IL VERME RODITORE delle SOCIETA’ MODERNE (5)

CAPITOLO X

TESTIMONIANZA DEI FATTI. —

INFLUSSO DEL PAGANESIMO

CLASSICO SULLA LETTERATURA

Dalla testimonianza degli uomini, passiamo a quella dei fatti. Ora, con maggior eloquenza ancora, se è possibile, degli uomini, i fatti depongono in favor mio. Il paganesimo nella educazione è distruttore della letteratura, delle arti, della filosofia, delle scienze, della religione, della famiglia, della società; ecco quanto essi dicono, ecco quanto essi provano.– Distruttore della letteratura; questa proposizione soprattutto, me l’aspetto, sarà notata di paradosso. Infatti è cosa convenuta di ripetere nel mondo dotto che lo studio dei modelli pagani, ripigliato sulla metà del decimoquinto secolo, fu il risorgimento della letteratura in Europa. – Intendiamoci, esaminiamo e ripigliamo la storia del Rinascimento, sbozzata precedentemente. Dopo la caduta originale, due opposte potenze si disputano la signoria dell’umanità al pari del cuore di ciascuna persona: il sensualismo e lo spiritualismo, o, per parlare l’energico linguaggio della Scrittura, la carne e lo spirito, il vecchio uomo e 1’uomo nuovo. Durante tre mila anni, il mondo visse sotto la signoria della carne, ed il mondo ebbe una lingua, una letteratura, una poesia, espressione fedele del principio in cui egli si era trasformato, per il quale solo viveva, ch’egli andava cercando ovunque, ch’egli amava in tutto, ch’egli adorava appassionatamente in tutte le sue forme. Diventato carne, il mondo parlava il linguaggio della carne e delle sue tre grandi concupiscenze: orgoglio, cupidigia, piacere. Essenzialmente sensualista, la sua letteratura e la sua poesia rivestirono forzatamente, secondo l’ispirazione sovrana della carne e delle sue tre potenze, forme dure, superbe, fredde, ipocrite, ma il più spesso eleganti e voluttuose, sia per palliare la turpitudine del fondo, sia per dare nuovi allettamenti all’idolo, ai piedi del quale tutti i cuori desideravano segretamente di vedersi incatenati. – Pure, un giorno giunse nel quale la signoria della carne fu distrutta, e l’uomo, libero dalla sua tirannide, visse felice sotto l’impero dello spirito. Il Cristianesimo operò siffatto benedetto rivolgimento, o, per meglio dire, fu esso stesso un tale rivolgimento, o per meglio dire, fu esso stesso un tale rivolgimento. Re del mondo per mille anni, esso ebbe di necessità un linguaggio, una letteratura, una poesia, espressione fedele del suo pensiero. Ora, il pensiero cristiano è l’antipode del pensiero pagano. L’uno è essenzialmente spiritualista, l’altro sensualista. Inoltre, per ciò stesso ch’esso è divino, il pensiero cristiano è il più ricco, il più semplice ed il più sublime, il più elevato ed il più profondo, il più casto ed il più bello, in una parola, sotto qualsiasi punto di vista la letteratura cristiana partecipa per forza di tutte queste sode e splendide qualità. A volte, come il pensiero ch’essa rendeva sensibile, ricca, spiritualista, semplice, sublime, vera, dolce, casta, grave, sobria d’ornamenti, era dessa l’incessante predicatrice dello spiritualismo, come la letteratura pagana era stata l’organo vivente del sensualismo. Un tratto essenziale soprattutto la distingue: mentre la letteratura pagana è il culto della forma, che sfoggia dovunque lusso ed abbondanza per mascherare l’ignominia e la povertà del fondo; nella letteratura cristiana, la forma sparisce il più che si può, al fin di lasciare comparire nella sua splendidezza la bellezza maestosa del fondo. – Il mondo conobbe pertanto due letterature, perché fu inspirato da due pensieri: la letteratura pagana, espressione del pensiero pagano, e la letteratura cristiana, espressione del pensiero cristiano. Negare un tal fatto, è un non capire nemmeno il senso dei termini che si adoprano. Nel lungo periodo che era scorso dalla predicazione del Vangelo sin verso il finire del quindicesimo secolo, l’Europa aveva acquistato un modo di giudicare e di sentire, conforme all’insieme delle cagioni che sovr’essa avevano operato. « Se nei progressivi sviluppi del pensiero e della immaginazione, scrive un uomo non sospetto, l’Europa fosse rimasta abbandonata ai suoi soli elementi di cultura, se veruno straniero influsso non ne avesse modificato 1’azione, sì sarebbe veduta nascere ovunque sul suo suolo una letteratura veracemente nazionale, come quella degli antichi, e nella quale si sarebbero rinvenuti, senza aggiunta e senza confusione, tutti i lineamenti della sua civiltà ». – Invece di dire che si sarebbe veduta nascere cotale letteratura, l’autore avrebbe dovuto dire che era nata. Infatti, i Padri della Chiesa avevan rivestito della vera sua forma il pensiero cristiano nelle varie sue manifestazioni. Successore di tanti luminari, San Gregorio il Grande l’aveva stabilito. Formati alla sua scuola, Sant’Anselmo, Beda il Venerabile, Lanfranco di Cantorbery, San Bernardo, San Francesco di Assisi, San Tommaso, San Bonaventura, Sant’Antonio da Padova, San Bernardino da Siena, Sant’Antonino da Fiorenza ed una folla d’altri avevano reso popolare in Italia, in Francia, in Inghilterra, in tutta Europa, la forma perfetta del pensiero cristiano nelle lettere, nell’eloquenza, nella filosofia, nella teologia, nella storia. Per parlare della letteratura in un senso più ristretto: Dante aveva cantato, Petrarca aveva scritto. La Francia stessa non era rimasta indietro dopo sì begli esempi. « Le poesie dei suoi Trovatori, i suoi antichi fabliaux, i suoi antichi romanzi di cavalleria vi componevano, molto prima del quindicesimo secolo, una letteratura basata su tradizioni popolari, sulla pittura degli usi nazionali Se, correggendo le sue mende senza mutare il suo principio, fosse rimasta la Francia fedele a quei primi saggi del suo letterario ingegno, essa godrebbe oggi i vantaggi, ben poco intesi, di una letteratura nata e perfezionata sul patrio suolo. Sgraziatamente, così non avvenne. – Si studiarono, si commentarono senza posa le opere della Grecia e di Roma Si adottarono i loro principii, si bevette il loro spirito. Si trattarono di gotici e di anticaglie i pochi scritti che erano stati prodotti da una ispirazione attinta alle sorgenti nazionali. Insomma, una grande rivoltura ebbe luogo nei pensieri. La Francia vi prese parte forse più che non verun altro paese d’ occidente ». Vediamo ora che cosa vi guadagnò la letteratura sì per la forma che pel fondo. Non contenti d’avere infettato l’Alemagna, e