F. Sarda Y Salvani: MASSONISMO E CATTOLICESIMO -2-

Sarda y Salvany: Massonismo e cattolicesimo -2-

VIII

Il concetto intrinseco e fondamentale del massonismo e la sua opposizione essenziale al cattolicesimo sono posti in una luce più ampia.

Il massonismo non differisce dal naturalismo; ed il naturalismo, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, è la negazione della caduta originale dell’uomo, della sua riabilitazione mediante Gesù-Cristo, e di conseguenza dei diritti individuali e sociali sulla creatura che Egli ha riscattato. Il massonismo non è, come pensano taluni, l’ateismo puro, benché come conseguenza logica, esso conduca là; non è parallelamente né la demagogia né il socialismo, benché per sua inclinazione naturale, conduca infallibilmente la società ai suoi estremi. Esso non è niente di tutto ciò. Il massonismo si sforza di mantenersi nella sfera abitata dai conservatori onesti e saggi a modo loro: esso vuole che la società riposi sui suoi fondamenti; esso è partigiano dell’ordine, dell’equità, del mutuo rispetto delle classi e degli interessi; solo esso vuole tutto questo ma senza Gesù-Cristo, senza il Cristianesimo, completamente fuori dall’atmosfera cristiana. Questo è un problema difficile, ben più, insolubile, perché dopo che la rivelazione cristiana si è compiuta, è impossibile sottrarvisi senza cadere nell’abisso della più orribile anarchia individuale e sociale. Le cose oggi non sono più quelle che erano prima della venuta di Gesù-Cristo. La società o gli individui che non sono stati cristianizzati, possono certamente mantenersi in un certo stato di onestà naturale di cui la storia ci offre qualche raro esempio; ma la società in cui gli individui che hanno conosciuto il Cristo ed in seguito l’hanno rinnegato, non possono, per un giusto castigo del cielo ed in virtù delle inflessibili leggi della logica, evitare di cadere negli abissi profondi della più abietta empietà, del più ripugnante satanismo. È quel che insegna la storia e che dimostra l’esperienza di tutti i giorni. È la ragione è facilmente comprensibile. Colui che non ha conosciuto Gesù-Cristo e non ha alcuna idea della sua rivelazione, può non essere cristiano; questo è un male considerevole, ma non il peggiore di tutti i mali. Ma l’aver conosciuto il Cristo e la sua rivelazione ed in seguito apostatare, non è nulla meno che l’anticristianesimo deliberato e volontario. Tra questi due stati c’è la stessa differenza che intercorre tra la semplice ignoranza della verità e la guerra aperta e dichiarata verso questa stessa verità. Tale oggigiorno è la situazione della massoneria, o meglio, del massonismo. Il suo obiettivo è l’organizzazione di un ordine sociale senza il Cristo; ma per la forza delle circostanze, si vede nell’obbligo di organizzare un ordine sociale contro il Cristo. Esso vorrebbe semplicemente una società non cristiana, secondo il modello di taluni popoli dell’antichità; ma esso giunge invece ad una società anticristiana o satanica. Per parlare più chiaramente, il naturalismo ha potuto un giorno non essere altro che l’assenza più o meno colpevole del sovra-naturalismo; oggi, per forza di cose, il naturalismo non può essere che l’anticristianesimo. Il Papa nella sua celebre enciclica “Humanum genus”, percorre le diverse sfere dell’ordine sociale in cui il massonismo, oggi dominante, lascia vedere più chiaramente la sua influenza naturalista o anticristiana. Sulla sua sequela ed alla luce dei suoi dotti insegnamenti, noi speriamo di mettere queste verità alla portata di coloro che non hanno mai discorso su queste materie, riducendole ai punti seguenti:

La religione,

Lo stato,

La famiglia,

La proprietà,

L’educazione,

L’insegnamento scientifico,

La beneficenza,

Le lettere e le arti, i divertimenti.

Sono invero tanti i problemi in cui si manifesta francamente oggi l’opposizione che esiste tra il criterio massonico ed il criterio cristiano, e del quale la semplice indicazione suppone un programma di studi che comporterebbero non solo qualche breve capitolo su di una rivista popolare, ma volumi e volumi. Quantunque sia, noi pensiamo tuttavia che facendo notare come, su ciascuno di questi punti, al “si” massonico si opponga sempre il “no” cristiano, e reciprocamente, potremo chiarire per un gran numero di lettori certi dubbi che potrebbero derivare relativamente all’universalità ed alla preponderanza del massonismo all’epoca nostra; ed essi vedranno quanto sia vero ciò che noi diciamo recentemente, che cioè: un gran numero di persone che credono, forse in buona fede, di aborrire cordialmente il massonismo e la massoneria, al contrario pensano, parlano, decidono ed agiscono “massonicamente”. È questa una osservazione che non lasceremo mai di ripetere, e che l’estrema pazienza e bontà dei nostri benevoli lettori ci permetterà talvolta ancora di ricordare: perché, non dubitino, è la che si trova il segreto dei nostri mali presenti e della formidabile oppressione che esercita su di noi la tirannica massoneria.

IX

L’opposizione radicale che esiste tra il massonismo ed il cattolicesimo nel modo di intendere il concetto della religione.

