LA CONTRIZIONE

[da: E. Barbier, “I tesori di Cornelio Alapide” vol I – SEI, Torino 1930]

Che cos’è la contrizione? — 2. Vi sono due sorta di contrizione. — 3. Necessità della contrizione. — 4. Eccellenza e vantaggi della contrizione. — 5. Qualità della contrizione: 1° Interna; 2° Soprannaturale; 3° Somma; 4° Universale. — 6. Del proponimento e sua necessità. — 7. A quali indizi si riconosce il buon proponimento.-

1. – CHE COSA È LA CONTRIZIONE? — La contrizione è il dispiacere di aver peccato. Questa parola viene dal latino conterere che vuol dire rompere, spezzare, pestare, ed esprime lo stato di un’anima penetrata, straziata dal dolore di aver offeso Dio e che ardentemente desidera di riconciliarsi con Lui e di recuperarne la grazia. Il Santo Concilio di Trento (Sess. XIV, can. IV) definisce la contrizione: « Un dolore dell’animo ed una detestazione del peccato commesso unita ad un saldo proposito di non peccare più per l’avvenire » — “Contritio animi dolor ac detestatio est de peccato commisso, cum proposito non peccandi de cætero”. — Questa contrizione deve andar unita al desiderio di compiere tutto ciò che fu ordinato da Gesù Cristo per la remissione dei peccati; importa per conseguenza la volontà di confessarli e di soddisfare alla giustizia divina. Quindi i teologi, dopo San Tommaso, definivano la contrizione: il dolor di aver peccato, accompagnato dalla volontà di confessarsi e di soddisfare…

2. – VI SONO DUE SORTA DI CONTRIZIONE . — I teologi distinguono due sorti di contrizione: la perfetta e l’imperfetta che chiamano attrizione. La contrizione perfetta è quella che ha per motivo l’amor di Dio . Essa riconcilia il peccatore con Dio anche prima che riceva il sacramento della penitenza, ma deve sempre contenere il desiderio di riceverlo. Così si esprime il citato concilio (Sess. XIV, can. IV). L a contrizione imperfetta, secondo il medesimo Concilio, è comunemente concepita per la considerazione della bruttezza del peccato e per il timore delle pene dell’inferno. Il santo Concilio dichiara che, quand’essa esclude la volontà di peccare e va unita alla speranza del perdono, dispone il peccatore ad ottenere misericordia nel Sacramento della penitenza. Definisce inoltre che quest’attrizione è un dono di Dio, un movimento dello Spirito Santo il quale, invero, non abita ancora nell’anima del penitente, ma l’eccita a convertirsi; che non giustifica già di per sé sola senza il Sacramento, ma gli serve di preparazione e di disposizione.

3. – NECESSITÀ DELLA CONTRIZIONE. — Gesù Cristo pianse, dice S. Agostino; è dunque giusto che l’uomo pianga sopra se stesso; infatti, perché mai pianse Gesù, se non per insegnare all’uomo a piangere i suoi peccati? Bisogna che il peccato e l’abito del peccato soccombano sotto il dispiacere di essere caduti (Confess.). – Infiammati di amore divino, i più gran santi piangono del continuo le loro fragilità; come dunque non piangeranno i grandi peccatori, gli enormi peccati di cui si resero colpevoli? La voce della tortorella s’è fatta udire nella nostra terra, dicono i Cantici, se le anime fedeli ed innocenti, raffigurate nella tortora fanno risonare il deserto dei loro gemiti e amari lamenti, che cosa dovrebbero fare le anime che ad ogni istante si macchiano di nuove iniquità? Se pensassimo alle nostre colpe, non mangeremmo un boccone di pane che non fosse bagnato dalle nostre lacrime!… Mentre S. Antonio stava morendo, S. Pemenio prese a dire: Fortunato Arsenio che pianse sopra se stesso finché fu su questa terra! Quelli che quaggiù non piangono, piangeranno eternamente nell’altra vita (Vit. Fatr.). – Santa Taide diceva a S. Pafnuzio che, dalla sua entrata nel monastero, ella si era sempre tenuti innanzi agli occhi e non aveva cessato di piangere i suoi peccati. Perciò, le rispose il santo, Dio li ha cancellati (Vit. Patr.). – La contrizione è così essenziale al Sacramento della penitenza, che non può essere altrimenti supplita ed il peccatore non può mai essere assolto, se non si mostra tocco da un sincero pentimento di aver offeso Dio … La contrizione è stata necessaria in tutti i tempi per ottenere il perdono dei peccati. Questo è provato dagli esempi di Davide penitente, dei Niniviti, di Acabbo, di Manasse, della Maddalena, del pubblicano, del figliuol prodigo, di Pietro, ecc..La necessità della contrizione è di diritto naturale e di diritto divino … Essa è per il peccatore, come il sole per la terra, l’acqua al pesce, l’aria ai polmoni … Per quanto onnipotente, Dio non può perdonare i peccati a chi non se ne pente.

4. – ECCELLENZA E VANTAGGI DELLA CONTRIZIONE. — « Le lacrime dei penitenti sono vino delizioso per gli angeli, dice S. Bernardo [“Lacrymæ poenitentium vinum sunt angelorum– Serm. in Cantic.]. La sola contrizione toglie via il peccato: gli altri dolori hanno effetto del tutto differente, scrive il Crisostomo. Per esempio, voi avete perduto ogni avere; provatevi un po’ se col disperarvi lo ricuperate? La morte vi ha rapito una persona diletta; se anche piangeste fino alla fine del mondo, tutte le vostre lacrime non la potranno far risorgere dal sepolcro. Vittima di sanguinosa ingiuria, voi vi rodete dentro di rabbia e di tristezza; può forse la vostra ambascia far sì che non l’abbiate ricevuta? Vi affliggete perché infermo; forseché l’affliggervi vi guarisce? accresce anzi la malattia. Ma se voi siete dolente di aver offeso Dio, il vostro pentimento distrugge i vostri peccati. – Le vostre lacrime, quando cadono su le vostre colpe, le scancellano; dicendo con Geremia: « Cadde la corona dal nostro capo, guai a noi che abbiamo peccato » — “Cecidit corona capitis nostri, væ nobis qua peccavimus(Lament. V, 16); noi riponiamo su questo capo scoronato il glorioso diadema che portava per l’innanzi; deplorando la stolta audacia che ci ha fatto perdere la santità nata dal nostro battesimo, noi ci prepariamo un battesimo nuovo (Homil. V, ad pop.). Poiché, come dice S. Bernardo, « la compunzione del cuore e le lacrime sincere sono un vero battesimo [“Est baptismus aliquis in compunctione cordis, et lacrymarum assiduitate” – Serm. III in Cant.] ». Il sacrifizio che Dio domanda, dice il real profeta, e di cui si compiace, è il gemito di un’anima stretta e rotta dal dolore; egli non guarderà mai con occhio indifferente il cuore contrito ed umiliato — “Sacrificium Deo spiritus contribulatus; cor contritum et h umiliatum, Deus, non despicies” (Psalm. L, 18).« Il dolore sincero di aver peccato, scrive S. Bernardo, è un tesoro infinitamente desiderabile: esso apporta nello spirito dell’uomo una ineffabile gioia. La contrizione del cuore è la guarigione dell’anima, è la remissione de’ peccati; essa riconduce lo Spirito Santo, perché quando è visitato dallo Spirito Santo, subito l’uomo piange i suoi falli [“Bona compunctio thesaurus est desiderabilis, et inenarrabile gaudium in mente hominis. Compunctio cordis sanitas est animae; compunctio lacrymarum remissio est peccatorum; compunctio reducit Spiritum Sanctum ad se: quia cum Spiritu Sancto visitatur, statim homo peccata sua plorat” – De Modo bene viv.] ». Con lui si accorda San Efrem, il quale chiama la contrizione, sanità dell’anima, illu strazione della mente, mezzo per ottenere la remissione dei peccati [“Compunctio sanitas animae est; illuminatio mentis est; compunctio remissionem peccatorum vobis acquirit” – De Dei indic.]. – Quindi S. Gerolamo esclama: « O felice penitenza, che si guadagna gli sguardi di Dio! [“O felix poenitentia, quae ad se Dei trahit oculos!” – Epist. XXX ad Oeeanum] ». Vedete quali sono le eccellenze della compunzione: 1 ° è santa e riconcilia l’anima con Dio che è il principio di una felicità immensa…; 2° viene dall’amor di Dio; infatti il penitente si duole di aver offeso Dio, perché vede quanto gran bene sia quel Dio ch’egli ha osato offendere e quanto è amabile, sia in se stesso, sia verso tutte le sue creature: ora l’amor di Dio dà egli solo la vera gioia…; 3° il penitente desidera di pentirsi e ne gode: egli si nutrisce della compunzione e delle lacrime come di deliziose vivande. Mentre ogni altro pentimento è amaro, penoso, impaziente, insopportabile, quello che si prova per aver peccato è dolce, umile, ecc.. «Una coscienza colpevole è l’inferno e la prigione dell’anima », lasciò scritto S. Bernardo [“Infernus quidem et carcer animae, rea conscientia(Serm. in Cantic.]; ora la contrizione distrugge la colpevolezza dell’uomo, quindi la coscienza si riposa nella pace, le lacrime purificano e formano, diremo così, un fiume sul quale l’anima s’imbarca verso Dio e giunge al porto dell’eterna salute. Tutti i santi hanno gustato nelle lacrime della compunzione una soavità ineffabile; è facile accorgersene alla serenità maestosa che splende nel loro volto.Quando udite parlare di lacrime di compunzione, non immaginatevi già, diceva il Crisostomo, affanni, patimenti, angosce; ah no! esse vincono in dolcezza tutte le delizie di cui si può godere nel mondo. V’ha più diletto in una sola lagrima di pentimento che in tutte le pretese gioie delle voluttà terrene (De Compunti, cordis). Il prodigo che versava un torrente di pianto ai piedi di suo padre, provava una felicità senza paragone più grande di quella che lo aveva inebriato quando sciupava da scapestrato nelle dissolutezze la sanità e la fortuna. Maddalena che prostrata ai piedi di Gesù glieli bacia e lava col suo pianto, prova in quell’istante più consolazione che non in tutto il corso della scandalosa sua vita.Le lacrime del pentimento e della devozione, dice S. Agostino, hanno tale dolcezza che invano si cerca nelle gioie tumultuose dei teatri (Confess.). – S. Giovanni Climaco svolge mirabilmente i vantaggi e i frutti dello lacrime, che spargono i servi di Dio. Io trasecolo di meraviglia, egli dice, quando considero la felicità che procura la compunzione. Come dunque può essere che gli uomini carnali non ci veggano che afflizione? Simile alla cera che contiene il miele, essa racchiude una sorgente inessiccabile di spirituali dolcezze. Dio visita e consola in modo visibile, ma ineffabile, i cuori spezzati da un santo dolore (Qrad. V). Si trova assai più soddisfazione nel piangere i propri peccati, che nel commetterli. Per gustare la pace d’una buona coscienza, dice Bossuet, bisogna che questa coscienza sia monda e purificata, e nessun’acqua può fare questo se non quella delle lacrime del cuore. Colate dunque, o lacrime della compunzione, correte come torrente, lavate questa coscienza macchiata, questo cuore profanato e rendetemi quella gioia divina che è il frutto della giustizia e dell’innocenza: — “Redde mihi læatitiam salutaris tui” (Psalm. L. 13). – Chi ci darà di saper gustare la gioia sublime della compunzione, che deriva non dall’affanno dell’anima, ma dalla sua quiete, non dalla sua malattia, ma dalla sua sanità, non dalle sue passioni, ma dal suo dovere, non dal fermento de’ suoi inquieti desideri, ma dalla retta coscienza: gioia vera che non agita la volontà, ma la calma, non sorprende la ragione,, ma, la illumina, non accarezza ì sensi al di fuori, ma trae il cuore a Dio… Non vi è che la compunzione la quale possa aprire il cuore a queste gioie divine. Nessuno è degno di essere ammesso ad assaporare questi casti e sinceri diletti, se prima non ha deplorato e pianto il tempo che ha consumato in piaceri fallaci. Gusterebbe il prodigo, le inebrianti dolcezze della bontà del padre, l’abbondanza della sua casa, le squisitezze della sua tavola, se prima non avesse pianto amaramente i suoi trascorsi, le sue tresche, le dissolute sue allegrezze? (Serm. sur l’Amour des plaisirs). 4° La contrizione offre la speranza della beatitudine eterna, ne è la caparra e il saggio. 5° La compunzione rallegra Dio, gli angeli, i santi; ora come non colmerà l’anima di letizia? Ascoltate la parola di Gesù Cristo: Maggior festa si fa nel cielo per un peccatore che si pente, che non per novantanove giusti i quali non hanno bisogno d i penitenza: — “Ita gaudium erit in coelo super uno peccatore poenitentiam agente, quam super nonaginta novem iustis qui non indigent poenitentia” (Luc. XV, 7). 6° La contrizione ottiene al peccatore la pace ed il perdono di tutti i suoi peccati; scaccia i demoni, chiude l’inferno, dà vittoria su Satana, sul mondo, su la concupiscenza; apre il cielo e vi ci conduce… Dove scorrono le lagrime della compunzione e dell’umiltà, non si scorge più traccia di perversità, né di degradazione; vi regna l’ordine più perfetto e il cuore è mondato di beni; al contrario dov’esse mancano, tutto è disordine e rovina. La compunzione genera: 1° l’umiltà: chi infatti oserebbe insuperbire dopo aver meritato l’inferno? 2° la pazienza…: 3° l’amor di Dio …; 4° l’amor del prossimo che essa preserva dal peccato; 5° stacca l’anima dalla terra . . . ; 6° l’unisce a Dio … « Chi semina nel pianto, mieterà nel riso, canta il Salmista; essi andavano e piangevano mentre seminavano, ritorneranno esultanti portando i loro covoni » — “Qui seminant in lacrymis, in exultatione metent. Euntes ibant et flebant mittentes semina sua; venientes autem venient cum exultatione, portantes manipulos suos” (Psalm. CXXV, 6-8). « Il Signore, dice ancora il re profeta, guarisce i cuori feriti e ne fascia le piaghe » — “Qui sanat contritos corde, et alligat contritiones eorum” (Psalm. CXLVI, 3). Iddio, leggiamo in Isaia, dimora con le persone dallo spirito umile e contrito; egli rende loro la vita (ISAI. LVII, 15). Su chi poserò il mio sguardo, dice Iddio per bocca del citato profeta, se non sul povero che ha lo spirito contrito? (Id. LXI, 1). E infatti Gesù Cristo applicò a se medesimo quelle parole: Il Signore mi ha inviato perché guarissi i cuori contriti, e mettessi in libertà gli schiavi (Luc. IV, 18-19).

