DOMENICA V dopo PASQUA

Introitus

Isa XLVIII:20 Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiate usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja [Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia] Ps LXV:1-2 Jubiláte Deo, omnis terra, psalmum dícite nómini ejus: date glóriam laudi ejus. V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen

 

Vocem jucunditátis annuntiáte, et audiátur, allelúja: annuntiáte usque ad extrémum terræ: liberávit Dóminus pópulum suum, allelúja, allelúja [Annunciate la gioiosa notizia, che sia ascoltata, allelúia: annunciatela fino all’estremo della terra: il Signore ha liberato il suo pòpolo, allelúia, allelúia]

Oratio V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spiritu tuo. Orémus.

Deus, a quo bona cuncta procédunt, largíre supplícibus tuis: ut cogitémus, te inspiránte, quæ recta sunt; et, te gubernánte, éadem faciámus. [O Dio, da cui procede ogni bene, concedi a noi súpplici di pensare, per tua ispirazione, le cose che son giuste; e, sotto la tua direzione, di compierle.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Jacóbi Apóstoli.

Jas I:22-27

Caríssimi: Estóte factóres verbi, et non auditóres tantum: falléntes vosmetípsos. Quia si quis audítor est verbi et non factor: hic comparábitur viro consideránti vultum nativitátis suæ in spéculo: considerávit enim se et ábiit, et statim oblítus est, qualis fúerit. Qui autem perspéxerit in legem perfectam libertátis et permánserit in ea, non audítor obliviósus factus, sed factor óperis: hic beátus in facto suo erit. Si quis autem putat se religiósum esse, non refrénans linguam suam, sed sedúcens cor suum, hujus vana est relígio. Relígio munda et immaculáta apud Deum et Patrem hæc est: Visitáre pupíllos et viduas in tribulatióne eórum, et immaculátum se custodíre ab hoc sæculo

R. Deo gratias.

DOMENICA V dopo PASQUA: Omelia della lettura

[Bonomelli: vol. II, Omelia XXIII]

