DOMENICA V dopo PENTECOSTE

Introitus

Ps XXVI:7; XXVI:9 Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te: adjútor meus esto, ne derelínquas me neque despícias me, Deus, salutáris meus. [Esaudisci, o Signore, l’invocazione con cui a Te mi rivolgo, sii il mio aiuto, non abbandonarmi, non disprezzarmi, o Dio mia salvezza.].

Ps XXVI:1 Dóminus illuminátio mea et salus mea, quem timébo? [Il Signore è mia luce e mia salvezza, chi temerò?] Exáudi, Dómine, vocem meam, qua clamávi ad te: adjútor meus esto, ne derelínquas me neque despícias me, Deus, salutáris meus. [Esaudisci, o Signore, l’invocazione con cui a Te mi rivolgo, sii il mio aiuto, non abbandonarmi, non disprezzarmi, o Dio mia salvezza.].

Orémus. Deus, qui diligéntibus te bona invisibília præparásti: infúnde córdibus nostris tui amóris afféctum; ut te in ómnibus et super ómnia diligéntes, promissiónes tuas, quæ omne desidérium súperant, consequámur. [O Dio, che a quanti Ti amano preparasti beni invisibili, infondi nel nostro cuore la tenerezza del tuo amore, affinché, amandoti in tutto e sopra tutto, conseguiamo quei beni da Te promessi, che sorpassano ogni desiderio.]

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Petri Apóstoli. 1 Pet III:8-15

“Caríssimi: Omnes unánimes in oratióne estóte, compatiéntes, fraternitátis amatóres, misericórdes, modésti, húmiles: non reddéntes malum pro malo, nec maledíctum pro maledícto, sed e contrário benedicéntes: quia in hoc vocáti estis, ut benedictiónem hereditáte possideátis. Qui enim vult vitam dilígere et dies vidére bonos, coérceat linguam suam a malo, et lábia ejus ne loquántur dolum. Declínet a malo, et fáciat bonum: inquírat pacem, et sequátur eam. Quia óculi Dómini super justos, et aures ejus in preces eórum: vultus autem Dómini super faciéntes mala. Et quis est, qui vobis nóceat, si boni æmulatóres fuéritis? Sed et si quid patímini propter justítiam, beáti. Timórem autem eórum ne timuéritis: et non conturbémini. Dóminum autem Christum sanctificáte in córdibus vestris.”

[Mons. Bonomelli, “Nuovo saggio di OMELIE per tutto l’anno”, Vol. III, Torino 1899 –imprim.]-

Omelia XI

“Siate tutti concordi, compassionevoli, amatori dei fratelli, pietosi, modesti, umili: non rendendo male per male, od ingiuria per ingiuria; ma, per contrario, benedite, perché a questo siete chiamati, acciocché ereditiate la benedizione. Chi pertanto vuole amare la vita e vedere giorni felici, raffreni la sua lingua dal male e le sue labbra non proferiscano frode. Si ritragga dal male e faccia il bene, cerchi la pace e la procacci. Perché gli occhi del Signore sono sopra i giusti, e le sue orecchie intente alle loro preghiere; ma il volto del Signore sta contro quelli che fanno male. E chi mai potrà farvi male, se siete studiosi del bene. Ma se pure patite alcuna cosa per la giustizia, beati voi! Non abbiate timore di loro, né ve ne turbate. Adorate Cristo Signore nei vostri cuori„ (I. di S. Pietro c. III, 8-15).