5. – QUALITÀ DELLA CONTRIZIONE. 1° Interna. — La contrizione deve essere interna, soprannaturale, somma, universale. Il dolore della penitenza deve scaturire dal fondo del cuore; non sembra punto a quelle polle d’acqua che si fanno zampillare artificialmente, ma è un fiume che scaturisce dalla sorgente, che straripa, sradica e trascina tutto ciò che incontra; esso fa una santa strage, la quale ripara i guasti cagionati dal peccato; nessuna colpa gli sfugge. « Essi amavano piangere, dice S. Bernardo, e piangevano amaramente, perché amaramente si pentivano [“Amabant fiere, et flebant amare; amare flebant, quia amare dolebant” – In Psal.] ». Pietro pianse amaramente la sua caduta: — “Petrus flevit amare” (Luc. XXII, 62). Ecco la contrizione del cuore, Maddalena ai piedi del Divin Maestro aveva la contrizione interna … Il male del peccato sta nel cuore, non altrove, perché è il cuore solo che pecca, è solo il cuore che s’inebria del veleno della disobbedienza …. Dunque il cuore solo è malato, per conseguenza al cuore bisogna applicare il rimedio della contrizione… – Il profeta dice: « Signore, voi non rifiutate un cuore contrito … » — “Cor contritum … Deus, non despicies” (Psalm. L , 18); e Dio ci dice per bocca di Gioele: « Squarciate i cuori, non le vestimenta » — “Scindite corda vestra, non vestimenta vestra” (IOEL. II, 13). Dio domanda al peccatore un cuore contrito ed umiliato; fuori di ciò tutte le esteriori dimostrazioni di pentimento sono inutili, quando pure non sono errore, menzogna, ipocrisia. Può ben l’uomo ingannare se stesso, ma non Dio il quale scruta il cuore e le reni. – Non bisogna contentarsi di recitare un atto di contrizione a fior di labbra. Non basta immaginarsi, pensare, dire che ci pentiamo di aver offeso Dio. Nel cuore è il principio di tutti i peccati anche esteriori; è parola di Gesù Cristo il quale disse: « Ciò che esce dalla bocca viene dal cuore ed è qui quello che insozza l’uomo. Poiché dal cuore nascono i cattivi pensieri, gli omicidi, gli adulteri, le fornicazioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie » (MATTH. XV, 18-19). — “Quae autem procedunt de ore, de corde exeunt, et ea oomquinant hominem. De corde enim exeunt cogitationes malae, homicidia, adulteria, fornicationes, furta, falsa testimonia, blasphemiae”. — Nel cuore adunque si deve trovare il pentimento … Nel cuore deve penetrare la spada della contrizione e trafiggerlo da parte a parte. Allora, o meraviglia! per dove entrò la spada, penetra la grazia e purifica e per dove ne uscì, esce la corruzione del peccato. Ecco perché i santi Padri chiamano la contrizione, compunzione del cuore. Ogni disgusto che non toglie né la volontà di peccare, né l’affetto che si porta al peccato, non è vera contrizione; merita questo nome solo in quanto dimora nel cuore. L’ordine dev’essere ristabilito dove fu turbato: quindi le lacrime puramente esteriori, le proteste, i gemiti, le grida non sono che menzogne, quando la volontà non è mutata e la volontà è il cuore… Ma badate, che non si dà contrizione senza umiltà e senza mortificazione della carne… «Venite, dice il profeta, adoriamo, prostriamoci, piangiamo al cospetto del Signore » — Venite, adoremus, et procidamus, et ploremus ante Dominum (Psalm. XCIV, 6), Si, o Signore, voi accetterete, purificherete, benedirete un cuore contrito ed umiliato.

2° Soprannaturale. —- La contrizione dev’essere soprannaturale, cioè eccitata nel nostro cuore dallo Spirito Santo e fondata sopra considerazioni e motivi suggeriti dalla fede. Essa deve muoverci a detestare il peccato perché offesa di Dio. Chi piange il suo peccato per la vergogna o pel castigo che gliene viene presso gli uomini, od anche per l’opposizione che vi scorge con la legge naturale, non ha che una contrizione naturale ed insufficiente. – Il prodigo del Vangelo mostra una contrizione soprannaturale quando dice: — “Pater, peccavi in coelum et coram te” — « Padre, io ho peccato contro il cielo e contro di te » (Luc. XV, 21). Ho peccato contro il cielo, cioè gravissimamente; i miei peccati sono saliti fino a Dio e domandano vendetta… – Ho peccato contro il cielo, preferendo la terra al cielo, la carne allo spirito, la morte alla vita, l’inferno al paradiso, Barabba a Gesù Cristo, il diavolo a Dio … Ho peccato contro il cielo, perché l’ho perduto, perché ho sciupato i doni celesti… Ho peccato contro il cielo, perché ho calpestato il sangue di Gesù Cristo; come Giuda, ho venduto il Salvatore; come il popolo giudeo, ho chiesto la sua morte; come Pietro, l’ho rinnegato; come Pilato, l’ho condannato; come Erode, l’ho deriso e beffeggiato; come i soldati e i manigoldi, l’ho coronato di spine, caricato del pesante legno della croce, crocefisso tra due ladroni, che sono il demonio e le mie passioni, abbeverato di fiele, messo a morte, trafitto … Ho peccato contro il cielo, perché ho ucciso l’anima mia creata per Iddio, fatta a immagine di Dio … Ho peccato contro di voi, o mio Dio, dinanzi a voi, sotto gli occhi vostri, mentre ero in vostro potere; mi sono servito per oltraggiarvi dei doni naturali e soprannaturali di cui mi avete ricolmato… Ho peccato in presenza del mio Angelo custode, non ostante il rimorso della coscienza. – Voi avete crocefisso Gesù Cristo,’ disse S. Pietro ai Giudei. A questo fulminante rimprovero, essi di tutto cuore si pentirono e gridarono rivolti all’apostolo: Che faremo noi per ottenere misericordia? Fate penitenza, rispose loro, pentitevi sinceramente (Act. II, 36-38). I motivi della contrizione soprannaturale sono: 1° i peccati da noi commessi…; 2° i peccati che abbiamo fatto commettere agli altri. Tre esercizi possono aiutarci ad ottenere una contrizione soprannaturale: 1° fare una stazione in ispirito al Calvario…; 2° discendere col pensiero nell’inferno, da noi meritato col peccato…; 3° trasportarci al cielo di cui ci siamo resi indegni… Noi rileviamo da tutto questo che la contrizione è un dono di Dio. L’uomo non può pentirsi come si deve, senza l’inspirazione e l’assistenza dello Spirito Santo. Il peccatore, avendo ucciso, col peccato mortale, la sua anima e avendola uccisa per l’eternità, non può risorgere senza l’aiuto di Dio che è l’autore della vita . .. Somma. — La contrizione dev’essere un tale disgusto che vinca ogni altro. E perché ? Perché il peccato è il più grande di tutti mali, il solo, l’unico male. Solo il peccato attacca Dio e l’anima … Il peccato è il sommo male riguardo a Dio … ; il sommo male riguardo all’uomo… Il nostro dolore dev’essere, come dice Geremia, vasto e profondo come il mare: — “Magna est velut mare contritio tua” (Lament. II, 13). « Quanto più profonda e pericolosa è una ferita, tanto più potente farmaco richiede, dice S. Ambrogio; ora essendo il peccato un’offesa di gran lunga più grave di ogni altra, richiede una soddisfazione che non abbia pari (Grandi plagæ alta et prolixa opus est medicina: grande scelus grandem habet) ». Davide ci presenta un modello della contrizione somma. Conosce il suo peccato, si umilia, si pente, si confessa, piange, depone la corona e la veste regale, digiuna, indossa il cilizio, si ritira nella solitudine. Un altro ce ne offre San Pietro del quale sta scritto che pianse amaramente fino alla morte la colpa di aver rinnegato Gesù Cristo. Un terzo l’abbiamo nel popolo ebreo che, assediato da Oloferne in Betulia, si diede a piangere, a mandar gemiti e sospiri e a gridare volto al Signore: Noi abbiamo peccato, ci siamo portati ingiustamente, abbiamo commesso l’iniquità (IUDITH VII, 18-19). Bisogna che il peccato, soprattutto il mortale, ci dispiaccia più di ogni altro male che ci possa accadere. La ragione ne è evidente: col peccato mortale noi abbiamo assalito e combattuto e perduto Iddio; ma Dio è il più grande dei beni, l’unico sommo bene; importa dunque di necessità che noi siamo più dolenti di questa perdita che non d’ogni altra. Se fosse altrimenti, la nostra contrizione non sarebbe somma. Però, non è necessario, perché il dolore sia sommo, che sia il più sensibile dei dolori, cioè non si richiede che noi proviamo il medesimo dispiacere sensibile, che versiamo così abbondanti lacrime, che mandiamo fuori quei medesimi guaiti da cui non ci potremmo forse frenare i n occasione della perdita del padre, p. es., o d’un amico diletto. Perché? Perché fino a tanto che l’anima sta congiunta al corpo, è più mossa dagli oggetti sensibili che da quelli che non cadono sotto i sensi. Basta che noi siamo interiormente risoluti, con la grazia di Dio, di soffrire piuttosto qualunque male anziché di nuovo commettere un sol peccato mortale. La contrizione può essere vera senza quest’impressione sensibile che non è in nostro potere. 4 ° Universale. — La contrizione dev’essere universale, estendersi, cioè, a tutti i peccati mortali che si sono commessi, senza eccettuarne uno solo, poiché non ve ne è nessuno, che non offenda Dio, non renda l’anima nemica di Dio, schiava di satana e degna dell’inferno. L a contrizione vera non imita già Saulle che, menando strage degli Amaleciti, risparmia coloro che gli piacciono. – Badate, dice Bossuet, che sovente vi sono nel cuore dei peccati che si sacrificano, ma vi si trova pure il peccato prediletto, la passione favorita, e quando si tratta di schiantare questo peccato, di rinunziare a questa passione, il cuore sospira in segreto e non sa risolversi se non con grandissima pena. La contrizione universale trafigge questo peccato, dà della scure in questa passione e la recide senza misericordia; essa entra nell’anima, come Giosuè tra i Filistei, e ogni cosa mette a ferro e fuoco. E perché fa così sanguinosa esecuzione? Perché teme la compunzione d i un Giuda, di un Antioco, di un Balaam: compunzioni false ed ipocrite, che ingannano la coscienza con l’apparenza di un dolore superficiale. Il dolore della penitenza tende a cambiare Dio, ma bisogna prima cambiare l’uomo, e Dio non si cambia mai se non per lo sforzo di questo contraccolpo. Voi temete la mano di Dio e i suoi giudizi; è questa una santa disposizione; il concilio di Trento vuole ancora che questo timore vi porti a detestare tutte quante le vostre colpe (Serm. sur l’Intégr. de la Pénit.).