“Carissimi! siate operatori della parola e non soltanto ascoltatori, ingannando voi stessi. Poiché se altri è ascoltatore e non operatore della parola, costui sarà simile ad un uomo, che, avendo rimirato in uno specchio il suo volto al naturale e consideratolo, se ne ritrae tosto, dimentico di quello ch’esso è. Ma chi si è specchiato nella legge perfetta della libertà e vi perdura, non da smemorato ascoltatore, sebbene da ascoltatore operoso, questi sarà felice dell’opera sua. Che se qualcuno si pensa d’essere religioso, non imbrigliando la sua lingua, ma ingannando se stesso, la pietà di costui è vana. La religione pura e intemerata, presso Dio e Padre, è questa: Visitare gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e serbarsi “netto di questo mondo „ (S. Giacomo, c. I, vers. 22-27). – Forse voi non avete dimenticato l’omelia dell’ultima Domenica, nella quale presi a commentare alcune sentenze della lettera di san Giacomo, che si leggono nella santa Messa. Or bene; sappiate, o cari, che queste che adesso avete udito, sono la continuazione di quelle ch’ebbi a spiegarvi. Non vi è nulla di difficile, ma molto da apprendere, e ciò che importa anche maggiormente, le cose, che vi dirò, rispondono ai bisogni d’ogni classe di persone, e ciò deve accrescere, se è possibile, la vostra attenzione. – S. Giacomo nel versetto che sta immediatamente prima di quello che siamo per commentare e che fu l’ultimo spiegato nell’altra omelia, aveva detto: “Accogliete docilmente la parola in voi seminata, che può salvare le anime vostre; „ a questa esortazione di ricevere la parola od insegnamento evangelico con docilità, che ha virtù di salvare le anime, con passaggio naturalissimo il nostro apostolo fa seguire quest’altra sentenza, che la completa: “Siate poi operatori della parola e non soltanto ascoltatori.„ Buona e santa cosa è udire la parola del Vangelo e con essa accogliere la verità: ma non basta, come non basta al campo ricevere il seme; è mestieri, che lo faccia germogliare e renda moltiplicato il frutto. Miei cari! la Religione nostra santissima consta di due parti, del Simbolo e del Decalogo: quello è la regola del credere, questo è la norma dell’operare; quello guida la mente e deve precedere, questo guida la mano e deve seguire. Vi sono alcuni, i quali gridano sempre: La fede! i principi! ma poco si curano delle opere: vi sono altri che dicono: Le opere! i fatti! basta essere onesti, giusti e non parlano del Simbolo; errano questi e quelli: si esige la fede e si esigono le opere, è necessario il Simbolo ed è necessario il Decalogo. L’uomo non è soltanto anima e mente, ma è anche volontà, ed ha il corpo, e deve servire a Dio coll’anima e colla mente ed anche colla volontà e col corpo, cioè colle opere. Direste, voi che è perfetto pittore colui, che ne conosce tutte le regole, che si contenta di contemplare colla mente i suoi ideali, siano pur bellissimi, e che non ci mostra mai sulla tela una figura? Direste voi che è buono quel figliuolo, il quale conosce benissimo i suoi doveri verso di voi, o genitori, e li confessa e protesta di volervi amare e ubbidire, e poi non vi dà mai una prova di amore e di ubbidienza coi fatti? Certo la fede è necessaria, è la radice della vita cristiana, è il seme, che ci deve dare l’albero e il frutto; ma la fede, o cari, può vivere a lungo se non è nutrita dalle buone opere? È ben difficile. Essa è come un albero, su cui per lunghi mesi non discende la pioggia, o che la mano industre del contadino non irriga opportunamente: a poco a poco le sue foglie ingialliscono, cadono, e l’albero finalmente muore. Non dimenticatelo mai, o dilettissimi; generalmente la fede muore perché non accompagnata o avvivata dalle opere: sono le passioni appagate, sono cioè le opere che mancano, quelle che fanno inaridire l’albero della fede. Il credere non costa molto, o cari, massime al popolo: ciò che costa è l’operare, e la maggior parte di quelli che trai i cristiani si perdono, si perdono non per essere trovati manchevoli del Simbolo, ma per aver fallito nel Decalogo. Siamo dunque non semplici ascoltatori, ma operatori della parola, e la nostra fede mostriamola colle opere; se questo non faremo, inganneremo noi stessi, perché è chiara la sentenza di Gesù Cristo che protesta: “Non chi avrà detto: Signore, Signore, ma chi avrà fatto la volontà del Padre mio (osservando la legge) sarà salvo [“Vera fides est, quæ in hoc quod dicit, moribus non contradicit” – S. Greg. M., Homil. 29. – “Monstruosa res gradus summus et animus infimus: sedes prima et vita ima; lingua magniloqua et manus otiosa: sermo multus et fructus nullus” (S. Bernard., De Consid., lib. 2, c. 7). – “Opus sermone fortius” ; Nazianz., Orat. 27]. – Per chiarire ed avvalorare la verità stabilita, il santo apostolo adopera una graziosa similitudine, e dice: ” Se altri è ascoltatore e non operatore della parola (cioè crede e non ha le opere, frutto della fede), è somigliante ad un uomo, il quale avendo rimirato il suo volto al naturale in uno specchio, consideratolo, se ne ritrae tosto, dimentico di quello ch’esso è.