ABITUDINE DEL PECCATO

 

[E. Barbier: I Tesori di Cornelio Alapide, vol I, terza ed. SEI Torino 1930]

1. Come si cada nell’abitudine del peccato. — 2. Conseguenze funeste dell’abitudine cattiva. — 3. Quanto sia difficile lasciare l’abitudine del peccato. — 4. Come si conosce se il peccato sia d’abitudine. — 5. Come si lascia l’abitudine.

Come si cada nell’abitudine del peccato. — Gesù, andato alla casa di Marta e di Maria, trovò che Lazzaro, loro fratello, giaceva da quattro giorni nel sepolcro. (Ioann. XI, 17). Per cinque gradi Lazzaro scende nella tomba a putrefarsi: 1° per la languidezza: Erat languens…; 2° per la malattia: Infirmabatur…; 3° per il sonno: Dormit…; 4° per la morte: Mortuus est….; 5° per la dissoluzione nello stato di cadavere: Iam fœtet…; e così ancora per questi gradi si rovina nell’abitudine del peccato. Lazzaro che giace da quattro giorni nella tomba offre l’immagine del peccatore che è nell’abitudine di peccare mortalmente. Il primo giorno è per lui, quando cade pel consenso della sua volontà… Il secondo, quando consuma col fatto il peccato… Il terzo, quando ricade e contrae la consuetudine di ricadere… Il quarto, quando s’indurisce e si forma del suo peccato e delle sue ricadute una seconda natura, secondo quelle parole di S. Agostino: «La passione ha origine dalla volontà perversa; il servire alla passione diventa abitudine; non resistere all’abitudine trae alla necessità ». Il medesimo santo Dottore dice ancora: A quel modo che per tre gradi, cioè la suggestione, la dilettazione ed il consenso, si giunge al peccato, così tre differenti stadii si trovano nel peccato: esso è nel cuore, nell’azione e nell’abitudine. Queste sono tre morti: la prima occorre, diremo così, nel recinto della, casa, ed è quando s’apre il varco nel cuore alla passione. La seconda avviene come fuori di casa, ed è quando si consente all’azione. La terza ha luogo quando, per la forza delle abitudini cattive che schiacciano a mo’ di macigno, l’anima, vien quasi gettata e chiusa in un sepolcro. Gesù Cristo ha risuscitato queste tre specie di morti; ma osservate la diversità di modi che, secondo la sua. stessa, parola, egli adopera, per richiamarli a vita. Al primo morto e’ dice: « Lèvati su, fanciulla»  (Marc. V, 41). Al secondo aggiunge: «Lèvati, chè io te lo intimo» (Luc. VII, 14). Per risuscitare il terzo si turbò, pianse, fremette due volte interiormente, si portò al sepolcro, e qui ad alfa voce gridò: « Lazzaro, vieni fuori » (Ioann. XI, 43). Così nel lib. I, De Serm. Domini in Monte al c. XXIII : e poi di nuovo nel Tratt. XLIV su S. Giovanni: « V’ha primieramente il solletico della dilettazione nel cuore…, poi il consenso…, quindi l’azione…, finalmente la consuetudine » — Est 1° titillatio delectationis in corde; 2° consensus; 3° factum; 4° consuetudo. « Essi erano lutti legati con una medesima catena di tenebre » dice la Sapienza (XVII, 17) — Una enim catena tenebrarum omnes erant colligati. — Or la, catena dei delitti si va formando con l’abitudine; perché la suggestione del Demonio genera il diletto nel pensiero; il diletto provoca il consenso; il consenso porta al fatto; un fatto spinge ad un altro, ed ecco costituirsi la consuetudine. Questa trae la volontà a compiacervisi, e di qui poi l’abbandono di Dio, l’induramento e la riprovazione. Gli atti abituali sono anelli che s’intrecciano gli uni agli altri; come dice benissimo la Glossa su quelle parole di Giobbe: «Io ho stabilito un patto, con i miei occhi» (XXXI, I), il pensiero tien dietro allo sguardo; la dilettazione sorge dal pensiero; il consenso nasce dalla dilettazione; l’azione segue il consenso; l’abitudine viene dall’azione; la necessità s’ingenera dall’abitudine; la disperazione è frutto della necessità; la. dannazione, della disperazione. « La passione, scrive S. Gregorio ne’ Morali, s’accende come fuoco, e chi tarda a spegnerlo, si vede ben tosto andare come stoppa in fiamme ». L’imprudenza e la follia degl’insensati consiste nel non comprendere, nel non vedere la necessità di ben regolarsi; traviano dal retto sentiero, si smarriscono tra viottoli oscuri e tortuosi e gli errori delle seducenti passioni, a cui sono spinti dai sensi degradati e dalla concupiscenza, li trascinano da questa in quella, finché procedendo sempre peggio d’errore in errore si chiudono finalmente in un labirinto di consuetudini, e da questo precipitano all’Inferno, supremo ed irreparabile errore… Badate a voi! grida Bossuet (Vol. II, Profession religieuse), che l’uomo vecchio il quale è in noi e contro cui dobbiamo lottare tutta la vita, non dà tregua e continuamente lavora a soppiantare l’uomo nuovo: il suo appetito indocile e impaziente, per quanto frenato dalla disciplina, solletica, corre e si precipita, qual prigioniero smaniante di libertà, verso ogni uscita; tenta per tutti i sensi di avventarsi su gli oggetti che gli piacciono. Modesto da principio, finge d’appagarsi di poco, non è che un desiderio imperfetto, una curiosità, un nonnulla; ma provatevi a soddisfar quel primo desiderio, e voi lo vedrete ben tosto attirarne parecchi altri, sino a tanto che l’anima tutta ne resta conquisa. Come un sasso gettato in uno stagno non tocca che in un punto le acque, eppure una volta ricevuto il moto questo si comunica dalle più vicine alle più lontane, cosicché in pochi istanti tutta la massa è commossa, così le passioni dell’anima nostra si svegliano a poco a poco le une le altre per via d’un movimento che si concatena…