6. – DEL PROPONIMENTO E SUA NECESSITÀ. — L a contrizione è un dolore dei peccati commessi, unito a un fermo proponimento di non più ricadérvi. Quindi essa abbraccia il passato e l’avvenire: il passato per detestare le cadute, l’avvenire per prevenute. La volontà sincera, formale di non più peccare mortalmente per l’avvenire, è tanto necessaria, a chi vuole ottenere il perdono dei peccati, quanto è necessario il pentimento dei peccati commessi. Non si può chiamare vero il dolore di aver offeso Dio, se non è congiunto ad una risoluzione sincera di non più peccare, per quanto l’u mana fragilità lo comporta. Infatti se è un burlarsi di Dio il confessare, senza averne dispiacere, che lo abbiamo offeso; è un illudersi il dire, che ci duole di aver commesso quello che abbiamo tuttavia in animo di commettere, che ci spiace aver fatto quello che ancora vogliamo fare. La contrizione sincera deve escludere ogni affetto al peccato; ora chi non fosse risolutamente determinato di non più ricadere nel peccato, l’amerebbe ancora… « S’incontrano parecchi, scriveva già S. Agostino, i quali confessano ad ogni tratto di essere peccatori e intanto si dilettano di peccare. La loro parola è una confessione, non una mutazione; scoprono le piaghe della loro anima, ma non le curano; confessano l’offesa, ma non la cancellano. Solo l’odio del peccato e l’amor di Dio costituiscono una vera contrizione [“Multi assidue se dieunt esse peceatores, et tamen adhuo illos delectat peccare. Professio est, non emendatio: accusato anima, non sanatur; pronuntiatur ofiensa, non tollitur. Poenitentiam certam non facit, nisi odium peccati et amor Dei(De Moribus).] ». – La risoluzione di non più offendere Dio si chiama buon proponimento; esso è parte essenziale della, contrizione e deve averne le stesse qualità, cioè dev’essere interno, soprannaturale, sommo, universale. In sostanza non è cosa diversa dalla contrizione, in quanto questa riguarda l’avvenire. La risoluzione di non più offendere Dio è assolutamente necessaria, senza di lei l’uomo si inganna e cerca di ingannare Dio: è ad un tempo un accecamento ed un delitto. – Quando Gesù Cristo guariva gl’infermi, sempre li accomiatava dicendo: « Non peccate più, affinché non v’incolga di peggio » – “Iam noli peccare, ne deterius aliquid tibi continua” ( IOANN. V, 14).

7. – DA QUALI INDIZI SI RICONOSCE IL BUON PROPONIMENTO. — L’uomo può riconoscere se è vero il suo proponimento, a questi tre segni principali: 1° agli sforzi che ha fatto per correggersi; 2° alla fuga delle occasioni prossime del peccato; 3° al cambiamento di vita. – 1° Per gli sforzi fatti per correggersi. I vostri desideri tendono al cielo? Lavorate voi ad assoggettare la carne allo spirito e lo spirito a Dio? Vi allontanate voi dal mondo per occuparvi di Dio?… Se è così, voi fate degli sforzi per emendarvi e potete dire di avere un buon proponimento. Ma se non vi studiate di frenare la concupiscenza, se conservate dell’attaccamento al mondo, se non vi applicate a divenire migliore, voi non avete un buon proponimento.

2° Per la fuga delle occasioni prossime di peccato. Nutrite voi i sentimenti del re profeta quando esclamava: « Ho aborrito ed abbomino l’iniquità » — Iniquitatem odio habui et abominatus sum? (Psalm. CXVIII, 163). – In questo caso voi avete un buon proponimento; ma badate che chi sente vivo orrore per una cosa, la fugge a tutto potere. Voi aborrite un assassino e l’evitate; aborrite il veleno e non l’adoperate; avete orrore di un cane arrabbiato e ne temete l’incontro, vi ponete al riparo. .. Quando Dio volle creare il firmamento, disse: « Si faccia il firmamento in mezzo alle acque e divida acque da acque, cioè le acque superiori dalle inferiori» — Dividat aquas ab aquis (Gen. I, 6). Una prova di buon proponimento è quella d’allontanarsi dalle acque melmose della concupiscenza e accostarsi a quelle limpide e pure della grazia. « E convertito e sicuro del perdono, dice S. Gregorio, chi piange il suo peccato e nulla tralascia per non più ricadérvi [“Perfecte convertitur qui, quod prave egerat, plangit; et quod rursum plangat, ultra non repetit(In lib. I Beg. lib. III, c. 7) ». S. Agostino soggiunge che chi riapre le antiche ferite non è convertito. Quando un malato è guarito, si allontana dal medico; ma quando uno è guarito dal peccato, deve volgersi a Dio, a Lui strettamente e costantemente avvinghiarsi e dire col profeta: « Mio vantaggio è lo starmene congiunto a Dio e porre in Lui il mio spirito ». La presenza di Dio ci rischiara, ci purifica, ci beatifica; Dio opera su colui che Gli sta soggetto ed obbediente; egli lo guarda e conserva; al contrario quando Iddio è assente, si ricade (In Psalm. ).3° Il primo movimento che sente, un uomo tocco da Dio e veramente contrito, è di allontanarsi dal secolo. La voce che ci chiama alla contrizione, ci chiama pure alla fuga, alla vigilanza, all’abbandono delle occasioni prossime del peccato. L’uomo contrito e pieno di buona volontà, non è più l’uomo mondano di prima; la donna che davvero si pente e nutre buon proposito, non è più la donna delicata e compiacente, la mediatrice avveduta, l’amica garbata che permetteva segreta corrispondenze; non trova più espedienti ammaliatori, facilità lusinghiere; impara un altro linguaggio e sa all’uopo dire risoluta: No, io non posso più; sa pagare il mondo con rifiuti pronti e seri. Il penitente non vive più a modo degli altri, non cerca più di piacere agli altri, anzi dispiace a se medesimo. Sente il suo male, si disgusta tutt’insieme e del mondo che l’ha ingannato e di se medesimo che s’è lasciato cogliere all’amo di sì grossolani diletti. – Un giovane che aveva tenuto mala pratica con una donna, essendosi convertito, lasciò affatto di vedere colei ch’egli perdeva e da cui era condotto a perdizione. Un giorno l’incontrò a caso per via, ma tirò oltre senza fermarsi. Allora questa gli volse la parola e disse: — Non mi conoscete più? io sono la tale. — Potete ben voi, rispose il garzone, essere la tale, ma io non sono più il tale. Io ho giurato di non più offendere Dio e di salvare l’anima mia: imitatemi. Ecco che cosa dovrebbe fare ogni peccatore: essere irremovibile di non più peccare.

 

PRIMA DOMENICA DI PASSIONE

Introitus Ps XLII:1-2.

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea. [Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Ps XLII:3

Emítte lucem tuam et veritátem tuam: ipsa me de duxérunt et adduxérunt in

montem sanctum tuum et in tabernácula tua. [Manda la tua luce e la tua verità: esse mi guídino al tuo santo monte e ai tuoi tabernàcoli.]

Júdica me, Deus, et discérne causam meam de gente non sancta: ab homine iníquo et dolóso éripe me: quia tu es Deus meus et fortitudo mea. [Fammi giustizia, o Dio, e difendi la mia causa da gente malvagia: líberami dall’uomo iniquo e fraudolento: poiché tu sei il mio Dio e la mia forza].

Oratio V. Dóminus vobíscum.

R. Et cum spiritu tuo.

Orémus. Quaesumus, omnípotens Deus, familiam tuam propítius réspice: ut, te largiénte, regátur in córpore; et, te servánte, custodiátur in mente. [Te ne preghiamo, o Dio onnipotente, guarda propízio alla tua famiglia, affinché per bontà tua sia ben guidata quanto al corpo, e per grazia tua sia ben custodita quanto all’ànima.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum.

Amen.

 Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Hebraeos.

Hebr IX:11-15

Fatres: Christus assístens Pontifex futurórum bonórum, per ámplius et perféctius tabernáculum non manufáctum, id est, non hujus creatiónis: neque per sánguinem hircórum aut vitulórum, sed per próprium sánguinem introívit semel in Sancta, ætérna redemptióne invénta. Si enim sanguis hircórum et taurórum, et cinis vítulæ aspérsus, inquinátos sanctíficat ad emundatiónem carnis: quanto magis sanguis Christi, qui per Spíritum Sanctum semetípsum óbtulit immaculátum Deo, emundábit consciéntiam nostram ab opéribus mórtuis, ad serviéndum Deo vivénti? Et ideo novi Testaménti mediátor est: ut, morte intercedénte, in redemptiónem eárum prævaricatiónum, quæ erant sub prióri Testaménto, repromissiónem accípiant, qui vocáti sunt ætérnæ hereditátis, in Christo Jesu, Dómino nostro.

[Fratelli: Cristo, venuto quale pontéfice dei beni futuri, attraversò un più grande e più perfetto tabernàcolo, non fatto da mano d’uomo, e cioè non di questa creazione. Né per mezzo del sangue di capri e di vitelli, ma mediante il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario, avendo ottenuto una redenzione eterna. Infatti, se il sangue dei capri e dei tori, e la cenere di vacca, sparsa su quelli che sono immondi, li santífica, dando loro la purità della carne, quanto più il sangue del Cristo, che in virtù dello Spírito Santo offrí sé stesso immacolato a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle òpere di morte, onde serviamo il Dio vivente? Appunto per questo egli è il mediatore di un nuovo patto; affinché, morto per la remissione dei trascorsi commessi sotto l’antico patto, i chiamati ricévano l’eterna eredità loro promessa in Cristo Gesù nostro Signore.]

Deo gratias.

Graduale Ps 142:9, 10

Eripe me, Dómine, de inimícis meis: doce me fácere voluntátem tuam

Ps XVII:48-49

Liberátor meus, Dómine, de géntibus iracúndis: ab insurgéntibus in me exaltábis me: a viro iníquo erípies me. Tractus Ps CXXVIII:1-4

Sæpe expugnavérunt me a juventúte mea.

[Mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.]

Dicat nunc Israël: sæpe expugnavérunt me a juventúte mea. [Lo dica Israele: mi hanno più volte osteggiato fin dalla mia giovinezza.]

Etenim non potuérunt mihi: supra dorsum meum fabricavérunt peccatóres. V. [Ma non mi hanno vinto: i peccatori hanno fabbricato sopra le mie spalle.]

Prolongavérunt iniquitátes suas: Dóminus justus cóncidit cervíces peccatórum. [Per lungo tempo mi hanno angariato: ma il Signore giusto schiaccerà i peccatori.]

Evangelium Munda cor meum, ac labia mea, omnípotens Deus, qui labia Isaíæ Prophétæ cálculo mundásti igníto: ita me tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne váleam nuntiáre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen. Jube, Dómine, benedícere. Dóminus sit in corde meo et in lábiis meis: ut digne et competénter annúntiem Evangélium suum. Amen

V. Dóminus vobíscum.

R. Et cum spíritu tuo.

Evangelium

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Joánnem.

Gloria tibi, Domine!