„ Lo specchio di sua natura riflette l’immagine di tutto ciò che gli sta dinanzi, e la riflette sempre e fedelmente: esso non inganna, non mentisce mai. Perché l’uomo si affacciai allo specchio? Per vedere il volto suo e tutta la persona. Se nello specchio vede che il volto non è netto, non acconciati i capelli, scomposto l’abito e non abbastanza pulito, che fa tosto? Tenendo sempre l’occhio sullo specchio, lava e netta il volto, racconcia i capelli e compone debitamente il vestito. Similmente dee fare il cristiano: spesso deve farsi allo specchio dell’anima per vedere se in essa tutto è netto ed ordinato. E qual è lo specchio dell’anima? E la parola di Dio, è la fede, è l’insegnamento del Vangelo, che non erra e non inganna mai: specchiamoci in esso e vedremo tosto e con sicurezza se nella nostra condotta è tutto ordinato e conforme al volere di Dio. Fratello, accostati a questo specchio fedele della fede e della legge divina; esso ti farà conoscere qual sei. Esso ti mostrerà assai spesso il volto dell’anima tua bruttato da pensieri ed affetti indegni di cristiano: ti farà vedere le macchie della vanità, della superbia, del disordinato amore ai beni di quaggiù, dello stravizio e della intemperanza, della maldicenza, della discordia, della disubbidienza, dell’invidia, della pigrizia, della trascuratezza dei tuoi doveri cristiani e va dicendo. Oh! quante macchie scorgerai nell’anima tua dinanzi a quello specchio infallibile, se ben addentro vi spingerai lo sguardo. E allora che dovrai fare? Precisamente quello che fanno tutti coloro, uomini e donne, che si riguardano nello specchio. Devi lavare quelle macchie, mondarti di quelle sozzure, emendarti di tutte le tue mancanze, affinché il volto dell’anima tua apparisca bello, nitido, simile al gran modello, che è Gesù Cristo [“Splendidissimum in mandatis suis (Deus) condidit speculum, in quo homo suæ mentis faciem inspiceret et quam conformis imagini Dei, aut quam dissimila esset agnosceret”; S. Leonis, Serm. 11]. – Che diresti tu di quell’uomo, di quella donna, i quali dopo essersi lungamente riguardati nello specchio e viste tutte le macchie, ond’è brutto il volto e l’abito, se ne andasse e non si curasse punto di nettarsene? Diresti che è uno stolto, uno smemorato, e che se non voleva far nulla per nettarsi, non valeva la pena che ricorresse allo specchio e vi si rimirasse! e bene a ragione. Il somigliante è da dire di quel cristiano e di quella cristiana, che ascoltano la parola di Dio, conoscono la sua legge, e in essa, quasi in ispecchio tersissimo, vedono la propria anima tutta lorda e sozza per tante colpe e male abitudini, e, come non si trattasse di loro, tranquillamente se ne vanno e non si emendano. Carissimi! no, no, non imitiamo questi spensierati, che dimenticano sì facilmente qual è il volto loro al naturale, che sono ascoltatori, e non operatori della parola divina; ma per contrario, siamo imitatori, come vuole S. Giacorno, di colui “che si è specchiato nella legge della libertà (cioè nella legge evangelica, che ci ha affrancati dal male e ci dà la libertà del bene) e vi perdura, non da ascoltatore dimentico, ma da operatore col fatto; questi, questi! esclama S. Giacomo, sarà felice e beato dell’opera sua, „ e raccoglierà il frutto della redenzione. – Alla trascuratezza e spensieratezza dell’uomo che ascolta la parola di Dio e in essa si specchia senza cavarne vantaggio, toccata, nel versetto superiore, S. Giacomo oppone in questo versetto l’avvedutezza e la prontezza dell’uomo, che ascolta, conosce e, conformemente al conoscimento, regola la sua condotta colle opere. – Passiamo al versetto seguente: “Che se qualcuno crede di essere religioso, non raffrenando la sua lingua, ma ingannando se stesso, la sua religione è vana.„ Veramente, trattandosi d’una lettera come questa di S. Giacomo, che va tutta in sentenze morali pratiche, non si richiede che queste siano tutte legate tra loro, come in una trattazione scientifica. Esse possono stare benissimo anche separate, senza nesso di discorso, e alcuna volta ciò apparisce manifestamente, e potrebbe essere questo il caso della sentenza, che vi ho riportata. Ma, considerando meglio la cosa, mi pare che il nesso tra il nostro versetto e gli antecedenti esista, comecché alquanto remoto. Sopra S. Giacomo esorta i fedeli ad essere pronti ad udire e tardi a parlare; qui, ritornando su quella massima, la riconferma, dicendo, che se alcuno crede d’essere religioso o pio, che è tutt’uno, e non raffrena la sua lingua, costui si illude e mostra a fatti che la sua religione è vana. La lingua è lo strumento ordinario, mercé del quale comunichiamo altrui i nostri pensieri ed i nostri affetti, e non sarà facile frenare questi se non freniamo quella. La nostra mente e il nostro cuore sono come due sorgenti, dalle quali senza posa scaturiscono i nostri pensieri e i nostri affetti, buoni o rei ch’essi siano. Cessare di pensare o di amare è impossibile cosa; sarebbe come cessare di respirare: si muore. Nostra cura continua deve essere quella di vegliare sui pensieri della nostra mente e sugli affetti del nostro cuore, per reprimere i cattivi e lasciar libero il corso ai buoni; lavoro necessario e difficilissimo, perché esige un’incessante sorveglianza sopra di noi medesimi. Mezzo molto utile ed efficace a vegliare sopra i pensieri e gli affetti del nostro spirito sarà quello di vegliare sulla loro manifestazione mediante la lingua. Vegliare su questa importa vegliare sull’interno, giacché non si possono