con essa metà d’Europa colle loro eresie filosofiche e teologiche, i Greci fuggiaschi da Costantinopoli infettarono colla loro eresia letteraria la patria delle lettere e delle arti, l’Italia, e con essa le altre genti latine. Alla loro voce se vide l’Europa cristiana, l’Europa letteraria, rinunciando a sè, prendere per modelli esclusivi i pagani d’Atene e di Roma, imprigionare nelle forme studiate del loro linguaggio, freddo come la cenere delle loro tombe, la sua parola sì ingenua, sì forte, sì libera, sì viva: alla inspirazione del sovrannaturale cristiano preferire la falsa inspirazione del naturalismo pagano ; in una parola, farsi, per quanto in lei stette, greca e romana nella sua composizione, e pagana nel suo linguaggio. Poco a poco, il ricco capitale di nobili pensieri, di generosi sensi, esclusivamente prodotto dalla Fede, andò diminuendo, mentre il culto della forma, col suo lusso, colle sue ricercate andature, con i suoi gingilli e colla sua eleganza affettata, diventò il grande scopo dell’arte letteraria. Non s’accorgevano che il pensiero moderno, vestito con forma pagana non era meno ridicolo che un francese del sedicesimo secolo, in toga romana, o coperto il capo del frigio berretto. – Non si ristette alla risurrezione della forma pagana; ben presto una voce cristiana, la voce del legislatore del Parnasso, osò dire al mondo: — Volgi i tuoi sguardi verso l’Olimpo; colà vi sono i tuoi Dii; soli, il cui nome abbellire possa le tue opere; soli, i cui misteri e il cui intervento convengano alle opere della sapienza. La storia nazionale altro non è che un capitale sterile e prosaico; 1′Evangelio è troppo austero: i suoi formidabili misteri ucciderebbero 1’entusiasmo. — « La favola offre alla mente mille variati piaceri; ivi, tutti i nomi fortunati paiono nati pel verso…. I terribili misteri della fede d’un cristiano non sono suscettibili d’ornamenti allegri; l’Evangelio non offre d’ogni parte ai nostri occhi se non penitenza a fare e tormenti meritati Oh bizzarro disegno d’un poeta da ciabatte, il quale fra tanti eroi sceglie Childebrando! (art. poet. Di Boeleau, c. III)) ». Così fu reciso il filo che univa la nostra poetica cultura alla cultura poetica dei padri nostri. Noi diventammo infedeli al loro spirito per darci senz’altro ad uno spirito straniero che noi capivamo male, che non aveva relazione di sorta colla nostra vita reale, con la nostra religione, coi nostri costumi, con la nostra storia. L’Olimpo, con i suoi idoli, surrogò il cielo dei cristiani La musa dei moderni, sottoposta a siffatta trasfusione, ricevette nelle sue vene un sangue straniero che non potè mai identificare interamente colla sua vita…. Il mondo della poesia diventò un tutt’altro mondo che il mondo volgare; non vi si sentì parlare se non di Troia e e Tebe, di Roma e degli Dei stranieri. « La nostra natura propria ed originaria combatte sempre tacitamente codesta vita artificiosa che ci si costrinse a vestire. Noi non siamo più di un solo getto: l’unità della nostra esistenza è turbata, e noi somigliamo al mostro d’Orazio. E chi vi guardasse da vicino troverebbe forse che a lungo andare nacque di colà cotesto raffreddamento dei cuori per la religione, per la semplicità e per la santità dell’Evangelio, per tutto ciò che è veracemente grande, nobile ed umano, il cui luogo fu usurpato dal gigantesco, dall’ampolloso e dall’ammanierato. Non già che somiglianti vizi abbiano in veruna guisa appartenuto agli antichi, ma perché appartengono alla falsa strada da noi presa, volendo diventare altra cosa che ciò a cui ci destinava la saggia natura nel mondo moderno e cristiano ». « Gli scrittori di un gran popolo, soggiunge il giudizioso editore di Bouterweck, debbono essere gli emuli, non già le scimmie dei grandi modelli stranieri, dei quali essi procurano di appropriarsi le bellezze. Se i creatori delle letterature moderne non avessero troppo perduto di vista questo principio, esse si uniformerebbero di più ai costumi, ai sensi, alle istituzioni degli avi nostri, ai nostri usi, alla nostra religione; e noi non avremmo letterature ibride o scolorate, ora composte di elementi eterogenei e peccanti per la base di loro instituzione, ora formate da un tipo estraneo ai nostri pensieri ed al nostro modo di essere; non presentanti, in una parola, se non una letteratura greca in caratteri occidentali, una cattiva litografia della letteratura degli antichi ». Cessando di essere indigena, cioè religiosa e nazionale, la nostra letteratura non solo perdette la sua forma naturale; essa perde la sua popolarità. « La poesia francese essendo diventata, sotto l’influsso del paganesimo, la più classica di tutte le moderne poesie, è la sola che non sia sparsa nel popolo ». « Invece di porre al servigio del genio cristiano, soggiunge un celebre scrittore, i progressi dell’antichità nello studio del bello, noi ponemmo il genio cristiano alla coda della letteratura e della estetica pagane. Che ne è nato? Una letteratura neutra, servile, la quale esercitò influsso il più triste sugli ingegni e sui costumi. Essa degradò l’ingegno abbassandolo alla parte di copista. Essa pervertì i costumi, poiché invece di darsi a coltivare e ad abbellire i costumi cristiani, si fece interprete ed ammiratrice delle puerili idee e dei dissoluti costumi dell’ antichità. – « Di nuovo, che ne è nato? Lo sbiadimento della poesia, della musica, della pittura, della scultura, dell’architettura, le quali non vivono se non delle ispirazioni del pensiero religioso e nazionale. Perciò noi vediamo i grandi artisti uscir dalla trista carreggiata aperta nell’epoca detta del Rinascimento , e fra breve sarà chiamata l’epoca della degradazione. Costretti a ripigliare i nostri studi ed a ritornare alle tradizioni della scuola del medio-evo, la nostra adorazione per l’Arte antica ci ritardò di tre secoli. – « Le nostre prove di restaurazione pagana furono, nell’ordine politico, ancor più disastrose. L’idea romana, di creare nazioni di soldati regnanti sulle altre per il diritto del brando, non generò altro che guerre sanguinose. L’idea greca, di fare nazioni di legislatori e di funzionari, produsse il dispregio delle leggi, del potere, e ci ha resi non governabili. – « Insomma, i nostri moderni educatori nulla tralasciarono per farci indietreggiare di venti secoli e per astringere i popoli cristiani a ripigliare il misero andamento d’una misera antichità (Il signor Martinet, Dell’ Educazione dell’uomo) ».