Joann VIII:46-59

“In illo témpore: Dicébat Jesus turbis Judæórum: Quis ex vobis árguet me de peccáto? Si veritátem dico vobis, quare non créditis mihi? Qui ex Deo est, verba Dei audit. Proptérea vos non audítis, quia ex Deo non estis. Respondérunt ergo Judaei et dixérunt ei: Nonne bene dícimus nos, quia Samaritánus es tu, et dæmónium habes? Respóndit Jesus: Ego dæmónium non hábeo, sed honorífico Patrem meum, et vos inhonorástis me. Ego autem non quæro glóriam meam: est, qui quærat et júdicet. Amen, amen, dico vobis: si quis sermónem meum serváverit, mortem non vidébit in ætérnum. Dixérunt ergo Judaei: Nunc cognóvimus, quia dæmónium habes. Abraham mórtuus est et Prophétæ; et tu dicis: Si quis sermónem meum serváverit, non gustábit mortem in ætérnum. Numquid tu major es patre nostro Abraham, qui mórtuus est? et Prophétæ mórtui sunt. Quem teípsum facis? Respóndit Jesus: Si ego glorífico meípsum, glória mea nihil est: est Pater meus, qui gloríficat me, quem vos dícitis, quia Deus vester est, et non cognovístis eum: ego autem novi eum: et si díxero, quia non scio eum, ero símilis vobis, mendax. Sed scio eum et sermónem ejus servo. Abraham pater vester exsultávit, ut vidéret diem meum: vidit, et gavísus est. Dixérunt ergo Judaei ad eum: Quinquagínta annos nondum habes, et Abraham vidísti? Dixit eis Jesus: Amen, amen, dico vobis, antequam Abraham fíeret, ego sum. Tulérunt ergo lápides, ut jácerent in eum: Jesus autem abscóndit se, et exívit de templo.” [In quel tempo: Gesù disse alla folla dei Giudei: Chi di voi può accusarmi di peccato? Se vi dico la verità perché non mi credete? Chi è da Dio ascolta la parola di Dio. Per questo voi non l’ascoltate: perché non siete da Dio. Ma i Giudei gli rispòsero: Non abbiamo forse ragione di dire che sei un Samaritano e un posseduto dal demònio? Gesù rispose: Non sono posseduto dal demònio, bensí onoro il Padre mio e voi mi insultate. Io non cerco la gloria per me, c’è chi la cerca e giúdica. In verità, in verità vi dico: chi osserverà la mia parola non vedrà la morte in eterno. I Giudei gli díssero: Ora sappiamo per certo che sei posseduto dal demònio. Abramo è morto e pure i profeti, e tu dici: Chi osserverà la mia parola non vedrà la morte in eterno. Sei forse più grande del nostro padre Abramo, che è morto, o dei profeti, che sono pure morti? Chi pretendi di essere? Gesù rispose: Se mi glorífico da me stesso, la mia gloria è nulla; chi mi glorífica è il Padre mio che voi dite essere vostro Dio. Voi non lo conoscete, ma io lo conosco, e se dicessi di non conòscerlo sarei un bugiardo, come voi. Ma lo conosco e osservo la sua parola. Abramo, vostro padre, agognò di vedere il mio giorno: lo vide e ne gioí. I Giudei gli díssero: Non hai ancora cinquantanni e hai visto Abramo? Gesù rispose: In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, io sono. Allora raccòlsero delle pietre per scagliarle contro di lui, ma Gesù si nascose ed uscí dal tempio.]

Laus tibi, Christe!

Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

Omelia

Omelia della DOMENICA I DI PASSIONE

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. I -1851-]

(Vangelo sec. S. GIOV. VIII,46-59)

Rispetto alle Chiese

Bisogna ben dire che sia un gran peccato il poco rispetto alla casa di Dio, mentre Gesù Cristo in due occasioni diverse lo punisce con severi ed esemplari castighi. L’odierno Vangelo ci presenta il divino Maestro che istruisce nel Tempio una turba di Ebrei. I malvagi invece di trarre profitto L’insultano con ingiurie e Lo minacciano con pietre: Lo chiamano Samaritano ed indemoniato, e si armano per lapidarLo. Ecco il delitto, Gesù nascondendosi agli occhi loro, esce dal Tempio. “Jesus autem ascondit se, et exivit de Templo”. Ecco il castigo, castigo di abbandono, castigo di privazione della perfida Sinagoga, castigo di ogni altro il maggiore, espresso nel ritiro liturgico di questa Domenica, in cui si velano le sacre immagini. In altro tempo vede Gesù il Tempio santo di Dio convertito in piazza di negoziazione e, come Egli si espresse, in una “spelonca di ladri”. Ecco il delitto. E acceso in volto di santo zelo, con flagello alla mano discaccia i sacrileghi profanatori. Ecco il castigo. Su questo, uditori, come più sensibile, facciamo due riflessioni. Perché il Figliuolo di Dio di propria mano, e perché con un flagello prende vendetta della violazione del sacro luogo? Tutto ciò che nei sacri libri sta scritto, dice l’Apostolo, a nostra istruzione sta scritto. Ecco dunque il perché. Castiga Cristo Gesù di propria mani i profanatori del Tempio, per farci conoscere la gravità di questo peccato. Adopera un flagello per indicarci i molti castighi che trae addosso quest’istesso peccato. In questi due aspetti, trattiamo, fideli miei, l’importante argomento e rimedio se ci troviamo colpevoli, a preservazione se siamo innocenti.

I. Dalla qualità della pena si può argomentare la gravezza della colpa. Se si eccettui il già indicato avvenimento, non si legge in alcun luogo dell’antico Testamento, e nel nuovo, che Iddio per qualunque misfatto abbia di propria mano puniti i delinquenti. Scacciò dal terreno paradiso i rei nostri progenitori, ma si valse d’un angelo, esecutore del meritato esilio. Per mezzo di un angelo percosse tutte le famiglie di Egitto colla prodigiosa uccisione di tutti i loro primogeniti. Per mezzo di un angelo fece strage del numeroso esercito dell’empio Sennacherib. Per mezzo dei serpenti ferì a morte nel deserto i mormoratori di Dio e di Mosè. Per mezzo dei leoni afflisse i popoli prevaricatori della desolata Samaria. In somma a castigare i trasgressori della sua legge, si serve Iddio sdegnato delle ragionevoli o insensate sue creature. Solo quando trattasi di punire i sacrileghi profanatori della santa sua casa vuol adoperare la vendicatrice sua destra. – Si diportò il divin Signore in quest’azione, come un principe sovrano, che i violatori della sua legge fa punire dai suoi ministri con le pene imposte dalla medesima legge. Ma se avvenga mai che vassallo indegno abbia l’ardire di tentare l’onore della sua Sposa, più non si contiene, e omessa ogni formalità di giudizio, impugna la spada, e di sua mano si vendica dell’iniquo attentato. Infatti finché il regnante Assuero udì le accuse fatte da Ester contro il fellone Aman, non parlò di castigo, solo con ciglio torbido e pensoso si tolse a lui davanti; ma ritornando, al veder lo scellerato star supplichevole a pie’ della regina, preso da geloso precipitato sospetto, “Oh! Il perfido, esclamò, il temerario! Anche il presenza mia , nella mia reggia, un tanto ardimento?” Etiam Reginam vult opprimere me praesente in domo mea” (Est. VII, 8). Su, si sospenda ad un’altissima trave: un patibolo è poca pena a tanto eccesso. Tanto è vero, che la colpa di chi pecca in casa, e sotto gli occhi del suo sovrano, è immensamente più mostruosa e più grave. – Dite ora argomentando così: come, Gesù Cristo, pastore buono, agnello mansueto, che tutto dolcezza e misericordia accoglie i peccatori, siede a mensa coi pubblicani, loda le Maddalene, sottrae dalle pietre le donne adultere, ora cangiato in leone di Giuda, armata la destra di flagello, acceso di giusto inusitato furore, rovescia le tavole dei banchieri, scompiglia le gabbie delle colombe, e fuor discaccia i mercatanti e gli avventori? Convien concludere che enorme sia il reato, che a tanto lo spinge. Così è, ma quanto maggiore sarà il delitto di noi cristiani, se oseremo perdere il rispetto per la casa di Dio! Furon colpevoli, è vero, gli Ebrei profanatori, ma quel Tempio solo adombrava la maestà di Dio invisibile. Non era in quello, come nelle chiese nostre un Dio realmente presente sotto l’eucaristico velo. E poi quei trafficanti sembrano degni di qualche scusa, poiché le pecore e le colombe, da loro esposte in vendita, erano secondo il rito mosaico, da Dio prescritte nei diversi sacrifici. Ora quale scusa o pretesto potranno addurre gli irriverenti cristiani per i loro cicalecci, sogghigni, prolungati discorsi, occhiate libere, gesti licenziosi, azioni sconvenevoli, scandalosi amoreggiamenti? E tutto ciò davanti a Dio vivente, innanzi a Dio presente, in faccia ai suoi altari, al cospetto degli Angeli suoi adoratori? E che strana cosa è mai questa? Se ne lagna l’oltraggiato Signore per bocca del suo profeta Geremia, che strana cosa ed empia, che il mio popolo dalla mia dilezione favorito e distinto, venga con tanta scelleratezza ad insultarmi in casa mia? “Quid est, quod dilectus meus in domo mea fecit scelera multa? Sono dunque così venuto a vile, che nessun riguardo si abbia, né all’abitazione mia, né alla mia presenza? Saprò ben Io vendicarmi del disprezzo sacrilego. Darò di mano a un più tremendo flagello, che quello adoperato nel Tempio: “Mea est ultio, et ego retribuam” (Deut. XXXII, 35).

