comune con noi la fede „ (Ai Galati, V, 25, 26; VI, 1-10). Tutti questi versetti della Epistola si leggono in continuazione di quelli che vi spiegai meglio nella omelia terza della Domenica XIV dopo Pentecoste. Come vi dissi, l’ultima parte di questa lettera ai Galati è tutta morale, dirò meglio, è un vero tesoro di dottrina morale, e le sentenze si succedono l’una all’altra con una copia, con una chiarezza, con una efficacia ammirabile. Devo poi avvertirvi che queste sentenze morali non sono sempre legate tra loro come conseguenza l’una dell’altra, ma parecchie possono stare da sé, a guisa di ricordi. L’Apostolo, in sul chiudere questa lettera, ci presenta l’immagine di un padre tenerissimo, che scrive ai suoi figliuoli lontani, e spinto dall’affetto e dal desiderio ardente del loro bene, fa raccomandazioni sopra raccomandazioni senza badare molto all’ordine delle cose. Ciò che gli sta a cuore è di ricordar loro ciò che maggiormente importa e ciò che crede per loro più utile e necessario. Ripetiamo le singole sentenze del grande Apostolo e facciamone la chiosa, come è nostro uso. – “Se viviamo in spirito, facciamo anche di camminare in spirito. „ È da ricordare, o carissimi, che nei versetti precedenti S. Paolo ha distinto i Cristiani in due grandi classi, quelli che vivono secondo lo spirito e quelli che vivono secondo la carne; i primi sono quelli, che avendo ricevuta la fede e la grazia di Dio, vivono conformemente agli insegnamenti del Vangelo, combattono le ree passioni della carne e praticano le virtù del loro stato; i secondi son quelli che, quantunque rigenerati da Cristo, secondano le passioni della carne e producono quelle male opere della carne, che S. Paolo viene numerando. Continuando il filo del suo discorso, S. Paolo dice: ” Io so bene che voi, o Galati, ammaestrati da me, vivete in ispirito, cioè siete informati ai grandi insegnamenti del Vangelo, volete essere veri discepoli di Gesù: se è così, mostratelo con le opere. Sta bene credere in Gesù Cristo, par che dica l’Apostolo; sta bene l’aver ricevuto il suo Battesimo, ma non basta: bisogna anche camminare, cioè operare secondo la fede. „ E questa una verità che si trova inculcata in cento luoghi delle lettere di S. Paolo. La fede è necessaria, e senza di essa non possiamo piacere a Dio: ma la sola fede non basta: essa deve essere avvivata dalle opere che mostrino la fede, e quasi le diano corpo. Vedete nel vostro campo la vite: essa deve essere viva, e a suo tempo mettere le sue gemme, i suoi germogli e coprirsi di foglie: ma v’appagate voi ch’essa sia viva e lussureggi nel fogliame? No, per fermo; voi volete che sia viva e vi dia il suo frutto: se non vi dà il frutto, tanto vale che sia secca, e voi la tagliate o svellete dal suolo. Similmente Iddio; vuole che abbiamo la fede: Spiritu vivimus, ma ciò non basta: vuole i frutti di questa vita di fede, ossia esige le opere Spiritu et ambulemus. Quanti che hanno la fede, ma non le opere! Quanti battezzati e vivono da pagani! Quanti che professano il simbolo, e non osservano il decalogo! Non siamo di costoro, la vita dei quali è una continua contraddizione! Tien dietro un’altra sentenza dell’Apostolo, che faceva al caso dei Galati, ma non sarà certamente inutile anche a noi. La Chiesa di Galazia era sossopra per opera di certi falsi predicatori, che mettevano in dubbio la dottrina e la missione di S. Paolo, e volevano col Vangelo di Cristo le leggi e le cerimonie mosaiche: erano uomini arroganti, pieni di orgoglio, che volevano avere il vanto di essere maestri dei Galati. L’Apostolo grida: ” Non sia che siamo vanitosi, provocando ed invidiando gli uni gli altri.” – Vedete forma delicata e piena di carità, che usa l’Apostolo. Poteva dire: “non siate vanitosi, „ ma dice: “Non sia che siamo vanitosi”, si mette anch’egli nel numero dei colpevoli, e la correzione che fa agli altri, la indirizza anche a se stesso per non offendere troppo vivamente l’amor proprio di quei suoi figliuoli indocili e riottosi. Imitiamo la prudenza e la carità dell’Apostolo, allorché per ufficio talora ci accada di dover correggere i nostri fratelli o figliuoli: più che sia possibile risparmiamo la loro debolezza, raddolciamo il rimprovero, affine di guadagnarli.  – Quali sono generalmente le conseguenze della vanità? Il dispetto, l’ira e l’invidia in quelli che la nostra vanità offende. — Fate che uno s’innalzi in mezzo agli altri o per veri o per falsi meriti, e voglia loro sovrastare e meni pompa dei suoi titoli. Con la sua vanità ed ambizione li disgusta e li ferisce, e di qui tosto il dispetto, il mal animo, l’invidia, i litigi, le discordie e gli sforzi per abbatterlo e rompere quel giogo che si tenta di imporre. A ragione pertanto, S. Paolo vuole che fuggiamo la vanità e l’ambizione per chiudere la porta alle ire ed alle invidie, e serbare la pace. L’Apostolo volendo chiudere la sua lettera, con una serie di gravi ammonimenti pratici, per far sentire quanto gli stavano a cuore e come ne desiderasse ardentemente l’osservanza, manda innanzi una parola piena di affetto, mostrando quasi di dimenticare la sua dignità, e comincia: ” Fratres — Fratelli! „ Come è cara questa parola in bocca all’Apostolo per eccellenza, e che si rivolge ai fedeli della Galazia, la maggior parte dei quali dovevano essere poverelli! Per i pagani era un linguaggio inaudito, incomprensibile, affatto contrario ai loro usi, alle loro leggi ed alle loro credenze: era un lampo di luce che brillava in mezzo alle tenebre, che annunziava un nuovo ordine di cose, che gettava le basi d’una nuova società. Quella parola sì santa, ” Fratelli, „ che allora si pronunciava per la prima volta nel mondo pagano (Il paganesimo ignorava al tutto l’idea di fratellanza degli uomini, ignorando la loro origine comune e il fine comune, a cui sono chiamati. Per i pagani la fratellanza umana era un assurdo, un insulto al senso comune: la schiavitù ne era una conseguenza ed una prova. Né è da credere che n’avessero un’idea piena gli Ebrei, che pure possedevano la vera religione. Gli Ebrei estendevano l’idea di fratellanza ai loro connazionali: fuori dell’ebraismo non vedevano che nemici o stranieri, non mai fratelli. È Gesù Cristo colui che annunzia la fratellanza vera ed universale.), a poco a poco faceva il giro del mondo, dissipava gli errori e i pregiudizi, e stabiliva il principio della fratellanza universale, la cui attuazione va lentamente, ma infallibilmente esplicandosi. « Fratelli, grida S. Paolo, se alcuno di voi è soprapreso da qualche colpa, voi, che siete spirituali, rinfrancate questo tale; siamo fratelli, e come fratelli dobbiamo amarci: ora che cosa domanda l’amore, l’amore fraterno? L’amore veramente fraterno vuole e deve volere il bene dei fratelli, anzitutto rimovendo da essi ogni male. Vedere il male che affligge il fratello, e poterlo allontanare da lui, e non allontanarlo, in chi ama davvero, non si può concepire, come non si può concepire il fuoco senza calore. Tra i mali che travagliano i fratelli nostri, i maggiori senza dubbio sono i morali, e perciò questi sopratutto son quelli che con ogni studio dobbiamo allontanare da essi. Ecco perché S. Paolo scrive ai Galati: “ Se qualcuno è soprapreso da qualche colpa, voi, che siete spirituali, rinfrancate questo tale; „ cioè, voi che vivete secondo lo spirito, e camminate secondo il Vangelo, porgete la mano al fratello caduto o in pericolo di cadere, sostenetelo, od aiutatelo ad uscire dalla colpa. Dirai: In qual modo farò questo? Con la preghiera senza dubbio, col buon esempio e particolarmente con la parola di correzione, di consiglio, di esortazione, di incoraggiamento, secondo le condizioni speciali, in cui versa il fratello e ti trovi tu stesso. E qual sarà l’accento delle vostre parole al fratello caduto o pericolante? In spiritu lenìtatis. Il vostro accento sia dolce, mite, affettuoso, tutto informato a carità: e perché? “Badando a te stesso, risponde san Paolo, che ancor tu non sii tentato; „ che è quanto dire: Sii benigno, caritatevole, correggendo ed ammonendo il fratello tuo, perché ancor tu puoi cadere ed aver bisogno che altri usi teco quella carità che ora eserciti con esso. Adopra con lui quella misura che vorresti usata con te, e certamente sarai mite e indulgente. La correzione fraterna! Quale argomento, o dilettissimi! Certo è un dovere, e gravissimo, ma non sono poche né lievi le difficoltà nell’eseguirlo. Noi siamo tenuti a correggere il fratello errante, quando non vi siano altri che per ufficio, per età, per carattere, o per altre ragioni sono tenuti prima di noi; quando vi sia speranza di ottenere qualche emenda, quando il farlo non ci esponga a pericoli, o dispiaceri, o danni soverchiamente gravi, che non siamo obbligati a subire. E quando poi sia manifesto il dovere della correzione, è da badare al modo, al tempo, al luogo, alle circostanze di adempirlo fruttuosamente; e qui conviene consultare la prudenza, la quale ci deve tener lontani ugualmente e dalla pusillanimità e dalla temerità. Governarsi saviamente nella pratica è cosa malagevole, e molte sono le regole che si sogliono dare affinché la correzione raggiunga il suo intento. Seguendo S. Agostino, io le riduco ad una sola, ed è questa: “Ama, e di’ come ti piace, e non suonerà giammai come ingiuria ciò che avrà apparenza d’ingiuria, se rammenterai e sentirai, che con la parola di Dio, con la parola della correzione, tu puoi liberare il fratello dai vizi che l’opprimono. „ Ah sì! Quando vuoi ammonire e correggere il fratello, fa’ che il tuo cuore sia pieno di carità verso di lui, carità attinta in Dio stesso, che è tutto e solo rarità, e non dubitare che la tua parola troverà la via del suo cuore, rischiarerà la sua mente e la renderà docile alla tua parola, che sarà parola di Dio. – Passiamo alla sentenza che segue, che si può considerare come un’altra manifestazione della carità: ” Portate le molestie gli uni degli altri, e così adempirete la legge di Cristo. „ Che cosa sono queste molestie, che l’Apostolo ci esorta a portare vicendevolmente? Sono i peccati, che tutti più o meno commettiamo; sono i difetti, che tutti abbiamo; sono le offese, le noie che ci diamo scambievolmente, e spesso senza saperlo nè volerlo. Dov’è l’uomo, anche virtuoso e santo, che non abbia colpe e difetti, o che almeno a noi non paia averne, che poi torna lo stesso? Io che vi parlo ho le mie colpe, i miei difetti, e più assai che non ne vegga e non ne senta, e voi che mi ascoltate, e ciascuno di voi, senza eccezione avete i vostri. Chi di noi oserebbe negarlo od anche solo dubitarne? Che faremo? Ci getteremo in faccia l’uno l’altro le nostre debolezze, i nostri falli? Non faremmo che accrescere i nostri mali e renderci per poco impossibile la quotidiana convivenza. Il miglior partito, non solo secondo il precetto dell’Apostolo, ma secondo la prudenza stessa del mondo, è quello di tollerarci a vicenda: ciascuno soffra le colpe e i difetti degli altri, affinché gli altri tollerino e compatiscano i suoi. Tu sei ardente, impetuoso, facile all’ira, e ti sdegni perché altri è freddo, quasi insensibile; tu non sai soffrire il fratello perché scialacqua e perde il suo in conviti e passatempi, e non vedi che