Così noi andiamo ad esaminare ad uno ad uno i principali punti sui quali si manifesta la contraddizione essenziale esistente tra la soluzione cattolica e la soluzione massonica. È il mezzo più pratico di mostrare, anche a coloro che sono meno versati in questo genere di studi, quanto sia profondo l’abisso che separa il massonismo dal Cattolicesimo, e più di tutto ciò che c’è di formalmente massonico in un gran numero di idee che professano oggi, senza il minimo scrupolo, taluni uomini che non di meno vogliono farsi passare per onesti cristiani. Il primo problema che si offre all’intelligenza umana, è quello della Religione, o per meglio dire: questo problema racchiude tutti gli altri. Ma noi qui vogliamo unicamente parlare di religione in ciò che l’uomo ha l’obbligo di conoscere di essa; ed è inteso che, parlando di religione, noi non abbiamo da considerare se non la sola vera, la religione Cattolica, apostolica, romana. Stabilito questo, noi andiamo a vedere che il “si” o “no” del contraddittorio del criterio massonico e del criterio cattolico hanno lo stesso punto di partenza. Il massonismo sostiene che la religione è una questione puramente individuale e che riguarda il foro interno di ciascuno; che l’uomo è libero di servire ed adorare Dio nel modo che gli sembrerà il migliore, e che nessuno può essere obbligato o costretto da un altro a praticare questi o quegli atti di religione. Tale è il fondamento sul quale il massonismo stabilisce la sua teoria della libertà assoluta dei culti, che è per esso il primo dei pretesi diritti dell’uomo, il più sacro ed il più inviolabile dei diritti. Così infatti tutti i legislatori moderni, ispirandosi a questo criterio massonico, hanno iscritto in prima linea questo diritto fondamentale, che è stato denominato, con nome sonoro e pomposo, di libertà di coscienza. Il Cattolicesimo sostiene al contrario, che questa libertà di coscienza non esiste; che la rivelazione di Gesù-Cristo è obbligatoria per l’individuo, così come per le nazioni, che l’uomo libero non ha il diritto di vivere al di fuori della fede o di professare delle opinioni che gli siano contrarie, senza fare di debolezza e rendersi disprezzabile; che se l’uomo deve avere incessantemente dei sentimenti di carità e di compassione per colui che si inganna in buona fede, egli deve essere perciò severo nei riguardi di colui che professa sistematicamente l’errore; che nelle società cristiane che vogliono vivere e governarsi cristianamente, è logico che gli attacchi contro la fede siano passibili di pene, come lo sarebbe l’attacco contro un’altra istituzione fondamentale qualsiasi di questa società, e che ugualmente, in queste società, non si può stabilire come base la libertà di coscienza, ma tutt’al più concedere una tolleranza più o meno larga che la si demarchi bene, per Dio! – o in virtù delle circostanze antecedenti e concomitanti, si trovi già stabilito e radicato il fatto di una diversità più o meno considerevole di opinioni in materia di religione. Ma questo fatto, quando realmente esiste, non può mai essere sanzionato come un diritto, ancor meno esser proposto ufficialmente come un progresso, ma ben al contrario, ci si deve sforzare di portarvi rimedio e di farlo sparire, come si farebbe per qualunque calamità sociale. La religione, presso il Cattolicesimo, non è una relazione libera tra l’uomo e Dio, una relazione che ciascuno possa regolare o determinare a suo gradimento. Altrimenti, bisognerebbe considerare come perfettamente legittime e gradite a Dio tutte le impurità, le oscenità e le prostituzioni di coloro che onoravano Venere e Adone nei templi di Cipro; tutte le crudeltà dei sacrifici umani che offrivano a Teutate gli antichi galli; gli orribili festini ove si servivano le carni dei prigionieri che gli Irochesi celebravano in onore della loro falsa divinità; l’immolazione dei genitori anziani che prescriveva ai Massageti una assurda pietà filiale; il sacrificio della vedova sulla catasta di legna nel rogo del marito, come esige il cerimoniale dei funerali in India, o le ecatombe spaventose con le quali il monarca sanguinario del Dahomey solennizza le sue feste. Se è giusto che l’uomo onori la Divinità a suo piacimento, si devono considerare queste mostruosità come lecite, giuste e gradite al Cielo, e colui che vi partecipa non merita più del castigo di quest’altro che predica la falsa Bibbia, o di chi pratica le meraviglie e gli incantesimi dello spiritismo. E il massonismo, o deve ammettere come logiche tutte queste assurdità, o convenire, mediante una rigorosa e razionale conseguenza, che non c’è altra maniera legittima di onorare Dio se non quella con la quale Egli voglia essere onorato, e che essendosi Dio Padre degnato di inviare il suo unico Figlio al mondo per insegnargli col suo esempio e la sua dottrina questo mezzo unico con cui essere servito ed onorato, sarebbe una rivolta contro Dio e contro il suo Cristo, il ricorrere ad altri mezzi, o insegnare che l’uomo è libero di determinare il suo criterio religioso, qualunque esso sia, in opposizione al criterio rivelato dal Figlio di Dio; soprattutto dopo che quest’ultimo ha sigillato il suo Vangelo con queste formali parole, espresse e decisive, che distruggono assolutamente ogni pretesa di libertà umana su questo punto: « colui che crederà e sarà battezzato, sarà salvato; ma colui che non crederà, sarà condannato » [“Qui crediderit, et baptizatus fuerit, salvus erit; qui vero non crediderit, condemnabitur”. Marc, XVI, 16]. Si veda dunque di cosa si fanno eco tutte queste disgraziate vittime dell’illusione che sostiene oggi l’assurda e fallace teoria massonica secondo la quale la religione è una questione libera e puramente interiore, e ciascuno è capace di servire ed onorare Dio a suo modo. È inutile far notare che coloro che pretendono di servire ed onorare Dio liberamente, hanno l’abitudine di non servirLo ed onorarLo affatto in alcun modo, e di non ricordarsi affatto dell’esistenza di Dio. Se si pretende che nessun altro all’infuori di Dio possa giudicare gli atti interiori che non si producono in alcun modo all’esterno, si dice allora la verità, ma una verità di La Palisse [ovvia]: perché se questi fatti sono puramente interni e non producono alcunché all’esterno, essi sono assolutamente occulti, ed è chiaro che essi non cadano e non possono cadere sotto nessuna giurisdizione che non sia la giurisdizione diretta dello stesso Dio, il solo che vede le cose nascoste. È per questa ragione in questo senso che si dice che la Chiesa stessa non può giudicare degli atti puramente interiori; ma questo non vuol dire che tali atti siano liberi. Dio può giudicarli, ed in effetti li giudica in modo terribile; e la Chiesa può imporli come regole, come regole severe, benché non le appartenga propriamente giudicare altrove, se non al tribunale della misericordia, il fedele che viene ad accusarsi.

X

Un altro punto sul quale il massonismo ed il Cattolicesimo sono radicalmente opposti l’uno all’altro, è la maniera di considerare lo Stato civile.

