CANONIZZAZIONE (1)

Cominciamo oggi ad approfondire un tema abbastanza dibattuto e per il quale ci sono molte idee confuse, a partire dalla nozione che nella canonizzazione il Papa non impegni la sua Infallibilità! Si sentono in giro voci assurde, come quella che la Chiesa possa proclamare santo un beota, un empio, un omosessuale, un massone 33°, e proporlo come esempio di santità, modello di virtù eroiche [come ad esempio quella di avere tre amanti contemporaneamente in Vaticano]. Quindi secondo tali eretiche idiozie la Chiesa, Sposa di Cristo, Madre e Maestra infallibile dei popoli, può tranquillamente ingannare e propinare latte velenoso ai suoi figli che Essa ama teneramente. E molti di questi oligofrenici fanta-teologi modernisti (senza offesa per gli oligofrenici) si pretendono addirittura cattolici tradizionalisti! Poveri ignari dannati già in terra! A tal punto ci siamo decisi a pubblicare la voce “Canonizzazione” dall’Enciclopedia Cattolica, l’ultima opera “cattolica” pubblicata in Vaticano prima dell’avvento degli sciacalli masso-ecumenisti, in modo che almeno i “veri” pochi Cattolici (quelli di Papa Gregorio XVIII), possano attingere alla “verità” conosciuta, senza incorrere nel peccato contro lo Spirito Santo. La “voce” non è sempre di agevole lettura, pertanto l’abbiamo divisa in 4 parti, in modo da poterla approfondire con calma e con cognizione di causa.

CANONIZZAZIONE (1)

[Encicl. Cattolica vol III, coll. 569- e segg. ]

La “Canonizzazione” è un atto o sentenza definitiva con la quale il Sommo Pontefice decreta che un servo di Dio, già annoverato tra i beati, venga inserito nel catalogo dei Santi e si veneri nella Chiesa universale con il culto dovuto a tutti i canonizzati.

.I

LA CANONIZZAZIONE NELLA PRASSI DEL DIRITTO CANONICO ODIERNO. 