CAPITOLO XI

SEGUITO DEL PRECEDESTE

L’alterazione della sua forma, la perdita delle sue bellezze e della sua popolarità, non è se non il più piccolo dei danni recati alla moderna letteratura dal paganesimo classico: esso la viziò profondamente nel suo spirito. Di spiritualista che essa era, la rese sensualista. Sentiamo la storia. È vero: nel secolo decimoquarto, il Boccaccio aveva rialzato il macchiato vessillo del paganesimo. Essendosi nutrito ei medesimo degli autori antichi, sovrattutto di Omero e di Menandro, aveva imparato alla loro scuola a vivere da pagano. Boccaccio sparse a fiotti nei suoi scritti la corruzione ch’egli aveva attinto nelle sue letture. Ma tale si era in allora l’influsso generale dello spirito cristiano che Boccaccio, tocco dal pentimento, bruciò ei medesimo in pubblico il suo Decamerone e gli altri suoi scritti licenziosi. I germi funesti ch’egli aveva seminati, appena conosciuti di qua dai monti, non diventarono un albero e non produssero frutti mortali, se non quando i Greci giunsero a Firenze. Giovanni Argiropolo, Andrea Lascaris, Isidoro Gaza, capi dell’ emigrazione, accolti e colmati d’onori dai Medici, ottennero il permesso d’insegnare pubblicamente. Essi ne profittarono non solo per impiegare, per commentare, per esaltare la letteratura pagana, ma eziandio per appassionare tutti gli animi in suo favore. L’Argiropolo, diventato precettore dei figliuoli di Cosimo de’ Medici, li rese deliranti per le greche lettere;.il Gaza tradusse in greco le principali opere degli antichi autori latini, ed in latino gli autori greci; il Lascaris, mandato più volte in Grecia, ne riportò i manoscritti degli oratori, dei filosofi e dei poeti, attalchè, grazie agli sforzi riuniti di questi tre personaggi, 1’amore dei pagani eccedette i limiti della ammirazione, e diventò una specie di culto. – Educati alla loro scuola, Marsiglio Ficino restaurò la filosofia pagana; il Poliziano, la letteratura pagana. Sotto la guida di Andronico da Tessalonia, il Poliziano, iniziato a tutti i segreti delle lettere pagane, non istimò e non insegnò per tutto il corso di sua vita se non il puro paganesimo. Prima dei quindici anni, cantò in un poema latino i giuochi che, alla guisa dei pagani, i Medici diedero in Firenze; tradusse in latino gli storici greci; celebrò in lirici versi le lodi di Orazio, di cui fece quasi un Dio; compose epigrammi affatto pagani e pel fondo e per la forma; scrisse in versi italiani canzoni lubriche e tragedie di gusto pagano, che vennero stampate in Firenze con grandissimo lusso. Non pago al corrompere i suoi contemporanei, il Poliziano trasmise ai posteri il veleno del suo insegnamento. Ei fondò una scuola, alla quale ebbe furia di accorrere tutta la gioventù illustre di Toscana e d’Italia. Da tale scuola uscì fra gli altri il Machiavelli, il quale pieno, come i suoi condiscepoli, d’amore e d’ammirazione per i pagani, compose, in ricordanza di Luciano e d’Apuleio, l’Asino d’ oro, poema osceno, preludio di commedie più oscene di quelle di Plauto e di Terenzio. Fra tutte si distingue per questo titolo, quella che è chiamata la Mandragola: componimento infame, che possentemente contribuì alla corruzione dei costumi. Dallo studio dei poeti passò il Macchiavelli allo studio degli storici pagani, e specialmente di Tito Livio. Preferendo i loro principi politici e le dottrine sociali a quelle dell’Evangelio, egli compose il suo famoso libro Del Principe, giustamente chiamato il codice della ipocrisia, della frode e della empietà, poiché esso crolla tutte le fondamenta della buona fede, della virtù, della giustizia e della religione fra gli uomini. Il Poliziano formò ancora Pietro Bembo e Giovanni Della Casa, ambi ellenisti e latinisti pagani molto esperti, ma ambi fedeli imitatori dei loro modelli, affatto corrotti di costumi, e non meno corruttori negli scritti loro. Tutti e due piansero i loro traviamenti; ma è però vero che loro aveva bastato, come bastò ai condiscepoli loro, d’aver bevuto alla fonte del paganesimo per diventare 1’onta della loro patria ed il flagello dei pubblici costumi. Tali sono alcuni dei frutti recati sul finire del decimo quinto secolo dal rinascente paganesimo. Mentre esso invadeva Firenze, si estendeva ognor più, sul cominciare del secolo decimosesto, in tutte le contrade d’Europa: Roma stessa provò il suo letale influsso. Ivi, sotto la ispirazione di Pomponio Leto, un troppo gran numero di animi si lasciarono andare alla febbre da cui era egli stesso divorato. Siffatto era il suo entusiasmo, che non voleva leggere se non gli autori profani; celebrava devotamente la festa della fondazione di Roma, e giunse persino ad erigere altari a Romolo. La conseguenza di codesto appassionato amore del paganesimo fu quale doveva essere, quale sarà sempre, il disprezzo per la cristiana religione. Pomponio diceva che essa non era buona se non per uomini barbari: le scritture e gli scritti dei Padri non ottenevan da lui se non sarcasmi: insomma la sua vita privata era degna dei suoi modelli. L’empietà e l’ateismo ne diventarono il carattere, in guisa che si fu costretti ad imprigionarlo. Fortunatamente Pomponio Leto ne uscì per morire da cristiano allo spedale. Tuttavolta, la febbre accesa da Pomponio s’era comunicata alla gioventù. Sin dalla mezzanotte assediava essa la porta della scuola di lui per assistere alle lezioni, le quali avevano principio solo allo spuntare del giorno. Nella stessa guisa che Pomponio aveva tributato un culto a Romolo, si videro uomini animati dal medesimo spirito stabilir feste in onore di Platone, ed erigere santuari a Catullo. Fuvvi un istante in cui più di cento ottanta poeti facevano risuonare gli echi di Roma cristiana degli accordi del loro liuto pagano! Rallentatosi qualche tempo a cagione degli sforzi d’Innocenzo VIII, d’Alessandro VI e d’Adriano VI, l’ andazzo pagano ripigliò il suo correre con rapidità maggiore. Già aveva invaso