II Questo minacciato flagello, come riflette S. Tommaso, è composto da tre specie di mali, e sono: i castighi privati, i castighi pubblici, e la permission dei peccati, Flagellum de funicoli. E primieramente castighi privati. Padri e madri, vi lagnate sovente che i vostri figliuoli alzino contro voi la testa, la voce e le mani, e disprezzino i vostri comandi e la vostra persona, esaminate voi stessi. Avreste mai perduto il rispetto a Dio ed alla sua casa? Se è così, Iddio permette che vi si renda la pariglia, disprezzo per disprezzo, oltraggio per oltraggio. Scuotono i figli vostri il giogo della paterna autorità, sono discoli, non vi danno che disgusti, han fatto pessima riuscita. Colpa vostra! Fra le altre non avete fatto alcun conto delle loro insolenze in Chiesa. Essi a certe ore si servono della Chiesa come di una piazza da giuoco; nelle loro risse si perseguitano fino in Chiesa colle sassate. E guaio se un chierico, o un sacerdote si facesse a discretamente correggerli. Chi sa come l’intenderebbero certi padri alteri, certe madri arroganti? Caricherebbero, come più volte è avvenuto, di ingiurie e di contumelie il ministro di Dio per aver fatto il proprio e loro dovere. In certe case tutto è scompiglio, tutto è disordine, vi abita il demonio della discordia, v’è una lite che snerva, la malattia che consuma, la povertà che attrista, l’infamia che accora, la disperazione che infuria, tristi effetti, dice l’Apostolo, delle irriverenze, delle sacrileghe profanazioni della casa di Dio. Si quis domum Dei violaverit, disperdet illum Deus (I Cor. III, 17). – Così fu sempre, così sempre sarà. I disprezzatori del luogo santo, non fuggiranno dall’ira di Dio. Vedetene gli esempi funesti nelle divine Scritture. Eccovi Antioco, roso in tutto il corpo da vermi schifosi, perché spogliò il Tempio di Dio. Eccovi Ozia, coperta da fetida lebbra, perché stese la destra profana al sacro incensiere, ecco Manasse, carico di catene, chiuso in tetra prigione, perché collocò nel Tempio un idolo abominevole. Ecco Eliodoro, flagellato dagli angeli, perché violò i sacri depositi e l’altare del Dio di Israele. Ecco Oza Levita, colpito da subitanea morte, perché irriverente stese le mani all’arca del Testamento. Ecco Baldassarre scannato nel proprio letto, perché profanò i vasi del Santuario. Così fu, così sarà sempre. Si quis domum Dei violaverit, disperdet illum Deus. La sentenza è data, ne sarà la vittima chi non la teme. – Se tanto atterriscono i particolari castighi, quanto dovranno spaventarci i pubblici? Escono dalla porta della Chiesa profanata i fulmini della divina vendetta, a difendere il proprio onore, a riparare i ricevuti oltraggi. Iudicium a domo Dei (I Piet. IV, 17). Escono le guerre che fanno strage dei popoli, che atterrano le intere città. Così avvenne per le iterate violazioni del Tempio santo all’infelice Gerusalemme messa a sacco a ferro, a ferro, a fuoco, a ruina dall’armi romane: Ultio Domini, ultio Templi sui (Ger. LI, 11.). Escono gli elementi a sconcertar le stagioni, onde non dian pioggia le nuvole, inaridiscan le biade. Steriliscano le piante; e le calamità, la miseria, la fame puniscano le irriverenze sacrileghe fatte al Creatore nella propria casa. Così ei se ne protesta pel suo profeta Aggeo: “Quia domus mea deserta, propter hoc prohibiti sunt coeli, ne darent rorem suum” (Agg. I, 9). Così per nostra colpa proviamo di frequente. “Ultio Domini est, ultio Templi sui”. E da che vennero le contagiose epidemie degli anni scorsi che portarono il lutto in tante case, che desolarono tante famiglie? “Ultio Domini est, ultio Templi sui”. E quando mai si sentirono fra noi tante e sì fiere scosse di terremoti, e così frequenti, e così durevoli? E quando mai si udirono di tristi novelle di pestilenza di qualità strana, esecutiva, immedicabile, che assale chi per vigor di forza meno la teme, ed in poche ore l’uccide e va serpeggiando di regno in regno? “Ultio Domini est, ultio Templi sui”. – Ma quello è il meno, rispetto al terzo castigo della permission dei peccati. Sarebbe meglio che in una città entrasse la peste, e passeggiasse la morte, più tosto che nelle sue contrade il peccato andasse in trionfo. Il colmo dell’ira di Dio non è quando temporalmente castiga, ma quando abbandona. “Exacerbavit Dominum peccator” (Sal. IX, 1), dice il Re Profeta. Il peccatore è arrivato a tal segno da esacerbare il cuor di Dio? Che ne avverrà? Sarà forse da Lui punito con malattie, amareggiato con perdite, percosso con disgrazie? Non già, non già! Sarebbero questi castighi, colpi per svegliarlo, ferite per guarirlo, avvisi per salvarlo. Ma no: nella moltitudine dei motivi dei motivi che accendono la giusta sua collera, Iddio più nol cerca, In moltitudine irae suae non quaere. Comprendetene uditori la terribilità e la conseguenza. Quando il medico dice agli assistenti ad un infermo, gli dian tutto quel che desidera, che segno è questo? Dobbiam dunque noi dare al nostro malato le cose da voi poc’anzi proibite e da voi chiamate nocive? Date, date, non v’è più rimedio, il caso è disperato, egli è perduto! – Ah Signore, castigateci pure colla sferza da padre, colla verga da pastore, col ferro e col fuoco da medico severo insieme e pietoso; ma non ci abbandonate al reprobo senso, non ci abbandonate a noi stessi. Se contro di noi si armeranno i ministri del vostro sdegno, la fame, la guerra, la peste, la morte, questi stessi flagelli ci daran la spinta a portarci ai vostri pie’ ed implorare pietà. Disingannati delle terrene cose ci volgeremo alle eterne, disperati della vita presente, penseremo alla vita futura. Ma se voi ci voltate le spalle, se voi ci abbandonate, si alzerà un muro tra Voi e noi, che ci dividerà in eterno. – Ad evitare somigliante castigo, massimo ed ultimo di tutti i castighi, rispettiamo, fedeli miei, la casa di Dio, accostiamoci al luogo santo con un timore reverenziale che ci contenga nella più modesta compostezza, che ci avvisi a non dir parola, a non azione che possa offendere gli occhi di sua divina maestà. Ce l’impone Dio stesso nel Levitico: Pevete ad sanctuarium meum (XXVI, 2). Che se noi, non curando la santità del luogo, imiteremo quegli empi veduti nel Tempio dal Profeta Ezechiele, vòlto il tergo all’altare, porgere incenso agli idoli, e con mille altre abominazioni contaminare il santuario; se le adorazioni a Dio dovute saran rivolte a qualche idolo di carne, se le mode scandalose saranno d’inciampo agli incauti, se la Chiesa per diabolica libertà diverrà un teatro, Iddio ci abbandonerà al suo giusto furore, si ritirerà dal luogo santo e da noi, com’Egli stesso se ne protesta col citato Profeta: “Recedam a santuario meo” (Ezech. VIII, 9). Così fece con la perfida Sinagoga. Gesù si nascose, ecco estinto nei figli suoi il lume della fede, Gesù uscì dal Tempio, eccoli segregati dalla sua alleanza, dispersi sulla faccia della terra, portar in fronte il marchio del deicidio, e della loro riprovazione, in odio a Dio e a tutte le nazioni. Guai a voi se in pena della violata religione, e del disprezzo della sua casa Gesù si nasconde! Resteremo in tenebre ed ombre di morte, cadremo nei precipizi degli eccessi più enormi. Guai a noi se Gesù si parte dalle nostre Chiese, come si partì da quelle dell’Asia, dell’Africa e dell’Egitto, divenute moschee maomettane; privi allora d’altare, di sacramenti, di sacrifizi e di ogni altro spirituale aiuto: per pochi giorni passeggeremo la via del libertinaggio, e gustati alcuni frutti di avvelenato piacere, coronati di rose piomberemo nell’inferno prima provato, che da noi temuto. Che Dio ci liberi!

 

Credo

 Offertorium V. Dóminus vobíscum.

R. Et cum spíritu tuo.

Orémus Ps CXVIII:17, 107

Confitébor tibi, Dómine, in toto corde meo: retríbue servo tuo: vivam, et custódiam sermónes tuos: vivífica me secúndum verbum tuum, Dómine. [Ti glorífico, o Signore, con tutto il mio cuore: concedi al tuo servo: che io viva e metta in pràtica la tua parola: dònami la vita secondo la tua parola.]

Secreta

Hæc múnera, quaesumus Dómine, ei víncula nostræ pravitátis absólvant, et tuæ nobis misericórdiæ dona concílient. [Ti preghiamo, o Signore, perché questi doni ci líberino dalle catene della nostra perversità e ci otténgano i frutti della tua misericórdia.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum.

Amen.

 Communio 1 Cor XI:24, 25

Hoc corpus, quod pro vobis tradétur: hic calix novi Testaménti est in meo sánguine, dicit Dóminus: hoc fácite, quotiescúmque súmitis, in meam commemoratiónem. [Questo è il mio corpo, che sarà immolato per voi: questo càlice è il nuovo patto nel mio sangue, dice il Signore: tutte le volte che ne berrete, fàtelo in mia memoria.]

Postcommunio

 Dóminus vobíscum.

Et cum spíritu tuo.

Orémus. Adésto nobis, Dómine, Deus noster: et, quos tuis mystériis recreásti, perpétuis defénde subsidiis. [Assístici, o Signore Dio nostro: e difendi incessantemente col tuo aiuto coloro che hai ravvivato per mezzo dei tuoi misteri.]

Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia saecula saeculorum.

Amen.

TEMPO DI PASSIONE

[Dom Guéranger: L’Anno liturgico, vol. I]

Capitolo I

STORIA DEL TEMPO DI PASSIONE

E DELLA SETTIMANA SANTA

Preparazione alla Pasqua.

La santa Chiesa, dopo aver presentato alla meditazione dei fedeli, nelle prime quattro settimane di Quaresima, il digiuno di Cristo sulla montagna, consacra ora le altre due settimane che ci separano dalla festa di Pasqua alla commemorazione dei dolori del Redentore, non permettendo che i suoi figli arrivino al giorno dell’immolazione del divino Agnello, senza aver prima disposte le loro anime alla compassione dei patimenti da Lui sofferti in loro vece. I più antichi documenti della Liturgia, i Sacramentari e gli Antifonari di tutte le Chiese, col tono delle loro preghiere, la scelta delle letture ed il senso d’ogni sacra formula, ci avvertono che la Passione di Cristo, a partire da oggi, forma l’unico pensiero della cristianità. Fino alla Domenica delle Palme potranno ancora aver luogo, nel corso della settimana, le feste dei Santi; ma nessuna solennità, a qualsiasi classe appartenga, avrà la precedenza sulla Domenica di Passione. – Non abbiamo dettagli storici intorno alla prima settimana di questa quindicina; ma le sue osservanze non differirono mai dalle quattro settimane che la precedettero [Non riteniamo qui opportuno addentrarci nelle discussioni puramente archeologiche sollevate sulla parola Mediana, con la quale viene designata la Domenica di Passione in alcuni antichi documenti della Liturgia e del Diritto ecclesiastico], rimandiamo quindi il lettore al capitolo seguente, dove tratteremo di alcune mistiche particolarità del tempo di Passione in genere. Per contrario, la seconda settimana ci fornirà un’abbondante materia di storici dettagli, non essendovi periodo dell’Anno Liturgico che più di questo impegni i fedeli ed offra loro motivo di cosi vive manifestazioni di pietà.

Nomi che si davano all’ultima settimana.

L’ultima settimana era già in venerazione nel III secolo, come attesta S. Dionigi, vescovo in quel periodo di tempo d’Alessandria, (Lettera a Basilide, c. I). Nel secolo appresso fu chiamata la grande Settimana, come ci consta da un’Omelia di S. Giovanni Crisostomo (30.a Omelia sul Genesi) : «Non perché, dice il santo Dottore, conti più giorni delle altre, o i giorni constino d’un maggior numero di ore, ma perché sono grandi i misteri che in essa si celebrano ». La vediamo anche segnalata col nome di Settimana penosa, sia per le pene sofferte da Nostro Signor Gesù Cristo che per le fatiche imposte dalla sua celebrazione; Settimana d’indulgenza, perché vi si accoglievano i peccatori alla penitenza; finalmente Settimana Santa, per la santità dei misteri che si commemoravano. Da noi per lo più viene chiamata con questo nome, il quale divenne così appropriato, che fu attribuito a ciascuno dei giorni che la compongono, di modo che abbiamo Lunedì Santo, Martedì Santo, ecc.

Rigore del digiuno.

Una volta aumentava la severità del digiuno quaresimale negli ultimi giorni, che formavano il supremo sforzo della penitenza cristiana. Poi, la Chiesa indulgendo a poco a poco alla debolezza delle presenti generazioni, cominciò a mitigare tali rigori, ed oggi in Occidente non esiste più nessuna restrizione che distingua questa settimana dalle precedenti; mentre nelle Chiese d’Oriente rimaste fedeli alle antiche tradizioni, continuano ad osservare una rigorosa astinenza, la quale, dalla Domenica di Quinquagesima e per tutto questo lungo periodo, prende il nome di Serofagia, essendo solo permesso di mangiare asciutto. – Anticamente il digiuno si spingeva anche oltre i limiti delle forze umane; infatti sappiamo da Epifanio (Esposizione della Fede, X, Heres, XXII) che v’erano dei cristiani che lo prolungavano dal Lunedì mattina fino al canto del gallo del giorno di Pasqua (Nella metà del III secolo, ad Alessandria, si digiunava l’intera settimana, sia ininterrottamente che ad intervalli – Lettera di S. Dionigi a Basilide P. G. X, 1277). – Indubbiamente, solo una piccola parte dei fedeli potevano fare un tale sforzo; gli altri si limitavano a non prendere niente per due, tre, quattro giorni consecutivi; ma la comune usanza consisteva nello stare senza mangiare dalla sera del Giovedì Santo fino al mattino di Pasqua [Tale usanza era antichissima, perchè ce ne parla S. Ireneo (verso il 200) e anche s. Eusebio nella sua Storia Eccl. (v. 24; P. G., 501), così ardua penitenza fossero state sempre accompagnate da una ferma adesione alla fede ed all’unità alla Chiesa!]. Esempi d’un tale rigore non sono rari, anche ai giorni nostri, presso i cristiani d’Oriente ed in Russia.

Lunghezza delle veglie.