Se esiste un’opposizione radicale tra il massonismo ed il cattolicesimo nel loro modo di apprezzare i rapporti diretti dell’uomo con Dio, ciò che costituisce il problema religioso, la loro opposizione non è meno radicale nel loro modo di esprimere l’idea che essi si fanno dello Stato civile, ciò che costituisce un altro punto egualmente importante. Lo Stato per il massonismo, è indipendente, sovrano, senza altro freno né soggezione che le proprie leggi, che non possono essere emanate da altra autorità che non sia la sua. Lo Stato, massonicamente parlando, è il principio di tutto ciò che costituisce la vita sociale, la fonte dell’autorità, l’autore del diritto, l’istitutore della famiglia, il fondamento della proprietà, il direttore unico dell’insegnamento: in una parola, in qualche modo, è un Dio. Lo Stato, secondo l’espressione paradossale e storica di Rousseau, è il principio di tutte le insanie liberali moderne; esso è come la risultante delle volontà di tutti i cittadini, e pertanto in tutta la sua onnipotente entità, esso rappresenta il diritto libero di tutti, e mostra, per mezzo del suffragio universale, che è la libera volontà dei suoi membri. – E ciò che la maggioranza dei suffragi dichiara buono, è buono; ciò che dichiara come vero, è vero; e non esiste, né in cielo né in terra, alcuna regola superiore a quella, e le sue decisioni sono senza appello. Da questo risulta praticamente che questa indipendenza assoluta dello Stato si trasforma, per tutti coloro che sono sotto la sua dipendenza, in una servitù la più odiosa e degradante. Il dio-stato, in possesso di tali attribuzioni, è un despota orribile, che detta con una brutalità senza uguali le sue leggi capricciose e le impone secondo il suo beneplacito, senza altra forza né prestigio che quello che gli danno la frusta e la sciabola che esso brandisce al di sopra della massa abbrutita. Da lì, per effetto di una reazione naturale della dignità umana, vi è come conseguenza, nel popolo, una continua rivolta contro questo genere di autorità umana divenuta odiosa, e da tutte le labbra sfugge spontaneamente questa esclamazione celebre di un poeta: « chi ha costituito l’uomo giudice dell’uomo? » Perché in effetti, se colui che deve comandarmi e giudicarmi in questa vita non mi comanda e non mi giudica in virtù di un principio che sia superiore a lui e a me, in virtù di quale diritto quest’uomo mi comanda e mi giudica? Questo non può essere per il solo fatto brutale che sia più forte di me. Tale è il fondamento della teoria massonica sui diritti dello Stato ed i doveri del cittadino. Esaminiamo ora l’insegnamento cattolico sul medesimo soggetto. – Il Cattolicesimo insegna che l’uomo è stato creato da Dio per vivere in società, e con tal mezzo ottenere il suo fine eterno. L’organizzazione sociale non è dunque il risultato di un patto o di una convenzione tra i membri di una società come lo ha falsamente preteso Rousseau, ma è l’effetto della volontà di Dio, che ha creato l’uomo per questo fine, e non per altro. La società è dunque divina nel suo fine e nel suo principio. Ed essendo così, le sue basi fondamentali, di cui la prima è l’autorità, sono ugualmente di diritto divino. È così che ogni autorità legittima è di diritto divino. Coloro che si burlano del diritto divino, suppongono falsamente che il Cattolicesimo non lo riconosca che come l’aureola sacra della regalità. Non c’è nulla di più falso. Per la Chiesa, ogni autorità legittima è di diritto divino, che questa autorità sia regale, aristocratica, democratica, o mista. Per la Chiesa, colui che comanda legittimamente non comanda mai né in nome suo, né in nome del popolo; egli comanda sempre in nome di Dio, che solo può autorizzare un uomo a comandare su di un altro uomo suo eguale. Da ciò risulta, come conseguenza di questo divino insegnamento, che colui che comanda, chiunque sia, non è, in questa prerogativa di comando, nessun’altra cosa che il ministro o il rappresentante di Dio, « il ministro di Dio per il bene », come dice San Paolo (Dei minister in bonum, – Rom. XIII, 4), e che non può comandare legittimamente secondo il suo umore o il suo capriccio, ma seguendo le leggi della retta ragione e della rivelazione, precedentemente stabilite. E risulta ancora da questo che colui che governa debba essere il primo a venir sottomesso alle leggi che egli si è incaricato di applicare, supponendo che il rigore non lo abbia fatto con le leggi da se stesso, ma che non abbia fatto che promulgare e prescriverne l’osservazione, considerandole come una semplice applicazione pratica di un’altra legge più elevata, di cui egli si riconosce come il primo e più fedele vassallo. E così, nello stesso tempo in cui si trova applicato il carattere dell’autorità, che acquisisce una sorta di divino riflesso, l’obbedienza si trova parimenti elevata ed nobilitata, poiché in definitiva risulta che essa si applica non secondo il capriccio dell’uomo, ma per un ordine emanato da Dio. – L’insegnamento della Chiesa su queste verità di diritto pubblico cristiano è talmente formale, che se un legislatore o governo comanda, non secondo la legge di Dio, ma secondo il proprio capriccio o secondo il suo buon piacere, essa permette di dargli il nome di “tiranno”, ed essa vuole che, se prescrive qualcosa di opposto alla legge di Dio, non si sia affatto obbligati ad obbedirgli. È così che la dottrina cattolica garantisce con eguale saggezza sia i diritti dell’autorità che quelli della libertà, e risolve con questo il problema complicato delle relazioni tra il capo ed i soggetti, problemi che le costituzioni massoniche moderne si sforzano invano di risolvere dopo tanti anni, e che ogni giorno di più si aggravano. Discorrono dunque parlando da massoni e non da cattolici, coloro che dicono che bisogna curvare la testa davanti ad ogni ordine arbitrario dello Stato, anche a dispetto dei diritti della coscienza cristiana; coloro che professano il principio insensato della sovranità nazionale, e quest’altra insania che tutti i poteri emanano dalla nazione; e quest’altra stupidaggine che pretende che il re ed il parlamento possano tutto, eccetto che fare di un uomo una donna. E discorrono e parlano massonicamente coloro che, nei casi dubbi, in presenza di una legge unica e vessatoria si traggono dall’imbarazzo dicendo: « è una legge dello Stato », come se dopo questo, non vi sia nient’altro da esaminare. Noi sappiamo che, contro questa teoria assordante dello stato-Dio, si sia immaginato recentemente un sistema di contrappesi, basato sulla teoria dei diritti individuali del cittadino, diritti imprescindibili e non soggetti all’azione della legge. Ma siccome la base di questi pretesi diritti individuali non è altro che il puro razionalismo, senza altra legge o regola superiore se non la volontà dell’uomo che deve esercitarli, ne risulta, in senso inverso, lo stesso inconveniente. Con questa brillante teoria si verrebbe a sostituire al dispotismo governativo, l’oligarchia popolare che è, in fin dei conti, il dispotismo delle folle che conduce sempre all’oppressione della minoranza e dei più degni, da parte della moltitudine e dei più audaci. E tutto questo per non ammettere nella società civile un moderatore divino, una legge superiore all’uomo, un Principio soprannaturale! Tutto questo per volere stabilire la società sul naturalismo, emanazione infernale della massoneria!