Francia, in cui il Mureto, diventato, senza maestro, discepolo fanatico di Anacreonte, di Orazio, di Catullo e di Terenzio, aveva ridotto a pratica nei suoi costumi gli insegnamenti dei suoi prediletti autori: in Parigi, in Tolosa, in Italia, in Venezia medesima egli fece pompa dello scandalo, e finalmente venne a fermarsi a Roma. Ivi si pentì del male immenso ch’egli aveva fatto; ma, lungi dal diminuire, il suo amore della letteratura pagana non fece se non crescere. Prova ne sono i suoi Juvenilia Carmina, e le sue annotazioni ad Orazio, a Catullo, a Tacito, a Cicerone, a Sallustio, ad Aristotele, a Senofonte: opera dell’intera sua vita. Signora dei pensieri con l’educazione, la reazione pagana doveva di necessità penetrare nei pubblici costumi. L’antica Roma aveva avuto poeti prima d’avere teatri: ma i primi produssero i secondi. Lo stesso avvenne nel tempo del Rinascimento. I teatri, che tutti i Padri della Chiesa, tutti i Concilli, tutti i Sommi Pontefici avevano con voce unanime esiliato dalle città cristiane, ricomparvero in Firenze dapprima, poscia nel rimanente d’Europa. Ovunque, vi erano teatri permanenti; e, ciò che non si era veduto da quindici secoli, le genti cristiane occuparono in folla i gradini dei teatri, degli anfiteatri, poscia dei circhi, degli ippodromi, applaudendo con pagano furore a spettacoli interamente pagani. Quello che esse fecero lo fanno ancora, e Dio sa con quanto vantaggio dei pubblici costumi! Sicché si recitarono da principio sulle scene d’Italia le commedie greche di Aristofane e di Menandro e le commedie latine di Terenzio, le une e le altre nella loro nativa nudezza. Dappoi, affinchè il popolo e le donne poco versate nella conoscenza del latino potessero prender parte ai piaceri della rappresentazione, il Macchiavelli, l’Ariosto, e più tardi il Metastasio, il Casti, ed una folla d’ altri discepoli de’ pagani, composero in idioma volgare componimenti nei quali respirano il sensualismo e l’oscenità dei loro modelli. Ben presto le accademie, i palazzi dei nobili, le case dei semplici privati risuonarono dei versi dei poeti pagani. Non si ebbe più gusto se non pei libri dell’antichità: essi soli diventarono 1′ oggetto di uno studio ardente. Sullo scrittoio del dotto, sul tavolo dello scolare, sulla cattedra del professore e sulla dorata suppellettile della gran dama, Virgilio aveva occupato il luogo della Scrittura; Cicerone, quello di san Paolo e di sant’Agostino; Orazio, quello di Davide; Plauto, Aristofane e Catullo, quello degli Atti dei martiri e delle Vite dei Santi. – Un somigliante andazzo manifestossi nel rimanente d’Europa ed in ispecie in Francia. I nostri più grandi poeti francesi, Corneille e Racine, ricollocarono sulla scena, ed offrirono all’ammirazione della società i principali componimenti del teatro pagano, od argomenti presi dal paganesimo. Gli Orazi e i Curiazi, Cesare, Britannico, Ifigenia, e che so io? tutto il mondo pagano, terrestre ed olimpico, fece pompa agli sguardi di un popolo cristiano, di sensi, di pensieri e di affetti che non sono nella nostra natura né nei nostri costumi, e del tutto opposti ai dettami di nostra religione. Che mai di più sensualista di certi componimenti che è inutile il nominare, ed i quali fecero versare lacrime di pentimento ai loro autori medesimi? Che mai di più forzato, di più feroce, di più antisociale e di più anticristiano dei seguenti sensi espressi in altre composizioni non meno applaudile: « Ma voler immolare al pubblico ciò che si ama, ma voler combattere un altro sé stesso… cosiffatta virtù a noi soli apparteneva… Roma ha scelto il mio braccio: io nulla esamino, e combatterò il fratello con allegrezza così piena e sincera come quando ne sposai la sorella. » – A fortiori, qual uomo, qual cristiano, non risponderà coi Curiazii: « Io ringrazio gli Dei di non essere Romano, per conservare ancora qualche cosa d’umano! » – Nel secolo decintottavo, il teatro continuò a trar partito dal paganesimo. Quando la miniera fu esaurita, o che l’ingegno mancò, si composero tragedie, commedie, vaudevilles, drammi, melodrammi che del paganesimo non ritennero più se non ciò che ne è il fondo, il sensualismo. Ben tosto la forma stessa fu negletta, per meglio lasciar scorgere la schifosa nudità della passione. Di caduta in caduta il teatro, la letteratura, la poesia giunsero alle nauseabonde produzioni di Parny, di Pigault-Lebrun, di Vittore Ugo, di Scribe, di Soulié, d’Eugenio Sue e de fogliettonisti; a quest’ultimo punto si trovano! – Da siffatta unione di tutte le forze intellettuali per far risorgere in Europa il paganesimo letterario, e per farlo comparire agli occhi della gioventù e della società risplendente d’ogni genere di bellezza, nacque naturalmente che i Padri della Chiesa, dei quali il medio-evo si era così gloriosamente occupato, rimasero sepolti nei polverosi scaffali delle biblioteche. Appena se in quest’epoca si vede tradotto qualche discorso, qualche trattato di quei grandi uomini, i cui scritti sparsi in volgare idioma, avrebbero così potentemente contribuito a risvegliare la Fede ed a proteggere i costumi. All’opposto, Cicerone ha per traduttore il Manuzio; Tito Livio, il Nardi; Virgilio, il Caro; Ovidio, l’Anguillara, e così degli altri in tutto il restante d’Europa. – La stampa medesima negli Stati i più cattolici, la stampa di fresco inventata, non dà se non le lettere di San Gerolamo ed alcune altre opere cristiane che essa sembra pubblicare con rincrescimento, mentre lascia ai torchi di Amsterdam, di Ginevra e di Basilea, diretti da Erasmo e dai protestanti, la cura di pubblicare o piuttosto di corrompere i grandi monumenti dell’antichità cristiana, le opere dei santi Padri. Così, il primo libro greco stampato in Italia è la grammatica greca di Costantino Lascaris, e il Pindaro in-quarto è la prima opera che comparve in Roma, stampata a spese del famoso banchiere Chigi. Si vede Aldo Manuzio, il