Una delle caratteristiche dell’antica Settimana Santa furono le veglie prolungate in chiesa durante la notte; come quella del Giovedì Santo, nella quale, celebrati i divini misteri in memoria dell’Ultima Cena del Signore, il popolo perseverava a lungo nella preghiera (S. Giovanni Crisostomo, 30.a Omelia sul Genesi). La notte fra il Venerdì e il Sabato era quasi tutta una veglia, per onorare la sepoltura di Gesù Cristo (S. Cirillo di Gerusalemme, Catech. XVIII); ma la più lunga era quella del Sabato, che durava fino al mattino di Pasqua. Vi prendeva parte tutto il popolo, che assisteva all’ultima preparazione dei Catecumeni; quindi rimaneva testimone dell’amministrazione del santo Battesimo. L’assemblea si ritirava solo dopo la celebrazione del santo Sacrificio, che terminava al levar del sole.

Sospensione dal lavoro.

Durante la Settimana Santa, per lungo andare di secoli fu richiesta ai fedeli la sospensione dalle opere servili; ed alla legge della Chiesa si univa quella civile a far sospendere il lavoro ed il traffico degli affari, ed esprimere così, in una maniera imponente, il lutto dell’intera cristianità. Il pensiero del sacrificio e della morte di Cristo era il pensiero di tutti; ognuno sospendeva gli ordinari rapporti; tutta la vita morale era completamente assorbita dagli uffici divini e dalla preghiera, mentre le forze del corpo erano impegnate nel digiuno e nell’astinenza. È facile immaginare quale impressione doveva produrre nel resto dell’anno una così solenne interruzione di tutto ciò che costituiva l’assillo degli uomini nelle cose della loro vita. Tenuta presente la durezza con la quale li aveva trattati la Quaresima per cinque intere settimane, si comprende benissimo con quale gioia accoglievano poi la festa della Pasqua, e come insieme col rinnovamento dell’anima dovevano sentire un grande sollievo nel corpo.

Vacanza dei tribunali.

In altra parte accennammo alle disposizioni del Codice Teodosiano che prescriveva di soprassedere a tutti i processi e citazioni quaranta giorni prima della Pasqua. La legge di Graziano e di Teodosio, emanata a tal proposito nel 380, fu allargata da Teodosio nel 389 e fatta propria dei giorni in cui siamo da un nuovo decreto che interdiceva, sette giorni prima della festa di Pasqua e sette giorni dopo, anche le patrocinazioni. Nelle Omelie di S. Giovanni Crisostomo e nei Sermoni di S. Agostino si riscontrano parecchie allusioni a questa legge allora recente; in essa si dichiarava che allora, in ciascun giorno di detta quindicina, vigeva nei tribunali il privilegio della Domenica.

Il perdono dei regnanti.

In questi giorni di misericordia i prìncipi cristiani non solo interrompevano il corso dell’umana giustizia, ma volevano anche onorare in modo sensibile la paterna bontà di Dio, il quale si degnò perdonare al mondo colpevole in vista dei meriti del Figliolo suo immolato. Dopo aver rotti i lacci del peccato che imprigionavano i peccatori pentiti, la Chiesa stava per riaprire loro il suo seno; ed i prìncipi cristiani ci tenevano ad imitare la loro Madre, ordinando l’apertura delle carceri e la liberazione degl’infelici che gemevano sotto il peso delle sentenze inferte dai tribunali terreni, fatta eccezione di quei criminali che coi loro delitti avevano leso troppo gravemente la famiglia o la società. Anche a tale riguardo il nome del grande Teodosio fu illustrato da chiara fama. Come c’informa S. Giovanni Crisostomo (6.a Omelia al popolo d’Antiochia), quest’imperatore mandava nelle varie città ordinanze di condono, autorizzando il rilascio dei prigionieri e accordando la vita ai condannati a morte, per santificare i giorni che precedevano la festa di Pasqua. Gli ultimi imperatori convertirono in legge tale disposizione, e S. Leone ne prende atto, in uno dei suoi sermoni: « Gl’imperatori romani, egli attesta, già da tempo osservavano questa santa istituzione, per onorare la Passione e la Risurrezione del Signore, per la quale si vede diminuire il fasto della loro potenza, mitigare la severità delle leggi e fare grazia alla maggior parte dei colpevoli, mostrando con tale clemenza d’imitare la bontà celeste nei giorni in cui ha voluto salvare il mondo. Che anche il popolo cristiano, da parte sua, abbia a cuore d’imitare i prìncipi, e l’esempio dato dal sovrano porti i sudditi ad una scambievole indulgenza, non dovendo mai il diritto privato essere più severo di quello pubblico. Rimettete, perciò, gli altrui torti, sciogliete i legami, perdonate le offese, soffocate i risentimenti, affinché, e da parte di Dio e da parte nostra, tutto contribuisca a ristabilire in noi quell’innocenza di vita che conviene all’augusta solennità che attendiamo » {Discorso 40, sulla Quaresima). – Ma non solo è decretata l’amnistia cristiana nel Codice Teodosiano : ne troviamo tracce anche in solenni documenti di diritto pubblico dei nostri padri. Sotto la prima dinastia dei re di Francia, S. Eligio vescovo di Noyon, in un sermone pronunciato il Giovedì Santo s’esprimeva così : « In questi giorni in cui la Chiesa indulge ai penitenti ed assolve i peccatori, i magistrati lascino da parte la severità e perdonino ai rei. In tutto il mondo s’aprono le carceri, i prìncipi fanno grazia ai delinquenti, i padroni perdonano agli schiavi » {Discorso 10). Sotto la seconda dinastia, sappiamo dai « Capitolari » di Carlo Magno che i Vescovi avevano il diritto d’esigere dai giudici per amore di Gesù Cristo, come ivi è detto, la liberazione dei prigionieri nei giorni precedenti la Pasqua, e d’interdire ai magistrati l’entrata in chiesa, se si rifiutavano d’obbedire {Capitolari, I. 6). Secondo i « Capitolari », questo privilegio s’estendeva anche alle feste di Natale e di Pentecoste. Infine, sotto la terza dinastia, troviamo l’esempio di Carlo VI il quale, avendo dovuto reprimere una rivolta degl’insorti di Rouen, più tardi ordinò la liberazione dei prigionieri, perché si era nella Settimana penosa, e molto vicini alla Pasqua. – Un ultimo vestigio di questa misericordiosa legislazione si conservò fino alla fine nel costume parlamentare parigino. Dopo molti secoli il Parlamento non conosce più queste lunghe vacanze cristiane, che una volta s’estendevano a tutta la Quaresima; le camere si chiudevano solo il Mercoledì Santo, per riaprirsi dopo la Domenica “Quasimodo”. Il Martedì Santo, ultimo giorno di seduta, il Parlamento si recava alle carceri del Palazzo ed uno dei Grandi Presidenti, di solito l’ultimo investito, apriva la seduta con la camera; interrogavano i detenuti, e senz’alcun giudizio, si mettevano in libertà quelli la cui causa era favorevole, o chi non era un criminale di prim’ordine.

La vera uguaglianza e fraternità.

Le rivoluzioni che si succedettero per più di cent’anni ebbero il vantato successo di secolarizzare la Francia, cioè di cancellare dai pubblici costumi e dalla legislazione tutto ciò che traeva ispirazione dal sentimento soprannaturale del cristianesimo. E poi si misero a predicare agli uomini, su tutti i toni, ch’erano uguali fra loro. Sarebbe stato superfluo cercare di convincere di questa verità i popoli cristiani nei secoli di fede, quando, all’avvicinarsi dei grandi anniversari che rappresentavano così al vivo la giustizia e la misericordia divina, si vedevano i regnanti abdicare, per così dire, al loro scettro, per lasciare a Dio il castigo dei colpevoli, e sedersi al banchetto pasquale della fraternità, vicini ad uomini che fino a qualche giorno prima avevano tenuto in catene nel nome della società. Il pensiero di Dio, di fronte al quale tutti gli uomini sono peccatori, di quel Dio, dal quale soltanto proviene la giustizia ed il perdono, dominava in quei giorni tutte le nazioni; veramente si potevano datare le ferie della grande Settimana alla maniera di certi diplomi di quell’epoca di fede : « Sotto il regno di Nostro Signor Gesù Cristo » : Regnante Domino Nostro Jesu Christo. Forse, tramontati i giorni della santa cristiana uguaglianza, ripugnava ai sudditi riprendere il giogo della sottomissione ai governanti o questi pensavano di approfittare dell’occasione per redigere la carta dei diritti dell’uomo? Niente affatto: lo stesso pensiero che aveva umiliato dinanzi alla Croce del Salvatore i fasci della legale giustizia, rivelava al popolo il dovere d’obbedire ai potenti stabiliti da Dio. Dio era la ragione del potere e, nello stesso tempo, della sottomissione; e le dinastie si potevano succedere, senza che per questo scemasse nei cuori il rispetto dell’autorità. Oggi la santa Liturgia non esercita più quest’influsso sulla società; la religione si rifugia come un segreto in fondo alle anime fedeli; le istituzioni politiche non sono diventate altro che l’espressione della superbia umana che vuole comandare o si rifiuta d’obbedire. Eppure la società del IV secolo, che produsse quasi spontaneamente, per il solo spirito cristiano, le leggi misericordiose che abbiamo menzionate, era ancora mezzo pagana! Mentre la nostra fu fondata dal Cristianesimo, che, solo, ha il merito d’aver civilizzato i nostri padri barbari; e noi chiamiamo progresso questo cammino a ritroso di tutte le garanzie di ordine, di pace e di moralità che avevano ispirato i legislatori? E quando rinascerà la fede dei padri, che sola può restaurare dalle basi le nazioni? Quando i saggi di questo mondo la finiranno con le loro utopie, che non hanno altro risultato che di assecondare quelle funeste passioni, che i misteri di Gesù Cristo, rinnovantisi in questi giorni, condannano così solennemente?

L’abolizione della schiavitù.

Se lo spirito di carità e il desiderio d’imitare la misericordia divina ottenevano dagl’imperatori cristiani la liberazione dei prigionieri, schiavi, nei giorni in cui Gesù Cristo si degnò restituire col suo sangue la libertà a tutto il genere umano. La schiavitù, figlia del peccato ed istituzione fondamentale del mondo antico, era stata colpita a morte dalla predicazione del Vangelo; ma toccava ai singoli abolirla, a mano a mano, con l’applicazione del principio della fraternità cristiana. Come Gesù Cristo ed i suoi Apostoli non ne avevano richiesto l’abolizione di punto in bianco, così i prìncipi cristiani s’erano limitati a favorirla con le leggi. Ne abbiamo un esempio nel Codice di Giustiniano, che dopo aver interdetti i processi durante la grande Settimana e quella successiva, ingiunge la seguente disposizione: « È inoltre permesso concedere la libertà agli schiavi, e qualsiasi atto necessario alla loro liberazione non sarà ritenuto contravvenire alla legge » (Cod.1.3, tit. XII, de feriis, Leg. 8). Del resto, con una simile caritatevole misura, Giustiniano non faceva altro che applicare alla quindicina di Pasqua la legge di misericordia apportata da Costantino all’indomani del trionfo della Chiesa, la quale proibiva ogni processo la Domenica, salvo quello che mirava alla libertà degli schiavi. – Molto tempo prima della pace costantiniana, la Chiesa aveva provveduto agli schiavi nei giorni che si svolgevano i misteri della redenzione universale. I padroni cristiani dovevano lasciarli godere d’un completo riposo durante la sacra quindicina. La legge canonica introdotta nelle Costituzioni Apostoliche, che è una collezione compilata prima del IV secolo, è di questo tenore : « Durante la grande Settimana che precede il giorno di Pasqua, e per tutta la seguente, si lascino a riposo gli schiavi, perché la prima è la settimana della Passione del Signore, e la seconda quella della sua Risurrezione, durante le quali bisogna istruirli su tali misteri » (Costit. Apost., I. 8, c. XXXIII).

Le opere di carità.

Infine, ancora una caratteristica dei giorni ai quali ci avviciniamo, è una più abbondante elemosina ed una maggior frequenza delle opere di misericordia. S. Giovanni Crisostomo ce l’attesta per il suo tempo, e ce lo fa notare nell’elogio che tesse di molti fedeli, i quali raddoppiavano le loro elargizioni verso i poveri, per avvicinarsi il più possibile alla munificenza divina che stava per prodigare senza misura i suoi benefici all’uomo peccatore.