XI

Come differiscono il massonismo ed il cattolicesimo in ciò che concerne la costituzione della famiglia.

L’opposizione non è meno evidente tra le dottrine che professano il massonismo ed il cattolicesimo rispetto alla costituzione della famiglia. E non potrebbe essere altrimenti, dato che la famiglia è l’elemento sociale per eccellenza, e che è a questo elemento più che a tutti gli altri che deve essere applicato dalla Chiesa il criterio soprannaturale, e dalla massoneria il criterio naturalista o secolarizzante. La massoneria insegna che l’atto costitutivo della famiglia, che è il matrimonio, non abbia assolutamente nulla e che vedere con Dio e con la Religione. L’uomo, essa dice, si unisce alla donna, perché la comunità di natura li chiama a questa unione, di cui alcuna legge divina deve regolarne le condizioni. Ma poiché questo è grossolanamente bestiale per essere accettato senza protesta da parte del genere umano, che malgrado tutto si riconosce superiore in qualche cosa ai cani ed ai cavalli, la massoneria ha inventato, per colore e per rendere meno ripugnante queste unioni senza l’intervento di Dio, una certa falsa sanzione, che è per quanto possibile una imitazione della verità, e che essa ha decorato con il nome di “matrimonio civile”. Così non è più Dio ma lo Stato che si attribuisce il diritto di sanzionare l’unione legale dei due sessi, di prescriverne e determinarne le condizioni. L’assurdità di una tale unione è così evidente, che è sufficiente esporla perché il più cieco la comprenda. Spogliando il matrimonio della sua sanzione divina e soprannaturale, non gli resta che una sanzione umana, che per quanto rispettabile possa essere, non lascerà di essere sempre umana, di procedere dal re o dal parlamento, o dai due insieme. La legge umana non può dunque dare a questo contratto di matrimonio una forza maggiore di quella che da agli altri contratti civili che essa autorizza o instituisce. Ebbene, negli altri contratti, la legge non può imporre altri obblighi che quelli che i contraenti vogliono imporsi; ed anche ognuno di essi può aggiungere al contratto le condizioni, restrizioni o riserve, che stipulano d’accordo con l’altra parte contraente. Il matrimonio resta dunque ridotto alle condizioni di un qualunque contratto, o meglio di un semplice “traffico” secondo una espressione che non è senza grazia, di un ingegnoso scrittore. In questo “traffico”, al quale le parti interessate sono libere di aggiungere o togliere le condizioni che detta loro la libera volontà, non è di conseguenza, non è che più o meno l’annullamento completo della legge coniugale, una vera abolizione del matrimonio [“il contratto della vacca”]!. I massonizzanti obiettano che è precisamente per la conservazione di questo legame che è stata stabilita la legge; che nessuna unione ha effetti civili e di sanzione più garantita e quindi di formalità legali che il suddetto matrimonio civile. Vana osservazione! Innanzitutto è un capriccio dispotico della legge volere intervenire, in nome del solo uomo, in un contratto come questo, imponendo delle leggi così assolute, mentre si lasciano tutti gli altri contratti alla libera e sovrana disposizione dei contraenti. La logica è nell’uomo più potente che un articolo di legge; e quando questo articolo è illogico e sconclusionato, allora la legge perde la sua forza e la sua autorità, nel pensiero di coloro che devono rispettarla. Così nel caso presente, la legge ad esempio prescriverà, opportunamente e ragionevolmente, che un uomo non possa sposarsi che con una donna, che questa unione sarà indissolubile, e che non possa contrarsi con questo o quest’altro grado di parentela. Tuttavia, poiché essa non prescriverà tutto ciò in virtù di un principio superiore, di una legge superiore, di una legge divina, ma perché così è sembrato buono al legislatore monarchico o democratico, cioè a giudizio di un uomo, ad un certo momento, un comune cittadino, anch’egli uomo come colui che ha proclamato questa legge, dirà: « Se due donne acconsentono a vivere con me in un onesto matrimonio, non lo possono fare? E se una o più donne [oggi pure uomini, e un domani forse anche delle bestie! –ndr.