ponderare le parole senza ponderare i pensieri e gli affetti, che sono alle parole necessariamente congiunti, come il macchinista, se è prudente, non può regolare le valvole della locomotiva senza tener d’occhio in pari tempo la misura del vapore, ch’essa rinserra ne’ suoi fianchi. Vogliamo noi, o dilettissimi, regolare il nostro interno? Regoliamo l’esterno. Vogliamo stringere nelle nostre mani il freno della mente e del cuore? Custodiamo la porta, per cui escono, stringiamo il freno della lingua. Ciò facendo, noi avremo un altro vantaggio e non lieve, o cari. Un uomo, che continuamente versa tutti i suoi pensieri ed affetti per la via della lingua è simile a colui, che tiene sempre aperta la valvola della sua macchina: la forza del vapore se ne fugge tutta per essa e la macchina ben presto non può agire e cessa il lavoro. Perché la mente sia raccolta, i pensieri elevati eretti, gli affetti puri e nobili, è mestieri ponderarli; fa d’uopo concentrarci in noi stessi e riunire le forze tutte del nostro spirito per rivolgerle tutte insieme sopra un oggetto solo: se noi senza posa le disperdiamo fuori di noi colla parola, rimarremo vuoti, deboli, impotenti. Vedete l’acqua, che discende dal monte: se la imprigionate opportunamente in vasi, o tubi, si solleva, se volete, fino all’altezza dalla quale discende; se voi la lasciate scorrere liberamente sul suolo, si spande e sparisce: così avviene, dice S. Gregorio M., dell’anima nostra: tenetela raccolta in se stessa: si innalza coi suoi pensieri fino a Dio: lasciate che colle parole si effonda d’ogni parte, come per altrettanti rivi, si distrarrà, e sperderà miseramente le sue forze [S. Gregor. M., Moral., lib. 7. cap. 7). Se noi non custodiremo debitamente la nostra lingua, sappia telo bene, la nostra religione e pietà sarà vana, e non avrà che l’apparenza: Hujus vana est religio. Ma qual è dunque, o beato apostolo, la vera, la solida religione e pietà? Ascoltate: “La religione, o pietà pura e intemerata presso Dio e il Padre, è questa: Visitare gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni, e serbarsi mondi da questo secolo. „ Quale risposta! Quale verità, o carissimi! Voi lo sapete; la religione è l’insieme, il complesso dei rapporti tra Dio e l’uomo, quali scaturiscono dalla natura delle cose e quali sono voluti e stabiliti da Dio: Dio è nostro Creatore e conservatore e perciò nostro padrone assoluto: il Figliuol di Dio si è fatto uomo e ci ha ricomperati col suo sangue: ha diritto perciò alla nostra gratitudine, alla nostra obbedienza, al nostro amore: questi doveri di gratitudine, di obbedienza, di amore verso Dio si manifestano in modi svariatissimi, in atti interni ed esterni di fede, di adorazione, di ringraziamento, di speranza, di amore verso di Lui e verso il prossimo, in breve, nell’osservanza della legge divina in tutte le sue parti. Or come sta che S. Giacomo riduce la religione pura e intemerata a visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni e serbarsi netti da questo secolo? Forse ché intese dire che questo fosse bastevole e tutto il resto, che riguarda la fede, i Sacramenti e le altre opere, fosse inutile? Sarebbe un negare il Vangelo, un contraddire lo stesso apostolo, che in questa lettera tante altre cose inculca e comanda, e sarebbe un offendere lo stesso buon senso. L’apostolo, ricordando e proclamando la necessità di queste opere di misericordia, non negò la necessità delle altre già note ai fedeli: volle soltanto ricordare queste, perché allora più necessarie e più utili. La maggior parte dei fedeli, ai quali scriveva, erano nati e cresciuti nell’ebraismo, e forse molti di loro tenevano necessaria l’osservanza delle cerimonie mosaiche, tante di numero e sì gravose, e dalle quali non sapevano divezzarsi. S. Giacomo loro rammenta che la religione di Gesù Cristo non ha che far nulla con quelle cerimonie, ch’essa domanda le opere e sopra tutto le opere della carità verso del prossimo, come quelle che rendono cara ed amabile la religione e ne mostrano la efficacia, e di queste opere, a modo d’esempio, ricorda quella di visitare e consolare i più poveri e più abbandonati, che sono gli orfanelli e le vedove.Quando si medita questa sentenza di san Giacomo — la religione pura ed intemerata presso Dio e il Padre, è questa: “Visita orfani e le vedove” — non si può non sentire la grandezza e la santità della nostra religione. Essa ce ne rivela tutta la natura, che in fondo è la carità operosa verso tutti, ma specialmente per i più bisognosi, per i più derelitti de’ fratelli nostri, che sono gli orfani e le vedove! Ah! una religione, che si compendia in una sentenza come questa, non può essere che una religione divina. Gli uomini non avrebbero mai trovata una definizione sì sublime!Aggiunge poi in fine, che la religione comanda di serbarsi mondo da questo secolo, il che importa di non seguire il mondo, le sue massime, di non abbandonarsi ai suoi colpevoli piaceri. In questa sentenza dell’ apostolo è scolpita a meraviglia l’indole della nostra religione, che ci vuole, sciolti dall’amore disordinato della terra, intesi ai veraci beni del cielo e pieni di carità verso i fratelli nostri sofferenti. Mettiamola in pratica onde non siamo uditori, ma fattori della parola divina, secondo la espressione di S. Giacomo.