tu pecchi per eccessiva parsimonia e grettezza d’animo; tu biasimi la dissimulazione, il carattere chiuso del fratello, e non badi che tu inciampi nel difetto contrario di non saper tacere a tempo. In mezzo a questo contrasto incessante di difetti, per i quali ciascuno riesce molesto agli altri, che ci resta a fare se vogliamo vivere in questo mondo in pace, od almeno, il men male possibile? Seguire il precetto dell’Apostolo, che è la ripetizione di quello di Cristo: “Portate le molestie gli uni gli altri — Alter alterius onera portate; „ io sopporterò i tuoi difetti, e tu sopporta i miei. Se in tutte le famiglie, se nella società si osservasse questa legge sì semplice e sì pratica, quante contese, quanti dissidi, quante discordie, quanti dispiaceri, quanti mali sarebbero sbanditi dal mondo! Quanta concordia di animi, quanta pace fiorirebbe in mezzo a noi! Osservando questo mutuo compatimento,soggiunge S. Paolo, “voi adempirete la legge di Cristo. „ Qual legge di Cristo? Per fermo l’Apostolo allude alle parole del Salvatore: Questo è il mio precetto, che vi amiate scambievolmente; „ e altrove: ” Amerai il prossimo tuo come te stesso. „ Colui che sa compatire i falli altrui e sopportare pazientemente le sue colpe, mostra di avere in  cuor suo l’amore dei fratelli e di adempire la legge proclamata da Gesù Cristo. – Segue un’altra sentenza, che spiega e rafferma ancor meglio quella che abbiamo udito: “ Poiché se alcuno stima d’essere alcunché, essendo nulla, inganna se stesso. „ Tu devi correggere il fratel tuo in spirito di mansuetudine e di carità, come vuole Gesù Cristo; se tu per contrario ti reputi migliore di lui e monti in superbia, quasi suo maestro e sua guida, e lo tratti con durezza, con alterigia e con disprezzo, non ne farai nulla; l’opera tua sarà vana, non guadagnera che si allontanerà da te, e scioccamente ingannerai te stesso, credendoti da più degli altri e rimanendo vittima del tuo orgoglio. E perché in quest’opera della correzione fraterna non abbia ad errare, S. Paolo mi mette sott’occhio un’altra regola eccellente, che è mestieri considerare con attenzione: ” Ciascuno pertanto metta a prova l’opera sua. „ Mentre ammonisco il fratello, devo badare a me stesso, e vedere se per avventura anch’io non sia colpevole e degno di biasimo e bisognoso di correzione al pari di lui: e se trovo d’essere in fallo come il fratel mio, vedrò di emendarmi tostamente, e questo conoscimento mi renderà più benigno ed indulgente verso di lui, avendo, come lui, bisogno di compatimento. Mentre ammonisco il fratello, devo anche esaminare me stesso, e vedere se non forse nella correzione che faccio abbiano parte la vanità, l’invidia, la presunzione, il malumore od il desiderio di umiliarlo: devo scrutare me stesso e studiarmi di adempire il mio dovere col fratello unicamente per amore di lui e per piacere a Dio, non mai per appagare qualsiasi passione che si annidasse nel mio cuore o per un fine non retto e men degno d’un cristiano. E da ciò ne conseguirà che, se troverò in me stesso qualche bene, potrò compiacermene innanzi a Dio, e da Lui a suo tempo ne avrò la mercede e la gloria, e non menerò vanto del bene che poi il fratello da me ridotto sulla retta via potesse fare: Et sic in semetipso tantum gloriata habebit, et non altero. Sono verità chiarissime e pratiche, delle quali tutti possiamo e dobbiamo fare tesoro, direi quasi, ogni giorno. Non dimentichiamo, soggiunge S. Paolo, che ciascuno porterà il proprio peso. „ Che dici, grande Apostolo? La tua è una manifesta contraddizione: or ora ci hai esortato con tanta forza a portare i pesi e le molestie gli uni degli altri: Alter alterius onera portate, e poi ci dici che ciascuno porterà il proprio peso: Unusquisque onus suum portabiti Come ciò? Non vi turbate, o dilettissimi: l’Apostolo non si contraddice punto, né può contraddirsi. Là egli ci inculca nella vita presente a sopportare a vicenda i nostri pesi e le molestie che ci rechiamo gli uni gli altri col mutuo compatimento, figlio della carità; qui ci dice che nella vita futura, dinanzi al tribunale di Cristo giudice, ciascuno dovrà rendere conto di sé e delle opere sue, e porterà il suo peso, ossia dovrà rispondere di tutto ciò che avrà fatto. Sarebbe superfluo il far avvertire che, secondo la fede cristiana, di cui S. Paolo è l’Apostolo per eccellenza, tutte le cose che si pensano, si dicono e si fanno, si debbono considerare alla luce di quella sentenza infallibile ed irrevocabile che Gesù Cristo pronunzierà alla morte di ciascuno e confermerà alla fine dei secoli. Ma ascoltiamo ancora il nostro gran maestro, che, continuando, dice: ” Quegli poi che viene istruito con la parola, faccia parte d’ogni suo bene a chi lo istruisce. E questa una raccomandazione che non si lega né con le sentenze che precedono, né con quelle che seguono, ma sta da sé sola. Gesù Cristo, mandando gli Apostoli a predicare, disse loro che l’alimento ed il necessario l’avrebbero avuto da quelli ai quali avrebbero annunziata la divina parola, perché l’operaio è meritevole della sua mercede, e se il ministro di Gesù Cristo dà i beni spirituali, è giusto che riceva in cambio quel tanto di beni temporali, che gli è strettamente necessario. È questa una verità chiaramente stabilita nel Vangelo e richiesta dalla natura stessa delle cose; e qui S. Paolo l’accenna: ” Voi, così egli, che ricevete l’istruzione dai sacri ministri, fate loro parte dei vostri beni in guisa che possano campare onestamente la vita. „ Per sé l’Apostolo non voleva nulla, e con santo orgoglio diceva: “Ai miei bisogni materiali provvedono queste mani; „ egli non volle mai essere di peso a persona, e dichiarava che non avrebbe mai permesso che altri gli togliesse questo vanto. Ma la regola ch’egli s’era imposto, di vivere col guadagno delle sue mani, era affatto volontaria, e non poteva imporla ad altri, e perciò qui, come altrove, rammenta ai fedeli l’obbligo che hanno di fornire del necessario i loro ministri. In quei primi principii della Chiesa, com’era naturale, i sacri ministri vivevano di giorno in giorno delle oblazioni volontarie dei fedeli, che non venivano meno giammai, come anche nel presente, quando si annunzia il Vangelo nei paesi che cominciano a riceverlo. Anzi le oblazioni dei fedeli erano sì copiose, che gli avanzi si mandavano a quelli che ne pativano difetto. Ora, nei nostri paesi, dove la Chiesa da tanti secoli è stabilita, ai bisogni dei ministri è provveduto regolarmente in guisa da non essere d’aggravio a chicchessia, e così è messa al sicuro la dignità e la indipendenza dei ministri stessi, ed i fedeli sono liberati da ogni peso. Ma se al presente i sacri ministri non hanno bisogno delle vostre oblazioni per avere un tetto che li copra ed il necessario per vivere e vestire, la chiesa, che ci raccoglie, che è la casa del Padre nostro e casa nostra, ha pur sempre dei bisogni, e deve essere vostra gloria l’averla bella, ornata, degna di Dio e degna di voi. Che le vostre mani per essa siano larghe e generose! Ascoltiamo ancora il nostro Apostolo, che scrive: ” Non vi ingannate: Dio non si schernisce. Perché ciò che l’uomo avrà seminato, questo raccoglierà: onde chi semina nella sua carne, dalla carne altresì raccoglierà corruzione; chi poi semina nello Spirito, dallo Spirito mieterà vita eterna.„ Queste sentenze, se male non vedo, si collegano con la grande dottrina sopra svolta dall’Apostolo, e che spiegai nella omelia III; là stabilisce che vi sono due grandi principii in ogni uomo: lo Spirito, ossia la grazia di Gesù Cristo, e la concupiscenza della carne, e che da quei due principii tra loro pugnanti derivano opere contrarie, le opere dello Spirito, opere buone e sante, e le opere della carne, opere cattive e malvagie. Richiamando quelle verità, san Paolo, compreso della loro importanza, premette quella forma di dire sì grave: “Badate bene a quel che dico: non ingannatevi, perché Dio non si inganna, Dio non si schernisce, e se tentassimo di farlo, il danno sarebbe tutto nostro e ne porteremmo il peso. „ E su qual cosa non dobbiamo ingannarci? Usa una similitudine comune e sempre bellissima: la nostra vita è una seminagione: seminiamo nel tempo, mieteremo nella eternità. Ora che cosa si miete? Quello che si è seminato. Seminate buon grano? Mieterete buon grano. Seminate cattivo grano? Mieterete cattivo grano. Seminate molto? Molto mieterete. Seminate poco? Poco mieterete. La mietitura risponde alla semina. Ora, o uomo, semini nella carne? cioè, operi seguendo le passioni della carne e aggiungi peccati a peccati? Non ne dubitare; il campo dell’anima tua sarà coperto d’una messe maledetta, e da queste opere di carne raccoglierai la corruzione, la morte eterna. Ora semini nello Spirito? cioè operi secondo lo Spirito, seguendo le voci della grazia, osservando il Vangelo? Il campo dell’anima apparirà coperto d’una messe ottima, e da questa raccoglierai la vita eterna. Voi vedete in sostanza che la dottrina dell’Apostolo si riduce a quell’altra sentenza del medesimo, dove dice: “Iddio darà a ciascuno secondo le opere sue: „ a chi ha vissuto cristianamente, il cielo, la vita eterna; a chi ha vissuto malamente, l’inferno, la morte eterna. – Dunque, ecco la conseguenza naturale che ne deriva, e che l’Apostolo non tace. Dunque nel fare il bene non ci venga meno l’animo. ,, Si raccoglie di quel che si semina: dunque seminiamo il bene, operiamo, non secondo la carne, ma secondo lo Spirito. Troveremo difficoltà molte e gravi; nemici scaltri e potenti ci si attraverseranno sulla via: saremo messi a dura prova, tentati di dar volta e correre sulla via facile della carne e delle passioni. Non sia mai, grida S. Paolo: Non deficiamus; non smarriamoci d’animo, ma camminiamo innanzi animosi sulla via della virtù. Finché ne abbiamo il tempo ed il modo, facciamo il bene, cioè le opere dello Spirito, per noi e per tutti : Dum tempus habemus operemur bonum. Quali opere buone? Tutte quelle che sono volute dal nostro stato e che sono possibili alle nostre forze. E a chi dobbiamo fare il bene? Udite, udite, dilettissimi: ” A tutti — Ad omnes. „ Anche ai Gentili? anche agli Ebrei ostinati? anche ai nemici? anche ai persecutori? ” A tutti, a tutti — Ad omnes, ad omnes. „ S. Paolo non fa eccezione, tutti commende quanti sono gli uomini: Ad omnes». Ecco la carità cristiana. E che veramente si debba fare il bene a tutti gli uomini secondo le nostre forze, è chiaro dalle parole che seguono: ” Massime a quelli che sono congiunti nella fede — Maxime ad domestìcos fidei. „ Se dobbiamo fare il bene a tutti, e specialmente a quelli che hanno comune con noi la fede, è cosa evidente che in quella parola “tutti” sono compresi anche i non credenti. Ho finito, o dilettissimi: ma permettete che, chiudendo la mia omelia, vi lasci con una osservazione semplice, ma utile, ed è questa: le sentenze di S. Paolo, sì concise e sì chiare, racchiudono un vero tesoro di verità morali, e voi non dimenticate mai le due ultime, che insieme abbiamo meditato: ” Nel fare il bene non vi venga mai meno l’animo, che a suo tempo mieteremo con sicurezza: e mentre che abbiamo tempo facciamo bene a tutti, particolarmente a quelli che hanno comune con noi la fede. „