In questi otto versetti vi ho presentato nella nostra lingua il tratto dell’epistola, che or ora si è letta nella Messa. Esso è tolto dal capo terzo della prima lettera di S. Pietro ai fedeli sparsi in varie province dell’Asia Minore. È cosa affatto superflua il farvi osservare come ogni versetto, dirò meglio, quasi ogni parola di questa breve lezione racchiuda un documento altissimo di sapienza morale; voi stessi, udendone la versione, ve ne sarete accorti. Noi avvezzi fino da fanciulli ad udire queste sì sante verità, quasi non vi poniamo mente e non ne riceviamo grande impressione, come non facciamo le meraviglie allorché al mattino il sole spunta sull’orizzonte, raggiante di luce. Ma così non doveva essere dei primi cristiani, massime di quelli che erano allora allora usciti dal paganesimo. Io immagino, che quei cristiani all’udirsi leggere queste sentenze sì semplici, sì sublimi e sì conformi ai principi della stessa ragione naturale ed ai sentimenti più nobili del cuore, eppure sì nuove, pieni di stupore gratitudine, dovessero esclamare: Oh! come bella, ammirabile e divina questa Religione! Benedetto Colui, che per sua misericordia l’ha manifestata agli uomini! Felici gli uomini che la ricevono e la osservano! – Ma lasciato da banda ogni esordio, mettiamo mano non tanto alla spiegazione (che in tanta chiarezza non occorre), ma alla considerazione ed applicazione di queste verità, che rispondono ad ogni età e condizione di persone. – S. Pietro nei versetti, che precedono, ricorda alle donne i loro doveri verso dei mariti, e le esorta ad essere sollecite più degli ornamenti esterni, della vera bellezza, che è tutta interna; poi eccita i mariti ad usare ogni riguardo alle loro donne, affinché possano avere insieme l’eterna eredità. Poi proseguendo, scrive: ” Siate tutti concordi, compassionevoli, amatori dei fratelli, pietosi, modesti, umili. „ Dite, o carissimi: era possibile in sì poche parole condensare maggior numero di massime morali di queste più belle e più stupende ? “Siate tutti concordi, „ o, come porta il testo della Volgata, ” unanimi, „ cioè abbiate tutti un animo solo, un solo sentimento. Si può dire che nelle lettere, specialmente di S. Paolo, la raccomandazione della concordia si incontra ad ogni pagina. La concordia esterna, delle parole e degli atti, nella famiglia e società, perché sia vera concordia e durevole, deve essere una conseguenza dell’interna, deve scaturire dalla mente e dal cuore. Abbiamo tutti gli stessi principi, professiamo tutti le stesse verità, amiamoci tutti come fratelli, e la concordia regnerà regina in mezzo a noi. Mi direte: Sta bene aver comuni gli stessi principi, tener salde le stesse verità, ecco la base della concordia. — Ma è egli possibile trovarci uniti nelle stesse verità e negli stessi principi? Volete voi che ciascuno sacrifichi le sue convinzioni? La diversità di parlare e di giudicare è una necessità delle cose ed è voluta in gran parte dalla disuguaglianza delle menti, della istruzione e di cento altre cause, onde la concordia in tanta differenza di caratteri e di pensamenti è impossibile. — No, non è impossibile, o cari. La carità scambievole, senza offendere la libertà individuale, può mantenere la concordia. Le voci dell’organo sono diverse fra loro, ma si possono armonizzare: il rispetto vicendevole, la tolleranza, figlia della carità, possono mantenere la più perfetta concordia: anche tra quelli, che quanto a principi dissentono profondamente tra loro. Studiamoci di essere uniti nella verità e avremo la concordia: che se non possiamo essere uniti nella stessa verità, lo siamo sempre nella carità e ne avremo egualmente il frutto nella concordia esterna. Lo so dilettissimi: alcuni credono che la differenza di religione e di fede debba spezzare il vincolo della carità e generare la discordia e l’odio. È un errore: Dio non ama Egli i peccatori e per amore non li chiama a penitenza? Gesù Cristo non morì forse per tutti? Se Dio li ama, se Gesù Cristo morì anche per essi, perché non ameremo noi pure quelli che non hanno comune con noi la stessa fede? Noi non approveremo mai la loro dottrina e i loro errori, che faremmo oltraggio a Dio: ma rispetteremo sempre ed ameremo le loro persone, li terremo in conto di fratelli, perché anch’essi come noi creati da Dio, chiamati alla stessa fede, perché anche per essi è morto Gesù Cristo. Tolga dunque Dio che noi nutriamo ombra d’odio o di rancore contro quelli, che non professano la nostra fede o che avendola professata, la rigettarono. Deploreremo la loro caduta, la loro miscredenza, ma li rispetteremo e li ameremo sempre e cordialmente, e perciò anche con loro sarà perfetta la nostra concordia. – “Siate compassionevoli, „ Compatientes, dice S. Pietro, che importa piangere con chi piange, patire con chi patisce. Allorché un membro del nostro corpo soffre, in qualche modo soffrono tutti gli altri e il corpo nostro languisce, perché il male d’uno è male degli a1tri: similmente quando una persona a noi cara patisce, noi pure patiamo con essa, perché l’amore, che ad essa ci lega, di due anime ne forma quasi una sola, e perciò il dolore è comune. Ciò, in qualche misura, dovrebbe avvenire ogni qualvolta vediamo un fratello soffrire: se lo amiamo, come vuole il Vangelo, il suo soffrire, sarà nostro soffrire: allora saremo compassionevoli e tosto appariranno i frutti della carità, giacché non è possibile sentire vera compassione pei mali altrui e non far nulla per alleviarli. È egli possibile che una spina vi si conficchi nella mano sinistra e la destra non si adopri a levarla prontamente? “Siate amatori dei fratelli, „ Fraternitatis amatores. O la santa parola! Quegli uomini pieni d’orgoglio, che nel secolo scorso proclamarono la fratellanza universale, quasi che fossero stati essi gli scopritori ed i primi apostoli, meditino queste due parole, diciannove secoli or sono, scritte dal principe degli Apostoli: Fraternitatis amatores. – Non solo dobbiamo essere concordi, compassionevoli gli uni verso gli altri, ma dobbiamo amarci come fratelli. Per i fratelli, per i veri fratelli che si amano, ogni bene è comune, e la sventura che colpisce uno, colpisce tutti. Ah! Carissimi, come sarebbe felice il mondo, se questa fratellanza inculcata da Gesù Cristo e predicata da S. Pietro in questo luogo, regnasse in mezzo a noi e si manifestasse nelle opere. Si parla molto, si parla eloquentemente di fratellanza; tutti 1’hanno sulla lingua: ma l’hanno anche nelle opere? Ohimè! Parlano di fratellanza e si lacerano tra loro, e il forte opprime il debole, il ricco il povero, l’uomo istruito abusa dell’ignoranza altrui e vedo una classe armata e fremente contro l’altra. È questa la fratellanza che Gesù Cristo ha portato sulla terra e san Pietro proclama altamente quando scrive: siate amatori dei fratelli — Fraternitatis amatores? — Ditelo voi, carissimi. S. Pietro prosegue: siate pietosi, „ Misericordes, che suona alcun che di più vivo e sentito del compassionevoli. Cosa strana e quasi incredibile! Vi furono filosofi antichi, come Seneca, che osarono insegnare la pietà verso i miseri essere una debolezza d’animo, una infermità dello spirito e doversi combattere e disprezzare. La pietà e la commiserazione verso i sofferenti è la dote che maggiormente onora la natura umana e la rende più simile a Dio, che è la stessa bontà e misericordia: per essere insensibili ai dolori altrui; bisogna rinnegare la propria natura e renderci simili alle piante ed alle pietre, non dico alle bestie, le quali talvolta sembrano compatire ed aver pietà almeno coi loro nati. Noi, o dilettissimi, non dimenticheremo mai questa sublime sentenza di Gesù Cristo, che disse: “Siate misericordiosi, com’è misericordioso il Padre vostro che è nei cieli, „ e “Beati i misericordiosi, perché anch’essi otterranno misericordia. „ “Siate modesti, umili, „ Modesti, umile. Modestia ed umiltà, osserva S. Bernardo, sono due sorelle, ed io volentieri le chiamerei piuttosto, madre e figlia, giacché mi sembra che la modestia sia la figlia della umiltà. La modestia riguarda direttamente l’esterno dell’uomo, l’umiltà si riferisce all’interno. Per la modestia l’uomo compone il suo esterno in guisa che torna caro ed amabile a tutti: la modestia apparisce nelle vesti, nel passo, nel suono della parola, nell’aspetto, negli atti esterni, nell’atteggiamento della persona, che spira benevolenza, piacevolezza, benignità, rispetto, affabilità e grazia, a talché la compagnia della persona modesta è da tutti desiderata e tutti rallegra. Perché poi la modestia non sia ingannevole apparenza, ma virtù vera e solida, deve germogliare dal fondo dell’anima, deve emanare dall’umiltà del cuore, come la fragranza dal fiore. L’anima, che conosce se stessa e perciò sente bassamente di sé, veglia sempre sopra de’ propri atti, ama il nascondimento, tutti reputa migliori di sé, si tiene all’ultimo luogo, e ne gode: essa è sempre tranquilla e pacifica nel santuario della sua coscienza: e qual meraviglia, che la pace interna informi i suoi atti esterni e si irradii costantemente sul suo volto e si manifesti nella modestia? – “Non rendendo male per male e ingiuria per ingiuria. „ Veramente un uomo, un cristiano, quale lo vuole S. Pietro i n questo luogo, che abbiamo chiosato brevemente, dovrebbe essere amato da