Capitolo II

Misteri e riti.

La Liturgia è piena di misteri in questo tempo nel quale la Chiesa celebra gli anniversari di sì meravigliosi avvenimenti; ma riferendosi per lo più a riti e cerimonie propri d’alcuni giorni particolari, ne tratteremo a misura che si presenterà l’occasione. Intendiamo qui solamente dedicare alcune parole, alle costumanze della Chiesa nelle due prossime settimane.

Il digiuno.

Non abbiamo nulla da aggiungere a quanto abbiamo esposto sul mistero dei quaranta giorni; il periodo dell’espiazione perdura nel suo corso fin quando il digiuno degli uomini non abbia raggiunta la durata di quello che fece l’Uomo-Dio nel deserto. I fedeli di Cristo continuano a combattere, sotto l’armatura spirituale, i nemici invisibili della salvezza; assistiti dagli Angeli della luce, essi lottano corpo a corpo con gli spiriti delle tenebre, mediante la compunzione del cuore e la mortificazione della carne.

Tre obiettivi.

Tre fatti assillano specialmente la Chiesa durante la Quaresima : la Passione del Redentore, di cui abbiamo avvertito l’avvicinarsi di settimana in settimana: la preparazione dei Catecumeni al Battesimo, che sarà conferito la notte di Pasqua ; e la riconciliazione dei pubblici Penitenti, ai quali la Chiesa riaprirà le porte il Giovedì Santo. Ogni giorno che passa si sentono sempre più vive queste tre grandi preoccupazioni della Chiesa.

La Passione.

Gesù, risuscitando Lazzaro in Betania, alle soglie di Gerusalemme, fece giungere al colmo la rabbia dei suoi nemici. Il popolo è impressionato nel veder ricomparire per le vie della città questo morto quatriduano; si chiede se il Messia opererà prodigi maggiori, e non sia giunto finalmente il tempo di cantare Osanna al Figlio di David. Fra poco non sarà più possibile contenere l’entusiasmo dei figli d’Israele. I pìncipi dei sacerdoti e gli anziani del popolo non hanno più un minuto da perdere, se vogliono impedire che Gesù di Nazaret venga proclamato re dei Giudei. Stiamo quindi per assistere ai loro infami consigli; il sangue del Giusto sarà venduto e pagato in denaro contante; la Vittima divina, tradita da un suo discepolo, sarà giudicata, condannata, immolata. Le circostanze di questo dramma non saranno più un semplice oggetto di lettura, perché la Liturgia li rinnoverà nella maniera più espressiva davanti agli occhi del popolo cristiano.

I Catecumeni.

Ancora poco tempo rimarranno a desiderare il santo Battesimo i Catecumeni, l’istruzione dei quali va completandosi di giorno in giorno; le figure dell’antica alleanza fra poco finiranno di passare davanti a loro, e non avranno più niente da impararvi sui misteri della salute. Sarà ad essi consegnato allora il Simbolo della fede; iniziati così alle grandezze ed alle umiliazioni del Redentore, attenderanno insieme ai fedeli l’istante della sua Risurrezione; e noi li accompagneremo coi nostri voti ed i nostri canti nell’ora solenne in cui, immersi nella salvifica piscina, e lasciate tutte le loro sozzure nelle acque rigeneratrici, risaliranno puri e radiosi a ricevere i doni dello Spirito Santo e la santa Comunione della carne dell’Agnello che non morrà mai più.

I Penitenti.

Avanza a grandi passi, anche la riconciliazione dei Penitenti, che sotto il cilizio e la cenere perseguono l’opera della loro espiazione. Si continueranno a fare loro le consolanti letture intese, altre volte, e sempre più disseteranno le loro anime. L’immolazione dell’Agnello che s’avvicina aumenta la loro speranza, perché sanno che il sangue dell’Augello ha una virtù infinita e cancellerà tutti i loro peccati. Prima che il liberatore risorga, essi avranno ricuperata l’innocenza perduta; il perdono sarà loro anticipato in tempo utile per assidersi, fortunati figli prodighi, alla mensa del Padre di famiglia, nello stesso giorno in cui egli dirà agl’invitati: « Ho bramato ardentemente di mangiare con voi questa Pasqua» (Lc. XXII, 15).

Il lutto della Chiesa.

Tali sono in breve le auguste scene che ci attendono; ma nello stesso tempo vedremo la santa Chiesa inabissarsi sempre più nella sua luttuosa tristezza. Fino a poco fa piangeva i peccati dei suoi figli; ora comincia a piangere la morte dello Sposo celeste. Da molto tempo ha già bandito dai suoi inni l’Alleluia; ma arriverà al punto di sopprimere anche la lode alla SS. Trinità, con la quale chiude ogni Salmo. Eccetto i giorni nei quali si celebra la memoria di qualche Santo, la cui festa potrebbe ancora incontrarsi fino al sabato di Passione, la Chiesa ometterà, prima in parte, poi totalmente, perfino quelle parole che amava tanto ripetere: « Gloria al Padre, al Figliolo e allo Spirito Santo »! – Le letture del Mattutino sono prese da Geremia. Il colore dei paramenti liturgici è sempre quello della Quaresima; ma quando si giungerà al Venerdì Santo, il violaceo sarà sostituito dal nero, come quando si piange il trapasso d’un mortale; in questo giorno infatti è morto il suo Sposo: sono stati i peccati degli uomini ed i rigori della giustizia divina che pesando sopra di lui, gli hanno fatto rendere l’anima al Padre, fra gli orrori dell’agonia.

Riti Liturgici.

Nell’attesa di quest’ora, la santa Chiesa manifesta i suoi dolorosi presentimenti velando anticipatamente l’immagine del divino Crocifisso. La stessa Croce s’è resa invisibile ai fedeli, scomparendo dietro un velo (L’uso si ricollega verosimilmente all’idea dell’antica pubblica penitenza. Sappiamo, infatti, che i pubblici penitenti, dal mercoledì delle Ceneri fino al Giovedì Santo, erano espulsi dalla Chiesa. Abbandonata la pubblica penitenza, si pensò di stendere un drappo fra l’altare e la navata centrale d’ogni chiesa per far comprendere a tutti i fedeli che senza penitenza non potevano arrivare alla visione di Dio. Soppresso poi il « drappo della Quaresima », si cominciarono a coprire i crocifissi e le statue; solo però nel tempo di Passione). Non si vedranno più le immagini dei Santi, perché è giusto che il servo si nasconda, quando si eclissa la gloria del Padrone. Gl’interpreti della Liturgia insegnano che l’austera usanza di velare la Croce nel tempo di Passione significa l’umiliazione del Redentore, che fu costretto a nascondersi per non essere lapidato dai Giudei; come leggeremo nel Vangelo della Domenica di Passione. – La Chiesa applica tale prescrizione fin dai Vespri del sabato, e con tale severità, che negli anni in cui la festa dell’Annunciazione cade nella settimana di Passione, l’immagine di Maria, Madre di Dio, rimane coperta, sebbene sia il giorno in cui l’Angelo la saluta piena di grazia e benedetta fra tutte le donne.

Capitolo III

PRATICA DEL TEMPO DI PASSIONE

E DELLA SETTIMANA SANTA

Contemplazione del Cristo.

Il cielo della santa Chiesa si fa sempre più cupo; non bastano più al suo dolore le tinte severe di cui s’era rivestita durante le quattro passate settimane. Ella sa che gli uomini cercano Gesù e hanno deciso la sua morte; non passeranno dodici giorni, ed i suoi nemici gli metteranno addosso le mani sacrileghe. Lo seguirà sul monte Calvario per raccoglierne l’ultimo suo anelito, e farà porre sul suo corpo esanime la pietra del sepolcro. Non ci dobbiamo quindi meravigliare, se invita i suoi figli, durante questa quindicina, a contemplare Colui che forma l’oggetto di tutti i suoi affetti e di tutte le sue tristezze.

Amore.

Non le lacrime, od una sterile compassione ci domanda la nostra Madre; ma che approfittiamo degl’insegnamenti che derivano dagli avvenimenti della grande Settimana. Essa ci ricorda ciò che il Salvatore disse, salendo il Calvario, alle donne di Gerusalemme che osavano piangerlo al cospetto dei carnefici : « Non piangete sopra di me, ma su di voi stesse e sui vostri figli » (Lc. XXIII, 28). Non che egli rifiutasse il tributo delle loro lacrime, di cui anzi era commosso; ma fu l’amore che sentiva per loro a suggerirgli quelle parole, soprattutto perché voleva vederle ben comprese della grandezza di ciò che si stava adempiendo, nel momento in cui la giustizia di Dio si manifestava così inesorabile verso il peccato.

Penitenza.

Fin dalle precedenti settimane la Chiesa iniziò la conversione del peccatore; ora la vuole perfezionare. Non ci mostra più un Cristo che digiuna e che prega sul monte della Quarantena, ma la Vittima universale che s’immola per la salvezza del mondo. È scoccata l’ora in cui la potenza delle tenebre s’approfitterà del momento che egli le ha Concesso; e il più orrendo dei delitti sarà consumato. Fra qualche giorno il Figlio di Dio sarà dato in potere dei peccatori, che lo uccideranno. Non occorre più che la Chiesa esorti i suoi figli alla penitenza, perché sanno benissimo quale espiazione abbia imposto il peccato; essa è tutta presa dai sentimenti che le ispira la fine d’un Dio sulla terra, ed esprimendo nella liturgia, ci è di guida a quelli che dobbiamo concepire in noi.

Dolore.

Il carattere principale delle preghiere e dei riti della presente quindicina consiste nel profondo dolore di vedere il Giusto conculcato dai suoi nemici fino alla morte, e nella più energica indignazione contro il popolo deicida. David e i Profeti forniranno di solito la base dei testi liturgici. Quanto più il Cristo rivela di sua bocca le angosce della sua anima, tanto più si moltiplicheranno le imprecazioni contro i suoi carnefici. Il castigo della nazione giudaica è descritto in tutto il suo orrore, ed in ciascuno degli ultimi tre giorni ascolteremo il pianto di Geremia sulle rovine dell’infedele città. Conversione. – Prepariamoci dunque a queste forti impressioni troppo spesso ignorate dalla pietà superficiale del nostro tempo. Ricordiamo con quale amore e bontà il Figlio di Dio si diede agli uomini, visse la loro vita, « passò sulla terra facendo del bene » (Atti X, 38); e vediamo ora questa vita tutta tenerezza, condiscendenza ed umiltà, finire con un infame supplizio sul patibolo degli schiavi. Consideriamo da un lato la perversità del popolo peccatore che, in mancanza dei delitti, imputa a colpa i benefici del Redentore, e consuma la più nera ingratitudine con l’effusione d’un sangue innocente e divino; e dall’altro contempliamo il Giusto per eccellenza in preda a tutte le amarezze, con l’anima « triste fino alla morte » (Mt. XXVI, 38), con la maledizione che pesa su di Lui, mentre beve questo calice fino alla feccia, nonostante la sua umile implorazione; il Cielo che rimane inflessibile alle sue preghiere ed ai suoi dolori; e ascoltiamo il suo grido: «Dio mio. Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mt. XXVII, 46). È questo ciò che commuove la santa Chiesa, è questo che ella ci offre a contemplare; perché sa che, se saremo compenetrati di quella scena, i legami che avevamo col peccato si scioglieranno da sé, e ci sarà impossibile rimanere ancora complici di tali misfatti.

Timore.

Purtroppo, la Chiesa sa anche la durezza del cuore umano, e come esso ha bisogno di timore per decidersi una buona volta ad emendare la propria vita: ecco perché non ci risparmia nessuna delle imprecazioni che i Profeti mettono in bocca al Messia contro i nemici. Tali anatèmi sono altrettante profezie che s’avverarono alla lettera negli ostinati Giudei; ma stanno anche ad ammonirci che pure il cristiano li deve temere, se persiste, secondo l’energica espressione di S. Paolo, « a crocifiggere Gesù Cristo » (Ebr. VI, 6). Ricordi allora le parole del medesimo Apostolo: « Quanto più acerbi supplizi pensate voi che si meriti chi avrà calpestato il Figlio di Dio, ed avrà tenuto come profano il sangue del testamento col quale è stato santificato, ed avrà fatto oltraggio allo spirito della grazia? Ben sappiamo chi sia Colui che ha detto: – A me la vendetta! Io darò la retribuzione! – ed ancora: – /Il Signore giudicherà il suo popolo -. È cosa terribile cadere nelle mani del Dio vivente» (Ebr. X, 29-31).