Graduale
Ps 91:2-3.
Bonum est confitéri Dómino: et psallere nómini tuo, Altíssime. [È cosa buona lodare il Signore: inneggiare al tuo nome, o Altissimo.]
V. Ad annuntiándum mane misericórdiam tuam, et veritátem tuam per noctemM. V. [È bello proclamare al mattino la tua misericordia, e la tua fedeltà nella notte.].

Alleluja

Allelúja, allelúja Ps XCIV:3 Quóniam Deus magnus Dóminus, et Rex magnus super omnem terram. Allelúja. [Poiché il Signore è Dio potente e Re grande su tutta la terra. Allelúia.]

Evangelium
Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam.
R. Gloria tibi, Domine!
Luc VII: 11-16
“In illo témpore: Ibat Jesus in civitátem, quæ vocátur Naim: et ibant cum eo discípuli ejus et turba copiósa. Cum autem appropinquáret portæ civitátis, ecce, defúnctus efferebátur fílius únicus matris suæ: et hæc vidua erat: et turba civitátis multa cum illa. Quam cum vidísset Dóminus, misericórdia motus super eam, dixit illi: Noli flere. Et accéssit et tétigit lóculum. – Hi autem, qui portábant, stetérunt. – Et ait: Adoléscens, tibi dico, surge. Et resédit, qui erat mórtuus, et coepit loqui. Et dedit illum matri suæ. Accépit autem omnes timor: et magnificábant Deum, dicéntes: Quia Prophéta magnus surréxit in nobis: et quia Deus visitávit plebem suam.” [In quel tempo: Gesú andava verso una città chiamata Naim, seguito dai suoi discepoli e da gran folla. E giunse vicino alla porta della città mentre si portava a seppellire il figlio unico di una vedova, la quale era accompagnata da un gran numero di persone. Vedutala, il Signore, mosso a compassione di lei, le disse: Non piangere. Si avvicinò alla bara e la toccò. – Quelli che la portavano si fermarono.- Egli disse: Giovinetto, a te dico, alzati. Il morto si alzò a sedere, e cominciò a parlare, e Gesú lo rese a sua madre. Tutti furono presi da gran timore e glorificavano Dio, dicendo: Un profeta grande è apparso tra noi, e Dio ha visitato il suo popolo.]