tutti e parrebbe impossibile possa essere offeso: ma non è così. Tanta è la malignità di certi uomini e il pervertimento di certi cuori, che le anime più umili, più modeste, più pie, più caritatevoli non vanno salve dall’odio e dalle offese più gravi, e sembra talvolta che le loro virtù siano incitamento e motivo ad accrescere l’ira e le persecuzioni dei tristi. Pietro stesso che scriveva queste verità sì sante e le praticava; tutti gli Apostoli e Gesù Cristo medesimo non furono fatti segno della malevolenza più cupa, dell’odio più feroce dei malvagi fino a rimanerne vittime? Perciò S. Pietro, continuando la sua esortazione, dice: “Ancorché voi, o cari, siate perfettissimi in codeste virtù, non dovete meravigliarvi se il mondo vi tratterà da pari suo, e se vi perseguiterà e coprirà d’ingiurie. È questa la mercede ch’egli suole dare ai buoni. E voi che farete? Non rendete male per male, ingiuria per ingiuria. „ In queste parole di S. Pietro ed in quelle che seguono si ripete quasi letteralmente l’insegnamento di Cristo registrato nel capo V del Vangelo di S. Matteo. E non solo noi non dobbiamo rendere male per male, ingiuria per ingiuria, che sarebbe già molto; ma per contrario dobbiamo benedire chi ci offende: Sed e contrario benedicentes; frase che risponde perfettamente al precetto di Cristo: Benedicite maledicentibus vobis (Matteo, V, 44). È il grado sommo della carità, è virtù eroica, senza dubbio; ma Gesù Cristo l’ha comandata, più ancora, l’ha praticata Egli stesso sulla croce, e per noi basta. “E questa, soggiunge S. Pietro, quasi per prevenire la difficoltà, la vostra vocazione, „ “Quia in hoc vocati estis.” Non movete difficoltà, sembra dire l’Apostolo, perché la religione, alla quale siete chiamati, vi impone virtù sì alta, “se volete ereditare la benedizione, „ Ut benedictionem hareditate possideatis. Di quale benedizione intende qui parlare S. Pietro, data qual premio del perdono generoso delle offese, del benedire chi ci maledice? Non dubito che intenda parlare principalmente della benedizione eterna, del premio dei giusti, ma non senza una allusione anche alla benedizione o mercede temporale, che il mondo stesso non rare volte riserba ai magnanimi, che perdonano le offese e rendono bene per male. Affermata questa dottrina sì eccelsa del perdono delle offese, anzi del rendere bene per male, benedizione per maledizione, S. Pietro cita un luogo del Salmo XXX, 13 e seg., e dice: ” Chi dunque vuole amare la vita e godere buoni giorni, raffreni la sua lingua dai male, e le sue labbra non proferiscano frode; „ vale a dire: chiunque desidera di possedere la vita beata in cielo e felice anche quaggiù sulla terra, quanto a noi è possibile, raffreni la sua lingua e si guardi dal tessere inganno od ordire frode contro il fratello. È chiaro che questa testimonianza del Salmo si connette colla sentenza evangelica del perdonare e benedire chi ci maledice: Benedìcite maledicentibus vobis, ed è qui riportata da S. Pietro come conferma, tanto più conveniente in quantoché la lettera era indirizzata ai cristiani, la maggior parte dei quali era di Ebrei, cresciuti nelle idee naturalmente ebraiche. Una lingua che non sa raffrenarsi, che rende ingiuria per ingiuria, non solo si prepara giorni amari nella vita futura, dove sarà reso a ciascuno secondo le opere sue, ma sovente se li prepara anche nella presente, perché sparge il seme della discordia, offende ed irrita i fratelli, si crea dei nemici e dilata l’incendio degli odi, dove ché colui che tace, benefica chi gli fa male e benedice chi lo ingiuria, gli chiude la bocca e vince, come scrive S. Paolo, col bene il malvagio. Si ritragga dal male, faccia il bene, cerchi la pace e la procacci. „ Quest’altra sentenza, tolta dallo stesso Salmo, è amplissima, vedete, e contiene quattro cose distinte, che S. Pietro conferma e raccomanda e sulle quali mi passo. Fuggire il male, fare il bene, cercare la pace e conservarla con ogni diligenza, le sono cose generalissime, sulle quali non occorre fermarci, e perciò passiamo all’altra sentenza del Salmo. – “Perché gli occhi del Signore sono sopra i giusti, e i suoi orecchi sono intesi alle loro preghiere; ma il suo volto sta contro quelli che fan male. „ Il fissare gli occhi sopra una persona può avere un doppio significato affatto contrario: gli occhi si fissano sopra una persona per mostrare ira e disprezzo, o per mostrare compiacenza ed amore. Si guarda il nemico con occhi torbidi, fieri, dispettosi; la madre sul bambino, che porta sulle braccia, tiene fissi gli occhi pieni di letizia e d’amore. In qual senso il Salmista afferma che Dio tiene fissi gli occhi sui giusti? Evidentemente li tiene fissi sopra di loro con cura ed affetto paterno, perché si tratta di giusti, che sono figli bene amati. Dio poi verso di loro tiene aperte le orecchie per udire le loro preghiere ed esaudirle. Come è bella e soave questa pittura, che il Salmista fa di Dio rispetto ai buoni! Iddio li guarda amoroso, li ascolta sollecito, come un padre, anzi come una madre fa con i suoi figli: la madre è tutta intenta ai bisogni dei figli, li mira tacita, li previene ed appena ode un loro grido, un gemito, vola a loro e darebbe per essi la vita. È questa una poverissima immagine delle sollecitudini amorose, onde Iddio circonda i giusti e provvede ai loro bisogni. Che se Dio è tutto tenerezza verso dei giusti, il suo volto, dice il salmista, è pieno di sdegno e di terrore contro i malvagi, per scuoterli e ridurli a miglior consiglio. Non è mestieri, o dilettissimi, il dirvi che in questo luogo della sacra Scrittura, come in mille altri, si parla di Dio, come se fosse un uomo, che ha occhi, orecchie e volto, mentre per ragione sappiamo e per fede, che Dio è puro spirito e come tale non ha né occhi, né orecchi, né volto, ma solo mente e volontà, come si conviene alla natura sua semplicissima. – Qui S. Pietro ripiglia la sua esortazione e scrive: “E chi mai potrà recarvi danno, se siete studiosi del bene? „ Sopra ha detto ai suoi discepoli, che non rispondano male per male, ma benedicano a chi li maledice, e qui a confermarli nel bene aggiunge: Se voi fate bene a tutti, anche a chi vi odia, e se volgete in vostro vantaggio il male, che tentano di farvi i nemici, chi mai potrà recarvi danno? Non ve lo possono fare, i nemici; chi dunque ve lo farà? Ai giusti, ai veri figli di Dio tutto giova sulla terra e tutto si volge a bene, dice S. Paolo: Omnia cooperantur in bonuum. Giovano i favori e le benedizioni degli uomini, come le contraddizioni e le maledizioni, perché i giusti da tutto traggono occasione di esercitare la virtù e di servire a Dio. – “Che se pure, così S. Pietro, soffrite alcuna cosa per la giustizia, felici voi!” È questa una sentenza tolta quasi di peso dal Vangelo, dove Cristo dice: “Beati quelli che soffrono persecuzione per la giustizia; „ e ancora : “Beati voi allorché gli uomini vi avranno maledetti e vi avranno perseguitato: godete ed esultate, perché grande è la vostra mercede. „ E non temete di loro, né vi turbate, soggiunge S. Pietro. A che temere quelli che vi odiano, vi maledicono e vi perseguitano? Essi vi spianano la via del cielo, vi preparano la corona, e se possono togliervi il corpo, non possono togliervi l’anima, né torcervi un solo capello. Dunque bando ad ogni timore non solo, ma ad ogni più lieve turbamento: Non conturbemini. – Ci resta da spiegare l’ultimo versetto: “Adorate nei vostri cuori Cristo Signore. „ Il testo della nostra Volgata dice: “Santificate”, parola che risponde all’adorate, nel senso preciso che ha pure nell’orazione domenicale, in cui diciamo a Dio; ” Sia santificato il vostro nome, „ cioè siate onorato, glorificato, e adorato. Come doppia è la nostra natura, così doppio vuol essere il culto, che tributiamo a Dio, il culto dello spirito e del cuore, che è interno, e il culto del corpo, che è esterno: questo non può mai separarsi da quello e, se è separato, si risolve o in una ipocrisia o in atti materiali senza valore dinanzi a Dio. Il culto del cuore deve precedere ed informare il culto esterno come l’anima informa il corpo, e benché il primo alcune volte possa esistere senza il secondo, tuttavia ordinariamente lo trae seco come una necessità: è come il pensiero, che produce naturalmente la parola. San Pietro in questo luogo inculca ai suoi figliuoli questo culto interno, questa adorazione di Cristo nel cuore, causa e radice del culto esterno. Miei cari! Dio è spirito, disse Gesù Cristo alla samaritana, e perciò vuole che gli uomini lo adorino anzi tutto in spirito. Allorché pertanto vogliamo o dobbiamo adorare Iddio, poniamoci dinanzi alla sua maestà infinita, raccogliamo i nostri pensieri ed i nostri affetti, ritiriamoci nel santuario della nostra mente e del nostro cuore, e quivi riconosciamo il nostro nulla e la grandezza di Dio: questo conoscimento, questo sentimento intimo del nostro nulla, e del tutto che è Dio, mentre fa curvare tutto l’essere nostro al cospetto di quella immensa grandezza e quasi lo annienta, fa piegare le nostre ginocchia e la nostra fronte e fa risuonare sulla nostra lingua quelle parole di S. Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!” Allora adoriamo Dio nei nostri cuori: Dominum Christum sanctificate in cordibus vestris. –  È questo adorare Dio in spirito e verità.