 Alleluja

Allelúja, allelúja. V. Surréxit Christus, et illúxit nobis, quos rédemit sánguine suo. Allelúja, [Il Cristo è risuscitato e ha fatto sorgere la sua luce su di noi, che siamo redenti dal suo sangue. Allelúia.]

Joannes XVI:28 Exívi a Patre, et veni in mundum: íterum relínquo mundum, et vado ad Patrem. Allelúja. [Uscii dal Padre e venni nel mondo: ora lascio il mondo e ritorno al Padre. Allelúia.]

Evangelium

Munda cor meum, ac labia mea, omnípotens Deus, qui labia Isaíæ Prophétæ cálculo mundásti igníto: ita me tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne váleam nuntiáre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen.

Jube, Dómine, benedícere. Dóminus sit in corde meo et in lábiis meis: ut digne et competénter annúntiem Evangélium suum. Amen. V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem. R. Gloria tibi, Domine! Joann XVI:23-30 In illo témpore: Dixit Jesus discípulis suis: Amen, amen, dico vobis: si quid petiéritis Patrem in nómine meo, dabit vobis. Usque modo non petístis quidquam in nómine meo: Pétite, et accipiétis, ut gáudium vestrum sit plenum. Hæc in provérbiis locútus sum vobis. Venit hora, cum jam non in provérbiis loquar vobis, sed palam de Patre annuntiábo vobis. In illo die in nómine meo petétis: et non dico vobis, quia ego rogábo Patrem de vobis: ipse enim Pater amat vos, quia vos me amástis, et credidístis quia ego a Deo exívi. Exívi a Patre et veni in mundum: íterum relínquo mundum et vado ad Patrem. Dicunt ei discípuli ejus: Ecce, nunc palam loquéris et provérbium nullum dicis. Nunc scimus, quia scis ómnia et non opus est tibi, ut quis te intérroget: in hoc crédimus, quia a Deo exísti. [In quel tempo: Gesú disse ai suoi discepoli: In verità, in verità vi dico: qualunque cosa domanderete al Padre nel mio nome, ve la concederà. Fino adesso non avete chiesto nulla nel mio nome: chiedete, e otterrete, affinché il vostro gaudio sia completo. Vi ho detto queste cose per mezzo di parabole. Ma viene il tempo che non vi parlerò più per mezzo di parabole, ma vi parlerò apertamente del Padre. In quel giorno chiederete nel mio nome, e non vi dico che io pregherò il Padre per voi: poiché lo stesso Padre vi ama perché avete amato me e avete creduto che sono uscito da Dio. Uscii dal Padre e venni nel mondo: ed ora lascio il mondo e torno al Padre. Gli dicono i suoi discepoli: Ecco che ora parli chiaramente e senza parabole. Adesso conosciamo che tu sai tutto, e non hai bisogno che alcuno ti interroghi: per questo crediamo che tu sei venuto da Dio.]

Laus tibi, Christe! S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

Omelia della V Domenica dopo Pasqua.

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napolitana Vol. II -1851-]

-Preghiera-

   “Qualunque grazia voi chiederete”, cosi il divin Salvatore ai suoi discepoli, e in persona dei suoi discepoli a noi, come leggiamo nell’odierno Vangelo, “qualunque grazia voi chiederete in nome mio all’eterno mio Genitore, senza alcun dubbio voi l’otterrete, Io ne impegno la mia parola:Amen, amen dico vobis: si quid petieritis patrem in nomine meo, dabit vobis”. Ma voi finora non avete domandato cosa alcuna, “usque modo non petistis quidquam in nomine meo”. Via su domandate, chiedete, e v’assicuro che le vostre preghiere saranno esaudite, “petite et accipietis”. In queste divine parole traluce un lampo della divina onnipotenza, e della divina bontà: dell’onnipotenza, poiché non si restringe a quello o a quell’altro genere di grazie, ma tutte le promette Chi tutte le ha in mano, “si quid petieritis”; della divina bontà, che arriva perfino a lagnarsi che non le siano chieste grazie, “usque modo non petistis quidquam”. Conviene ben dire che sia grande il desiderio del Redentor nostro di farci del bene, mentre si lagna di non esser chiesto che ci faccia del bene. Al suo desiderio si aggiunge l’intenzione della nostra madre la santa Chiesa, che in questa Domenica prossima e immediata alle pubbliche solenni preghiere, che Rogazioni si appellano, ci propone il presente Vangelo per animare la nostra fiducia, e spingerci a domandare al dator di ogni bene le grazie delle quali abbisogniamo. Seguendo ora di entrambi il desiderio e lo spirito, passo a dimostrarvi la necessità, e l’efficacia della preghiera; necessità che non può esser maggiore; efficacia, che può essere più grande, se mi accordate la solita gentile vostra attenzione.