principe dei tipografi italiani lasciando in disparte quasi tutte le opere cristiane, consacrare il suo ingegno e la sua vita a riprodurre gli autori pagani, in ispecie, Virgilio, Luciano, Orazio, Giovenale, Lucano, Cicerone, Demostene, Omero e Sofocle. Non si direbbe forse che l’arte tipografica fosse stata data agli uomini solo per propagare il regno del paganesimo, o piuttosto non sembra forse che la stampa preludesse sin dal suo nascere a quanto avrebbe fatto ai dì nostri? – Tuttavia l’invasione pagana proseguiva il suo cammino. I modelli dell’antichità non erano più proposti soltanto all’ammirazione come tipo del bello e regola esclusiva del gusto: si davano quali regolatori dei costumi, come se l’Evangelio fosse sparito. – Non parlo dell’insegnamento classico, di cui si servivano per formare lo spirito e il cuore della gioventù; vengo ad una prova più diretta: Erasmo la somministra. Questo principe dei letterati del suo secolo, il cui gusto era legge all’intera Europa, Erasmo dice con una serietà in cui la demenza e l’empietà disputano con la ridicolezza: « Ho io fatto qualche progresso invecchiando? lo ignoro. Quello che so si è, che Cicerone non mi è mai tanto piaciuto quanto nella mia vecchiezza. Non solo la sua divina eloquenza, ma ancora la sua santità inspirano la mia anima e mi rendono migliore che io non sono. Perciò io non esito punto ad esortare la gioventù a consacrare i suoi begli anni, non dico già a leggere ed a rileggere le sue opere, ma ad impararle a menadito. Per me, che sono già al declinare de’miei giorni, sono felice e superbo di rientrare in grazia del mio Cicerone, e di rinnovare con esso lui un’antica amicizia, da troppo lungo tempo interrotta (1 Prœm. in XXII Tuscul.). – Questa sola dichiarazione basta per dimostrare a qual segno il fanatismo pagano erasi impadronito degli animi. Certo, in ogni altro tempo, un cristiano, un sacerdote, un religioso, (ed Erasmo era cristiano, sacerdote e religioso) avrebbe arrossato di dire ch’egli era diventalo migliore leggendo non già l’Evangelio, ma Cicerone; che nel punto di morte egli era felice e superbo di rientrare in grazia non già d’Iddio, ma di Cicerone; egli avrebbe arrossato di scrivere cotali pazzie a sacerdoti, a prelati romani alto locati in dignità, se le medesime pazzie non avessero avuto seguaci in tutti gli Stati ed in tutte le condizioni. Affinché la gioventù stessa, secondo il precetto di Erasmo potesse diventare più virtuosa, leggendo non già la Scrittura o le opere dei Padri, ma i maestri del paganesimo, si composero ciò che chiamansi i classici morali. Come capi d’opera del genere, citerò il Selectœ e profanis, in cui i pagani sono presentati quali i modelli finiti delle quattro virtù cardinali: la prudenza, la giustizia, la forza,la temperanza. Ora, questi modelli non si confessavano, non si comunicavano, non andavano a messa, non erano cristiani. Dunque il cristianesimo, coi suoi obblighi imbarazzanti per le passioni, non è punto necessario per essere virtuoso: tale si è agli occhi del giovinetto la conseguenza inevitabile di cosiffatto insegnamento. Che la cosa stia così, e che tale conseguenza sia diventata una massima nella pratica della vita, giammai la prova non ne fu più lampante che ai dì nostri. Quale è mai la filosofia dominante dell’età nostra? Non è egli forse l’eclettismo, il razionalismo? E tale filosofia non assevera forse che la religione altro non è se non un piedestallo, un orlo, un fabbricato che deve ben presto cadere? Non insegna forse di presente, che il mondo ha veduto una folla d’ uomini celebri per la virtù e formati solo dalla filosofia: Pitagora, Antistene, Socrate, Platone, gli stoici Catone, Condorcet, Deslutt de Tracy, Cabanis, ecc.? E tutti, da quei che abitano nei salons insino all’abitatore delle capanne, non ripetono forse in coro: « Si può essere virtuosi senza religione? » Mi sarà egli permesso di dire di passaggio, che, senza addarsene, Fénélon mena alla stessa conseguenza, dando a Telemaco tutti i sensi e tutte le virtù che solo il Cristianesimo può inspirare? Lo stesso principio ci valse un nuvolo d’altri scritti, quelli di Berquin in ispecie, in cui s’insegna ai fanciulli l’arte d’essere virtuosi senza religione; in cui i sensi naturali, i vantaggi umani tengono il luogo dei Sacramenti, dei precetti, delle promesse e delle minacce della Fede. Se altre prove abbisognassero di sì perniciosa invasione del paganesimo, aggiungerei che i letterati spinsero il culto per l’antichità pagana al punto di non più nominare le stesse cose religiose se non con nomi pagani, e di non temere di macchiare la santità del Cristianesimo colle ridicole favole della mitologia. Il Bembo, nelle sue lettere, fa dire a Leone X, ch’egli è diventato sommo pontefice pei decreti degli Dei immortali: se deorum immorlalium decretis factum esse pontificem. Altrove, chiama Nostro Signor Gesù Cristo un eroe, heroem, e la Santa Vergine la dea di Loreto, deam Lauretanam; la Fede, la persuasione, persuasionem; la scomunica, l’interdizione dall’acqua e dal fuoco, interdictionem aques et ignis. Per lui e per i suoi simili, non una parola era latina se non si rinveniva in Cicerone. Questa testimonianza è loro resa da Giovanni Lami, seguace della medesima opinione. Altri chiamano l’augusta Maria speranza degli Dei, spes Deorum; il Cielo, l’Olimpo, Olympum; l’inferno, l’Èrebo, Erebum; le anime dei giusti, manes pios; i sacerdoti, flamini, flamines; i vescovi archiflamini, archiflamines; le grandi solennità religiose, leclisternia; il sacro collegio, il Senato del Lazio, Latii Senatus; la tiara, Romulea infida. Invece di dire con tutti i cristiani « se piace a Dio » essi dicono « se piace agli Dei » si Diis placet. La gerarchia ecclesiastica è l’opera degli Dei, vario quos ordine Divum mancipal; la messa, il culto sacro degli Dei, sacra Deorum; l’acqua benedetta, l’acqua lustrale, lustrali bus undis, e le statue dei