Graduale

Ps LXXXIII:10; LXXXIII:9

Protéctor noster, áspice, Deus, et réspice super servos tuos, [O Dio, nostro protettore, volgi il tuo sguardo a noi, tuoi servi]

V. Dómine, Deus virtútum, exáudi preces servórum tuórum. Allelúja, allelúja [O Signore, Dio degli eserciti, esaudisci le preghiere dei tuoi servi. Allelúia, allelúia]

Alleluja

Ps XX:1

Alleluja, alleluja Dómine, in virtúte tua lætábitur rex: et super salutáre tuum exsultábit veheménter. Allelúja. [O Signore, nella tua potenza si allieta il re; e quanto esulta per il tuo soccorso! Allelúia].

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthæum.

Matt V:20-24

“In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Nisi abundáverit justítia vestra plus quam scribárum et pharisæórum, non intrábitis in regnum coelórum. Audístis, quia dic tum est antíquis: Non occídes: qui autem occídent, re us erit judício. Ego autem dico vobis: quia omnis, qu iráscitur fratri suo, reus erit judício. Qui autem díxerit fratri suo, raca: reus erit concílio. Qui autem díxerit, fatue: reus erit gehénnæ ignis Si ergo offers munus tuum ad altáre, et ibi recordátus fúeris, quia frater tuus habet áliquid advérsum te: relínque ibi munus tuum ante altáre et vade prius reconciliári fratri tuo: et tunc véniens ófferes munus tuum.”

[In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli: Se la vostra giustizia non sarà stata più grande di quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel Regno dei Cieli. Avete sentito che è stato detto agli antichi: Non uccidere; chi infatti avrà ucciso sarà condannato in giudizio. Ma io vi dico che chiunque si adira col fratello sarà condannato in giudizio. Chi avrà detto a suo fratello: raca, imbecille, sarà condannato nel Sinedrio. E chi gli avrà detto: pazzo; sarà condannato al fuoco della geenna. Se dunque porti la tua offerta all’altare e allora ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta all’altare e va prima a riconciliarti con tuo fratello, e poi, ritornato, fa la tua offerta.]

Omelia

Omelia della Domenica V dopo Pentecoste

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

– Falsa pietà –

Se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella che vantano gli scribi e i farisei, voi non entrerete nel regno dei cieli. “Nisi abundaverit iustitia vestra plusquam scribarum et pharisæorum, non intràbitis in regnum cœlorum”. Così il divin Salvatore nell’odierno Vangelo ai suoi discepoli e a noi. E perché minaccia così decisa e formidabile? Perché la giustizia e la pietà de’ farisei e degli scribi era tutta riposta in una superficiale corteccia, in una esteriore apparenza. Non fu già tale la giustizia e la pietà del santo precursore Giovanni Battista, [ … di cui in questo dì si celebra la solenne rimembranza del suo nascimento]. Basti il dire che fu canonizzato dalla bocca di Gesù Cristo per il maggiore di tutti i santi: “non surrexit maior Joanne Baptista”. Egli infatti fu una città ben munita, una colonna di ferro, una muraglia di bronzo. Così lo caratterizza la Chiesa con quelle parole, che disse già Iddio al profeta Geremia: “Dedi te … in civitatem munitam, et in columnam ferream, et in murum aeneum” (cap. 1, 18). Esso fu una città munita nella sua nascita, una colonna di ferro nella sua vita, una muraglia di bronzo nella sua morte: una città munita sulle montagne della Giudea, una colonna di ferro nel deserto, una muraglia di bronzo nella Caldea, e nel castello di Macheronte. Ecco tutto l’encomio di colui che nasce, che vive, che muore da giusto. Vediamo se può reggere al suo confronto la nostra giustizia, o se più tosto è simile all’apparente giustizia e falsa pietà degli scribi e de farisei.

I. – Là sui monti della Giudea nasce Giovanni come la stella mattutina foriera del giorno: fin dal seno materno è dotato dell’uso perfettissimo della ragione, santificato prima di nascere, ripieno di Spirito Santo. Di Spirito Santo è ripiena la madre sua Elisabetta, e profetizza: di Spirito Santo è ripieno Zaccaria suo padre, e scioglie anch’esso prodigiosamente la lingua in profezie. Gode per tre interi mesi l’assistenza di Maria, e quella di un Dio umanato, che si fa conoscere nell’utero verginale da lui che esulta nell’utero materno. Oh che città ben munita! “Dedi te in civitatem munitam”. – Anche noi nello spirituale nostro rinascimento fummo ripieni di Spirito Santo: lo Spirito Santo venne ad abitare nelle anime nostre come un tempio vivo. La grazia santificante ci costituì figliuoli di Dio ed eredi del celeste regno; l’acqua rigenerante impresse nel nostro spirito l’indelebile carattere di cristiani, ed infuse nel nostro cuore gli abiti delle soprannaturali virtù: Fede, Speranza e Carità. Una città ben munita e ben difesa fu altresì la nostra anima, “dedi te civitatem munitam”. Ma ohimè! Che allo spuntar dell’uso della ragione questa mistica città fu dai nemici circondata ed assalita, e forse la maggior parte di noi deve piangere la sua caduta! Che se poi fu riedificata, come le mura di Gerusalemme, nel Sacramento della Penitenza, ecco il modo di mantenerla costante nella spirituale sua restaurazione. – In quella guisa si conserva sicura dall’invasione ostile una città ben cinta di mura e di antemurale; così la nostra anima si manterrà nella santificante grazia ricevuta nel Battesimo o recuperata nella sacramental Penitenza, se dall’eterne massime e dall’evangeliche verità sarà ben custodita e difesa. Un cristiano che illuminato da viva fede vada dicendo a se stesso: “A che fare, ed a che fine Iddio mi ha posto in questo mondo?” – Per amarlo, per servirlo nel breve pellegrinaggio di questa vita, e poi goderlo eternamente nella patria de’ beati. Un po’ più tardi, un po’ più presto convien partire, non è questo il luogo di una permanenza: “Non habemus hic manentem civitatem, sed futuram inquirimus” (Ad Hebr. XIII, 14). Si avvicina la morte, si avvicina 1’eternità, l’eternità felice o sventurata; quale di queste due sarà per toccarmi? Quale mi fa sperare o temere la vita che meno: son io in stato di grazia o di peccato? Se in stato di grazia, che fo per conservarla? Se in stato di peccato, che fo per uscirne? Eh via si risolva. Voglio lasciar il peccato, voglio staccarmi da questo mondo, voglio darmi a Dio, voglio salvarmi. Oh questa sì che è una città ben munita! Che se per mala sorte cadono a terra questi ripari, ella è perduta. “Luxit antemurale, et murus pariter dìssipatus est. Defixæ sunt in terra portæ eius” (Thren. 8.9) . – Ma che gioverebbe ad una città essere ben fortificata, se dal proprio principe non venisse provveduta degli opportuni sussidi? E come potrebbe un’anima sussistere in grazia, se da Dio non fosse custodita e protetta? Nisi Dominum custodierit civitatem, frustra vigilat qui custodit eam (Ps. CXXVI, 2). Questi aiuti però tanto necessari, acciò non cada in man de’ nemici, Iddio è sempre pronto a concederli a condizione facilissima, che si domandino con umili, fervide ed incessanti preghiere. La grazia e la preghiera, dice il re Profeta (Ps. LXV, 29), vanno del pari. Eccettuata, soggiunge S. Agostino (Lib. De Eccl. Dogm. C. 58), la prima grazia della fede per un infedele, tutte l’altre a noi derivano pel canale della preghiera. Petite, et accipietis (Lc. II, 9), c’inculca il nostro divin Salvatore, pel desiderio ch’Egli ha di esaudirci, e per animare la nostra fiducia, ci assicura di favorevole rescritto con affermativa sua ripetuta parola: “Amen, amen dico vobis, si quid petieritis Patrem in nomine meo dabit vobis(Io. XVI, 23).