Dalla definizione si scorge subito la differenza che corre tra la beatificazione (v.) e la c. I n quella il culto è limitato ad una città, diocesi, regione o famiglia religiosa, ed è unicamente permissivo, in questa invece è esteso a tutto l’orbe cattolico, ed è precettivo. Ma la vera differenza sta, come scrive Benedetto XIV, in « quell’ultima e definitiva sentenza della santità » che impone il culto dovuto ai santi nella Chiesa universale: sentenza che il Sommo Pontefice pronuncia per la c., e giammai per la beatificazione. Una delle note caratteristiche della Chiesa infatti è la santità: essa è santa, perché è santo il suo Fondatore, santa la sua dottrina, santa la finalità che persegue, e santa perché ha la virtù di generare in ogni secolo legioni di santi che, con la vita, le virtù, con l’apostolato e con i miracoli compiuti per la loro intercessione, vengono a confermare la santità stessa della Chiesa. Assertore, custode e giudice di questa santità non è che il Vicario di Cristo; ed a lui solo, che presiede a tutta la Chiesa ed ha il diritto di proporre ciò che si deve credere ed operare in cose concernenti la religione, spetta di giudicare chi debba essere ritenuto ed onorato come santo. Ed in questo giudizio il Papa non può errare. Benedetto XIV, incomparabile maestro in materia, insegna che egli riterrebbe « se non eretico, certamente temerario, scandaloso a tutta la Chiesa, ingiurioso verso i santi, sospetto di eresia, assertore di erronea proposizione, chi osasse affermare che il Pontefice in questa o quella c. abbia errato, e che questo o quel santo da lui canonizzato non dovesse onorarsi con culto di dulia », cioè per ragione della sua dignità nell’ordine soprannaturale. – Del resto la sentenza definitiva, con la quale il Papa proclama la santità dei servi di Dio, oltre che trovare la sua prima ed alta ragione nell’assistenza speciale dello Spirito Santo che lo illumina, è appoggiata solidamente a tutto un complesso di investigazioni, di studi, di fatti che dimostrano con quanto discernimento e con quanta prudenza proceda la Chiesa nelle cause di c., le quali vanno annoverate tra le maggiori e le più gravi che siano di sua competenza. Infatti la via normale ed ordinaria è quella di non iniziare una causa di c., se prima non consti che il servo di Dio sia stato già riconosciuto come beato. E se per un istante si richiami quanto fu detto sotto la voce beatificazione, si vedrà quale lunga e severa indagine venga adoperata, prima che un servo di Dio ottenga il titolo e gli onori di beato. Malgrado questo complesso di ricerche e di accertamenti, si richiedono altri due miracoli verificatisi dopo la beatificazione, i quali passano sotto il controllo di più medici e chirurgi nominati d’ufficio, e sono discussi e vagliati prima da una commissione medica e poi da due prelati, consultori e cardinali in tre o più Congregazioni, l’ultima delle quali è presieduta dal Papa. Approvati i miracoli, e promulgato il decreto nel quale è stabilito che si può con sicurezza procedere alla c., s’inizia un’altra serie di atti che si svolgono in tre Concistori; poiché la Santa Sede desidera che, in un affare di tanta gravità, al giudizio consultivo della Sacra Congregazione dei Riti si aggiunga il giudizio parimenti consultivo del Sacro Concistoro. Si comincia con il Concistoro segreto, dove, oltreché i cardinali della Sacra Congregazione dei Riti, convengono tutti i cardinali residenti in Roma, i quali, dopo avere ascoltato la relazione del cardinale Prefetto della stessa Congregazione intorno alla vita e miracoli e agli atti fino a quel momento compiuti, interrogati dal Sommo Pontefice se piaccia ad essi che si proceda alla solenne e, rispondono placet o non placet. In seguito si tiene un Concistoro pubblico, dove uno degli avvocati concistoriali espone in elegante latino la vita e i miracoli del beato, la cui c. viene supplicata. Terminata la orazione dell’Avvocato, il Segretario delle Lettere latine in nome del Papa risponde che Sua Santità esorta tutti, perché con i digiuni e con le preghiere invochino i lumi divini, prima che il sacro Collegio dei cardinali e l’Episcopato abbiano manifestato il loro proposito. Ed a questo scopo è indetto un Concistoro semipubblico, al quale, oltre tutti i cardinali, sono invitati i patriarchi, gli arcivescovi, vescovi e abati nullius residenti in Roma, perché, dopo aver preso cognizione di un compendio della vita del beato unitamente ai relativi atti, scritto per cura del Segretario dei Riti, diano il loro suffragio. Quest’ultimo Concistoro si apre e poi si chiude con una breve allocuzione del Papa che annunzia il giorno, in cui nella basilica di S. Pietro con solenne apparato e cerimonie compirà l’atto della c. Nel giorno fissato il Pontefice pronuncia al cospetto del mondo cattolico la sentenza definitiva, con la quale inscrive il nome del beato nel catalogo dei santi, ed ordina che la sua memoria venga onorata ogni anno dalla Chiesa universale. – Quanto finora esposto, riguarda la c. formale. Ma vi è anche una c. equipollente, riservata a quei servi di Dio che, essendo già in possesso di un culto prima dei decreti di Urbano VIII, vennero beatificati con la beatificazione equipollente in virtù di un decreto pontificio che attestava il fatto del culto immemorabile e la eroicità delle virtù o il martirio. Ma perché dalla beatificazione equipollente si passi alla c. equipollente, sono necessari tre miracoli avvenuti dopo che il servo di Dio è stato beatificato. Vi sono altresì casi oggi rarissimi, nei quali il Papa procede alla c. equipollente senza il sussidio dei miracoli; e ciò avviene qualora si tratti di personaggi insigni, la cui santità di vita o il cui glorioso martirio sono dimostrati dai processi con tanta ampiezza e sicurezza di prove, da escludere qualsiasi dubbio.

BIBL.: F. Contelori, Tractatus et praxis de Canonizatione sanctorum, Lione 1634; Benedetto X I V , De Servorum Dei Beatificatione et de Beatorum Canonizatione, Prato 1839; Codex Postulatorum, Roma 1934; Norme da seguirsi nella compilazione delle Posizioni riguardanti le Cause dei Servi di Dio e Regolamento annesso, ivi 1943 (raccoglie le varie norme emanate dalla S. Congregazione dei Riti negli ultimi tempi). Carlo Salotti

II . LA C. NELLA STORIA.

SOMMARIO: I. Le origini della c., il culto dei martiri. – II. L’inizio del culto dei «non»-martiri. – III. La c. vescovile. – IV . La c. papale o universale. – V. Elenco delle c. preparate dalla S. Congregazione dei Riti, da Clemente VIII (1594) fino a Pio XII. – VI. La c. equipollente. – VII. C. e Chiesa.