Omelia II

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

Morte del giusto

[Luca VII, 11-16]

Accompagnato dai suoi discepoli, e seguito da numerosa turba, si avvicinava il divin Redentore alle porte della città di Naim; quand’ecco si vede venir incontro un giovane defunto, unico figlio di vedova madre, disteso sul feretro e portato al sepolcro. A questa vista, tocco da tenero senso di compassione: “non piangere, dice all’afflittissima lacrimante genitrice, “noli fiere”, e toccata la bara e fermatisi i portatori, “sorgi, o giovane, soggiunge, Io parlo a te”: “Adolescent, tibi dico, surge”. Sull’istante si alza il defunto, siede sul feretro con stupore di tutti gli astanti, parla liberamente, e vien reso vivo a colei che lo piangeva defunto. Fin qui l’odierno Vangelo, su cui riflettendo, S. Ambrogio: “si proibisce, dice egli, di piangere una morte che si doveva cambiare in risorgimento: “Fiere prohibetur eum, cui resurrectio debebatur” (Lib. 5 comm. In Luc.). Deve dirsi altrettanto della morte di un giusto. Non è da piangersi la morte di chi va a risorgere a miglior vita. Non è morte la morte di quei che a Dio son cari, ella è un placidissimo sonno, a cui succede nello svegliarsi il bel mattino di un’immortale felicità: “Cum dederit dilectis suis somnum, ecce hæreditas Domini” (Ps.XVI, 4). – Di questa morte, chiamata dal reale Profeta preziosa, io sono a tenervi ragionamento; e preziosa io dico è la morte del giusto o si riguardi la disposizione di lui che muore, o si riguardi la protezione di Dio che l’assiste. I due cardini, sui quali si aggirano i preziosi momenti della felice sua morte: ecco i due punti proposti alla cortese vostra attenzione.

I. La morte è l’eco della vita, e l’una e l’altra a vicenda si corrispondono; onde ne segue, che siccome una buona vita è disposizione ad una santa morte, così una buona morte è frutto d’una santa vita. Volete vederlo? Seguitemi col pensiero alla stanza d’un giusto moribondo. Eccoci intorno al letto ove giace rassegnato e tranquillo. Osservatelo sereno in volto, quieto nell’animo, dolce nel suo parlare, paziente nel suo soffrire. Presente a sé stesso va sfogando i suoi affetti col santo crocifisso, che or bacia devotamente, ora si stringe teneramente al petto; ed animato dalla fede, confortato dalla speranza, acceso dalla carità ne va formando gli atti più vivi e fervorosi. Son questi, uditori, gli effetti degli abiti buoni da esso contratti in vita, son questi i frutti di quelle virtù da lui praticate vivendo. “Quæ seminaverit homo, hæc et metet(Ad Gal. VI, 8). Egli ha seminato nel pianto d’una mortificazione continua delle sue passioni, nelle lacrime d’una compunzione sincera delle proprie colpe; ed ora nella tranquillità del suo cuore, nell’esultazione del suo spirito ne raccoglie il frutto: “Qui seminant in lacrymis, in exultatione metent( Ps. CXXV). Voi forse stupite che all’annunzio della vicina sua morte non si conturbi nè pel paese che lascia, nè per quello a cui si avviva; come non sia né travagliato da dubbi, né punto da rimorsi. Mi chiedete il perché? Udite. Quando si fabbricò il tempio di Salomone, ci assicura il sacro Testo, che nella costruzione di quel grande e superbo edificio non s’udì né colpo di martello, né taglio di scure, né rumore di altro fabbrile strumento, ma che tutto si lavorò con somma quiete in perfetto silenzio: “Malleus et securis, et omne ferramentum non sunt audita in domo cum ædificaretur(III Reg. VI, 7). E come mai poté avvenire, che nella fabbrica di mole sì vasta, in tanto numero di artefici, che ascendeva a trenta e più migliaia, non si sentisse strepito alcuno? Ciò avvenne, risponde l’Abulense, perché tutt’i legni e tutt’i marmi che dovevano servire per la grande struttura, erano prima stati, d’ordine del savio regnante, lavorati sul monte con tal proporzione ed esattezza, che poi nel tempio altro più non restava che disporre quei pezzi e insieme congiungerli a tenore delle precedenti misure. Non altrimenti nell’agonie di un’anima giusta, in sulle soglie di quella gran casa dell’eternità, non s’odono tumulti di premurose confessioni, non si sentono sospiri di tardo ravvedimento, non restituzioni da farsi, non obblighi da compiersi. Nulla v’è di sconcerto in quell’ora, in cui sta per compiersi il mistico edificio dell’esemplare sua vita. E perché ciò? Perché tutto è stato prima aggiustato sul monte santo di Dio, vale a dire ai piè del Crocifisso, ai piè del confessore, perché in vita si è pensato e provveduto a tutto, tutto si è ben disposto per quell’ultimo punto. “Malleus et securis non sunt audita in domo, quia Salomon fecit omnia expolivi in monte(in III Reg.) . Ed ecco come una buona disposizione in vita rende tranquilla e preziosa la morte. – Che vi ha in effetto che possa amareggiare in quell’ora un’anima giusta? La memoria dei propri peccati? Ma di questi nella contrizione del suo cuore si è accusata rea al sacro tribunale, questi ha poi pianti sempre con lacrime di amarissima vena, di questi ha con la penitenza procurato di soddisfare la divina giustizia. La perdita forse dei beni terreni? Ma a questi non ha mai viziosamente attaccato il cuore, né li ha goduti che a tenore della divina legge, con farne generosa parte ai poveri di Gesù Cristo. Forse i dolori del corpo infermo? Ma avendo in vita portato nel suo corpo la mortificazione di Gesù Cristo, si è avvezzata al patire e sono in lei passate in abito le virtù della pazienza, della rassegnazione, dell’uniformità al divino volere. Le angustie finalmente della vicina morte? – E vero, che la debole natura non può non sentire l’orrore della morte, ma lo spirito animato dalla fede e dalla grazia invigorito, “cupio dissolvi, va dicendo, et esse cum Christo”. Venga pure la morte, io la desidero, acciò mi tolga dal pericolo di offendere il mio Dio, e a Lui mi unisca per cui sospiro: “Cupio dissolvi, et esse cum Christo”. In questi estremi momenti della mia vita nelle braccia io mi abbandono nel mio Signore crocifisso, e sarà così per me un gran guadagno il morire: “Mihi vivere Christus est, et mori lucrum(Ad. Filipp. I, 21). E questa è morte? No, uditori Cristiani, è un passaggio dalla tempesta al porto, dall’esilio alla patria, dalla battaglia al trionfo, è un sonno, dice ed esclama il devoto Bernardo, sonno e riposo per gli amici di Dio, che gustano a quel passo il frutto soavissimo delle virtuose loro disposizioni. “O mors somnus iustorum requies amicorum Dei(Serm. 25 sup. Cant.).