II. Ritorniamo al Battista. Ei fu una colonna di ferro nel deserto: “Dedit te … in columnam ferream”. Miratelo in quelle orride selve mal coperto di ruvida spoglia, il suo cibo son vili locuste é miele silvestre, la sua bevanda è l’acqua del fonte, la sua abitazione le grotte e le caverne, il suo letto il nudo terreno. Or come durarla dagli anni più teneri fino alla virilità in tanta inedia, in tanta nudità, esposto all’inclemenza delle stagioni? Come soffrire il tedio di tanta solitudine, la pena di sì lungo silenzio, l’asprezza di vita sì austera? Ecco il perché: la sua virtù superiore a tutti i gusti del senso, a tutt’i reclami dell’umanità, a tutti i bisogni della natura, era a somiglianza del ferro che doma tutti i metalli: “Dedi te in columnam ferream”. Gesù Cristo infatti interrogando i suoi discepoli disse loro: “Che avete veduto nel deserto, vedendo Giovanni? Una canna forse, una fragile canna agitata dal vento”? Non già, avrebbero potuto rispondere, ma una colonna inflessibile di costanza e di fermezza. – Uditori carissimi, a che dobbiamo paragonare la nostra pietà? Alla colonna del Battista, o alla canna del deserto? Non v’è simbolo forse più espressivo della falsa pietà, che una canna. Ella è vuota, sterile, infeconda, e secondo la varietà de’ venti or si piega dall’una, or dall’altra parte, e quando spira un’aurea leggera, pare che applauda a se stessa col rumoreggiare delle foglie. Canna vuota è colei che finge devozione per attirarsi la stima degli uomini; canna sterile è chi mena vita molle, dissipata, oziosa; canna pieghevole, agitata, instabile, è chi si lascia trasportare dalle proprie passioni; canna che applaude a se stessa, è chi pieno di vanità e gonfio di superbia non ha concetto, non ha amore, che per sé. Altri, è vero, si accostano alla sacra Mensa; pare col modesto atteggiamento, colla devota compostezza, che onorino quel Dio che ricevono; ma L’insultano, invece perché ricevendo il Principe della pace, sono in guerra coi loro prossimi, sono in discordia nelle loro famiglie; si pascono delle carni immacolate del divino Agnello, ed hanno il cuore macchiato da affetti troppo sensibili, e talvolta ancor sensuali; danno a Gesù un bacio di apparente amicizia; ma è bacio di tradimento, bacio di Giuda. Son simili costoro a quella canna posta dai Giudei in mano di Gesù Cristo schernito d’onore, perché in forma di scettro; ma in realtà era uno scettro di scorno, d’ignominia, di contumelia. – Si esercitano altri in opere di carità, ma per gloria vana; distribuiscono limosime, ma per ostentazione; soccorrono infermi, ma per aver nome nel testamento; assistono moribondi, ma per aver parte nell’eredità; proteggono la vedova e la pupilla, ma per facilitarsi l’accesso alle loro case, la libertà in trattarle, e insidiare così a colpo più franco alla loro onestà. Somiglianti son questi a quella canna, di cui si servirono i manigoldi a temperare le arsure di Gesù Cristo sitibondo sulla croce. Sembrava tal canna, su la cui cima era applicata un’umida spugna, sembrava strumento di ristoro e di conforto, ma era ristoro di aceto mordace, ma era conforto di amarissimo fiele.

III. – Fu finalmente Giovanni Battista un muro di bronzo nella Galilea, e nel castello di Macheronte: “Dedi te in murum æneum”. Dopo aver predicato alle turbe la penitenza in riva al Giordano, fa il precursore di Cristo penetrar la sua voce nella reggia d’Erode Antipa, ed animato da santo zelo della legge di Dio: non ti è permesso, gli dice, tener presso di te, come tua, la moglie di tuo fratello Filippo, ancora vivente; egli è questo un enorme adulterio, un abominevole incesto. “Non licet tibi habere uxorem fratris tui(Io. VI, 18); e come un muro di bronzo si oppose costantemente alla pratica iniqua di due potenti regnanti. – È tale la nostra fermezza nella giustizia e nella cristiana pietà? Tale sarà, se qualora ci venga proposta un’antidata a falsificare uno scritto, risponderemo, “non licet”. Tale sarà se chiamati a giurare contro la verità, se al presentarsi un ingiusto guadagno, un contratto usurario, un’opportunità di vendetta, una qualunque occasione di peccato, diremo a noi stessi: “non licet, non licet”… Se fummo per lo passato muraglie pendenti, giusta la frase del re Salmista, e macerie sconnesse per l’inclinazione al senso, all’interesse, alle cose terrene, imitiamo ora la generosa fortezza del Santo precursore, come muraglia di bronzo, in resistere a tutto ciò ch’è contrario alla retta coscienza, e alla santa legge di Dio. – Ancor uno sguardo al Battista, acciò l’imitazione delle sue virtù e dei suoi esempi sia in noi perfettamente compiuta. Nella prigione del castello di Macheronte ove per odio dell’empia Erodiade sta rinchiuso, egli corona la sua costanza e la sua vittoria, lasciando la testa sotto la spada del carnefice in testimonio della verità da lui predicata. – Fedeli miei dilettissimi, notate bene. Se noi non ci troviamo in questa necessaria disposizione di dar la testa, il sangue, la vita prima che commettere un solo peccato mortale, non è vera la nostra pietà, è falsa la nostra giustizia. “Prima la testa in terra, – dobbiamo dire col beato Leonardo – che il peccato nell’anima”. Questa assoluta risoluzione, conviene ripeterlo, è cotanto necessaria ed indispensabile, che se con pienezza d’animo e decisa determinazione di volontà non siamo in grado di dire e protestare, prima qualunque disgrazia, prima la morte, e qualunque morte, che offendere Dio con grave peccato, è vana la nostra fede, falsa la nostra opinione, bugiarda la nostra pietà, fallace la nostra giustizia. Giustizia da Farisei e da Scribi, che, come dal bel principio vi accennai, non può aver ingresso nel regno dei cieli: “Nisi abundaverit iustitia vestra plus quam Scribarum et Pharisæorum, non intrabitis in regnum cœlorum”. 

Credo …

Offertorium V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus Ps XV:7 et 8. Benedícam Dóminum, qui tríbuit mihi intelléctum: providébam Deum in conspéctu meo semper: quóniam a dextris est mihi, ne commóvear. [Benedirò il Signore che mi dato senno: tengo Dio sempre a me presente, con lui alla mia destra non sarò smosso.]

Secreta

Propitiáre, Dómine, supplicatiónibus nostris: et has oblatiónes famulórum famularúmque tuárum benígnus assúme; ut, quod sínguli obtulérunt ad honórem nóminis tui, cunctis profíciat ad salútem. [Sii propizio, o Signore, alle nostre suppliche, e accogli benigno queste oblazioni dei tuoi servi e delle tue serve, affinché ciò che i singoli offersero a gloria del tuo nome, giovi a tutti per la loro salvezza.]

Communio

Ps XXVI:4 Unam pétii a Dómino, hanc requíram: ut inhábitem in domo Dómini ómnibus diébus vitæ meæ. Una cosa sola chiedo e chiederò al Signore: di abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita.

Postcommunio

Orémus. Quos cœlésti, Dómine, dono satiásti: præsta, quæsumus; ut a nostris mundémur occúltis et ab hóstium liberémur insídiis.

 

IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (6)