Conseguenze funeste dell’abitudine cattiva. — Se non si resiste alla consuetudine, questa diventa necessità, ha detto S. Agostino ed a proposito di Lazzaro che giaceva nel sepolcro chiuso da un macigno (Ioann. XI, 38), osserva che quell’enorme pietra figura la forza d’una perversa e dura abitudine, la quale schiaccia l’anima e non le permette nè di risorgere, nè di respirare. Se si rimane in quest’abitudine, si accumulano colpe su colpe e si finisce coll’essere esclusi per sempre dalla clemenza di Dio (Psalm. LXVIII, 28). Il nome di costoro è scancellato dal libro dei viventi, ed essi non sono nel numero dei giusti (Psalm. LXVIII, 29). Chi si trova, in questa lagrimevole condizione, non si stanca nella sua iniquità, dice l’Ecclesiastico, e non sarà sazio finché non abbia dimagrita e consunta l’anima sua (Eccli., XIV, 9). Cadere nel peccato è fragilità umana, scrive S. Bernardo, perseverarvi è malizia diabolica: e Seneca diceva: « La prima e più grave pena per i peccatori sta nell’aver peccato; né v’ha delitto che resti impunito, perché è già castigo il cadere di colpa in colpa ». È proprio del peccato, come nota Bossuet (Vol. I, Péché d’habitude), imprimere nell’anima una macchia la quale va sfigurando in lei ogni bellezza, e ne scancella i tratti dell’immagine del Creatore ch’egli stesso v’impresse. Ma un peccato ripetuto, oltre questa macchia, produce ancora nell’anima una tendenza, una forte inclinazione al male, perché insinuandosi in fondo all’anima, ne inceppa tutte le buone inclinazioni, e col proprio peso la trascina agli oggetti terreni. A dinotare la disgrazia del peccatore abituato, la Scrittura si serve di tre efficaci paragoni: «Egli ha vestito la maledizione come un abito; ed essa, s’è infiltrata come acqua nelle sue viscere, e come olio ha penetrato le sue midolle» (Psalm. CVIII, 17). Sì, la maledizione copre come una veste il peccatore consuetudinario, perché l’avviluppa tutt’intorno, ne signoreggia le parole e le azioni tutte: entra come l’acqua nel suo interiore e vi corrompe i pensieri; penetra qual olio nelle sue ossa che sono il cuore, l’anima, lo spirito. La veste simboleggia la tirannia dell’abito; l’acqua l’impetuosità; l’olio una macchia che si spande dappertutto e difficilissimamente si toglie. Terribile malattia è questa dunque dell’abitudine di peccare! Dio non abbandona mai nessuno, se non è abbandonato nel primo, dice S. Agostino (In Psalm. VII). Ora i peccatori, e principalmente gli abituati, continua il medesimo Dottore, lasciano per i primi Iddio e poi Egli lascia loro: Adamo fu giudicato con questa norma: egli abbandonò, poi fu abbandonato e così avviene degli altri peccatori. In poche parole S. Agostino spiega come i peccati siano giusta punizione gli uni degli altri, ed in qual baratro si precipiti col ripetersi delle colpe abituali: «Il peccatore abbandonato da Dio cede e consente ai desideri perversi: e allora egli è vinto, preso, legato, e tenuto schiavo ». L’uomo s’abbandona all’abito di peccare, Dio ve lo lascia: due disgrazie spaventose!