-] contraggono con me questa unione, e conveniamo tra noi tre che questo contratto non sarà valido per un certo tempo, riservandoci il diritto di rinnovarlo o dissolverlo ogni anno, ogni cinque anni, o ogni mese, o in ogni istante, perché non lo possiamo? E se vogliamo contrarre questa unione con i nostri cugini, nipoti, zii, ed anche con i nostri fratelli, chi potrà impedirlo? In cosa i diritti di altri sarebbero lesi? Quale legge generale sarebbe violata? Non si è visto all’inizio del mondo, queste unioni contrarsi necessariamente tra i parenti più ravvicinati? La poligamia non è stata in diversi popoli una legge generale? E dopo tutto, perché queste cose siano possibili, non è sufficiente che gli interessati lo vogliano, senza pregiudizio per terzi? Se si ritiene inutile l’intervento di Dio nel contratto coniugale, perché comparire davanti al sindaco o il giudice? Se il matrimonio è una pura funzione umana, non è sufficiente all’uomo ed alla donna usare del loro rispettivo umano diritto per essere uniti? Così può ragionare ogni Cittadino contro la legge massonica; e la legge massonica non può rispondere a questa argomentazione che deriva dal semplice buon senso. Ma quando anche la legge umana trovasse tanta forza morale ed un diritto sufficiente per dare una sanzione conveniente ad un atto così grave come quello in questione qui, è certo che oggi la legge umana, precisamente perché si è privata del suo fondamento che è la legge di Dio, non è sicura essa stessa di ciò che prescriverà domani, in opposizione a quanto essa prescrive attualmente. Spieghiamo ancora il nostro pensiero. Il voto di un parlamento ha stabilito oggi che l’uomo e la donna sono legittimamente sposati con la sola formalità della loro dichiarazione davanti al sindaco o al giudice, in tal modo che essa è oggi matrimonio, perché lo ha stabilito così il voto di un parlamento. Di conseguenza, domani non sarà più lo stesso, se un nuovo voto del parlamento decide diversamente. Così la formalità augusta del legame coniugale, base della famiglia, dipenderà sempre da una maggioranza di deputati che avranno stabilito che il matrimonio debba essere considerato come stabilito in questo o quest’altro modo. Questa maggioranza potrà decretare che il legame che unisce l’uomo e la donna non è individuale, ma sia possibile la poligamia o la poliandria, e tale sarà la legge, se decide in tal modo; essa potrà votare che il contratto matrimoniale sia temporaneo e non più perpetuo, e questa legge dipende dal loro voto; esso potrà stabilire ancora che gli sposi possano divorziare a richiesta dei due coniugi o di uno di loro, come stanno per fare i rivoluzionari francesi, e tale sarà la legge, in ragione del loro voto! Ed in virtù di un criterio razionalista e massonico, la giurisprudenza più scrupolosa non potrà opporvisi per nulla. Che si voglia costatare se sia si o no, è certo che la pretesa istituzione del matrimonio civile, provochi radicalmente con essa la distruzione di ogni vero matrimonio, e che non sia niente altro che una maschera sotto la quale si nasconda momentaneamente per confondere il popolo che non vede dove lo si vuole veramente condurre. È qui necessario mettere in opposizione con gli odiosi insegnamenti della massoneria sul matrimonio, la dottrina della Chiesa cattolica sul medesimo soggetto? Non credo, tutti i nostri lettori la conoscono sufficientemente. La Chiesa Cattolica insegna l’istituzione divina del matrimonio, considerata sia nel Cristianesimo, sia fuori da esso. Fuori dal Cristianesimo, prima della sua apparizione e nei paesi dove non ancora è brillata la sua luce divina, l’uomo e la donna si uniscono non in virtù di un diritto che conferisce loro lo Stato, secondo delle formalità prescritte dalla legge civile, ma in virtù di un principio di ordine superiore stabilito da Dio all’inizio del mondo, quando ha detto: « l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua sposa, ed essi saranno una sola carne ». Così, al pari della legge naturale, è la sola volontà dei contraenti che costituisce davanti a Dio il matrimonio; tutt’al più interviene l’autorità del padre di famiglia a benedire e sanzionare questa unione. Nelle religioni positive, pur tra tante grandi stravaganze, è sempre la Religione che si presenta per autorizzare e consacrare il matrimonio. Il Cristo l’ha elevato alla dignità di Sacramento, ed ha dichiarato che esso è il simbolo della mistica unione che esiste tra Lui e la sua Chiesa; e dopo averlo così elevato, ha lasciato alla sua Chiesa la cura di determinarne le regole e le circostanze, di garantirne l’unità e la perpetuità, sottraendo queste leggi al capriccio incostante degli uomini ed alla instabilità delle leggi umane, spesso così capricciose quanto gli uomini dai quali esse emanano. Che si dica ora se il massonismo ed il Cattolicesimo non siano in opposizione radicale relativamente al loro rispettivo concetto del matrimonio! Che si dica ancora quale dei due principi pervenga meglio ai fini sublimi del matrimonio, dell’onore della donna, alle prerogative ed alla dignità umana!