CAPITOLO XII

INFLUSSO DEL PAGANESIMO CLASSICO SULLA LINGUA

Se è cosa innegabile che il paganesimo introdotto nella educazione della gioventù modificò profondamente i pensieri, e, in qualche guisa, l’essere dei popoli moderni, è pure innegabile che la forma del pensiero, cioè la parola e l’Arte, deve portare tracce non meno profonde di simile influsso. A quanto abbiamo detto della poesia e della letteratura aggiungiamo una parola sulla lingua ordinaria, la quale riceve più direttamente l’influsso della letteratura o della lingua dotta. Parleremo poscia dell’Arte. – Tutti sanno che lo stile è l’uomo; che la lingua di un popolo altro non è se non la forma esterna del suo pensiero, dei suoi gusti, del suo modo di giudicare e di sentire. Se un tal popolo è cristiano, la sua lingua sarà cristiana; se un tal popolo è profondamente cristiano, la sua lingua sarà profondamente cristiana. All’opposto, se un tal popolo è pagano, la sua lingua sarà pagana; s’esso è profondamente pagano, la sua lingua sarà profondamente pagana. Egli è questo un infallibile termometro per giudicare che fatta d’idee regni in un popolo egualmente che in un uomo. – Ora abbiamo veduto che da secoli il paganesimo, cioè il naturalismo ed il sensualismo, giungendo incessantemente per la grande strada dell’educazione alla radice stessa della società, penetrò profondamente fra i popoli d’Europa. Che la loro lingua portar ne debba l’innegabile suggello, il solo enunciare così fatta proposizione si è un dimostrarla: tuttavia, stabiliamola con fatti. Nel medio-evo, la lingua delle nazioni d’Europa è affatto calcata sulla lingua religiosa: essa ne è, per dir così, profumata. Lo spiritualismo ed il sovrannaturale si rinvengono d’ogni parte; le parole cristiane, i nomi sacri escono naturalmente d’ogni labbro: il sugo cristiano anima la parola e vivifica il pensiero. La parola, a volte grave, semplice, nobile, viva, abbondante, naturale, affettuosa e sempre vera, comunica tutte codeste qualità al pensiero. Nulla di più agevole a provare. Basta, per questo, aprire i Capitolari dei nostri re e le carte degli antichi tempi; di consultare i nostri storici, quali Joinville, Froissard o Davila; di leggere i discorsi dei cancellieri delle nostre Università, le Mercuriali dei presidenti dei nostri Parlamenti, ed altri documenti pubblici od ufficiali. – Giunge il paganesimo classico: tosto la lingua muta carattere. Essa comincia dal perdere la sua abbondanza e la sua semplicità. Fénélon medesimo non poté non farne l’osservazione. « La nostra lingua, egli dice, manca di un gran numero di parole e di frasi: mi sembra anzi che sia stata imbarazzata ed impoverita da cento anni in qua volendola purificare. È vero che era ancora un po’ informe e troppo verbosa. Ma la vecchia lingua si fa desiderare quando la troviamo in Marot, in Amyot, nel cardinale d’Ossat, nelle opere le più gaie e nelle più serie: essa possedeva non so che di breve, d’ingenuo, di ardito, di vivo, di appassionato (Lettera sull’eloquenza.). » Quindi il sugo cristiano diminuisce; il sovrannaturale diventa più raro; le antiche formule che l’esprimevano sì bene o spariscono del tutto, o sono notevolmente alterate. Se ancor ne rimangono vestigie, nella lingua del popolo fa mestieri cercarle: la lingua dei letterati ne è sprovveduta. Per lei, le parole cristiane paiono anticaglie. Essa non le pronuncia più se non se di raro e come a malincuore.Quindi l’adorabile nome di Nostro Signor Gesù Cristo non si trova una sola volta scritto in tutte lettere nei discorsi del mondo legale da più di sessant’anni in qua. Mentre l’uomo del mondo si fa una gloria di citare Orazio e Virgilio, non gli avviene mai di citare una massima dell’antico o del nuovo Testamento. I nomi dei filosofi pagani gli spuntano naturalmente sulle labbra; quelli degli Apostoli o dei Profeti mai o quasi mai. S’egli vuol fare l’elogio di una virtù, non dice già una virtù cristiana, ma sì una virtù antica; s’egli vuol offrirci il tipo di un grande carattere, non dice già un carattere cristiano, ma sì un carattere antico. Dovunque può, sostituisce parole pagane o profane, parole di significazione meramente naturale alle parole di significazione sovrannaturale. Per dire Iddio, dice Divinità, Essere supremo, Natura; per dire religione, culto; per dire fede, convinzioni od opinioni religiose; per dire carità, filantropia, umanità; per dire elemosina, assistenza. Sull’orlo della tomba, il requiescat in pace cattolico dà luogo alla formula pagana: la terra ti sia leggera. Facile cosa sarebbe il citare una quantità di altre sostituzioni, testimonio manifesto dell’alterazione del pensiero cristiano. Non parlo di un grandissimo numero di parole o di formule della lingua religiosa, che mai non si trovano in certi scritti, in certe storie, in certe opere sulle scienze fisiche o politiche, se non forse con accompagnamento di dispregio e di bestemmia. Ciò è così vero, che voi potete conversare a lungo con un letterato, non importa su quale argomento, sènza riconoscere al suo linguaggio s’egli è ebreo, protestante o seguace di Budda. Lo stesso ne è della maggior parte delle moderne scritture: l’impronta cattolica ne è talmente dileguata, che quasi sempre si può chiedere se l’autore ha una religione e se lo scritto vien da Parigi, da Ginevra o da Costantinopoli. Ora, tutto ciò è ad un tempo una ridicolezza, una vergogna ed uno scandalo; ma è il frutto legittimo del paganesimo classico. È una ridicolezza, poiché vi è lo strano contrasto delle parole pagane e delle anime battezzate; è una vergogna, perché vi è un sintomo dell’indebolimento e della perdita totale della fede; è uno scandalo, perché le nazioni non più potendo distinguere ciò che noi siamo in fatto di religione, vuoi al nostro linguaggio, vuoi ai nostri pubblici costumi, non sanno qual posto assegnarci fra i popoli. Questa ridicolezza, questa vergogna, questo scandalo, diventarono nel calendario repubblicano la lingua ufficiale della nazione, la quale, nutrita di paganesimo, cioè di sensualismo e di naturalismo, trovava affatto logico conformarsi ai suoi modelli così nel suo linguaggio come nelle sue istituzioni e nei suoi costumi. Pronta giustizia, è vero, fu fatta di una tale prova prematura. Nondimeno, se vogliamo sapere a qual grado di profondità il paganesimo sia penetralo nello spirito pubblico, con quanta forza si sia fermato nelle nostre idee, e quale immensa via ci abbia fatto fare, basta un semplice confronto, il cui profondo significato non potrebbe essere negato.Oltre l’interesse morale ch’esso offre, un tal confronto ha un interesse di curiosità altrettanto più vivo, in quanto che a mia saputa non fu mai fatto. Io lo rinvengo nel nome del vascelli, a tre secoli di distanza. Scelgo questo punto di confronto, perché gli elementi ne son certi; perché i due fatti paragonati sono una manifestazione autentica del pensiero dominante nelle due età; finalmente perché il fatto contemporaneo è talmente accettato, che non si potrebbe tentare di nulla cambiarvi senza cagionare un immenso stupore e senza suscitare una infinità di reclamazioni e di sarcasmi.Nel 1571 dunque, i vascelli delle grandi potenze marittime d’Europa si trovavano riuniti nel golfo di Lepanto, in cui dovevano riportare la celebre vittoria che annientò nelle onde la potenza invaditrice dell’Islamismo. In allora, sebbene il paganesimo classico fosse in tutto il suo fervore, non si trovavano ancora in una flotta di 204 navi se non due nomi pagani, quelli di Diana e di Sirena, mentre quella ci offre sessantotto nomi di santi o di sante. Ecco ora il secondo termine di paragone. Il quadro generale della marineria francese, pubblicato nel 1846, offre 371 navi di ogni grandezza. Di queste 371 navi non una sola porta un nome di santo (bisogna eccettuare il Santi-Petri che non è d’origine francese), mentre ottantacinque hanno nomi pagani, e quanto v’è di più pagano.—Questo confronto prova certamente qualche cosa, poiché il linguaggio, massime poi il linguaggio ufficiale, esprime le idee dominanti in un popolo, a quella guisa che il termometro è l’indicatore fedele dei gradi della temperatura. Ma se vogliamo sapere tutto ciò che prova, bisogna ricordarsi non solo che quei nomi pagani furono imposti ai nostri vascelli da uomini letterati, ma eziandio ch’essi non sono disapprovati da nessuno: bisogna ricordarsi inoltre, che, in tutto il rimanente la lingua seguì lo stesso moto, cosicché la nomenclatura pagana della marineria non è già un fatto isolato, ma semplicemente un punto di vista di un fatto universale. Ciò posto, per misurare con esattezza, se non matematica, almeno approssimativa, la strada percorsa dal paganesimo in Europa da tre secoli, bastano (sembra) le regole di proporzione seguenti: Nel secolo decimosesto, il paganesimo stava alla società come due sta a duecento quattro. Trecent’anni più tardi, oggidì, il paganesimo sta alla società come ottantacinque sta a trecento settantuno. Checché ne sia del valore assoluto di siffatto calcolo, non è però nien vero che, per nominare le più magnifiche opere del suo genio, di quel genio ch’ei ricevette da Dio e per la gloria di Dio; che, per porre i suoi vascelli sotto la protezione celeste; che per ispirare ai suoi marinai perduti frammezzo l’Oceano, lontani dalla patria, esposti a formidabili pericoli, consolanti e salutari pensieri, il Regno Cristianissimo non seppe pronunciare una volta sola il nome di un santo, non seppe volgere una sola volta i suoi sguardi verso il ciclo! In cambio seppe percorrere tutte le contrade pagane, rammentare tutti i nomi pagani, evocare tutti gli Dei celesti, terrestri e infernali per battezzar le sue navi e loro affidare i suoi naviganti! È un’altra Firenze, la regina della pittura, la quale colloca ogni sala della sua Galleria sotto il vocabolo di una divinità pagana. Dovunque, lo stesso linguaggio; dunque da per tutto la stessa idea.