santi, simulacri degli Dei, simulacra sancta Deorum. Nulla sarebbe sì facile come il trovare nelle opere meramente letterarie una quantità d’altri esempi di somigliante pedanteria non men pericolosa che ridicola. Aggiungerò (ciò che diventa più grave) che l’eloquenza sacra, sdegnando la Scrittura e i Padri, sorgente feconda dei casti suoi ornamenti, tolse a prestito quasi tutti i suoi colori, i suoi esempi, le sue testimonianze alla storia pagana, e talvolta anche alla mitologia. Lo stesso avvenne dei libri ascetici. Pressoché ogni pagina offerse in greco ed in latino, quali esemplari di virtù o suggelli della verità, i fatti, le parole, i grandi uomini del paganesimo. Aggiungerei che la poesia non trattò più argomenti, anche cristiani, se non nello stile, nel metro, e cogli ornamenti pagani: dirò alcuni esempi tra mille. Il Sannazzaro e il Vida sono i due più famosi letterati di questa età, i quali impresero a cantare i misteri della religione. Ora, il primo, nel suo poema De partu Virginis, fa una mescolanza, che direi ridicola, se indecente non fosse, delle più auguste verità della Fede e delle inezie della favola. Tutto vi è pieno di Dei e di Dee, di Driadi e di Nereidi. Il nome del Nostro Signor Gesù Cristo non vi si rinviene una volta sola. Per cantare la Santa Vergine e Nostro Signore, vincitore della idolatria, il Sannazzaro comincia con invocare le Muse: O Musæ…quandoquidem genus e cœlo deducitis. Ciò non bastando implora la Vergine Santa, ch’ egli chiama la ferma speranza degli uomini e degli Dei, spes fida hominum, spes fida Deorum, alma Parens, e della quale fa una Dea e una regina degli Dei: Diva more, reginamque Deorum de more salutat. Il Padre Eterno annunzia l’intenzione sua di ricollocare gli uomini nel soggiorno degli Dei, Divum potius revocentur ad oras. L’angelo Gabriele trova la Vergine Santa a leggere, secondo il suo costume, non già Isaia, non già i Salmi, ma le Sibille, atque illi veteres de more sibyllæ in manibus; ei la saluta col nome di Dea e le dice di nulla temere, exue, Dea, metus animo. La notizia dell’incarnazione giunge agli Inferni; allora le anime dei giusti, le anime d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe esultano d’allegrezza. Perchè? Perché lasceranno le tenebrose rive d’Acheronte, e cesseranno di sentire 1’abbaiar di Cerbero, qui tristia linquant Tartara, et evectis fugiant Acheronta tenebris, immanemque ululatum Tergemini canis. Quanto segue oltrepassa qualsiasi immaginazione. Il poeta personifica il Giordano, e gli fa annunziare il mistero dell’Incarnazione, il Battesimo di Nostro Signore e i suoi miracoli. Ma da chi? da Proteo! Cœruleus Proteus…. hoc effudit Carmine voces : « Adveniet tibi, Jordanes, properantibus annis, adveniet, mi crede », inquit. Il secondo, non meno gran fabbricatore di versi, non pensa, non parla se non con Virgilio ch’ei sapeva egregiamente. Vescovo dotto, senza macchie, il Vida fu uno degli uomini posti nelle più favorevoli condizioni per ostare all’andazzo del suo secolo. Per tale riguardo, egli merita uno studio speciale: l’influsso del paganesimo sovr’esso ci dà la misura, a minima, di quello che fu sugli animi di men forte tempra. Ora, il dotto, il grave, il degno vescovo di Cremona ci rimane quale una viva prova che il Rinascimento, ripudiando l’eredità letteraria dei secoli di Fede, più non permetteva di scrivere sovra alcun argomento, grave o frivolo, religioso o profano, senza adoprare il linguaggio del paganesimo, senza porre di mezzo i suoi uomini e i suoi Dei. La Poetica del Vida, scritta in centoni virgiliani, non parla se non di Febo, delle Muse, del Parnasso e di Minerva. Più spesso forse che non in verun autore pagano, vi si trovano i nomi degli Dei e delle cose del paganesimo. Nel suo fanatismo, il Vida giunge perfino a fare di Virgilio una specie di Dio per l’eloquenza e per la santità: Verba Deo similis; nil mortale sonas. Salve, sanctissime vates; un Dio ch’egli onora; un Dio al quale promette, per sempre, corone, incensi, altari ed un culto sacro; un Dio insomma che il poeta deve invocare. Te colimus: tibi serta damus, tibi thura, tibi aras, et tibi rite sacrum semper dicemus honorem. Nos aspice, prassens, pectoribusque tuos casus infunde calores, adveniens pater, atque animis lete insere nostris. Lo stesso prelato compone gravemente un poema sul Giuoco degli scacchi. Non crediate mica che i giocatori sieno semplici mortali: sono re, imperatori, personaggi storici d’Oriente e d’Occidente. La partita è impegnata tra Apollo e Mercurio: essa si gioca nelle nozze dell’Oceano colla Terra. Giove è giudice del combattimento; sono spettatori Venere, Marte e Vulcano. La lotta si compie frammezzo i tiri da baro degli Immortali, e termina con vantaggio dei soldati neri, i quali trionfano con la inspirazione di Mercurio!! Dopo essersi esercitato sovra letterarii argomenti, il Vida tratta argomenti cristiani. La sua più importante opera si è la Cristiade. Litografia dell’Eneide, con interminabili discorsi, ecco che cos’è questo poema, quanto al disegno generale. San Giuseppe, poi San Giovanni, raccontano a Pilato, nel momento della Passione, tutta la storia di Nostro Signore. Lascio da parte l’anacronismo; altri vedrà se mi sia permesso di non parlare della mancanza di naturalezza e di a-tempo che riscontrasi in discorsi senza fine, rivolti a un giudice premuroso di farla finita e sopra pensiero per la sommossa che mugge nelle vie chiedendo la morte della vittima. Vengo alla forma tutta pagana, data ad un soggetto che sì poco la comporta. Dio Padre si rivela in tutti i nomi dati a Giove: egli è il padre degli Immortali, il possente signore della procella, del tuono e della pioggia, il monarca d’Olimpo: Superém sator, Superum pater nimbipotens, allisonans, imbripotens, regnator Olympi. Nostro Signore è sempre un Eroe: l’Eroe rimprovera Pietro perché gli vuole vietar di morire, increpuit dictis quem talibus