I. La necessità della preghiera va del pari colla necessità della grazia. È certo per fede che non siam capaci del minimo atto buono in ordine alla vita eterna senza il superno aiuto della divina grazia. “Sine me…”, detto è dall’incarnata verità Cristo Gesù, “sine me nihil potestis facere” ( XV, 5). Osservate, commenta S. Agostino, che il Salvatore non dice, senza di me potete far poco, ma nulla “non ait, quia sine me parum potestis facere, sed nihil” (Tract. 81, in Joann.). Siam come tralci, che uniti alla vite producono frutto, staccati da quella sono inutili sarmenti, non ad altro uso buoni, che al fuoco. – Ammessa la necessità della grazia, stabilisce la necessità della preghiera. Trovatemi un uomo, scriveva S. Girolamo contro i Pelagiani, che non abbia bisogno di grazia, ed io vi dirò che neppur abbisogna di preghiera. Iddio, secondo la dottrina dei Santi Agostino, Tommaso, Crisostomo, Damasceno, ha determinato fin dall’eternità di dar all’anime le grazie necessarie alla loro eterna salute, non per mezzo, che per quello dell’orazione. Nella stessa guisa che la sua provvidenza à stabilito, che la terra abbondasse di frumento e di ogni altro frutto, mediante però l’opportuna coltura. Si eccettuano, soggiunge S. Agostino, due sole grazie eccitanti, che, come una pioggia volontaria, vengono in noi senza di noi, qual sono la chiamata alla fede e alla penitenza. Tutte le altre però in noi derivano non da altro canale, che dalla preghiera. Che cosa dice nell’odierno Vangelo l’amorosissimo nostro Salvatore “Domandate, e vi sarà dato “petite, et accipietis”. La grazia mia è sempre pronta, purché preceda la vostra domanda. “Petite”, ecco la condizione, “accipietis”, ecco la grazia. Volete la grazia? Adempite la condizione, senza di questa non potete sperarla. La preghiera è la chiave dei celesti tesori; questi saran sempre chiusi per chi non adopera la chiave ad aprirli. Ed ecco il perché, soggiunge l’Apostolo S. Giacomo, siete poveri, e mancate delle grazie, che Iddio vi tien preparate, perché non vi curate di farne richiesta, “non abetis propter quod non postulatis” (Joann. IV, 2). Come campan la vita i poveri mendicanti? Col chieder pane alla porta de’ facoltosi. E noi, dice S. Giovanni Crisostomo, siamo poveri pezzenti, che dobbiamo alla porta del Padre celeste, ricco in misericordia, chieder soccorso, se non vogliamo morire d’inedia. – Premurosa di nostra salvezza Cristo Signore rinnova l’avviso, “oportet scmper orare, et nunquam deficere” (Luc. XVIII). Notate la forza del termine “oportet”, fa d’uopo, bisogna pregar sempre, e mai cessare dalla preghiera; perché, al dire dell’angelico S. Tommaso, la preghiera è necessaria all’anima, come al corpo il respiro. Non già che si debba in ogni momento occupare la lingua o il cuore in orazione continua, indefessa; ma l’enfatica espressione prova la necessità: il modo poi va inteso, come chi dicesse: bisogna sempre cibarsi, vale a dire a dati tempi. Per simil modo si può dire che uno preghi sempre, se in date ore costantemente si eserciti in cristiane preghiere, come appunto faceva il Profeta Daniele, che in tre diverse ore del giorno aveva il religioso costume di raccogliersi alle sue stanze, e far la sua orazione adorando il Dio d’Israele. – Posta ora e provata la stretta e rigorosa necessità della preghiera, quanto dovrà compiangersi la negligenza di tanti cristiani, che passano i giorni e i mesi senza raccomandarsi a Dio! È sentenza dei Padri e teologi, che l’omissione della preghiera per un tempo notabile non va esente da colpa mortale; perciocché la preghiera è necessaria a salvarsi per i due più precisi motivi di necessità di precetto, e necessità di mezzo. Come dunque potranno sperare la loro salvezza quei che non adempiono questo precetto, quei che non adoprano questo mezzo? Quei che vanno abitualmente al riposo senza un segno di croce, e vi ritornano senza un segno di cristiano? Quei che credono di pregare masticando preci e rosari col sonno agli occhi, colla distrazione della mente, coll’allontanamento del cuore? Sono costoro in maggior pericolo di dannazione di chi affatto non prega. Chi non prega sa di esser colpevole, e questa cognizione può giovargli all’emenda; ma chi, pregando colla sua lingua, crede di pregar bene, non conoscendo la propria colpa, il suo inganno lo lusinga, lo accieca, lo rende incapace a rimedio.