  1. LE ORIGINI DELLA C., IL CULTO DEI MARTIRI. La Chiesa antica considerò il martirio come l’espressione massima della fede e della carità, quindi della perfezione cristiana; perciò venerò i martiri come i più vicini amici di Dio e come i più potenti intercessori per noi. Questa venerazione si basa sul fatto pubblico del martirio, ed è legata ad un duplice elemento: locale e temporale. Il culto cioè era vincolato al luogo del martirio o della sepoltura del martire, e alla data del martirio stesso. La memoria di un martire, a differenza della memoria di un defunto qualsiasi, non fu celebrata soltanto dai parenti e congiunti, ma dalla stessa comunità cristiana, e l’anniversario fu indicato nei relativi calendari. Inoltre, mentre nella pietà verso i defunti prevalse l’idea della nostra intercessione presso Dio per la loro salute, la celebrazione del martire era festiva, e si implorava la sua intercessione in favore dei vivi. Il primo esempio storicamente documentato di una festa anniversaria per un martire è quello della Chiesa di Smirne per s. Policarpo, morto nel 156 (Martyrologium Policarpi, 18: ed. R. Knopf – G. Kruger, ausgewàhlte Màrtyrerakten, 2a ed., Tubinga 1929.) – Il fatto del martirio era di dominio pubblico; ne era stata testimonio oculare la stessa comunità cristiana! Non occorreva quindi, ordinariamente parlando, alcun atto specifico di riconoscimento dell’autorità ecclesiastica. Solo in certi casi particolari, quando cioè anche delle sette si vantarono di avere dei martiri, soprattutto in Africa, una certa vigilanza dell’autorità ecclesiastica parve opportuna (v. MARTIRI). – Come s’è detto, le comunità cristiane tennero una specie di elenco dei propri martiri, annotando il nome, la data del martirio e il luogo della sepoltura. Ce lo attesta, ad es., s. Cipriano, ricordando al suo clero: « Dies eorum quibus excedunt, adnotate, ut commemorationem eorum inter memorias martyrum celebrare possimus » (Epistolæ, 12, 2, ed. J.M.J. Hartel : CSEL, III, 303). Da qui l’origine dei martirologi e calendari. Si ha un esempio di tali elenchi nella Depositici martyrum della Chiesa romana, inserita nel Cronografo del 354. Ma i nomi dei martiri passarono anche più direttamente nel culto, vennero cioè inseriti nei dittici locali, letti durante il santo sacrificio. Il continuo contatto fra le varie chiese diede occasione per una prima diffusione del culto di un martire fuori del luogo di origine; i loro nomi incominciarono a migrare in calendari e martirologi di altre chiese, e certi martiri celebri furono accolti anche nei dittici di quelle. – L’epoca aurea del culto dei martiri furono i primi secoli dopo la pace costantiniana: basta accennare alla decorazione splendida dei loro sepolcri, all’erezione di memorie, chiese e basiliche, spesso grandiose, sopra la loro tomba, o in loro onore; ai pellegrinaggi, alle solennità liturgiche delle loro feste, ai panegirici recitati in loro onore. L’uso di origine orientale della traslazione e della divisione delle loro reliquie si diffuse poi anche nell’Occidente e si moltiplicarono i centri dei culti dei martiri. S. Stefano protomartire, dacché furono rinvenute le sue spoglie (415), s. Giovanni Battista, o S. Lorenzo, diacono romano, e molti altri, ebbero un culto che si estese rapidamente a tutta la Chiesa. Papi di origine orientale introdussero molti culti di martiri a Roma; con le migrazioni di intere popolazioni a causa delle invasioni barbariche seguirono talvolta quelle delle reliquie e del culto di un martire (ad es., s. Quirino da Sciscia a Roma, s. Severino dal Norico al napoletano); tutto ciò per uno sviluppo organico e naturale, senza preventivi interventi da parte dei vescovi. Solo di tanto in tanto occorreva moderare alquanto uno zelo troppo ardente e meno cauto del popolo. – In questo periodo non si può certo ancora parlare di c. nel senso canonico moderno. Il culto solenne e liturgico dei martiri era il frutto di una evoluzione spontanea e logica che si fondava da una parte sulla notorietà storica del fatto del martirio che rendeva il defunto direttamente simile a Cristo, e d’altra parte sopra i due elementi fondamentali per l’origine del culto: data e luogo del martirio.