Quanto sta difficile lasciare l’abitudine del peccato. – Affinché il peccatore abituato esca dal suo stato, bisogna che Dio lo svegli con voce grande e potente, come fu quella con cui Gesù Cristo chiamò Lazzaro dal sepolcro (Ioann. XI. 43). perché i consuetudinari sono sordi spiritualmente. Ma Iddio non è punto tenuto a tale miracolo: l’abitudine poi oppone un ostacolo al miracolo della risurrezione spirituale. Di Lazzaro sta scritto che aveva mani e piedi legati e la faccia avviluppata in un sudario (Ioann. XI, 44) : e quest’è la lagrimevole condizione del peccatore abituato… or, come uscire da questa tomba?… Udite Seneca che discorrendo della concupiscenza, la quale trascina all’abitudine del male chi l’asseconda, dice: «Voi non giungerete mai a ottenere che s’acqueti, se le darete libertà d’incominciare; torna assai più facile tenerla affatto lontana, che scacciarla quando sia entrata ». « Uccidi il nemico mentre è debole », grida S. Girolamo: e non trascurare le piccole cose, soggiunge S. Gregorio, perché, insensibilmente sedotto, commetterai le più gravi. Allora poi si pecca senza rimorso, e, giunti a questo punto di perversità, non v’ha più rimedio. Tale è l’orribile stato del consuetudinario… Chi aggiunge colpa a colpa ha il cuore traviato, dice Dio pel Salmista, egli non conosce le mie vie, ed ho perciò giurato nel mio sdegno, che non entrerà nei luogo del mio riposo (Psalm. XCIV, 10-11). Ah! « i perversi ben difficilmente s’emendano, esclama l’Ecclesiaste, e stragrande è la turba degli insensati » (Eccl. I, 15). « Non da ferro nemico, ma dalla mia ferrea volontà io ero legato, confessa S. Agostino; la mia volontà stava in balìa del mio nemico, il quale si era fatto di essa una catena con cui mi teneva stretto ». « E con tante catene il peccatore avvinghia se stesso, soggiunge S. Gregorio, quante volte ricade nella colpa ». Per enormi e orrendi che siano i peccati, scrive S. Agostino {Enchirid. c. LXXX), se avviene che diventino abito, sono considerati come leggeri, ed anche non più tenuti in conto di veri peccati; a tal punto che non solo non si tengono celati, ma si ostentano. I consuetudinari non si correggono, dice la Scrittura, perché son pazzi. E come no? mentre in 1° luogo il peccato è il sommo della pazzia, perché scombuia la ragione e soffoca il desiderio della virtù. Il peccatore antepone la creatura al Creatore, che è a dire un centesimo a tesori immensi, un granellino di frumento ad una ricchissima messe, il fango all’oro, una stilla d’acqua al mare, un mortifero veleno alla grazia ed alla vita eterna. Oh Dio, che insensatezza! 2° Ripetendo i peccati si contrae l’abitudine, questa mena alla necessità. Conoscete voi follia più funesta?… Si perfidia ostinatamente, si fa pompa del male… 3° Si ricusa ogni emendazione, si spregiano gli avvertimenti e le persone che per impulso di carità riprendono. Si friggono i rimedi, si vuol rimanere nella malattia. Ah qui, più che sragionevolezza, più che stupidità, bisogna dire che vi è il colmo della pazzia… La Scrittura dà a questa follia morale il nome di carestia del cuore,  e chiama i peccatori abituati uomini senza cuore  cioè privi dell’uso della volontà (Prov. XI, 12). « Giunto l’empio in fondo all’abisso del male, tutto disprezza », dicono i Proverbi (Prov. XVIII, 3). A ragione pertanto scriveva il poeta: Arresta la passione in sul nascere, chè troppo tardi giungerà il rimedio, se lasci che il male abbia tempo a far progressi; e l’anima, dice S. Giovanni Crisostomo, corrotta che sia, degradata per l’abito del peccato, languisce d’incurabile malattia, né più si rimette in forze per quanti rimedi le offra Dio. Non è così facile svestir gli abiti viziosi, come il vestirli. La volontà, la quale può a suo talento schivare od abbracciare il male, s’avviluppa di per se stessa, come il baco da seta, nell’opera sua; e se i lacci dentro cui s’è arretita figurano seta perché aggradevole sono però ferro per la loro durezza. No, essa non è in grado di distruggere a sua posta la prigione che ella medesima si è fabbricata, né spezzare i fili di cui s’è cinta. E non mi state a dire, soggiunge Bossuet (Vol. I, Circoncis.), che essendo i vostri impegni affatto volontari voi possiate, con la medesima volontà che li ha contratti, quandochessia disdirli, perché anzi qui sta appunto il nodo, che quella medesima volontà, la quale si è impegnata, sia obbligata a disimpegnarsi; che essa, la quale forma o vuol formare i legami, s’impegni poi a scioglierli; che debba ella medesima sostener ad un tempo l’urto e dar l’assalto. Or chi è dunque sì cieco che apertamente non veda come invano essa combatterà e si stancherà in inutili sforzi, se non viene a sostenerla una forza o un soccorso dal di fuori? Poiché non si resiste da forti e robusti per lungo tempo, scrive S. Ambrogio, quando è d’uopo vincere se medesimo. Troppo faticosa ed angosciante è la lotta che l’uomo deve sostenere contro se stesso e le sue passioni perché possa vincere da solo. So bene che altri accusa il Demonio delle malvagie abitudini in cui vive, ma badate, grida S. Agostino , che il Diavolo tripudia quand’è accusato, e niente meglio desidera se non che voi gettiate su di lui i vostri torti, affinché perdiate così il frutto d’un umile confessione. L’uomo deve superare due ostacoli, l’inclinazione e l’abitudine; quella rende il vizio amabile, questa lo fa necessario; e non è in nostro potere, osserva S. Agostino, né il principio dell’inclinazione, né la fine dell’abitudine; l’inclinazione c’incatena e ci precipita nel carcere, l’abitudine vi ci lega e chiude sopra di noi la porta per toglierci ogni uscita. Il peccato passato in abitudine diventa quasi identificato coll’uomo: il peccatore abituato è divenuto peccato; e da ciò proviene la difficoltà immensa di vincere le cattive consuetudini.