II. Che diremo poi della protezione di Dio verso il giusto moribondo? Quel Dio, che Dio d’ogni consolazione si appella, quel Dio, che si trova tanto ben soddisfatto del suo servo fedele, pensate se nel maggior bisogno si scorderà di lui? Le anime dei giusti sono in mano di Dio, e perciò non possono star che bene, non possono riposar che sicure: “Justorum animæ in manu Dei sunt” (Sap. III, 1). Egli addolcirà in modo le loro agonie, che della morte non sentiranno l’ambasce; “non tanget illos tormentum mortis”: sembrerà agli occhi degli stolti mondani simile all’altrui la morte loro, ma essi non muoiono che per vivere d’una vita migliore, e riposano intanto in seno ad una tranquillissima pace, “visi sunt oculis insipientium mori, illi autem sunt in pace(Sap. V, 2). Questa sincera pace no, non arriveranno a intorbidare tutti i demòni dell’inferno. Escano pur dall’abisso d’ira avvampanti, e sapendo che il tempo è breve, cingano intorno di fiero assedio l’agonizzante, che potran essi, se Iddio è con lui, se un Dio lo difende, se lo protegge un Dio? “Si ambulavero in medio umbræ mortis, non timebo mala, quoniam tu mecum es(Psal. XXII, 4 ) A chi non avrebbe fatto raccapriccio insieme e pietà il pericolo dell’innocente Daniele? In una altissima fossa vien egli calato, in fondo alla quale affamati leoni alzano ruggiti anelanti alla  preda. Ma che! Daniele è giusto, Daniele è protetto dal cielo, Daniele non teme, e in mezzo ai leoni vive e dimora illeso e sicuro. Né solamente Iddio lo difende da quelle belve feroci, ma per mezzo del profeta Abacuc, preso da un Angelo per i capelli, mentre portava il pranzo ai suoi mietitori, lo provvede nel luogo stesso di cibo e di opportuno ristoro. Tanto adopra Iddio stesso a conforto del giusto che va morendo. Non solo lo guarda e lo difende dai nemici infernali, che, al dir di S. Pietro, a guisa di rabbiosi leoni se gli aggirano intorno, non solo il fortifica con più abbondante rinforzo della sua grazia, non solo il consola con certe voci interne, colle quali gli fa sentire la sua presenza; ma per mezzo dei suoi sacri ministri fa che se gli porgano col più opportuno pascolo più soavi conforti: pascolo del Pane Eucaristico, viatico alla vita eterna, conforti degli altri Sacramenti, conforti di pii sentimenti, di fervidi affetti, di preci, d’indulgenze, di benedizioni. – Quindi di tutto ciò non pago l’amoroso Signore, parmi che ai suoi sacerdoti rivolto vada dicendo con le parole d’Isaia: “miei ministri, che all’assistenza siete chiamati di quest’anima giusta, a me tanto cara, badate bene a non contristarmela, consolatela, al vostro buon cuore la raccomando”. “Dicite iusto quoniam bene(Is. III, 10), ditele che non si attristi, ditele che non paventi, datele dolci risposte, datele buone speranze, “dicite iusto quoniam bene”: ditele che le cose andranno bene e nel tempo e nell’eternità, ditele che so come sta verso di me il suo cuore, che perciò non diffidi del mio, ditele in somma. … ma via già m’intendeste: “Dicite iusto quoniam bene, quoniam fructum adinventionum suarum comedet”. Quanto è buono il nostro Iddio per quei che l’amano con cuor sincero : “Quam bonus Israel Deus his qui recto sunt corde” (Ps. LXXII)! – E pur non son queste a pro del giusto né le maggiori, né l’ultime prove della divina bontà. Egli, Egli stesso il pietoso Signore vuole di presenza assisterlo; onde intorno al letto di lui che langue si va aggirando a guisa di madre appassionata verso il moribondo figliuolo, che né di giorno né di notte gli si vuole staccare dal fianco, ma è sempre in moto a prestargli ogni aiuto, ogni sollievo, ogni conforto. “Dominus opem ferat illi super lectum doloris eius(Ps. XL, 3). – Che dirò poi della singolare sollecitudine del nostro buon Dio per quell’ultimo istante, in cui sta per dividersi dal corpo l’anima sua diletta? Vediamolo. Già si avvicina al gran passaggio. Osservatelo: ora d’amor sospira verso il crocefisso suo Bene, che si tiene fra le mani, or languido su d’esso volge lo sguardo: ed oh che consolazione in baciar le sue piaghe, che tenerezza in istringerselo a due mani sul petto! E Iddio nell’atto che vien meno il suo spirito, intanto che fa? Che fa Iddio in quest’atto? Lo chiedete a me? Chiedetelo al reale Profeta. – Quando si tratta della morte degli empi, dice egli, non si han tanti riguardi. Il mandriano della greggia immonda, che riguardo tien egli delle vili ghiande? A colpi di poderoso bastone dall’alto di una quercia lo fa cadere a pascere sozzi animali. Cosi si usa con i malvagi Non est respectus morti eorum”. Ma se si parli dei giusti, figuratevi un sollecito agricoltore, qualor dall’alta cima d’un albero gentile vuol cogliere un maturo pomo prezioso. Nell’atto che dal compagno fa staccare con grazia quel frutto, ei vi sta sotto colle mani aperte per riceverlo, acciò sgraziatamente non cada sul duro terreno. – Non altrimenti si diporta col giusto che muore, Iddio pietoso. Nell’atto, che dalla falce di morte si tronca il filo della sua vita, Egli ad altri non ne affida la cura, nel suo cadere dal tempo nell’eternità, stende le braccia a riceverlo e nelle sue stesse mani benignamente l’accoglie: “Justus cum ceciderit non collidetur, quia Dominus supponit manum suam(Ps. XXXVI, 26).  Morte felice, felicissima morte! Morte, conchiude il Mellifluo, che cangia la mortal  vita di miserie piena in una vita d’ eterne delizie ridondante: morte per cui il giusto a guisa del sole muore per gli altri, non per sé stesso, e non tramonta che per risorgere più luminoso è più bello. – Morte beata, morte preziosa: “Pretiosa in conspectu Domini mors sanctorum eius” (Ps. CXV, 6). Sarà simile a questa, uditori miei cari, la nostra morte? Se vogliam che sia tale convien prepararci, conviene disporci, bisogna vivere della vita del giusto per morire della morte del giusto.

Credo …

Offertorium
Orémus
Ps XXXIX:2; 3; 4
Exspéctans exspectávi Dóminum, et respéxit me: et exaudívit deprecatiónem meam: et immísit in os meum cánticum novum, hymnum Deo nostro. [Ebbi ferma fiducia nel Signore, il quale si volse verso di me e ascoltò il mio grido: e pose nella mia bocca un càntico nuovo, un inno al nostro Dio.]

Secreta
Tua nos, Dómine, sacramenta custodiant: et contra diabólicos semper tueántur incúrsus. [I tuoi sacramenti, o Signore, ci custodiscano e ci difendano sempre dagli assalti del demonio.]

Communio
Joann VI:52
Panis, quem ego dédero, caro mea est pro sæculi vita.
[Il pane che darò è la mia carne per la vita del mondo.]

Postcommunio
Orémus.
Mentes nostras et córpora possídeat, quǽsumus, Dómine, doni cœléstis operátio: ut non noster sensus in nobis, sed júgiter ejus prævéniat efféctus.
[L’azione di questo dono celeste dòmini, Te ne preghiamo, o Signore, le nostre menti e nostri corpi, affinché prevalga sempre in noi il suo effetto e non il nostro sentire.]

PAPA OCCULTO O IMPEDITO? BEATO VITTORE III

Ancora una volta troviamo nella storia della Chiesa, un Papa impedito nella sua funzione pontificale da vicende storiche complesse nelle quali figurava pure la presenza di un antipapa, insediatosi con la forza a Roma, circondato da chierici di dubbia fede ed osservanza. Certo, la vicenda non è paragonabile all’apostasia attuale della setta del Novus ordo che usurpa oggi la Sede Apostolica, ed ivi insediata con tutto lo schiamazzo mediatico, tutte le riverenze, il codazzo ed i salamelecchi dei “servi sciocchi” e della stampa mondiale delle tante marionette asservita a “coloro che odiano Dio e tutti gli uomini”. In ogni caso, rileggere quegli eventi fa comprendere che la situazione non è affatto nuova ed è contemplata come caso straordinario di persecuzione anche dalla Dottrina Cattolica e dalla Storia della Chiesa di tutti i tempi. Anche qui, non si tratta di un Papa occulto [come ancora oggi qualche “teologo faidate”, ignorante, falso “canonista” e fiancheggiatori vari, definiscono l’attuale Pontefice Gregorio XVIII, “occulto” solo perché, secondo loro, non lo si può incontrare al negozio dell’ottico di via del Corso a Roma o vedere nelle televisioni megafono dei modernisti dei quali sono un prezioso puntello fingendosi tradizionalisti], bensì di un Papa “impedito”, parola che evidentemente risuona alle orecchie degli stolti empi, come un trapano corrosivo delle loro false teorie e della falsa interpretazione che danno del Magistero [ammesso che lo conoscano bene … ma i dubbi sono enormi!]. Questa vicenda del Beato Vittore III infonde però speranza, come Gesù ci ha sempre insegnato, nella soluzione inaspettata dell’apparente prevalere delle forze del male sulla sua Chiesa! …

et Ipsa conteret …  

Beato Vittore III:

[A. Saba: Storia dei Papi, vol. I; Un. Tipogr. Ed. Torinese, 1957]