II L’INIZIO DEL CULTO DEI « NON » MARTIRI

Il periodo delle persecuzioni non era ancora terminato quando un altro gruppo di defunti incominciò ad attirare la speciale venerazione da parte delle comunità cristiane, cioè i « confessori », vale a dire cristiani deferiti all’autorità civile per la loro fede, ma che, per varie circostanze, o non avevano subito il martirio, o vi erano sopravvissuti. Le testimonianze circa la venerazione particolare verso questi confessori (nel senso primitivo della parola) sono molto numerose; e alla sua morte un confessore della fede poteva divenire facilmente l’oggetto di una venerazione simile a quella prestata da un vero martire. Fra gli esempi più noti basta ricordare: Dionigi di Milano (359); Eusebio di Vercelli (370); Atanasio (373); Melezio di Antiochia (381) Giovanni Crisostomo (407). Però si osserva facilmente che alcuni di questi personaggi, si distinsero non solo per quanto soffersero per la fede, ma anche per la strenua difesa di essa sul campo politico e dottrinale e per loro vita ed attività, sicché, appena morti, si creò attorno ad essi subito una fama non dissimile a quella goduta dai martiri. Ci sono poi altri personaggi, i quali, senza essere stati confessori della fede nel senso primitivo, eccelsero talmente per la dottrina, la vita esemplare, l’attività molteplice, politico-ecclesiastica o sociale, che anch’essi, dopo la morte, furono presto circondati da onori analoghi a quelli resi ai martiri; basti nominare Gregorio Taumaturgo (270), Efrem siro (373), Basilio Magno (379), Ambrogio di Milano, Martino di Tours (397), Girolamo (420) e Agostino (430), per tacere di tanti altri.Ma c’è di più. Si era andato sviluppando, nella stessa epoca, e in una scala larghissima, la pratica dell’ascetismo e del monachismo. L’Oriente riecheggiò ben presto della fama degli eremiti e dei cenobiti, e presto anche l’Occidente ne conobbe alcune grandi figure (Atanasio, ad es., il grande esiliato). Antonio abate (356) era conosciuto in tutto il mondo cristiano, attraverso la celebre biografia scritta da s. Atanasio, dove tutti potevano leggere che Antonio era da equipararsi ai martiri antichi, non per effusione di sangue, ma per un martirio non meno autentico e reale, quello cioè dell’ardua e continua conquista della perfezione (Vita, cap. 47: PG 26, 912). Venerazione simile godettero altri grandi asceti e monaci, come, ad es., Ilarione (372); Paolo di Tebe (381); Simeone lo stilita (459). Anche l’anniversario della loro morte venne celebrato liturgicamente, presso le loro tombe sorsero spesso santuari di fama straordinaria, mete di pellegrinaggi rinomati; le loro reliquie furono venerate e ricercate, le chiese in loro onore si moltiplicarono. I primi « non » martiri, che entrarono nel culto liturgico della Chiesa di Roma, sono stati, come pare, Silvestro papa e Martino di Tours. Durante i secc. VI – IX non pochi altri santi « non » martiri furono accolti nei calendari romani, in Roma ebbero i loro oratòri, monasteri e chiese, e passarono di qui oltralpe, e viceversa. Questo movimento di culto fu in gran parte favorito dai Papi di origine non romana, dai molti monaci emigrati in Occidente, o dallo scambio di reliquie, e dalla diffusione delle leggende e delle passioni, ecc.Altro elemento che non si deve sottovalutare e che operò molto in profondità e vastità, è l’opera letteraria dei Padri e degli scrittori ecclesiastici, i quali svilupparono e diffusero sistematicamente la teoria del « martirio incruento », rappresentato appunto dalla vita penitente, ascetica e monastica, o comunque dalla vita di perfezione cristiana. Tale teoria divenne la dottrina comune in tutto il Medioevo e influisce anche oggi. Basteranno alcuni pochi riscontri, rimandando per il resto alla bibliografia notata sotto. Paolino di Nola sollecita per s. Felice, presbitero nolano, la gloria di martire: « Martyrium sine cæde placet , si prompta ferendimensque fidesque Deo caleant; passura voluta sufficit, et summa est meriti testatio voti » (S. Paulini carmina [ed. J . M . J . Hartel : CSEL: XXIX], carm. 14, v. 10-12, p. 46). S. Girolamo non si perita a crivere ad Eustochio: « Mater tua longo martyrio coronata est. Non solum effusio sanguinis in confessione reputatur sed devotæ quoque mentis servitus cotidianum martyrium est » (Epistolæ [ed. I . Hilberg], CSEL: LV, ep. 108, n.31, p. 349). Di Martino di Tours dice Sulpicio Severo: implevit tamen sine cruore martyrium »; nella sua festa si riscontrano ancora la salmodia ed altri elementi Iiturgici propri dei martiri. – [BIBL.: H . Dclehaye, Sanctus, essai sur le eulte des saints dans l’antiquité, Bruxelles 1927, pp. 109-21, 162-89: D. Gougaud, Dévotions et pratiques ascétiques du moyen age, Maredsous 1929, p. 200-19; H. Delehaye, Les origines du eulte des martyrs, 2a ed., Bruxelles 1933, p. 50 sgg. ; M. Vi!ler-K. Rahner, Aszese und Mystik in der Vàterzeit, Friburgo in Br. 1939, pp. 29-59; H. Leclereq, Saint, in DACL, XV (1949), coll. 373-462.]