II. Se tanta è la necessità della preghiera, non minore è la sua efficacia. La preghiera, dice S. Ilario, fa al cuor di Dio una dolce violenza, “Oratio pie Deo vim infert”. E d’onde prende ella mai la sua forza? Da tre capi: dalla bontà di Dio, dalla parola di Gesù Cristo, e dalla nostra cooperazione. Dalla bontà di Dio, primamente. Di questa udite come parla il nostro divin Salvatore. Se ad un padre terreno domanda pane il proprio figlioletto, invece di pane gli presenta forse una pietra? Se gli chiede un pesce, gli da forse un serpente? Se un uovo, gli porge forse uno scorpione? Se dunque voi, che siete una razza cattiva, vi sentite muovere il cuore a donare ai vostri figli quel che vi chiedono, quanto più il Padre mio, la cui natura è bontà, accorderà alle vostre suppliche lo spirito di perseveranza se siete giusti, lo spirito di penitenza se peccatori, in somma tutte le grazie più opportune e necessarie alla vostra santificazione e salvezza? “Quanto magis Pater vester de coelo dabit spiritum bonum petentibus se”? ( Luca XI) . – In cento luoghi delle Scritture sacre si protesta il nostro buon Dio che ascolterà le nostre voci, che accoglierà le nostre istanze, che si moverà ai nostri clamori, che aprirà le sue orecchie, che stenderà la sua destra a nostro sollievo. Eccovi un tratto, dice il re Profeta, della gran bontà del suo cuore. La sua provvidenza si estende fino ai pulcini del corvo, allorché sono da’ loro genitori abbandonati. Al veder le aperte lor bocche fameliche, al sentir le querule strida, fa che si aggiri intorno al nido una turba foltissima di moscherini, dei quali con piacer si alimentano. Sia o non sia ciò che ci narrano gl’indagatori della natura, il vero si è che essi L’invocano, ed Egli li pasce, dat escam pullis corvorum invocantibus eum[Psal. CXLVI,10]. Se dunque da Dio pietoso si ascoltano le voci d’ignobili animalucci, con quanta maggior bontà darà ascolto alle preghiere di noi, che siamo suoi figliuoli, se Gli chiederemo il cibo vivifico della sua grazia?Dalla parola di Gesù Cristo in secondo luogo prendono la loro efficacia le nostre preghiere. Con una specie di giuramento Ei ci assicura che qualunque grazia imploreremo in suo nome dal suo celeste Genitore, ci sarà infallibilmente concessa. “Amen, amen dico vobis, si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vabis[Joann. XIII, 38]. Alla parola di tanta sicurezza aggiunge l’invito ch’Egli ci fa nelle più pressanti maniere di pregare, e non cessar di pregare. Domandate e vi sarà dato, “petite, et dabitur vobis”, cercate e ritroverete, “quaerite, et invenietis, battete alla porta della divina clemenza, e vi sarà aperto, “pulsate, et aperietur vobis”. Che più si desidera per esser certi che le nostre suppliche avranno favorevole rescritto?Ma le nostre preghiere, dicono certe anime timorate, sono fiacche, sono deboli, sono di nessun valore. Non temete, purché partano dal vostro cuore, purché fatte in nome di Gesù Cristo saranno a Dio accettevoli e care. Le nostre preghiere si possono rassomigliare, con S. Giovanni Crisostomo, a quelle monete, delle quali parla Seneca, monete di cuoio e di legno, ai tempi degli antichi Romani. Avvi cosa più abbietta di un pezzo di cuoio o più meschina di un pezzetto di legno? Pure, perché corredate della impronta di Numa Pompilio imperatore, avevano corso e valore in tutto l’impero. Non altrimenti son miserabili le nostre preghiere, son di nessun prezzo; ma fatte in nome di Gesù Cristo acquistano con questa impronta prezzo, virtù ed efficacia. Ed è perciò che la Chiesa, inerendo alle parole del Salvatore, che in suo nome saran da noi richieste le grazie, “in nomine meo”, conchiude tutte le sue orazioni, dirette all’eterno Padre, con quella nota formula: “Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum”. – La nostra cooperazione in fine si richiede per rendere a Dio accetta e a noi vantaggiosa la preghiera. Tre condizioni devono accompagnarla: l’umiltà, la fiducia, e la perseveranza. L’orazione di un’anima umile penetra i cieli, oratio humiliantis se nubes penetrabit(Eccli. XXXII, 21), e presentandosi al divino cospetto, di là non parte senza che Dio l’accolga e l’esaudisca, “et non discedet, donec Altissimus aspiciat”. Ne abbiamo l’esempio nel Pubblicano, che in fondo del Tempio, umiliato, confuso non ardiva alzar gli occhi da terra, e unendo alla preghiera la confessione di esser egli peccatore, venne esaudito e giustificato. – All’umiltà va congiunta la fiducia. Chi pregando ha il cuor titubante, e l’animo diffidente, è simile, dice S. Giacomo, ai flutti del mare agitato dai venti; non isperi costui di cosa alcuna dal Signore. La confidenza, miei cari, la fiducia deve animare il nostro cuore pregando. A farne conoscere l’importanza il divin Salvatore, prima di far quelle grazie prodigiose a sollievo de’ peccatori e degl’infermi, esigeva da loro questa fiducia e confidenza. “Confide, fili,” disse al paralitico “remittuntur tibi peccata tua; “confide filia”, disse all’Emorroissa; così al cieco di Gerico, così a tanti altri, alla confidenza dei quali assegnava la causa degli ottenuti prodigi. E come possiamo temere, interroga S. Agostino, che Iddio ci neghi quel ch’egli stesso ci esorta a domandare? “Hortatur ut petas, negabit quod petis”? – La perseveranza finalmente è l’importantissima condizione per rendere efficaci le nostre preghiere. Giuditta, ispirata da Dio a liberar la sua patria, cominciò la grande impresa colla preghiera, proseguì colla preghiera, e nell’atto di troncar il capo ad Oloferne, accompagnò il colpo con fervorosissima preghiera. La Cananea, perché, non ostanti le replicate ripulse, perseverò a chiedere al Salvatore la grazia per l’ossessa sua figlia, fu finalmente esaudita e consolata. Gli Apostoli nel cenacolo, perché perseverantes in oratione”, ricevettero lo Spirito Santo. Se la nostra orazione sarà perseverante, la divina misericordia ci sarà sempre propizia. La perseveranza finale, che è la corona di tutte le grazie, sebbene non si possa meritare “de condigno”, come ha definito la Chiesa nel Concilio Tridentino, pure Iddio non la nega a chi è assiduo e perseverante in domandarla. Io vorrei, scrive fa un dotto zelantissimo autore (il Segneri), poter dar fiato ad una tromba, come quella che si farà sentire per 1’universo nel giorno estremo, e gridar forte a tutti, pregate, raccomandatevi; raccomandatevi, pregate, se volete salvarvi. Altrettanto diceva e lasciò scritto S. Alfonso de Liguori: “se potessi parlare a tutti i predicatori e confessori del mondo, vorrei dire loro: “Fate ben penetrare nella mente a nel cuore dei vostri uditori e penitenti questa gran massima: “Chi prega si salva, e chi non prega si danna”. Udiste, fratelli umanissimi, il modo con cui si deve pregar sempre, cioè con umiltà, con fiducia, con perseveranza: mettetelo in pratica, e sarete salvi.