CAPITOLO XIII

INFLUSSO BEL PAGANESIMO CLASSICO SULLE ARTI

L’influsso pagano, che abbiamo provato sulla lingua, dovette di necessità pesare sulle arti, nuova manifestazione del pensiero. Ora, vi è un’Arte cristiana, come vi è una letteratura cristiana. Nata il primo giorno che il cristianesimo celebrò gli augusti suoi misteri, vuoi nel cenacolo di Gerosolima, vuoi nelle catacombe di Roma, cotale Arte lasciò da per tutto tracce di sua esistenza. Sviluppatasi cogli anni, essa aveva, molto tempo prima del secolo decimoquinto, raggiunto un alto grado di perfezione. – Il medio-evo aveva veduto il più prodigioso progresso artistico, di cui la storia d’un popolo faccia menzione. – Cominciando il secolo undecimo, il mondo cristiano pressoché tutto, ma specialmente l’Italia e le Gallie, preso ad un tratto da un divino entusiasmo, si pose a rinnovare le sue antiche basiliche, quantunque la maggior parte fossero in condizioni convenevole in ricchezza e di conservazione. Una sublime rivalità nacque tra i popoli a chi ergerebbe i più magnifici monumenti. Le flotte dei Pisani, dei Genovesi e dei Veneziani solcavano tutti i mari, visitavano tutte le isole per toglierne l’alabastro, il porfido ed i marmi i più rari. Non mai i Romani fecero scorrere, per edificare i giganteschi loro monumenti, le loro strade, i loro acquedotti, le loro naumachie, ì loro circhi ed i loro anfiteatri, fiumi d’oro sì abbondanti come quelli che i religiosi nostri antenati scorrer fecero per costruire le loro cattedrali e per ornarle. Detto sarebbesi che il mondo medesimo, scuotendo le vecchie sue vesti, avesse fretta di coprirsi, come di un manto di gloria, di chiese, di basiliche sfolgoreggianti d’azzurro, d’oro e di porpora. Lo stesso progresso continuò nei tre secoli seguenti. Sul finire di sì glorioso periodo, l’Europa apparisce agli occhi stupefatti risplendente di capi d’opera d’architettura, di scultura, di mosaico, di pittura e di cesellatura che noi possiamo bensì ammirare, eguagliare non mai. Infatti, mentre il genio della Fede, personificato in Italia, in Francia, in Inghilterra, in Alemagna, in una quantità di grandi uomini sconosciuti, lanciava negli spazii quelle cattedrali a proporzioni gigantesche e perfettamente armoniche, esso animava del divin suo soffio lo scultore che tagliava in merletto le miriadi di guglie, la cui punta slanciata sembrava recare la preghiera sino al cielo; poscia faceva uscire dalla pietra e dal marmo quei popoli interi di statue, i quali, per ammaestrare della vita il pellegrino, gli riponevano solt’occhio le auguste e formidabili reatà del mondo futuro, le battaglie ed i trionfi di coloro che preceduto l’avevano nel pellegrinaggio dal tempo alla eternità. – Guidato dalla mano immortale di Cimabue, di Pisano, di Giotto e di altri molti, il pennello cattolico scriveva sulle muraglie delle basiliche, e talora sulle pareti delle più umili cappelle, la meravigliosa epopea del Cristianesimo, ed innalzava l’arte ad una perfezione da far disperare i meno valenti. Il mosaicista smaltava, come un pavimento, lo spazzo e la volta del tempio di fiori immortali e di disegni a mille colori; il cesellatore incideva sui vasi sacri o i misteri dell’Uomo-Dio, o le vite dei santi, o gli emblemi delle Virtù: il vetraio, l’orefice, il ricamatore gareggiavano di zelo e di fortuna, in guisa che appena era dato d’incontrare un umile tempio, un povero monastero che non contenesse qualche prezioso oggetto d’arte. In una parola, grazie al cristianesimo, che in allora operava nella pienezza del suo potere, l’Europa fu un vero museo, ma un museo casto, morale, nel quale l’Arte, diventata ciò che esser deve, un sacerdozio, aveva tradotto in capi d’opera d’ogni genere il principio spiritualista che la inspirava. – A tale punto si era quando il paganesimo classico invase l’Europa. Ora egli è nella natura delle cose che le arti ricevano l’impulso dalla letteratura e camminino nella sua via. Diventata pagana, la letteratura comunicò dunque alle arti una direzione pagana. La pittura fu la prima a prestare il suo concorso a questa felice restaurazione del paganesimo in seno delle genti cristiane. A questa età, per la prima volta il pennello del pittore, che la religione consacrato aveva presso che esclusivamente a esprimere le cose sacre, fu prostituito a riprodurre le divinità e i fatti mitologici sulla tela, sulle pareti e persino sulle volte dei palazzi. Dalle dimore dei grandi si videro sparire i quadri religiosi per dare luogo alle infamie della favola. Per avere un’idea della licenza e dell’impudente oscenità delle pitture fatte a quest’epoca, basti dire che gli Dei e le Dee d’Olimpo, in uno stato di nudità totale e nelle più lubriche attitudini, ornano le gallerie delle case principesche, così che gli occhi i meno casti non le possono mirare senza che la fronte arrossisca. Si è senza dubbio per questo, che l’accesso a tali gallerie non è lecito a tutti, ma solo alle persone d’una classe elevata, e solo nei giorni di ricevimento; certo, in quei giorni, e per tali persone, quei quadri non hanno nulla che offender possa il pudore! Non bastò il riempiere le case di Veneri, di Ninfe, di prostitute; la licenza dell’Arte, fatta pagana, giunse sino a macchiare la santità dei templi del vero Dio. L’antichità cristiana aveva sempre abbigliato di vesti e di eleganti drappi gli angeli, rappresentati nell’atteggiamento d’un pudore tutto celestiale; in questo secolo furono affatto svestiti, e presentati agli occhi dei fedeli sotto la forma di Genii pagani. Si andò anche più lontano, dipingendo i santi e le virtù. Uomini e donne per metà nude, tali furono i santi, le sante e le virtù che furono offerte alla venerazione dei cristiani. Fra mille esempi, ne citerò un solo, il Giudizio finale di Michelangelo. In questo quadro, in cui la carne domina ben più che non lo spirito, in cui la nudità delle membra cancella l’idea cristiana, si ammirano la perizia del pittore, il vigore del suo pennello, la possanza del suo genio: ma il sentimento cristiano non vi si trova quasi, e la pietà ancora meno. Come, per esempio, sopportare l’idea che il supremo Giudice dei vivi e dei morti abbia l’aria irritata d’un semplice mortale, l’atteggiamento convulsivo di Giove che lancia il fulmine, o di Nettuno che biasima i flutti? In questa mancanza di verità traspare l’influsso del mito olimpico sovra il genio dell’artista cristiano. Raffaello medesimo fu trascinato dal torrente. Il mirabile ingegno ch’egli aveva ricevuto dal cielo per predicare lo spiritualismo cristiano, fu da lui prostituito troppo spesso al sensualismo pagano. Primieramente ei non arrossì dal riprodurre, non so quante volte, la più infame delle Dee; poscia dal macchiare i suoi quadri religiosi, anche i più pregiati, colle figure di meretrici. Lo stesso ne è del Tiziano, di Giulio Romano e di tutti gli altri pittori, discepoli del Rinascimento. Per giudicare d’un solo colpo d’occhio la fatale influenza del paganesimo sulla pittura, basti visitare la galleria del palazzo Pitti a Firenze. Qui comincia il pagano sensualismo; qui, per consacrare in qualche guisa le rimembranze della sua culla, esso riunisce la più parte delle opere capitali dovute alla sua ispirazione. Vi si vede cogli occhi, vi si tocca colle mani questa verità, che il Rinascimento fu in pittura ciò che esso fu in letteratura: il culto della forma e l’apostolato del sensualismo. Questo tempio della pittura si divide in quindici cappelle o sale. Non una ha ricevuto una denominazione cristiana; tre hanno nomi insignificanti: sale della Stuffa, dei Ragazzi, dei Poccetti. Le altre dodici hanno il nome di una divinità pagana o d’un semideo: sala di Venere, sala d’Apollo, sala di Marte, sala di Giove, sala di Saturno, sala dell’ Iliade, sala dell’Educazione di Giove, sala di Ulisse che ritorna in Itaca, sala di Prometeo, sala della Giustizia, sala di Flora, sala della Musica. Per tema che non si capisca il pensiero che presiedette a tali disposizioni ed a tali denominazioni, le ultime sale sono le più magnifiche, quella di Venere è la prima. Ogni divinità tutelare è dipinta sul soffitto della sua sala coi suoi casti attributi, ossia nello adempiere qualche azione mitologica; azioni, l’una più dell’altra capace di ispirare celesti pensieri!! Al disotto, sulle quattro pareti del santuario, voi vedete brillare i quadri dei grandi maestri del Rinascimento. Si direbbero degli ex voto che testifichino la gratitudine degli artisti per il Dio o per la Dea alla cui ispirazione essi sembrano dichiararsi debitori delle opere del loro pennello. – Oso sfidare di trovare una traduzione più letterale del pensiero artistico nel secolo sedicesimo, che non tutto questo spettacolo così perfettamente pagano; una testimonianza più irrecusabile dell’alleanza adultera della pittura e del paganesimo, avvenuta a questo tempo. La Galleria di Firenze non dice forse al giovine artista costretto di visitarla, come il tirone è costretto di fare il suo giro della Francia: « Innalza gli occhi al soffitto delle mie sale; ecco gli Dei della pittura, ecco quelli che ispirarono i capi d’opera che brillano ai loro piedi. Tu non devi cercare nel cielo dei cristiani ispirazioni e modelli: l’Olimpo ti basta, la strada ti è aperta dalle luminose tracce dei grandi maestri: lavora, imita, spera ». E che mai deve egli imitare? Ciò che ha sotto lo sguardo? E che cos’ha egli sotto lo sguardo? Quadri che si dividono in due grandi classi: gli argomenti profani e gli argomenti religiosi. – I primi sono trattati dai maestri con una perfezione che rammenta certi affreschi di Pompei; si vede che furono dipinti con entusiasmo. Ve qualche figura innanzi alla quale il chirurgo può fare un corso di anatomia. La dolcezza, la forza, lo splendore, le più delicate gradazioni della carnagione; le fibre, i nervi, i muscoli, i più piccoli tendini; il complicato congegno degli organi, la loro dilatazione o la loro contrazione, secondo l’impressione naturale del piacere o del dolore, nulla vi manca. A tutte queste doti vanno congiunte la regolarità delle proporzioni, l’esatta naturalezza delle posizioni, la bellezza del colorito che rapisce. La forma materiale e la sensazione fisica si trovano espresse con una indicibile perfezione. – Quanto agli argomenti religiosi, s’indovina ciò ch’ei possono essere: il pittore li fece a sua immagine com’ei medesimo si era fatto a immagine dei modelli pagani e profani. La forma materiale nulla e quasi nulla lascia a desiderare. Voi avete begli uomini e belle donne, delle Grazie, delle Ninfe, delle Dee; ma di santi e di sante poco o niente. Voi scoprite, anche senza volerlo, nei santi, nelle sante, nei martiri, negli angeli, un’aria di famiglia con Apollo, con Giove, colle Muse, cogli eroi e colle eroine dell’antichità, la quale vi rende palpabile la pagana ispirazione. Si cerca il cielo, non si trova se non l’Olimpo: l’occhio ammira, ma il cuore non prega. Un intero ordine di sentimenti, d’idee, d’immagini, deposto in noi dalla religione e che compone il fondo del nostro essere sovrannaturale, rimane senza traduzione. Il pittore non ci capisce; il suo linguaggio non è il nostro: egli parla di carne, e noi parliamo di spirito. Essere muta per lo spiritualismo è la prima disgrazia della pittura discepola del Rinascimento; come il primo rimprovero che le si deve fare, si è di esser diventata il più pericoloso apostolo del sensualismo. Essa ne merita un altro, molto più grave. Prima del suo divorzio, essa non dipingeva il nudo. Ciò per due motivi; il primo, perché la religione cristiana, essenzialmente spiritualista e morale, lo vieta. Ora la pittura, docile figliuola della sua casta madre, prendeva se stessa in considerazione, e considerava sé come un sacerdozio destinato a tradurre un ordine d’idee, di sentimenti e di bellezze, superiore ai sensi; il secondo motivo, conseguenza del primo, perché la pittura del nudo non era per nulla necessaria alla perfezione dell’Arto cattolica. Si procurava esclusivamente di rendere la bellezza spirituale, la cui sola vista innalza al disopra dei sensi. Ora, cotale bellezza si riflette unicamente negli occhi e nei lineamenti del viso. Quindi l’incomparabile purezza delle figure ed il tipo veracemente divino, che distinguono le opere dei grandi maestri anteriori al Rinascimento. Si vede che questa parte assorbiva le loro cure ed il loro ingegno. Tutto il rimanente, riguardato quale un accessorio, è trattato con una certa negligenza, diventato il soggetto eterno di rimproveri spinti sino all’ingiustizia. Questa dignità, questa santa missione dell’Arte fu sconosciuta dai nuovi artisti. Formati alla scuola del paganesimo, essi non videro abitualmente se non se la beltà materiale, e, per farla spiccare, dipinsero il nudo, e, infelici! lo dipinsero con un’abbondanza e con frontatezza tale che fa abbassare gli occhi alla virtù, e che coprirà per sempre di rossore la fronte la meno pudica. È egli questo un progresso? È egli questo l’uso legittimo dell’arte? Non ne è forse la profanazione? Dio ha Egli dato all’uomo il genio per corrompere con maggiore perizia? – Sotto l’influsso del paganesimo la pittura cessa dunque, tranne sempre onorevoli eccezioni, di essere la lingua dello spiritualismo, per diventare la lingua del sensualismo. Pel fondo, essa ha perduto infinitamente di più che non abbia guadagnato nel rivolgimento del quindicesimo secolo. Quanto alla forma, si potrebbe egli provare che, rimanendo cattolica, l’Arte non avrebbe raggiunto quella correzione di disegno, quella regolarità di lineamenti, quella perfezione di posizioni, di drappi ed altri accessori che il Rinascimento si vanta di averle dato, e che l’esperienza le avrebbe dato senza di quello? Colui che può il più, può il meno. L’arte cattolica si era innalzata sino alla bellezza ideale e sovrannaturale: un po’ di pratica le avrebbe dato il segreto della bellezza sensibile, i cui modelli sono palpabili. Si possono allegare per prova i capi d’opera di Giotto, del Beato Angelico, del Gaddi e di altri molti. La Cappella degli Spagnuoli, in Roma, possiede varie figure antiche così belle di stile e di espressione come quelle di Raffaello, e i cui pensieri sono più profondi ed i concetti più vasti. La Madonna di Santa Maria in Cosmedin; Nostra Signora, nella Chiesa dei santi Cosma e Damiano sul Foro, sono per ogni verso ammirabili: tale si è la maestà delle figure che Michelangelo, Raffaello e tutti i pittori che li hanno seguiti non poterono mai raggiungerla.