XII

Opposizione radicale tra il massonismo ed il cattolicesimo nel loro modo di considerare i diritti della potestà paterna.

Il massonismo insegna ancora delle mostruosità le più enormi relativamente alla famiglia; esso non si contenta di insegnarle, le mette in pratica. È questa una conseguenza del modo di organizzare unicamente “al civile” questa istituzione fondamentale, e dell’assurdo principio che ha prevalso e secondo il quale la famiglia è una creazione della legge civile, da cui essa trae la sua esistenza e la sua forza. Il massonismo fa ancora un passo in più: esso afferma infatti che tutti i diritti che nascono dal matrimonio non sono, secondo il suo pensiero, che una creazione dello Stato, e sono unicamente sottomessi allo Stato. Da ciò risulta che il primo e principale di questi diritti familiari, quello conosciuto con il nome di “potestà paterna”, non appartenga ai genitori che in virtù di una concessione supposta dalla legge civile, e nella forma e secondo la misura che le piace accordare. Da qui nasce il diritto che si arroga lo stato massonico sull’educazione, che esso decora pomposamente con il nome di “educazione obbligatoria”, e che è uno dei punti essenziali del programma che la massoneria annuncia e prepara per l’avvenire. Così il padre e la madre, secondo questo orribile sistema, dando la luce ai propri figli, esercitano non una funzione naturale, bensì una funzione sociale, questi figli appartengano loro per conto dello Stato che, in qualche modo, è il loro supremo signore, per cui i figli stessi sono dello Stato, prima di essere dei loro genitori: lo Stato ha giurisdizione su di essi ancor prima dei genitori. Questo è un despotismo orribile, che trasforma le famiglie in semplici centri di allevamento ad uso di questo feroce tiranno, maestro di tutta la gioventù: dispotismo brutale e disumano, che si è proposto come un nuovo dogma rigeneratore dell’umanità all’epoca della rivoluzione francese, e che dopo di essi è stato, in modo più o meno dissimulato, il fondamento obbligato di tutte le legislazioni ispirate dalla massoneria. – E tuttavia questi principi sono falsi, mostruosamente falsi, contrari ad ogni diritto positivo e naturale. La famiglia non è una creazione dello Stato. Al contrario, si potrebbe con più ragione dire che lo Stato è una creazione, un’amplificazione della famiglia, perché non si concepisce lo Stato senza delle famiglie già esistenti, raggruppate o ingrandite per costituirlo. I diritti della famiglia non vengono dunque per concessione dello Stato, e non è lo Stato che conferisce ad un padre la sua autorità paterna; tutt’al più la riconosce e ne regola l’esercizio. È dunque una menzogna, una grossolana menzogna, dire che i figli appartengano allo stato prima di appartenere ai genitori, e che essi li danno alla luce per conto dello Stato per cui questi ne possa disporre a suo buon grado, a sua volontà e piacimento. Di conseguenza, il principio sul quale si fonda l’educazione obbligatoria è parimenti una menzogna: lo Stato non può obbligare il padre ad allevare suo figlio in questa o quella maniera, o impedirgli di allevarlo a suo gradimento, secondo le regole o le condizioni che gli impone la sua coscienza, in accordo con un’altra Legge più elevata. È dunque una tirannia contro natura, inumana, antisociale ed antireligiosa, pretendere di imporre ai popoli questo modo di considerare l’istituzione domestica nei suoi principi e nei suoi diritti essenziali. – Non è così che la Chiesa l’intende; al contrario, Essa che viene accusata di opprimere tutte le libertà, è in questo, come in tutto il resto, la guardiana zelante dei diritti della vera libertà. Essa insegna che i padri hanno dei figli che vengono loro da Dio, che li ha costituiti padri unicamente allo scopo più nobile di procurare a Se stesso nuovi servitori e nuovi eredi del suo Cielo, ed anche allo scopo di dare alla patria dei buoni ed onesti cittadini. La Chiesa riconosce al padre e alla madre il diritto ed il dovere di allevare i loro figli per questo fine supremo; ma Essa è gelosa dei diritti della libertà naturale, al punto tale che se un padre ed una madre non appartengono per battesimo alla sua giurisdizione, essa si considera impedita nell’intervenire nell’educazione del fanciullo, fino a che egli non abbia raggiunta l’età di agire e pronunziarsi secondo la propria coscienza. È così che è severamente proibito battezzare i figli degli infedeli contro la volontà dei loro genitori, eccetto quando uno di essi almeno sia soggetto alla Chiesa per Battesimo. La Chiesa considera come un attentato contro il diritto naturale l’educazione di un figlio minorenne nella Religione Cristiana contro la volontà espressa di suo padre e di sua madre non battezzati. E più tardi, quando il figlio è giunto alla sua maggiore età, la Chiesa non lo ammette alla professione religiosa senza il permesso dei genitori, quando essi hanno bisogno dei loro figli per sovvenire a qualche loro fabbisogno; e non è che nel caso in cui il rifiuto dei genitori sia assolutamente irragionevole e senza fondamento, o perché questa presunta necessità non esista, che il figlio maggiorenne è ammesso nella Chiesa per abbracciare lo stato religioso senza il permesso dei genitori. Con quale delicatezza quindi la Chiesa rispetta tutti i diritti naturali! Essa li rispetta infinitamente più che il naturalismo, che non è che la contraffazione del vero diritto naturale, come il liberalismo è la contraffazione della vera libertà, ed il razionalismo è la contraffazione di tutto ciò che è veramente ragionevole. Tuttavia, o cecità! Le legislazioni che si sono ispirate a questo principio cristiano, sono chiamate tiranniche ed oppressive della dignità umana; le si accusa di violare i diritti della natura, di profanare il focolaio domestico. E quelle, al contrario, dalla setta massonica, ispirate dal suo grossolano materialismo, sono proclamate libere, nobili, patriottiche, adatte ad elevare il cittadino. È così che si giunge direttamente a questa condizione ignominiosa ed abietta della famiglia, nella quale i figli non sono che una “cosa” della nazione, “carne da macello” a disposizione del capo supremo, se questo si impegna in imprese militari che renderanno il suo nome odioso; “materiale da officine”, se non ha lo spirito militare, ma lo spirito da burocrate, che domina la nazione. È là che ci conduce a passo da gigante la massoneria, man mano che il suo soffio infernale riesce a strapparci alla Chiesa. Essa emancipa l’uomo, è vero, ma strappandolo dal seno e dalle braccia di una Madre tenerissima, e per sottometterlo, mani e piedi legati, al regime della verga, unico scettro che possa convenire per governare una società caduta in sì profonda abiezione.

XIII

Quanto differiscono essenzialmente il massonismo ed il Cattolicesimo nei loro princìpi sulla proprietà.