heros; l’Eroe cammina circondato dai suoi compagni, multìs comitantibus heros instat; l’Eroe immobile sulla tomba di Lazzaro, prega suo padre, immobìlis heros orabat ; l’Eroe, entrato nel tempio, vede i profanatori, heros ingressus vidit; l’Eroe giunto al giardino degli Olivi, si trova accasciato da affligenti pensieri, curis confectus tristibus heros; l’Eroe è senza paura alla vista degli Ebrei che lo vengono a prendere, his nil trepidus compellans vocibus heros; l’Eroe pronuncia parole che convertono San Pietro, tmn monitus verborum, heros quæ extrema canebat, ingemuit; l’Eroe muore insultalo dal cattivo ladrone, ipse edam verbis morientem heroa superbis stringebat. Non è solo dalla sua penna episcopale che il Vida lascia cadere ad ogni momento il nome di Eroe per indicare l’Uomo Dio; egli pone questo nome profano sulle labbra di S. Giovanni. Narrando a Pilato le azioni del Divin Maestro, il prediletto discepolo gli dice : « L’Eroe, traversando una campagna fece seccare un fico sterile, heros qui hac forte tenebat; l’Eroe, alzando le mani al cielo, libera un ossesso, heros palmas in cœlum sustulit ambas; l’Eroe erasi ritirato nel deserto, se ciani subduxerat heros cœtibus; l’Eroe, assalito dal demonio rivela la sua divinità, ed elude tutti gli artifizi dell’ inimico: quale un corsiero, libero del morso, si slancia nella pianura e si ride dell’inseguirlo che fanno i servi mandati sulle sue orme; « Se protinus heros ipse Deum claro confessus numine coram irrita furia dolosque exibat semper apertos. Qualis, ubi excussis per plana evasit habenis, liber equus ludit famulos hinc inde sequentes». E San Giovanni Evangelista quegli che dice tutte queste cose! E ne dice ben altre. Per conoscerle, ei comincia con essere trasportato nel soggiorno degli Dei ; penetralia Divum mente subit. Ritornato in terra e narrando a Pilato il miracolo della moltiplicazione dei pani, dice che il popolo da cui il suo maestro era seguito nel deserto, si trovava privo da tre dì dei benefìzii di Cerere: eos tenia namque muneris expertes Cereris lux acta videbat. Finalmente accusa le Eumenidi d’ aver acceso 1’odio degli Ebrei contro di lui: Eumenides… circumeunt… agitantque furentes. – Sino al sedicesimo secolo nessuno aveva mai saputo che San Giovanni Evangelista avesse imparato mitologia nelle sue estasi; ma che sapevano i secoli barbari? Però il discepolo prediletto non ha detto tutto. Il poeta ci indica coi loro nomi, con le forme loro, tutti gli spiriti delle tenebre che spinsero gli Ebrei all’uccisione del Figliuolo di Dio: il primo è il re dell’Èrebo; vengono quindi le Gorgonidi, poscia le Siingi, seguite dai Centauri, dalle Idre e dalle Chimere; al retroguardo camminano le Scille e le sporche Arpìe. Arbiter ipse Èrebi… Gorgonas hi, Sphingesque obsceno corpore reddunt; Centaurosque, Hydrasque illi, ignivomasque Chimæras; centum olii Scyllas, ac fesdificas Harpyas. Ecco dunque una cosa che è sempre buona a sapersi. Ciò che non lo è meno, si è che la Maddalena deve attribuire le sue colpe a Venere ed alle Furie discese nella sua anima dietro l’infame Dea: sensibus illapsa est Veneris malesuada cupido, qua; mentem immutans Furiis subirci iniquis. Una di queste Furie aveva sette teste; è dessa che tormentava la sgraziata, quella che fu cacciata da Nostro Signore e ch’ei designa col suo nome mitologico: hæc Deus, hæc, inquit, capitum fœdissima septem, correptam misera; mentem vexabat Erinnis. – Quanto segue è ben altramente serio. La Fede ci insegna che è Dio il quale affidò a San Giuseppe la custodia della Santa Vergine, dandogliela per isposa. Il Vida ci dice che è la volontà degli Immortali, ei olim alma Parens fuerat Superém concredita iussis. Volete sapere che è mai la Vergine stessa? è una ninfa, Regia progenies, nymphœ dignatae superbo coniugio; la più bella delle ninfe, nympharum pulcherrima; è qualcosa di più, è una Dea, sub pedibusque Dece lumen dare candida luna. Si è a nome degli Dei che San Gioacchino ordina alla figliuola sua di maritarsi, iussa docens Superém. Sant’Anna, diventata simile ad una Baccante, in preda ad un delirio sacro, e, gettando urli, le indica il suo sposo: In medio Anna parens, subilo correpta furore, piena Deo tota, visu venerabile, in cede bacchatur, tollitque ingentem calo ululatum. – La poesia del Rinascimento si guarda bene (spregiando la semplicità dell’ Evangelio ) dal dire che Nostro Signore mutò 1’acqua in vino alle nozze di Cana; è necessario che il racconto de’ miracoli sia smaltato di qualche bellezza pagana, e 1′ acqua diventa il succo di Bacco: fontis aquam latices Racchi convertit in atros; è eziandio la tazza di Bacco quella che è presentata a Nostro Signore sulla croce: corrupti pocula Bacchi inficimi felle. Il pane azimo, il pane della Eucaristia, è chiamato Cerere senza mescolanza: sinceram Cererem. Finalmente, sia traviamento poetico, sia impotenza di rendere colla lingua latina pagana i misteri del Cristianesimo, sia insomma un fanatico desiderio di richiamare ovunque la forma virgiliana, il Vida si fa lecito di raccontare in questi termini l’istituzione della Santa Eucaristia : « Già l’Eroe prende il pane senza lievito in fretta preparato, lo rompe e lo divide fra tutti; poscia, empie una coppa di vino e d’acqua fresca, benedice la divina mescolanza ch’essa contiene, e la presenta spumeggiante ai suoi compagni dicendo : « Questa è la vera immagine del nostro corpo, la vera immagine del nostro sangue, che, vittima devota a mio padre, io spargerò solo per tutti gli uomini. – Io non voglio accusare il Vida di eresia; suppongo che il suo verso abbia un senso ortodosso, ma confesso di non saper come provare che queste parole: vera imago corporis, significhino « questo è il mio corpo ». Quanto io so, si è che San Tommaso parla ben altrimenti, e si può affermare ch’ei non avrebbe mai parlato così. Non sarebbe guari difficile il trovare nelle pagane espressioni del Vida molte altre