Orrore del peccato.

Infatti, niente di più spaventoso, perché nei giorni in cui siamo « egli non ha risparmiato nemmeno il proprio Figliolo » (Rom. VIII, 32), dandoci con tale imperscrutabile rigore la misura di ciò che dovremmo attenderci da Lui, se trovasse ancora in noi il peccato, che lo costrinse ad essere così inesorabile verso il suo diletto Figliolo « oggetto di tutte le sue compiacenze » (Mt. III, 17). Queste considerazioni sulla giustizia verso la più innocente e la più augusta di tutte le vittime, e sul castigo dei Giudei impenitenti, distruggeranno in noi l’affetto al peccato e matureranno quel salutare timore sul quale poggeranno, come sopra un’incrollabile base, una ferma speranza ed un sincero amore.

Virtù del sangue divino.

Infatti, se coi nostri peccati siamo gli autori della morte del Figlio di Dio, è anche vero che il sangue che scorre dalle sue santissime piaghe ha la virtù di lavarci da questo delitto. La giustizia del Padre celeste può solo placarsi mediante l’effusione del sangue divino; d’altra parte la sua stessa misericordia vuole che questo sangue vada a nostro riscatto. Il ferro dei carnefici ha aperto cinque piaghe nel corpo del Redentore: sono cinque sorgenti di salvezza che scorrono ormai sull’umanità a purificare e rinnovare in ciascuno di noi l’immagine di Dio cancellata dal peccato. Accostiamoci dunque con confidenza a glorificare il sangue liberatore che apre al peccatore le porte del cielo, ed il cui valore infinito basterebbe a riscattare milioni di mondi più colpevoli del nostro. Siamo prossimi all’anniversario del giorno in cui esso fu versato; passarono molti secoli da quando scese a bagnare le membra trafitte del nostro Salvatore, e, scorrendo giù giù dall’alto della croce, inzuppò questa terra ingrata: ma la sua potenza è sempre la stessa.

Rispetto e confidenza verso il sangue divino.

Veniamo dunque ad « attingere alle fonti del Salvatore» (Is. XII, 3); e le nostre anime torneranno piene di vita, tutte pure e splendenti di celeste bellezza; non rimarrà in essa la minima traccia delle passate sozzure; ed il Padre ci amerà con lo stesso amore con cui ama il Figlio suo. Non fu forse per ritrovare noi, ch’eravamo perduti, che lasciò morire il Figlio della sua tenerezza? Noi eravamo divenuti preda di satana per i peccati; ed ecco che tutto ad un tratto egli ci strappa dalle sue mani e ci restituisce la libertà. Dio però non usò la forza per sottrarci dal rapitore: allora come siamo diventati nuovamente liberi? Ascoltiamo l’Apostolo : « Siete stati comprati a caro prezzo » (I Cor. VI, 20). E qual è questo prezzo? Ce lo spiega il Principe degli Apostoli : « Non mediante cose corruttibili come l’oro e l’argento, siete stati riscattati, ma col prezioso sangue di Cristo, dell’Agnello immacolato e senza macchia» (I Piet. 1, 18-19). Messo questo sangue divino sulla bilancia della giustizia celeste, l’ha fatta pendere in nostro favore: tanto sorpassava il peso delle nostre iniquità! La forza di questo sangue è riuscita ad abbattere le porte dell’inferno, ha rotto le nostre catene, e « ricomposta la pace fra il cielo e la terra » (Col. 1, 20). Raccogliamo dunque sopra di noi questo sangue prezioso; laviamo in esso tutte le nostre piaghe, e segnamocene la fronte come d’un sigillo indelebile e difensore, affinché nel giorno dell’ira siamo risparmiati dalla spada vendicatrice.

Venerazione della Croce.

Insieme al sangue dell’Agnello che toglie i peccati, la santa Chiesa ci raccomanda di venerare anche la Croce, come l’altare sul quale è immolata la Vittima. Due volte nel corso dell’anno, nella festa dell’Invenzione e dell’Esaltazione, ci sarà mostrato questo sacro legno per ricevere i nostri onori, come il trofeo della vittoria del Figlio di Dio; però in questo momento ci parla solo dei suoi dolori, presentandola come un oggetto d’umiliazione e d’ignominia. Aveva detto il Signore nell’antica alleanza: «Maledetto chi pende dal legno » (Deut. XXI, 23), e l’Agnello che ci salva si degnò affrontare questa maledizione; ma, per ciò stesso, come ci è caro il legno una volta infame! È divenuto lo strumento della nostra salvezza, il pegno dell’amore del Figlio di Dio per noi. Per questo la Chiesa, in nostro nome, Gli dedicherà ogni giorno i più affettuosi omaggi; e noi uniremo alle sue le nostre adorazioni. La riconoscenza verso il Sangue che ci ha riscattati, una tenera venerazione verso la santa Croce, saranno dunque, durante questi quindici giorni, i sentimenti che occuperanno particolarmente i nostri cuori.

Amore per Cristo.

Ma che faremo proprio per l’Agnello, per colui che ci dà il suo sangue ed abbraccia con tanto amore la croce della nostra liberazione ? Non è forse giusto che ci attacchiamo ai suoi passi e, più fedeli degli Apostoli al momento della sua Passione, lo seguiamo giorno per giorno, ora per ora, nella Via dolorosa? Gli terremo fedele compagnia, in questi ultimi giorni in cui s’è ridotto a nascondersi agli sguardi dei suoi nemici; invidieremo la sorte di quelle poche famiglie devote che l’accolgono fra le loro pareti, esponendosi con la coraggiosa ospitalità a tutta la rabbia dei Giudei; compatiremo gli affanni della più tenera delle madri; penetreremo col pensiero nel Sinedrio, dove si macchina la congiura contro la vita del Giusto. Ad un tratto l’orizzonte sembrerà illuminarsi un istante, ed ascolteremo il grido dell’Osanna risuonare per le strade e per le piazze di Gerusalemme. Tale inatteso trionfo del Figlio di David, le palme, le voci innocenti dei fanciulli, daranno tregua per un istante ai nostri presentimenti. Il nostro amore s’unirà al tributo d’omaggio reso al Re d’Israele che visita con una tale dolcezza la figlia di Sion, affinché sia adempiuto l’oracolo profetico; ma queste gioie avranno poca durata, e ricadremo subito nella tristezza!

Meditazione della Passione..

Giuda non tarderà a mercanteggiare l’odioso baratto; finalmente arriverà l’ultima Pasqua ed il simbolo dell’agnello sparirà alla presenza del vero Agnello, di cui la carne ci sarà data in cibo ed il sangue in bevanda. Questa sarà la Cena del Signore. Vestiti degli abiti nuziali, prenderemo posto fra i discepoli, perché è il giorno della riconciliazione nel quale si riuniscono intorno ad una stessa mensa il peccatore pentito e il giusto sempre fedele. Ma il tempo stringe: ci dobbiamo incamminare all’orto del Getsemani; là potremo calcolare il peso delle nostre iniquità alla vista del deliquio del Cuore di Gesù, che n’è tanto oppresso da domandar grazia. Ecco, che, nel cuor della notte, le guardie e le soldatesche, guidate dal traditore, catturano i Figlio dell’Eterno; e le legioni angeliche che lo adoravano rimarranno quasi disarmate dinanzi a tale misfatto. Comincerà allora la serie delle ingiustizie che avranno per teatro i tribunali di Gerusalemme: la menzogna, la calunnia, le debolezze del governatore romano, gl’insulti delle guardie e dei soldati, i tumultuosi schiamazzi d’una plebaglia ingrata e crudele; tali i fatti che s’addenseranno nelle rapide ore che passeranno dall’istante in cui il Redentore sarà preso dai suoi nemici fino a quando salirà, sotto il peso della croce, la collina del Calvario. Vedremo da vicino tutte queste cose; il nostro amore non potrà allontanarsi in quei momenti in cui, fra tanti oltraggi, il Redentore tratta il grande affare della nostra salvezza. Finalmente, dopo gli schiaffi e gli sputi, dopo la sanguinosa flagellazione, dopo l’obbrobriosa crudeltà della coronazione di spine, ci metteremo in cammino sulle orme del Figlio dell’Uomo; e sulle tracce del suo sangue ne riconosceremo i passi. Dovremo irrompere fra la calca d’un popolo che brama il supplizio dell’innocente, per sentire le imprecazioni vomitate contro il Figlio di David. Giunti sul luogo del sacrificio, vedremo coi nostri occhi l’augusta Vittima spogliata delle sue vesti, inchiodata sul legno su cui dovrà spirare, ed innalzata in aria fra il cielo e la terra, quasi per essere più esposta agl’insulti dei peccatori. Ci accosteremo all’Albero della vita per non perdere neppure una goccia del sangue che purifica, e neppure una parola che, a tratti, il Redentore farà giungere if no a noi. Compatiremo la Madre sua, il cui cuore sarà trafitto dalla spada del dolore ; e presso di Lei saremo nel momento in cui Gesù, prima di spirare, ci affiderà alla sua tenerezza di madre. Quindi, dopo tre ore d’agonia, lo vedremo inclinare il capo e ne riceveremo l’ultimo respiro.

Fedeltà.

Ecco quello che ci resta: un corpo contuso e senza vita, e delle membra insanguinate e irrigidite dal freddo della morte. È questo il Messia che con tanta allegrezza avevamo salutato quando venne in questo mondo ? Non è bastato a Lui. Figlio dell’Eterno, « annientarsi fino a prendere forma di schiavo » (Filip. II, 7); questa nascita nella carne era solo il principio del suo sacrificio; e il suo amore lo doveva spingere fino alla morte, ed alla morte di croce. Sapeva che non avrebbe ottenuto il nostro amore, se non a prezzo d’una immolazione così generosa ; ed il suo cuore non si è rifiutato. « Amiamo dunque Dio, dice S. Giovanni, perché Egli per il primo ci ha amati (I Gv. IV, 19). È la mèta che si propone la Chiesa in questi solenni anniversari. Dopo avere abbattuta la superbia ed ogni resistenza con lo spettacolo della divina giustizia, sprona il nostro cuore ad amare finalmente Colui che s’è offerto in vece nostra a subirne i duri colpi. Guai a noi, se questa grande settimana non apportasse alle nostre anime un giusto ritorno verso Colui che aveva tutti i diritti d’abbominarci, e che invece ci ha amati più di se stesso! Diciamo dunque con l’Apostolo : « La carità di Cristo ci stringe, persuasi come siamo ch’Egli è morto per tutti, affinché quelli che vivono non vivano già per loro stessi, ma per Colui ch’è morto e risuscitato per essi » (II Cor. V, 14-15). Tale fedeltà dobbiamo a chi fu nostra vittima, e che fino all’ultimo istante, invece di maledirci, non cessò mai d’implorare ed ottenere per noi misericordia. Un giorno riapparirà sulle nubi del cielo e « gli uomini vedranno, dice il Profeta, chi hanno trafitto » (Zac. XII, 10). Possiamo anche noi essere fra coloro, ai quali la vista delle cicatrici delle sue piaghe ispirò confidenza, avendo riparato col loro amore ogni reato di cui s’erano resi colpevoli verso il divino Agnello!

Confidenza.

Speriamo dalla misericordia di Dio che i santi giorni in cui entriamo producano in noi quella felice trasformazione che ci permetta, quando suonerà l’ora del giudizio di questo mondo, di sostenere senza tremare lo sguardo di Colui che sarà calpestato dai piedi dei peccatori. La morte del Redentore sconvolge tutta la natura: il sole meridiano s’oscura, la terra trema dalle fondamenta, le rocce si spaccano: che ne siano scossi anche i nostri cuori, e dall’indifferenza passino al timore, dal timore alla speranza, infine dalla speranza all’amore; affinché dopo essere discesi col nostro liberatore negli abissi della tristezza, meritiamo di risalire con lui alla luce, irradiati dagli splendori della sua Risurrezione che, recandoci il pegno d’una vita nuova, non potranno più estinguersi in noi.