Credo …

Offertorium

V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Orémus Ps LXV:8-9; LXV:20 Benedícite, gentes, Dóminum, Deum nostrum, et obaudíte vocem laudis ejus: qui pósuit ánimam meam ad vitam, et non dedit commovéri pedes meos: benedíctus Dóminus, qui non amóvit deprecatiónem meam et misericórdiam suam a me, allelúja.

Secreta

Súscipe, Dómine, fidélium preces cum oblatiónibus hostiárum: ut, per hæc piæ devotiónis offícia, ad coeléstem glóriam transeámus. [Accogli, o Signore, le preghiere dei fedeli, in uno con l’offerta delle ostie, affinché, mediante la pratica della nostra pia devozione, perveniamo alla gloria celeste.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

Communio

Ps XCV:2 Cantáte Dómino, allelúja: cantáte Dómino et benedícite nomen ejus: bene nuntiáte de die in diem salutáre ejus, allelúja, allelúja. [Cantate al Signore, allelúia: cantate al Signore e benedite il suo nome: di giorno in giorno proclamate la salvezza da Lui operata, allelúia, allelúia].

Postcommunio

S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus. Tríbue nobis, Dómine, cæléstis mensæ virtúte satiátis: et desideráre, quæ recta sunt, et desideráta percípere. [Concedici, o Signore, che, saziati dalla forza di questa mensa celeste, desideriamo le cose giuste e conseguiamo le desiderate.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.