 Tra i cardinali designati da Gregorio VII morente, come degni di potergli succedere, v’era Desiderio, abate di Montecassino. I voti si raccolsero su di lui. La ricchezza del suo monastero, la riverenza in cui lo tenevano i principi di quell’età, le sue attinenze coi Normanni, financo i suoi rapporti con l’imperatore Enrico IV, rendevano desideratissima la elezione di lui. Roberto il Guiscardo, appoggio della Chiesa in questo momento, moriva a Cefalonia, il 17 luglio, poco tempo dopo Gregorio. Credevasi dunque non esservi adesso altri che Desiderio capace di metter pace nelle cose di Roma e dell’Italia. Ma dopo l a morte di Gregorio VII l a tiara pontificia faceva spavento. Desiderio tremava davanti al trono papale. L’anno 1085 trascorse senza una decisione. L’abate dichiarò il suo rifiuto a Giordano principe di Capua, alla contessa Matilde, ai cardinali, e protestò voler influire per un concilio romano e un nuovo Papa. Costretto, egli si recò a Roma con Gisulfo, nella Pasqua dell’anno dopo. La città era ancora divisa tra gli imperiali ed i gregoriani. I cardinali e gli ottimati si gettarono ai piedi dell’abate Desiderio supplicandolo ad accettare il Pontificato, e non ostante le sue opposizioni, fu proclamato il 24 maggio del 1086, col nome di Vittore III. – Desiderio, della famiglia dei conti di Marsi e figlio di un principe di Benevento, dove nacque, desiderava esser monaco di S. Trinità di Cava, ma ne fu impedito dai parenti. Entrò poi nel monastero di S. Sofia di Benevento, e dopo in un altro delle isole Tremiti. Fu amico di Leone IX, che lo conobbe nella sua campagna contro i Normanni. A Firenze, nel 1056, si trovò con papa Vittore II. Con Alfano passò al monastero di Montecassino, di cui divenne abate nel 1058, segnando nella storia di quella badìa un’orma immortale per la costruzione della grande basilica, per l’incremento della disciplina monastica e degli studi, e per le importanti missioni che ebbe dai papi. Gregorio VII si servì dell’opera sua nella tremenda lotta contro Enrico IV, e nelle relazioni coi Normanni. – L’elezione di Vittore III non avvenne senza contrasto. Il partito tedesco aizzato dal prefetto di Enrico, già in urto coi cardinali, raccolse armi in Campidoglio, ed impedì che Vittore fosse consacrato in Vaticano. Vittore, approfittando del torbido, prese la via del mare da Ardea, e dopo quattro giorni dalla sua elezione arrivò a Terracina, si spogliò delle insegne pontificie e corse tosto a rinchiudersi nel suo bel Montecassino. Qui rimase un anno intero, mentre a Roma s’invocava il suo ritorno. Nel marzo del 1087, in qualità di vicario della Sede romana nell’Italia meridionale, indisse un sinodo a Capua, per deliberare sull’elezione del papa. V’erano presenti anche Ruggero, duca delle Puglie, e il detronizzato principe Gisulfo. Ci furono alcuni che non inclinavano alla rielezione di Desiderio, Ma egli infine, tempestato dalle suppliche dei prelati e di principi, finì con arrendersi. Al 9 di maggio fu consacrato nella chiesa di S. Pietro, che ottenne a forza con le armi normanne. Roma infatti non era pacifica. Indisciplinata, piena di rovine, sentiva il peso delle fazioni in lotta. Enrico IV era lontano, in guerra coi suoi nemici, i quali ebbero fortuna su di lui, nel 1087. Tra il 1088 e i l 1090, per la morte dei suoi più temibili avversari, si risollevò alquanto. In Italia solo la contessa Matilde era ancora in armi contro di lui. Clemente III [l’antipapa dell’epoca –ndr.-] poteva raccogliere di nuovo un gruppo di partigiani e mettere residenza in Vaticano. I Normanni presero d’assalto la basilica che serviva di castello all’antipapa. – Clemente fuggì e riparò nella Città, dove si trincerò in un’altra chiesa fortissima, nel Pantheon. Dopo la vittoria sull’antipapa, e la sua consacrazione, Vittore rimase ancora otto giorni a Roma, e poi se ne ritornò al suo monastero. Appena vi arrivò, le milizie di Matilde lo invitarono a ripartire per Roma. Egli vi ritornò, e pose dimora insieme con la contessa nell’isola Tiberina: però non possedeva che il Trastevere, il Castel Sant’Angelo, S. Pietro, Ostia e Porto. L’antipapa Clemente godeva ancora forte protezione e si serviva del vecchio rancore contro Gregorio per tener su la sua causa. Un legato imperiale arrivava per riaccendere le mischie e sostenere l’avversario di Vittore. Il Papa, caduto infermo, se ne usciva per la terza volta da Roma, tanto fatale per la sua pace. – Nell’agosto del 1087 celebrò un sinodo a Benevento; vi proibì la simonia, le investiture laiche, e il ricevere i sacramenti dai preti venduti a Enrico [evidentemente falsi, come gli attuali novusordisti, i sedevacantisti e i lefebvriani -ndr.-], e rinnovò la scomunica contro Clemente III. – Sentendosi presso a morire, si faceva trasportare al suo monastero. Colà nominò Oderisio ad abate, perché sinora egli era rimasto al governo della badìa, raccomandò come suo successore il cardinale Ottone, vescovo di Ostia, e moriva il 16 settembre del 1087, nel rimpianto della pace monastica che lasciò malvolentieri, per un peso che gli fu tanto grave e gli diede poca gloria. Vittore III rimane ancora nella storia come il grande abate Desiderio. Leone XIII ne confermò il culto. Festa il 16 settembre. – Fu sepolto nel suo monastero, e i monaci lo ricordarono con una epigrafe toccante.

Mons. J.- J. GAUME: STORIA DEL BUON LADRONE (7), capp. X e XI

CAPITOLO X.

LA CROCIFISSIONE.

Le montagne scelte pel supplizio dei rei. — A qual fine. — Passo di Quintiliano, di Valerio Massimo, di Svetonio. — Arrivo dei condannati. — Occupazione dei carnefici.— I condannati distesi prima per terra, e poi messi sulle loro croci. — Forma della croce. — Cinque specie di croci: la croce semplice, la croce biforcata, la croce decussata, la croce commissa, e la croce immissa. — Qual fu la croce del Buon Ladrone.—Sentenza di Tertulliano, di s. Girolamo, di s. Paolino.— Ragioni misteriose di questa sentenza.— La forma della croce perpetuata nel T che incomincia il canone della Messa. — Passi di Innocenzio III, di Niceforo, e di Sandini.