III. LA c. VESCOVILE. – Fra i secc. VI e X, mentre l’Oriente si distaccava sempre più dall’Occidente, la dissoluzione dell’impero romano e l’immigrazione dei popoli barbarici, con la relativa necessità di convertirli alla fede cattolica, posero la Chiesa di fronte a compiti nuovi e ardui. È l’epoca dei grandi vescovi, dei monaci missionari, dei re convertiti che finiscono persino nel chiostro, delle regine e principesse fondatrici di monasteri e chiese e poi esse stesse badesse o monache, degli eremiti e dei pellegrini; un mondo in fermento e in movimento, con profondi contrasti fra violenza e santità, in mezzo a popoli giovani, di forte immaginativa, entusiasti della nuova fede, ammiratori degli eroi della carità e della illibatezza evangelica. In questo periodo, oltre una rifioritura del culto dei santi martiri, nascono un po’ da per tutto nuovi culti di santi: bastava al popolo spesso la fama di vita penitente, la fondazione di un monastero con le sue benefiche conseguenze, una grande beneficenza verso i poveri, talvolta una morte violenta, anche se non sempre per stretto motivo di fede, e soprattutto la fama di miracoli, per far nascere un nuovo culto: voce popolare di santa vita, e credito di miracoli sono i due punti di partenza per questi culti dell’alto medio evo. Le grandi chiese considerarono ordinariamente i loro fondatori e primi vescovi come altrettanti santi; lo stesso vale per le figure di grandi abati. In tutti i casi se ne raccolgono le memorie, se ne scrivono le leggende, senza troppe preoccupazioni di critica; i calendari e i martirologi di quei secoli si arricchiscono con sempre nuovi nomi, nelle chiese si moltiplicano gli altari e il numero delle feste aumenta rapidamente. Di tanto in tanto occorreva anche reprimere facili abusi. Carlomagno, ad es., dovette prendere delle misure contro i culti abusivi ( MGH , Capitularia, II, 56: « Ut falsa nomina martyrum et incertæ sanctorum memoriæ non venerentur »; il Concilio di Francoforte [794]: « Ut nulli novi sancti colantur aut invocentur nec memoriæ eorum per vias erigantur, sed ii soli in ecclesia venerandi sint, qui ex auctoritate passionum aut vitæ merito electi sunt »; MGH, Capitularia, II, 170; il Concilio di Magonza [813]: «Deinceps corpora sanctorum de loco ad locum nullus præsumat transferre sine Consilio principis vel episcoporum et sanctæ synodis licentìa»; Mansi, XIV, 75). Dalle varie e molteplici notizie su questa materia, risulta che si stava formando in questi secoli una certa prassi più o meno uniforme, attraverso la quale veniva autorizzato un nuovo culto. Il punto di partenza rimane sempre la fama pubblica, la vox populi, che subito dopo la morte del servo di Dio correva alla tomba, ne invocava l’intercessione e ne proclamava l’effetto taumaturgico. Allora era avvisato il vescovo competente; in sua presenza, anzi, spesso in occasione di un sinodo diocesano o provinciale, si leggeva una vita del defunto e soprattutto la storia dei miracoli (primissimo nucleo dei futuri processi) e in seguito all’avvenuta approvazione, si procedeva all’esumazione del corpo per dargli una sepoltura più onorevole: la elevatio. Ma spesso seguiva subito o più tardi un altro passo: la translatio, cioè la nuova deposizione del corpo santo davanti o accanto ad un altare o addirittura sotto o sopra l’altare, il quale prendeva il nome dal santo ivi venerato; anzi, alle volte la stessa chiesa era ampliata o ricostruita e dedicata precisamente al santo elevato o traslato. Dall’elevazione o traslazione in poi veniva celebrata regolarmente la festa liturgica, spesso con grande solennità, non solo nella località dove sorgeva l’altare o la chiesa, ma in tutta la diocesi, la