 La proprietà è una delle altre istituzioni fondamentali della società che hanno subito l’azione distruttiva del massonismo. E doveva essere logicamente così: una volta distrutta o considerevolmente alterata la nozione di famiglia, quella della proprietà, che è tanto rassomigliante ad essa, doveva prima o poi avere una sorte analoga. Così il concetto massonico della proprietà, conformemente a ciò che abbiamo visto per il matrimonio, non è né più né meno che la distruzione della proprietà. Il massonismo considera la proprietà non come un diritto naturale dell’uomo, diritto anteriore alla sua condizione di cittadino, ma come una creazione del diritto civile, e pertanto subordinato in tutto alle disposizioni arbitrarie del dio-stato. È così che abbiamo visto lo Stato, per motivi di pura convenienza personale, dichiarare nulla la proprietà sacra appartenente ad una comunità, proprietà che riposa tuttavia sui diritti uguali a quelli della proprietà secolare e privata; ed anche fare delle leggi per la proprietà e ripartirne i carichi, così come per regolarne il godimento e la trasmissione, al punto tale che il proprietario è finito non essere nient’altro che l’amministratore dei suoi beni o una sorta di usufruttuario privilegiato. Tutto questo deriva dalla falsa nozione che si ha di questa verità, la più delicata dopo il matrimonio. Lo stato massonicamente costituito, benché non lo dica chiaramente, viene a costituirsi come il proprietario assoluto di tutti i beni dei cittadini, allo stesso modo di come si considera proprietario di tutti i loro figli. Con questo principio, esso annulla il sacro diritto della proprietà, secondo il suo beneplacito, così come ha distrutto già il diritto della Chiesa e delle comunità per mezzo della disammortizzazione; esso rende inoltre impossibile il libero uso di questa proprietà, uso che è essenziale, per mezzo delle leggi della disaggregazione (o espropiazione): per i più futili motivi, esso spoglia i cittadini contro la loro volontà, come frequentemente si vede oggi, per mezzo della facoltà sì largamente concessa della espropriazione forzata; senza parlare poi dell’arroganza con la quale tratta, come abbiamo costatato, le questioni dell’eredità e della trasmissione delle proprietà. Così lo stato massonico, senza professare apertamente il socialismo, che abbandona quanto alla forma ed al nome, non però quanto al fondo, ai demagoghi della strada e dei clubs; … senza professare, io dico, apertamente il socialismo, lo stato massonico è nel suo spirito, nei suoi fini ed in diversi suoi processi, perfettamente socialista. Si è al punto che se il socialismo puro e senza veli riuscisse un giorno a prevalere nella prassi, esso non avrebbe nulla da inventarsi per impiantare le sue orribili teorie; gli sarebbe sufficiente generalizzare i principi che il criterio massonico e liberale hanno precedentemente stabilito, e dedurne tutte le conseguenze logiche e tutte le applicazioni. – La dottrina del Cattolicesimo sulla proprietà è in assoluta contraddizione con tutto questo. Il Cattolicesimo riconosce la proprietà come un diritto naturale ed inerente alla personalità umana. Secondo il Cattolicesimo, l’uomo è proprietario così come socievole, come uomo, per natura, cioè per volontà espressa di Dio. Così anteriormente a tutte le legislazioni civili, l’uomo era già proprietario, nessuno poteva, ad esempio, spogliarlo del prodotto della sua caccia, o del frutto dell’albero che egli aveva piantato, o dell’opera delle sue mani. Le legislazioni civili non possono dunque spogliare arbitrariamente nessuno della sua proprietà; esse non possono fare altro che garantirne e regolarne l’esercizio, perché il cittadino goda dei suoi beni senza pregiudizio per gli altri. Ma esse non possono strappargli i suoi beni sacri ed inviolabili, come si è fatto nel nostro secolo con tante leggi ingiuste, che non sono, considerandole secondo i princìpi della morale e del diritto, che degli atti di brigantaggio legale. Questa nozione molto elevata della proprietà, deriva, come per l’autorità e la famiglia, dal considerarla non una creazione dell’uomo, bensì una istituzione divina; a questa nozione della proprietà di diritto divino, opposta a quella nozione menzognera della proprietà di diritto umano, il Cattolicesimo ha aggiunto la sanzione del settimo precetto del Decalogo, che più che la proibizione del furto, è in realtà una consacrazione del diritto di proprietà. Questo comandamento difende dal furto e dalla rapina, non solo ai soggetti particolari, ma pure agli Stati ed ai governi; ed è appoggiandosi ad esso che l’Antico Testamento maledice la memoria di questa regina Gezabele che si impadronì della modesta vigna del povero Naboth, e che la Chiesa ci offre nella storia dei suoi Vescovi, la grande figura di san Giovanni Crisostomo che si presenta coraggiosamente alla presenza dell’imperatrice Eudosia per esigere la restituzione di alcune monete ad una vedova sventurata, alla quale questa maestà imperiale le aveva sottratte. È così che la Chiesa intende il diritto di proprietà ed il settimo comandamento. La proprietà di diritto umano o di pura istituzione civile, come la intende e la pratica il massonismo, è sufficiente indicarlo qui, è esposta, relativamente alla sua sicurezza legale, agli stessi rischi e pericoli che abbiamo menzionato parlando del matrimonio. Se la proprietà è una pura creazione del diritto positivo umano, essa è soggetta, come quello, alle variazioni ed alle vicissitudini che possono provenire da un cambio di legislazione. E siccome la legislazione cambierà con il potere legislativo, quando, con qualche colpo di rivoluzione oggi assai probabili, il paese si lascerà imporre una camera legislativa composta da elementi socialisti, formando una maggioranza parlamentare, questa camera potrà votare semplicemente l’abolizione della proprietà, o la sua riorganizzazione secondo l’ideale del collettivismo, o semplicemente la sua ripartizione eguale tra tutti i cittadini, conformemente al sistema comunemente ammesso dai partigiani della teoria socialista. Una camera legalmente costituita può emettere un voto del genere, e nessuno potrà legalmente né impedirlo, né disprezzarlo; e non c’è giurisprudenza al mondo, stante i principi massonici, che possa tacciare questo voto di assurdità: essa deve riconoscere come perfettamente logica, soprattutto se una tale camera socialista ricordi, nelle considerazioni o nei preliminari di una sua legge futura, che una tale abolizione della proprietà non è una cosa nuova, ma che è stata già messa in pratica da alcuni anni, contro la Chiesa, senza il nome di disammortizzazione, e che grazie ad essa, si vedono figurare, come proprietari, un gran numero di coloro che sono oggi i detentori di questi beni. Io lo chiedo al giureconsulto più furbo, cosa si può rimproverare ad una tale legge, ammettendo le teorie massoniche? I poveracci che essa ha spogliato, potranno qualificarla come un attentato odioso e criminale, ma il popolo, la scienza ed il buon senso saranno forzati a chiamarla una legalità! Tale è la conseguenza dell’esclusione dell’idea di Dio dalle umane istituzioni. Non c’è alcuna di questa istituzioni che non resti come sospesa in aria, se gli si toglie il fondamento divino, perché l’ordine sovrannaturale è la condizione indispensabile dell’ordine naturale. Tutto ciò che concerne l’uomo, può, a prima vista, sussistere qualche tempo senza Dio, ma ben presto arriverà il languore e la morte. È così che un albero al quale abbiano tagliato segretamente la principale radice, non vede già nei primi giorni sfiorire i suoi rami; ma infallibilmente non tarderà a vederli disseccare e morire, privi della linfa necessaria. Bisogna inoltre notare che ciò che concerne l’uomo, senza cessare di essere soprannaturale e divino, può essere semplicemente umano, come abbiamo già detto in precedenza, a meno che non divenga francamente satanico. L’uomo non può vivere emancipato e senza avere un maestro, come sogna nel suo insensato orgoglio. Se si detronizza Dio, questo trono lasciato vacante sarà immediatamente occupato dal demonio!

XIV

Dottrina del massonismo e del Cattolicesimo sull’educazione pubblica.