Ora che ben conosciamo il Calvario, appressiamoci alla santa collina, e montiamo fino alla sua sommità, seguendo i tre condannati che vanno a morirvi. Perché mai, in luogo di una aperta pianura, o di una valle, si scelse un luogo eminente per la crocifissione? La risposta ad un tale quesito, mentre ci rivela gli usi dei popoli antichi, conferma colla testimonianza della storia profana, il racconto della storia sacra. Oltre le misteriose ragioni, che tra tutti i luoghi del mondo, fecero preferire il Calvario pel supplizio dell’uomo-Dio e dei suoi compagni, una ve n’ha al tutto semplice e tratta dall’uso generale dell’antichità. – A fine di render utile e salutare lo spettacolo dell’ignominioso e più crudele dei supplizi, i popoli antichi avevano disposto che le croci dei malfattori venissero piantate nei luoghi più esposti alla vista e più frequentati, e di preferenza sulla cima delle montagne, « Tutte le volte, dice Quintiliano, che sospendiamo alla croce dei malfattori, noi scegliamo le vie più rinomate, affinché il più gran numero possibile di persone siano testimoni di un tale spettacolo, e colpiti di un salutare terrore » Valerio Massimo così racconta la morte di Policrate, tiranno di Samo. « Inquieto per la felicità della quale aveva costantemente goduto, codesto principe, a prevenire la gelosia degli Dei, volle imporsi un sacrificio gettando in mare una preziosissima gemma che egli aveva carissima; ma pochi giorni appresso quella gemma si rinvenne nel corpo di un pesce; e questa fu l’ultima sua contentezza. Mentre meditava la conquista dell’Ionia, fu preso a tradimento da Orete satrapo di Cambise che lo fece crocifiggere sulla cima più elevata del monte Micale, di faccia a Samo. » Per le stesse ragioni le croci facevansi molto elevate. A ciò alludeva quella crudele ironia dell’imperator Galba, riferita da Svetonio. « Un condannato a morte invocava le leggi, e faceva valere il suo titolo di cittadino Romano. In vista di esaudirlo e di rendergli men penoso il supplizio, Galba ordinò ch’ei fosse crocifisso su una croce molto più alta delle altre e vestito di bianco.» La straordinaria altezza della croce doveva far conoscere la sua dignità di cittadino romano, e la veste bianca propria dei cittadini romani doveva attirare singolarmente su di lui l’attenzione degli spettatori. – Intanto Gesù, Dima ed il suo compagno giungono alla sommità del Calvario. Tra i soldati, ai quali era affidata l’esecuzione, alcuni scavano le fosse per impiantarvi le croci, altri gettano a terra i condannati e li acconciano sulle croci legate sul loro dorso. Misterioso spettacolo! « Nel medesimo luogo, dice s. Agostino, v’eran tre croci. Sopra una di esse il ladro predestinato, sull’altra il ladro riprovato, su quella di mezzo Gesù, che era per salvare l’uno e condannare l’altro. Nulla di più somigliante fra loro che queste tre croci, nulla di più dissimile fra loro di quei crocifissi. » Come udimmo da s. Agostino, le tre croci erano somiglianti; ma quale ne era la forma? Presso gli antichi la croce come strumento di supplizio, non era né sempre, né ovunque la medesima. Se ne distinguono cinque diverse specie. La croce semplice, simplex, era un largo trave, sul quale s’inchiodava il paziente in modo, che prendesse l’attitudine più o meno distinta d’uomo in croce. Quando questa specie di crocifissione aveva luogo, quel trave era così basso che gli animali carnivori potevano arrivare alla vittima, e sbranarla viva sull’istrumento del suo supplizio. Ne abbiamo due celebri esempi; uno nella Scrittura, l’altro nel martirio di s. Blandina. Sette figli di Saulle essendo stati dati nelle mani dei Gabaoniti, costoro li crocifìssero. Aia, loro madre, si tenne immobile giorno e notte a piè delle croci per impedire che gli augelli di rapina, e le belve carnivore divorassero i suoi sventurati figliuoli. Eusebio parlando dell’illustre martire di Lione dice : « Blandina essendo stata attaccata ad una trave, fu esposta alla voracità delle bestie. A tale spettacolo, tutti quelli che avevano combattuto con essa ripresero animo. Essi erano pieni di una gioia soprannaturale, vedendola crocifissa presso a poco siccome lo era stato Gesù Cristo. Essi ne trassero un buono augurio per la vittoria, da che sotto la figura della loro sorella credevan di vedere Colui, che per essi era stato posto in croce. Andarono essi pertanto incontro alla morte pieni della dolce confidenza, che chiunque muoia per la gloria di Gesù Cristo, riceverà una vita novella nel seno stesso del Dio vivente. » [Lettere delle Chiese di Vienna e di Lione in Euseb. Hist. lib. V. c. x].La croce biforcata chiamata furca, perché prende la forma di una forca ad Y, si trova usata sovente per supplizio degli schiavi. Un autore pagano, Apulejo, parla di questa specie di croce come istrumento di morte per i malfattori ordinari. La croce decussata, vale a dire in forma traversa come la lettera X. Essa è volgarmente conosciuta sotto il nome di Croce di S. Andrea, perché fu lo strumento sul quale l’Apostolo dell’Acaja subì il suo martirio.La croce commissa, croce avente la formo del nostro T maiuscolo, che e lo stesso del Tau dei Greci, e degli antichi Ebrei. La croce immissa è la croce ordinaria, chiamata croce latina. Ognuno sa che essa si compone di un tronco traversato nella parte superiore da due braccia in linea retta †. Di tutte queste croci quale servì al supplizio di Nostro Signore, e dei suoi compagni? La croce commissa rispondono senza esitare Tertulliano, s. Girolamo, e s. Paolino. « La lettera T dei Greci e dei Latini (dice Tertulliano) è la figura della Croce.» S. Girolamo : « Nell’antico alfabeto ebraico, di cui si servono tuttavia i Samaritani, l’ultima lettera T è la figura della Croce.» S. Paolino: « Nostro Signore senza il soccorso d’innumerevoli ed animose legioni, ma col misterioso istrumento della Croce, la cui figura è rappresentata dalla greca lettera T, e che è la cifra del numero trecento, ha trionfato delle potenze nemiche.» La testimonianza di questi antichi Padri ci sembra su questo punto preferibile al sentimento di molti altri non meno rispettabili. Tali sono s. Giustino, s. Ireneo, s. Agostino, che parteggiano per la surriferita croce immissa. Or ecco le nostre ragioni. Fin nei più minuti particolari della sua passione Nostro Signore effettuava tutte le figure e le profezie. E sol quando ei l’ebbe effettuate tutte, disse: « Tutto è consumato. » Ora la croce commissa realizza alla lettera due grandi figure profetiche. Nelle parole da noi citate, Tertulliano fa allusione al passo di Ezechiele, nel quale il Signore comanda di segnare con la lettera T la fronte di coloro, che dovevano essere preservati dallo sterminio. « Ed il Signore gli disse: va’ per mezzo alla città, per mezzo a Gerusalemme, e segna un Tau sulle fronti degli uomini, che gemono e sono afflitti per tutte le abominazioni che si fanno in mezzo ad essa » Il Tau è la figura materiale e misteriosa della Croce. Impresso sulla fronte degli abitanti di Gerusalemme, li scampava dalla morte temporale; e impresso sulla fronte dei Cristiani il Tau reale li salva dalla morte eterna. Or ecco un altro mistero. Nella numerazione greca ed ebraica la lettera T conta per trecento. E con trecento soldati Gedeone trionfò del grande esercito dei Madianiti. Era di notte e ciascun soldato portava una fiaccola in un vaso di terra, Al concertato segnale son rotti tutti quei vasi, le faci risplendono, suona la tromba: e il terrore invade il nemico esercito, che in gran disordine si dà scompigliato alla fuga. In mezzo alle tenebre del Calvario, il velo dell’umanità, che copre la divinità di Nostro Signore, è lacerato dalle torture della croce; la divinità si manifesta coi miracoli, e col Tau misterioso, che vale trecento, il vero Gedeone mette in fuga le infernali potenze. La tradizione sulla verace forma della croce si è perpetuata in una particolarità conosciuta da pochi. Negli antichi Messali, il T col quale incomincia il Canone, Te igitur clementissime Pater, è accompagnato da una croce dipinta sopra quella medesima lettera. Ond’è che la figura e la realtà si trovano insieme confuse. Le moderne edizioni pongono in luogo della croce un incisione che rappresenta Nostro Signore in croce e posta sempre al principio del Canone. Assai prima di noi, fece quest’osservazione di dotto Pamelio. Tuttavia alcuni Padri, come già notammo, danno alla Croce di Nostro Signore la forma più conosciuta fra noi. Il Papa Innocenzo III parlando al IV Concilio di Laterano, pare aver risoluta la questione dicendo: « Il Tau è l’ultima lettera dell’alfabeto Ebraico. Essa è la precisa figura della Croce, quale era prima che Pilato vi collocasse in cima il nome e il titolo del Crocifisso Signore. » – Non meno chiaramente si esprime lo storico Niceforo. « Allorché fu ritrovata la S. Croce, se ne rinvennero tre separate, più una bianca tabella sulla quale Pilato aveva fatto scrivere in più lingue, Gesù re de’ Giudei Questa tabella, situata sul capo di Nostro Signore si elevava in forma di colonna, e dichiarava che il Crocifisso era il re dei Giudei. » Infine l’autore della Glossa dice nei termini più precisi: « L’iscrizione che sormontava la Croce ne formava il quarto braccio. » [« Tabulam supra crucem loco quarti brachii fuisse. » In Clement., De smma Trinit.]. – Ciò posto, conchiude il Sandini, l’accordo è presto fatto. I Padri che danno alla croce dei condannati dei Calvario la forma del Tau, fanno astrazione dalla soprapposta tabella. Coloro che le danno non tre, ma quattro estremità, tengono conto dell’aggiunta iscrizione, e parlano indistintamente dell’una e dell’altra. La Croce è il mistero dei misteri,, il trofeo del figlio di Dio., lo strumento benedetto della nostra Redenzione, il segno pieno di terrore per gli uni, di speranza per gli altri, che precederà il supremo Giudice, quando nell’ultimo giorno del mondo discenderà dal Cielo per retribuire a ciascuno secondo le opere sue, al cospetto di tutte le nazioni radunate. E chi potrebbe trovar lunghi e fastidiosi i più minuti particolari presi ad esame per farla conoscere quale fu già vista nel mondo, e quale allora si rivedrà?

CAPITOLO XI.

I DOLORI.

I condannati fissati alla croce non con le corde, ma con i chiodi. — Passi di Artemidoro, di S. Agostino, di S. G. Grisostomo, di Molano, di Giusto Lipsio. — Numero dei chiodi. — Testimonianze di Innocenzio III, di Luca di Tuy, di Gregorio di Tours, di Baronio e di altri. — Torture di quei che erano crocifissi. — Il suppedaneum . — Altezza delle croci. — I condannati si crocifiggevano ignudi. — Ignominia e dolori del supplizio della croce. — Bestemmie dei ladroni.