inesattezze teologiche: tanto è vero ciò, che vedremo più lungi, che l’uso della lingua pagana, impotente ad esprimere le cristiane verità, è oltremodo acconcio a spianare la via all’ eresia. Aggiungiamo che dopo avere, secondo la moda dell’età, dato un calcio a tutta quanta la letteratura dei secoli di fede, il degno vescovo finì per pentirsene. Tormentato dal rimorso di avere impiegato parte di sua vita in opere profane, ei disapprova tutti gli errori che avrebbero potuto sfuggirgli e chiede perdono d’avere consacrato alle lettere profane un tempo ch’egli doveva a Dio. – Tali sono il Sannazzaro e il Vida, i due principi della poesia del Rinascimento. Ambedue, cristiani per il loro soggetto, sono affatto pagani per i ragionamenti, per 1’ordinatura, per i mezzi, per le massime, per il metro, per lo stile, per la elocuzione; e tutte e due spesero una grandissima copia di poesia e d’immaginazione in comporre elegantissime frivolezze. – D’ altra parte, il male non fu grande; poiché tale è la noia che i loro lavori inspirano, che non si possono leggere sino alla fine. Tuttavolta il loro esempio diventò funesto. Una folla di pretesi poeti si posero all’opera ed in Francia ed in Italia per rifare gl’inni della Chiesa. Agli occhi di codesti Vandali d’un novello genere, gli inni sacri, i quali, se ne togli qualche eccezione, sono capi d’opera di poesia cristiana, degni dei profondi studi e di tutta l’ammirazione degli uomini di gusto, non erano buoni se non ad essere rigettati fra la mondiglia, come cose barbare. Furono pertanto veduti costoro sostituire ai cauti sacri, scritti nello stile di Sant’Ambrogio, di San Gregorio, d’Innocenzo III, di San Bonaventura e di San Tommaso, nuovi componimenti elaborati nello stile e secondo il metro d’Orazio. Qui ancora, il Vida, precursore di Santeuil e di Coffin, spinto da uno zelo molto più grammaticale che episcopale, compose, per le solennità di Nostro Signore e dei Santi che si celebrano nel corso dell’anno, inni che sono vere odi di Orazio, meno l’ispirazione poetica. A parte la scelta delle parole e la misura , nulla vi si rinviene di grande, nulla di santo, nulla di pio; e leggendoli, il cuore si raffredda ben più che non si riscaldi per le cose celesti. – Finalmente, cosa deplorabile, si videro secolari, i quali insino allora avevano impiegato i loro ingegni nello scrivere in favore della religione; ecclesiastici, religiosi, vescovi eziandio, dimenticando e la dignità del loro carattere e i doveri della loro carica, consacrare a gara gli ingegni loro e le loro veglie nello spiegare, commentare, annotare gli autori pagani; spendere tesori di erudizione per far valere, come se si fosse trattato della Sacra Scrittura, ciascuna delle loro parole, per giustificare una variante in un epigramma di Marziale, in una commedia di Terenzio o di Aristofane; per celebrare le ricchezze d’un periodo di Cicerone, o per fare risaltare le infinite bellezze del Quadrupedante putrem di Virgilio e del Procumbit humi bos. Ciò che è viepiù deplorabile, furono visti dare un esempio, sgraziatamente troppo bene seguito dopo la loro età; furon visti tradurre nella loro integrità le opere le più licenziose del paganesimo, e spendere molto più tempo in cantare in poesie fuggitive o di polso, Giove, Venere, Marte, Minerva, Apollo, Diana e soprattutto Cupido, che non in difendere la religione e la società, le credenze ed i costumi cristiani, in allora cotanto violentemente assaliti. Ma un male forse maggiore di quelli che io ho indicato fu il discredito in cui essi gettarono la lingua e la letteratura cristiana. Si fu in allora, grazie a costoro, che quelle vennero chiamate barbare, e come tali considerate. Non uno di tal uomini, il quale non proclamasse come un assioma, che il genio, l’eloquenza, la poesia, la storia, la filosofia, non abitarono mai altri luoghi eccetto il Foro od il Pireo; non un solo, il quale non dicesse collo Scaligero, ch’egli amerebbe meglio aver composto l’ode d’ Orazio: Quem tu, Melpomene, semel, che non l’essere re di Francia. Taluno persino giunse ad un tale eccesso di dispregio per la lingua, per la poesia e per 1’eloquenza cristiana, ed a sì grande fanatismo per la lingua, per la poesia e per l’eloquenza pagana, che oltrepassa tutti i limiti conosciuti del ridicolo. Citerò tra gli altri il dotto religioso, l’ottimo padre Maffei, il quale, come ci racconta uno dei suoi confratelli, chiese sul serio al sommo pontefice il permesso di dire il suo breviario in greco, per tema di guastarsi il linguaggio leggendo il latino della Volgata e del Breviario romano. Se un uomo d’una pietà eminente, se un religioso esemplare poté giungere a tanto, giudichisi dei sensi di tanti altri i quali non avevano né la stessa scienza né la stessa pietà? Da questo rapido abbozzo, chiaro risulta che, sotto l’influsso del paganesimo classico, la moderna letteratura perdette il suo vero carattere, il carattere cristiano e nazionale; che invece di essere originale e indipendente, essa diventò imitatrice servile; invece di essere un prodotto del suolo, essa non è se non una produzione fittizia senza sapore e senza forza, come quei frutti esotici che si educano nelle nostre serre; che invece d’essere l’organo dello spiritualismo, essa è troppo sovente l’apostolo svergognato del sensualismo. Cesserà ella alfine questa parte indegna? Spoglierà essa la toga antica, uscirà essa dal mondo delle ombre e delle favole per entrare in quello delle realtà e della fede? Dio lo sa. Quello che noi sappiamo, si è che tutto è crollato intorno al suo trono; questo trono non può da solo rimanere ritto fra tante rovine. Bisogna che il mondo perisca, o bisogna che simil trono crolli alla sua volta, e che sui suoi frantumi s’innalzi il trono di una nuova letteratura, espressione vera della società restituita a se medesima, cioè diventata cattolica di nuovo,

 

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.