Come si conosce se il peccato sia d’abitudine. — Grave malattia è l’abitudine di peccare, e chi desidera vedere se egli ne sia infetto deve osservare: 1° S’egli commette il male con piacere; perché ogni piacere è conforme a qualche natura: ora egli è certo che il peccato non ha di per se stesso questa consonanza colla nostra natura, bisogna perciò che la ripetizione del peccato abbia formato in noi un’altra natura, e questa seconda natura è l’abitudine… 2° Se pecca senza resistere, perché allora la forza dell’anima è svigorita ed abbattuta…

Come si lascia l’abitudine. — i mezzi con cui lasciare e vincere le malvagie abitudini per quanto radicate, sono i seguenti : 1° il timor di Dio; 2° la resistenza…; 3° la preghiera…; 4° il rincrescimento ed il dolore di trovarsi in così infelice stato…; 5° la fuga delle occasioni prossime del peccato d’abitudine…; 6° un vivo orrore del peccato…; 7° frequente ed umile confessione. « Siete voi combattuti dell’abitudine del peccato? grida S. Agostino, respingetelo da valorosi; non saziatelo ritirandovi, ma sforzatevi d’abbatterlo resistendo ». Finalmente, una sincera e viva devozione alla Vergine ci fa uscire da qualunque abitudine cattiva.

 

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.