regione, la provincia, o in tutta la famiglia religiosa. – Gli elementi principali dunque di questa procedura che si era andata formando in epoca merovingia e aveva preso una certa consistenza in èra carolingia, sono: pubblica fama di santità e di miracoli (o di martirio), presentazione al vescovo diocesano o al sinodo (diocesano, provinciale) di una vita appositamente composta, con particolare rilievo dei miracoli, attribuiti al « santo », approvazione ossia consenso ufficiale al culto che si apre con l’elevazione o la traslazione. Vale a dire si crea un punto fisso del culto: l’altare proprio del nuovo santo, ovvero la sua chiesa, dove viene celebrata regolarmente la festa liturgica. Il culto può restare limitato o può espandersi più o meno rapidamente e largamente; questo è un elemento secondario, l’essenziale è l’intervento ufficiale dell’autorità ecclesiastica competente, cioè, in quell’età, del vescovo ordinario, in forza della sua autorità propria, resa più evidente, spesso, anche dal concorso dei vescovi vicini, o di un sinodo. Siamo in tal modo dinanzi ad una disciplina ecclesiastica ordinaria e normale, riconosciuta universalmente, quindi legittima e valida a tutti gli effetti: cioè la c. vescovile, o locale, ovvero particolare, come alcuni preferiscono nominarla, unica ed esclusiva dal sec. VI al XII e continuata talvolta fino al sec. XIV. Un esempio molto tardo, per citarne uno, abbiamo ancora nel 1215, nella c. di s. Pietro di Trevi, celebrata prout poterat dal vescovo di Anagni, Pietro, in presenza dei prelati vicini. A s. Pier Damiani (m. nel 1072) questa prassi era ben nota ed egli ne parla come di cosa ordinaria (cf. Opusculum VI, cap. 19: PL 145, 142). – Per concludere: per più di 5 e 6 secoli (secc. VI-XII) la c. vescovile era la c. normale e unica in uso nella Chiesa latina. Accanto ad essa, come si vedrà subito, la c. papale crebbe molto lentamente e ci volle molto tempo e molto lavoro dottrinale e canonistico prima che essa riuscisse a soppiantare la c. medioevale ordinaria, compiuta dai vescovi. Da notare sopra tutto che la c. vescovile dava inizio ad un culto vero e proprio di santo, cioè alla celebrazione della festa liturgica, all’erezione o dedica di altari e di chiese, all’uso del nome nel Battesimo e via dicendo, senz’alcun limite. L’estensione geografica più o meno vasta di questi culti è un elemento secondario e puramente accessorio. Bisogna evitare di applicare a quei tempi i concetti giuridici moderni; del resto, anche la c. papale formale, sebbene obblighi tutta la Chiesa a venerare un santo, non implica per nulla l’imposizione della sua festa a tutta la Chiesa. – [BIBL.: Oltre i libri del p. H . Delehaye, citati sopra, cf. St. Beissel, Die Verehrung der Heiligen und ihrer Reliquien in Deutschland, 2 voll., Friburgo in Br. 1890, 1892; E. Marignon, Etudes sur la civilisation française, II: Le culte des saints sous les Mérovingiens, Parigi 1899.].

[Nota redaz. Il carattere rosso è redazionale. … “se non eretico, certamente temerario, scandaloso a tutta la Chiesa, ingiurioso verso i santi, sospetto di eresia, assertore di erronea proposizione, chi osasse affermare che il Pontefice in questa o quella c. abbia errato, e che questo o quel santo da lui canonizzato non dovesse onorarsi con culto di dulia… Questa asserzione di S. S. Benedetto XIV [P. Lambertini] merita un breve commento. Se noi assistiamo anche oggi a canonizzazioni “strane”, che lasciano dubbi, o meglio, danno certezze quasi matematiche, non è perché il Papa abbia errato, ma semplicemente perché la canonizzazione è finta ed invalida, fatta dai burattini del B’nai B’rith, dagli antipapi insediati dall’anticristo! punto.]

[Continua…]