CAPITOLO XIV

SEGUITO DEL PRECEDENTE

Sebbene la pittura si sia troppo spesso prestata, dal principio della Rinascenza, a secondare il sensualismo pagano, bisogna riconoscere ch’essa non s’allontanava ldalla religione se non a malincuore. La scuola fondata da fra Bartolomeo e dal Beato Angelico lottò a lungo contro l’invasione, e ottenne magnifici trionfi. Altrettanto non si può dire della scultura. Appena il culto del paganesimo fu inaugurato, gli scultori ed i loro patroni si lasciarono trascinare ad un fanatismo, e quasi ad un delirio incredibile per gli antichi modelli. Dapprima, non si ebbe risparmio né a spese, né a lavori, per scoprire le statue delle divinità dell’Olimpo e dei grandi uomini dell’antichità: gli scavi furono coronati dal successo. Mentre i secoli cristiani riserbavano l’entusiasmo loro per la scoperta di qualche celebre martire ed il loro oro per ergere templi agli eroi della Fede, si vide, oh tempi! oh costumi! l’entusiasmo, riserbato solo per gli Dei della favola, manifestarsi con feste e pubbliche allegrezze, e l’oro cristiano consacrato a edificare sontuosi palazzi per albergarvi le divinità e gli uomini del paganesimo. Si trovava egli una statua di Venere, di Giove, di un Satiro, che dico io? una statua! un frammento di statua, un braccio, un piede, un torso, una mano, un naso? e tosto voi avreste visto le accademie adunarsi, e con grandissima serietà ordinare investigazioni. Commentari apparivano d’ogni parte, e le intere città, percorse in ogni verso dagli amatori, passavano dall’agitazione all’allegrezza, come se la scoperta di tali oggetti avesse assicurato la salvezza della repubblica. Quindi esse statue di Dei e di personaggi del paganesimo, le iscrizioni, i vasi, le urne, le tombe ed i monumenti di ogni genere, andavano a popolare non solo i musei (il che era permesso, e sino ad un tal punto, degno di elogio), ma i palazzi e le case. Da quanto avveniva in Roma stessa, si giudichi di ciò che altrove si faceva. Un giorno si annunzia che operai hanno trovato nei dintorni di Sette-Sale un gruppo in marmo d’un ammirabile scalpello greco. A questa notizia , gli artisti e i dotti accorrono ai Giardini di Tito. Essi hanno riconosciuto il Laocoonte quale Plinio Io ha descritto: l’entusiasmo è al colmo. – La sera, tutte le campane delle chiese suonano per annunziare la felice scoperta. I poeti non dormono di notte; essi preparano, per salutare il ritorno del capo d’opera antico alla luce, sonetti, inni, canzoni: alla domane tutta Roma è in festa. La statua, ornata di fiori e di verzura, attraversa la città a suon di musica; le signore sono ai veroni, e applaudono colle mani; i sacerdoti, schierati d’ambo i lati si scoprono alla vista del capo d’opera; tutto il popolo è nelle vie, accompagnando cogli allegri suoi canti il Laocoonte, che fece il suo trionfale ingresso nel Campidoglio. Collocata la statua sul suo piedestallo, Giulio II si ritrae nelle sue stanze, ed allora una nuova festa incomincia, in cui il cardinale Sadoleto, col capo coronato di edera, canta il felice avvenimento in un’ode che tutti gli umanisti sanno a memoria (Ecce alto terra e tumulo, etc.). La sera, il Sadoleto trova nella sua camera un bel manoscritto di Platone: era un dono del Papa. Quanto a Felice de Fredis, che aveva scoperto la preziosa statua, il sommo pontefice gli diede parte delle entrate della gabella di Porta San Giovanni in Laterano e lo creò notaio apostolico. Non fa mestieri aggiungere che i fanatici partigiani del Rinascimento abusarono nel più strano modo di questi pontificii incoraggiamenti. – Infatti per timore che il popolo non fosse privo della vista dei casti oggetti, di cui la scoperta era stata cagionata dagli scavi, vennero essi esposti nei quadri vii e sulle pubbliche piazze; si posero sulle facciate dei palazzi e delle case, colà ove la pietà degli antichi cristiani collocava l’augusto segno della croce e le immagini dei santi. Ma, da una parte, queste reliquie della superstizione pagana non erano tanto a buon mercato, e pochi potevano procurarsele; d’altra parte, non un solo onest’uomo, non una famiglia agiata che non ne volesse avere. Perciò, come si erano tradotte in volgare, per bene del popolo, le più oscene opere della antichità, gli scultori cristiani riprodussero a gara le antiche statue di tutti gli Dei e di tutte le Dee dell’Olimpo, gli uni in marmo ed in bronzo, gli altri in terra cotta, in gesso ed in pietra. Le incisioni le moltiplicarono all’infinito, e spesso ancora aggiunsero alla oscenità del modello. Con questo mezzo, tutte le infamie mitologiche diventarono sì comuni che ogni cristiano, per quanto povero ei fosse, si vide in stato di potersi procurare, invece dei ritratti di nostro Signore e della Santa Vergine, l’incisione o la statua di Giove, di Venere, di Cupido, di Diana e degli altri. Allora il sensualismo, scorrendo a piena onda dallo scalpello dello scultore, dal bulino dell’incisore e dal pennello del pittore, inondò delle sue onde impure tutta quanta l’Europa cristiana. Dai palazzi, ove essi avevan preso il luogo del Salvatore, di Maria, dei Martiri e dei Santi; Giove, Giunone, Apollo, Venere, le Grazie, le Ninfe, i Satiri, gli Dei e i semi-dei discesero trionfanti sulle piazze delle città, ornarono le fontane, popolarono i pubblici passeggi ed abbellirono i parchi e i giardini delle case di campagna, dando a tutti, e ad ogni ora, le più eloquenti lezioni di oscenità. Il fanciullo stesso trovò nel domestico focolare, od almeno non ne poté uscire, senz’incontrare immagini che macchiando la sua giovine immaginazione, volgevano il cuor suo verso la terra e i sensi: meno felice del fanciullo del medio-evo, il quale nella paterna dimora e nelle vie delle città o sull’orlo delle strade, era certo di incontrare le sante immagini, le ingenue statue di Gesù e di sua Madre o degli antichi patroni dell’Europa cattolica. E facile il capire quanto questa continua visione del mondo superiore, predicando lo spiritualismo il più elevato, nobilitasse il cuore ed incoraggiasse la virtù. Tuttavia non bastava al sensualismo pagano d’avere macchiato i luoghi e gli edifici profani; esso osò penetrare persino nei templi del vero Iddio. Le tombe, che sino a questa età la pietà degli antichi artisti aveva abbellite di figure, di emblemi e d’ornamenti cristiani, cominciarono ad essere edificate nel gusto pagano. Statue indecenti vi rappresentarono le Virtù cristiane. Da principio, lo scandalo fu spinto sì lungi, che invece di onorare la memoria dei morti, le figure erano molto più proprie ad eccitare le passioni dei vivi, e si fu più tardi obbligati di coprirle con una veste di bronzo. Quindi si fecero sparire dai mausolei tutti gli emblemi cristiani, per surrogarli con emblemi o pagani o profani. Così che se non era il tempio in cui sono posti, meno assai per abbellirlo che per macchiarlo, nulla in somiglianti monumenti potrebbe far ravvisare tombe cristiane. Altre volte (ciò che non è meno sacrilego sebbene più ridicolo) si fece un bizzarro miscuglio del Cristianesimo e del Paganesimo. La Religione ed il Tempo, la Speranza e l’Amore, uniti insieme, ciascuno coi suoi attributi cristiani o mitologici, ridussero i mausolei a un non so che senza nome. Fra mille esempi citerò la tomba del Delfino, posta in mezzo del coro della metropolitana di Sens. Ma, siavi o no miscuglio sulle tombe come ai tavoli degli altari o altrove, tutte le figure sono eseguite secondo il tipo pagano. I Genii diventano gli Angeli; Diana, la Santa Vergine; Endimione od Apollo, Mostro Signore e i Santi; Cesare e Nettuno, Mose; i filosofi, San Giuseppe ed i Profeti. – Diciamo tuttavia, per esser giusti, che la scultura come la pittura, conservò qualcosa di cristiano, anche dopo la generale invasione del paganesimo: ma l’architettura, nulla affatto. Dal principiare del sedicesimo secolo, essa si allontanò affatto dal tipo cristiano. Partendo da tale età, l’opinione pubblica dichiarò che non solo i palazzi, le case, i teatri e tutti gli edifici profani, ma ancora le chiese, dovevano essere costrutte nello stile greco e romano. Il che era diametralmente contrario all’uso costante della Chiesa. È ben vero che quando i cristiani d’altre volte non avevano né i mezzi né il tempo necessario per erigere una chiesa, ei si servivano, per adorare il vero Iddio, dei templi delle false divinità dopo di averli purificati e spogli d’ogni vestigio d’idolatria. Ma quando loro fu dato di costruire nuove chiese, giammai un architetto cristiano prese a modello un tempio pagano. Perciò, dalla visita dei monumenti cristiani che ci rimangono, risulta questo fatto innegabile, che dall’origine della Chiesa sino al sedicesimo secolo, veruna chiesa nuova fu creata nello siile pagano. Non lo si attribuisca né a mancanza di danaro, né a mancanza di modelli. Da un lato, i Cesari furono non prima cristiani che non risparmiarono a spese per dare alla religione templi magnifici; dall’ altro, i più celebri templi pagani di Grecia e d’Italia sussistevano ancora in tutta quanta la loro interezza. Ma gli architetti cristiani li sdegnarono con ragione poiché trovavano lo stile pagano improprio al culto ed opposto al genio cattolico. Sotto il nome di architettura bizantina si stabilì pertanto un nuovo modo di ergere le chiese. Da Costantinopoli, ove esso era nato, passò in Occidente. Modificata dallo studio profondo delle relazioni tra l’Arte e la Fede, aiutata in ispecie dai consigli dei Vescovi, che accuratamente esaminavano il disegno dei nuovi edifici e spesso lo davano ei medesimi, questa architettura giunse, sotto il nome di architettura gotica, al più alto grado di perfezione. A lei si devono le immense, magnifiche, meravigliose cattedrali di Francia, d’Inghilterra e d’Alemagna, in cui l’eleganza, la grazia, la ricchezza, la brillante varietà delle forme vanno unite alla maestà del complesso, e fanno risplendere in tutta la sua gloria il genio della Fede che le ispirò. Ma quando, sul finire del secolo quindicesimo, si cominciò a ripetere che le opere de’ pagani erano il tipo del bello in ogni genere, non solo nelle lettere, ma anche nelle arti; che elleno dovevano essere i soli modelli degni dell’ artista e del letterato; 1’architettura cristiana, consacrata dall’ uso di quindici secoli, illustrata da innumerevoli capi d’opera, fu subito trattata di barbara ed esiliata dalle città cristiane. Acciocché non rimanesse vestigia delle sue opere, si videro gli architetti, o piuttosto i Vandali di quell’età insensata, trasportati dal cieco furore che aveva spinto i barbari del quindicesimo e del sedicesimo secolo a rovesciare gli osceni templi del paganesimo, sforzarsi di distruggere i pii, i venerabili Santuari delle età cristiane. Così, per non citare che un solo esempio, l’antichissima e venerabilissima basilica di San Pietro in Vaticano, monumento incomparabile non solo della religione dell’intera Europa, della pietà dei fedeli, della munificenza dei papi e dei re, ma eziandio, a giudizio dello stesso Bramante, vero museo e capo d’opera unico dell’Arte cristiana, fu senza pietà rovesciato da capo a fondo per dar luogo all’edificio greco-romano che il Rinascimento gli ha sostituito. Né le grida, né le collere di quel grande artista poterono fermare il martello distruttore. Lo stesso vandalismo stese dovunque le sue rovine. Chi conterà le antiche chiese, le cappelle, le torri, le tombe od affatto distrutte, o sepolte nelle viscere della terra, o sfigurate da mutilazioni più indegne ancora, acciocché l’Europa intera più non contasse alcun edificio antico o moderno, che non fosse nello stile greco, e coll’impronta del paganesimo? Ben di più; nel medio-evo, l’architettura civile stessa aveva preso un carattere religioso e prodotto superbi edifici, come si può vederlo ancora a Venezia in particolare, ed in alcune città di Francia, del Belgio e dell’Inghilterra. Ora, il sedicesimo secolo imprese a rinnovare od a restaurare anche le chiese nello stile pagano. Il fanatismo giunse a tale, che senza la viva opposizione dell’ autorità ecclesiastica, gli antichi monumenti cristiani, che erano sfuggiti al furore dei barbari, sarebbero caduti sotto i colpi dei cristiani medesimi. Questa opposizione, la quale, devesi confessarlo, non durò sempre, fu lungi dal salvare tutti i nostri edifici. « Durante i secoli 17° e 18°, il fanatismo per uno stile di architettura recentemente adottato, era tale, che il sistema di restaurazione applicato agli antichi nostri edifici religiosi, fu per essi una disgrazia, non solo sotto il punto di veduta dell’arte, ma eziandio sotto quello della loro solidità. Essi furono trattati a dispetto del principio di loro costruzione; loro si rimproverava di non essere in armonia con ciò che allora si riguardava come il bello in architettura, e venivano torturati per sottoporli al gusto del giorno ». E v’è da meravigliarsi di tanti atti di vandalismo, che ci fanno gemere oggidì? E v’ ha parimenti da meravigliarsi che il divorzio tra 1′ architettura e la religione si sia mantenuto sino ai dì nostri con una specie di buona fede e frammezzo un concerto di lodi che saranno uno dei maggiori stupori dell’avvenire? E v’è insomma da meravigliarsi dell’aberrazione a cui esso trascinò lo spirito pubblico, quando si sentono gli uomini i più celebrati per senno e per buon gusto, dire, quasi un doppio assioma, che1’architettura pagana è il tipo del bello, e 1’architettura cristiana il tipo del brutto? – Dopo di avere citato un pomposo elogio del nuovo tempio di San Pietro in Vaticano, in cui la più avida curiosità e la più dotta trova di che soddisfarsi; in cui gli artisti in ogni genere i più critici ed i più esperti vengono ad ammirare e ad istruirsi, Feller termina così il suo articolo su Giulio II: « Egli incoraggiò la pittura, la scultura, l’architettura; ed ai suoi tempi le arti belle incominciarono ad uscire dalle macerie della gotica barbarie ». Ma ecco un’altra autorità. Parlando dell’ architettura cristiana, Fénélon si esprime così: « Gli inventori dell’architettura che dicesi gotica, e che è , dicesi, quella degli Arabi, credettero senza dubbio di aver sorpassato i greci architetti. Un edificio greco non ha ornamento alcuno che non serva che ad ornare l’opera; i pezzi necessari per sostenerlo o per porlo al coperto, come le colonne e la cornice, si volgono solo in grazia colle loro proporzioni: tutto è semplice, tutto è misurato, tutto è limitato all’uso: non vi si vede né ardire, né capriccio che impongano agli occhi; le proporzioni sono sì giuste che nulla sembra troppo grande, sebbene tutto lo sia; tutto si limita a contentare la vera ragione. All’opposto, l’architettura gotica innalza, su pilastri assai piccoli, un’immensa volta che sale sino alle nubi; si crede che tutto sia per cadere, ma tutto dura per molti secoli; tutto è pieno di finestre, di rosoni e di punte; la pietra sembra intagliata come cartone; tutto è a giorno, tutto è nell’aria. Non è egli naturale che i primi architetti gotici si siano lusingati d’aver sorpassato col loro vano raffinamento la semplicità greca? Cangiate solo i nomi, ponete i poeti e gli oratori in luogo degli architetti: Lucano doveva naturalmente credere d’essere più grande di Virgilio; Seneca il Tragico poteva pensare ch’egli spiccava ben più di Sofocle ; il Tasso poté sperare di lasciarsi indietro Virgilio e Omero. Questi autori, così pensando, si sarebbero ingannati ». – Voi lo sentite; quanto l’arte cristiana ha mai prodotto di più perfetto non è se non un’opera di cattivo gusto, che non può sostenere il paragone delle opere del paganesimo. Architetti e poeti cristiani non sono al confronto dei pagani se non ciò che Lucano è al confronto di Virgilio, e Seneca di Sofocle! – Riassumendo quanto precede ed applicando all’architettura ed alla scultura le riflessioni che facemmo sulla pittura, noi diciamo che, ogni cosa esaminata a sangue freddo e senza passione, il Rinascimento altro non fu se non il risorgimento del Paganesimo nell’arte, come pure nelle lettere, e la distruzione del Cristianesimo nell’arte, come pure nelle lettere; la rivincita del sensualismo pagano, vinto già dallo spiritualismo cristiano; un immenso passo retrogrado e non un immenso progresso; una fonte d’errori e di vergogna per 1’Europa e non già un principio di luce e di gloria. Tali sono i grandi vantaggi che noi abbiamo raccolto, e che ancor raccogliamo dal paganesimo classico. Altri ve ne sono, che faremo conoscere nei Capitoli seguenti.