Noi lasciammo i tre condannati gettati per terra e stesi sulle loro croci. I carnefici incominciano la loro barbara operazione. Udite i colpi di martello che risuonano sui chiodi del patibolo. Infatti con dei chiodi, e non già con delle corde, come vorrebbero far credere taluni dipinti, i crocifìssi erano appesi allo strumento del loro supplizio. Una tal usanza era generale. La croce, scrisse un’autore pagano, si compone essenzialmente di due cose, del legno e dei chiodi. » S. Agostino, esimio conoscitore delle antiche costumanze, si esprime in questi termini. « Gli infelici attaccati alla croce con dei chiodi, lungo tempo soffrivano. Le loro mani erano coi chiodi fissate al legno, e i loro piedi ne erano traforati. Il buon ladrone aveva il corpo trafitto dai chiodi, ma ne era intatta l’anima, e la sua intelligenza non era punto crocifìssa. » – Giovan Crisostomo afferma la medesima cosa. « E come, egli dice, non ammirare il buon Ladrone che traforato dai chiodi, conserva tutta la sua presenza di spirito? » Non altrimenti parlano tutti gli organi della tradizione, e solo a scanso di una soverchia prolissità, non ne alleghiamo i testi. L’uso dei chiodi nella crocifissione era a tal segno invariabile, che il dottissimo Gretzer conchiuse: « Non può comprendersi affissione in croce senza i chiodi. » E qual’era il numero dei chiodi? Fu esso il medesimo pei due ladroni, e per Nostro Signore? Non abbiamo ragione da dubitarne. Ora la tradizione degli antichi Padri ci assicura che il Figliuolo di Dio fu attaccato alla croce con quattro chiodi; due per le mani, e due per i piedi. Luca di Tuy, detto il Salomone della Spagna, riporta e chiosa il seguente passo d’Innocenzio III. « Quattro chiodi trafissero il Salvatore: ed aggiunge: questa è la testimonianza di quel gran Vicario di Dio, e dottore della Chiesa, di quel martello degli eretici, Innocenzio III. E quale testimonianza più di questa autorevole? Che di più vero di queste parole, discese dal trono di Dio, cioè a dire dalla Chiesa romana, per bocca del Padre di tutti i fedeli, il sommo Pontefice Innocenzio III? » Impertanto rappresentare Nostro Signore e i Ladroni affissi alla croce con soli tre chiodi è contrario alla tradizione più antica, ed anche alla ragione. Come mai con un sol chiodo trapassare i due piedi, soprapposti? Sembra questa un’operazione difficile anche per parte dei carnefici, mentre al contrario si vede esser facile con quattro chiodi. Posando in piano i piedi sul suppedaneo, poteano esser facilmente traforati e solidamente affissi con due chiodi appositi. Quei chiodi, dei quali Roma conserva un prezioso avanzo, eran di forma quadrata e lunghi circa cinque pollici, di una corrispondente grossezza e col capo a forma di fungo. Sospinti a gran colpi di martello, trapassavano da parte a parte le mani dei condannati. Le membrane, le vene, le fibre, le ossa, i muscoli e tutti i tessuti nervosi, sede della sensibilità, eran lacerati e rotti: il sangue ne usciva in copia, e provavansi dolori inesprimibili. Dalle mani si passava ai piedi, stesi sul suppedaneo sul quale posano, son essi come le mani traforati e confìtti alla croce. Le contorsioni e le grida delle vittime rallegrano o contristano gli spettatori. Abbiam nominato il suppedaneo; ci conviene dire che cosa fosse. Sospendere un corpo umano col semplice sostegno di quattro chiodi, due dei quali non traversavano che la palma delle mani, certamente non presentava una sufficiente solidità. Tratta dal grave peso del corpo la parte superiore delle mani poteva facilmente fendersi, e lasciar cadere il paziente. Nella previsione di un tal pericolo, la croce era munita di un legno, sul quale veniva a poggiare la pianta dei piedi. Negli antichi autori, un siffatto legno è chiamato sedile, suppedaneum, solistaticulum, ossia piccolo appoggio. Il Papa Innocenzio III ne parla così. « Quattro pezzi di legno composero la Croce del Signore; il tronco, la traversa, il suppedaneo, ed al vertice l’iscrizione. » Inchiodati sul loro letto di dolori, per non più discenderne, i condannati erano elevati da terra, affinché tutto il popolo potesse godere dello spettacolo del loro supplizio. La croce cadendo nello scavo preparato a riceverla, comunicava una violenta scossa a tutto il loro corpo, e fa fremere il solo pensare all’effetto di quel violento moto sulle membra piagate e lacerate. A rendere poi immobile nello scavo la croce, sostegni, chiodi posti con forza continuavano il doloroso movimento, fino a che saldo restasse il patibolo. E qual ne era l’altezza? Facemmo già osservare che l’altezza della croce variava secondo la dignità del condannato. Ciò nondimeno, la Croce di Nostro Signore non pare che fosse più elevata di quella dei due ladroni. S. Agostino dice che desse erano tutte tre simili, e sappiamo che vi fu necessità di un gran miracolo per poter riconoscere la vera croce dalle altre due. – Un’autorevole tradizione dà alla Croce del Salvatore quindici piedi di altezza, ed otto piedi di lunghezza al legno trasversale. Siffatte dimensioni nulla hanno d’inverosimile. Supponendo la croce profondata nello scavo per un piede e mezzo, il Capo di Nostro Signore, e quello dei suoi compagni doveva essere all’altezza di tredici piedi e mezzo da terra. Può ben credersi che fosse così, poiché per arrivare alla sacrosanta bocca del Signore allorché disse, Ho sete, bisognò porre la spugna sulla punta di una canna. Sia per l’impazienza che avevano i Giudei di soddisfare al loro cieco furore, sia per la tema che alcun miracolo non facesse loro sfuggir di mano l’augusta Vittima, sia finalmente per farlo ravvisare come il maggior colpevole dei tre condannati, Nostro Signore fu crocifisso il primo, e sulla cima più prominente del Calvario, mentre più in basso furono poste le croci dei due ladroni. V’è pur luogo a credere che i Giudei ed i soldati, ormai paghi e soddisfatti, non procederono che assai lentamente alla crocifissione degli altri due. Dopo che l’ebbero crocifisso, dice S. Matteo, si spartirono le sue vesti, tirando a sorte, e gli posero scritto sopra la sua testa il suo delitto: Questi è Gesù il Re dei Giudei. Allora furono crocifissi con lui i due ladroni, uno a destra e l’altro a sinistra. » Egli è probabile che avessero anch’essi il loro titolo scritto sul capo. Ma quel che par certo si è, che eglino al pari di Nostro Signore furono crocifissi ignudi. Tal era l’uso dell’antichità. La qual cosa ci vien confermata da questa facezia di cattivo gusto riferita da Artemidoro. « Essere crocifisso è un bene pel povero che vien sollevato da terra, ed è un male pel ricco ch’è crocifisso ignudo. » In quel momento piombò su di essi tale una piena di fisici e morali dolori, che il pensiero non giunge a formarsene un’idea. – « Fra tutti i generi di morte, dice S. Agostino, non ve ne ha uno più crudele della crocifissione. E ciò è sì vero che noi naturalmente chiamiamo croci i dolori e gli affanni giunti al più alto grado d’intensità. Pendenti dal legno del supplizio, avendo mani e piedi trafitti dai chiodi, i crocifissi morivano lentamente. Crocifiggere uno non era ucciderlo, poiché vivevasi lungamente su quel patibolo. Non per prolungare la vita sceglievasi quel genere di supplizio, ma sì per ritardare la morte, affinché non troppo presto finisse il dolore. » Il dolore pare al contrario che presto dovesse avere fine per il mancar della vita. Come mai poteva il crocifisso lungamente conservarla? Tutto in lui soffriva, e soffriva mortalmente: sospeso a quattro chiodi, immoto o scosso che fosse, il suo corpo provava dolori acutissimi che andavano al cuore. Violenti spasimi contraevano i muscoli, e l’irritamento nervoso straziava le viscere. La continua perdita del sangue, rendendo ognor più deboli le membra, faceale più sensibili allo spasimo. A sì fiera tortura si aggiungeva un’ardentissima sete cagionata dagli ardori della febbre. Trovarsi in siffatto stato, con innanzi agli occhi la m orte, ed attenderla per lunghe ore tra le imprecazioni e gli scherni di tutto un popolo, senza incontrare uno sguardo compassionevole, senza trovare in se stesso un consolante pensiero, è facile immaginare qual dovesse essere la disperazione del reo impenitente attaccato alla croce, e farsi una ragione delle sue bestemmie. Non sapendo con chi prendersela, Dima e il suo compagno si volgono a Nostro Signore. Veggono essi loro ai fianchi quel personaggio sconosciuto, la cui inalterabile calma ed il silenzio fan vivo contrasto con le loro imprecazioni e le convulsive loro agitazioni. Hanno inteso dire ch’Egli fosse il Figlio di Dio; il suo titolo porta scritto Re dei Giudei; intorno a lui si vedono persone che gli sono di gran cuore devote, e se fra le turbe accorse molti lo insultano, molti ancora lo piangono. Allora, per un sentimento che l’eccesso del dolore spiega, ma non giustifica, gli rinfacciano le loro torture, e lo svillaneggiano. Conviciabantur ei [Mc.XV, 32] « Se tu sei il Cristo, salva te stesso, e noi : » Si tu es Christus, salva temetipsim et nos [Luc., XXIII, 39.]. E ripetono contro l’innocente Vittima tutti gl’insulti dei Sacerdoti e gli oltraggi dei Seniori del popolo. Idipsum autem et latrones, qui crucifixi erant cum eo, improperabant ei – [Matth., XXVII, 44.] – Ed è egli vero che ambedue i ladroni si facessero l’eco delle bestemmie lanciate dai Giudei contro Nostro Signore? S. Luca dice: « Uno dei ladroni pendenti lo bestemmiava dicendo: Se tu sei il Cristo salva te stesso e noi [« Unus autem de his qui pendebant latronibus blasphemahat eum dicens: Si tu es Christus, salva temetipsum et nos. » – Luc., XXIII, 39.]. – Fondati su questo testo, parecchi Padri. han preteso che solo il cattivo ladrone avesse così bestemmiato; ma il maggior numero è di sentimento contrario. Si appoggiano questi sull’autorità di S. Matteo e di S. Marco, che positivamente incolpano del medesimo peccato tutti e due i ladroni. Poco sopra abbiamo riportate le loro parole. Alcuni dotti commentatori tolgono di mezzo la difficoltà, cc Può dirsi, così scrive il Cardinale Ugone, ed è ciò anche più conforme alla verità, che in sulle prime il Buon Ladrone bestemmiasse egli pure come il malvagio, ma che si rimanesse quando il Signore nella sua misericordia si degnò v visitarlo » – Un altro interprete, non meno autorevole, Tito vescovo di Bosra nel quarto secolo ci dà la medesima spiegazione. « Perché, egli chiede, S. Matteo e S. Marco ci assicurano che i due ladroni insultavano Nostro Signore, mentre S. Luca non ne incolpa che un solo? Sul principio entrambi i ladroni bestemmiavano il Signore al pari dei giudei. Eglino per avventura il facevano per gratificarsi il popolo bestemmiatore, ed ottenerne grazia, o almeno un qualche sollievo nelle loro angosce; ma vedendosi delusi nelle loro speranze, uno dei due sipentì, ed ammonì gravemente il Compagno a far senno. » – Checché ne sia, se il Buon Ladrone bestemmiò, la sua conversione è tanto più ammirabile; e noi ci facciamo a narrarla. È tempo ch’essa venga a confortare l’anima contristata dallo spettacolo che fin qui avemmo innanzi agli occhi.