Seguendo il programma che abbiamo tracciato per mettere in rilievo le divergenze essenziali delle dottrine che separano il massonismo dal Cattolicesimo, ci accingiamo a parlare in questo momento dell’educazione, che è uno dei punti sui quali esiste l’opposizione più radicale tra i criteri di ognuno di essi. Il massonismo ed il Cattolicesimo si trovano nello stesso tempo in presenza di un fanciullo ed essi convengono che questo ragazzo, oltre agli alimenti materiali che nutrono il suo corpo, abbia bisogno di un alimento morale che nutra il suo spirito; essi si accordano anche nell’ammettere che l’educazione è necessaria. Il Cattolicesimo vede nel fanciullo un essere che Dio ha creato a sua immagine e somiglianza, ma un essere degradato, corrotto dal peccato originale, che ha fatto nascere in lui una moltitudine di germi che conviene combattere nonché delle cattive inclinazioni che occorre reprimere. È un campo in cui non si può sperare di raccogliere bei fiori o bei frutti se non quando non si sia gettata una buona semenza, che si dovrà irrorare in tempo conveniente, alla quale si attaccheranno costantemente delle erbe cattive da estirpare, in una parola: si dovrà coltiverà con estrema cura. – Se non dovesse essere così, egli non resterà sterile e senza vegetazione, ma produrrà in abbondanza dei frutti velenosi pieni di ogni genere di perversione e di malizia. E queste cure, che consistono nel mostrare a volte tenerezza e talvolta severità verso il bambino, talvolta nell’incoraggiarlo e talvolta nel fargli delle reprimende, costituiscono quella che nel Cattolicesimo si chiama “l’educazione”. Perché queste cure producano dei buoni risultati, la prima nozione da inculcare al fanciullo, è la legge morale, che egli deve rispettare, e la sanzione eterna di questa legge che deve sperare o temere secondo che l’osservi fedelmente o la violi. E siccome egli non può avere legge senza legislatore, né sanzione legale senza giudice che l’applichi, bisogna cominciare ad inculcare allo spirito del fanciullo l’idea di Dio, che è il Legislatore invisibile, la cui autorità dà la sua forza alla legge, ed il giogo che, mediante castighi o ricompense, procura l’osservanza della legge. Così con i consigli, le massime, gli esempi ed i soccorsi del suo organismo divino, che è la Chiesa, il Cattolicesimo crede di possedere il sistema di educazione migliore, il più perfetto ed il più ragionevole, il solo che permetta di dirigere il fanciullo fin dalla prima età, a dominare i suoi affetti ed i suoi sentimenti più intimi. Tale è l’educazione cattolica, basata interamente sull’ordine naturale. – Il massonismo procede in modo ben diverso, secondo il suo criterio grossolanamente naturalista. Esso prende il fanciullo, e comincia ad ingannarsi nell’idea fondamentale che se ne fa: esso lo considera non come un essere viziato dal peccato originale, ma come un essere perfetto, nel pieno possesso di se stesso, ed in tutta l’integrità della sua perfezione morale. Si domanda allora: se il bambino è perfetto e in lui non c’è nulla di vizioso o di sregolato, a cosa gli può essere utile l’educazione? A nulla assolutamente! La dove non c’è da combattere il germe cattivo e le tendenze colpevoli, ciò che si deve desiderare è che l’albero cresca secondo tutta la sua naturale esuberanza, senza che il ferro del giardiniere venga a tagliare alcuni dei suoi rami più rigogliosi. Converrà allora istruirlo, non allevarlo: che egli apprenda le lettere, i logaritmi, la geografia, la fisica, la chimica, la storia, la musica e la ginnastica, perché il maestro non si occupa di formare il cuore. Egli ha così tutto ciò di cui ha bisogno per il suo perfetto sviluppo. E seguendo questo processo, molto logico, dato che si parte dalla negazione del peccato originale, è inutile parlare al fanciullo di Dio o della Religione, e di tutto ciò che vi si riconduce: ecco come logicamente viene giustificato quel che si chiama “l’insegnamento laico”, novità che la massoneria si sforza da alcuni anni di introdurre nel nostro paese. I nostri lettori vedono allora chiaramente in cosa consista la differenza essenziale che passa tra il massonismo ed il Cattolicesimo nel modo di concepire i fondamenti relativi all’educazione? Il semplice buonsenso è sufficiente a portare su questo punto un giudizio imparziale. L’uomo non nasce perfetto, come la massoneria vorrebbe supporre; l’uomo nasce e cresce non con una sviluppo pacifico, ma in mezzo a battaglie penose e continue contro di lui e quasi tutto ciò che lo circonda: l’opera dell’educazione consiste dunque nell’insegnargli a combattere per facilitargli la vittoria. E quali armi gli dà per combattere, quali lezioni gli offre, per affrontare questa lotta, l’educazione laica o senza Dio? Nessuna, assolutamente! Al contrario essa permette che si sviluppino in lui tutti gli istinti cattivi, che sono appunto i principali nemici da combattere, facendogli carezzare oltretutto l’idea di una totale indipendenza che non si accomoda con alcun pensiero di soggezione o di repressione. Essa le lascia aperte con lamentevole temerarietà tutte le vie di uscita attraverso le quali le passioni possono prodursi con foga ed impetuosità, una volta allentate le potenti molle che la Religione sola è in grado di comprimere e regolarne l’esercizio, molle che essa qualifica come insensate superstizioni. Essendo il fanciullo imbevuto di queste idee, ne risulterà necessariamente che, se ha un “sangue vivo”, diventerà una belva feroce; se ha invece un temperamento indolente, sarà un suino di Epicuro, mai un uomo capace di portare sulla sua fronte, non diciamo la nobiltà del cristiano, ma neppure la dignità di un uomo ragionevole.

XV

Cosa pensano il massonismo ed il Cattolicesimo dell’insegnamento ufficiale

 Dal momento che il Cattolicesimo ed il massonismo differiscono essenzialmente quando si tratta di precisare e di fissare ciò che si intenda ordinariamente per educazione, si potrà giudicare come ancora più profondo sia l’abisso che li separa nella questione dell’insegnamento. Qui tuttavia c’è un vantaggio: l’opposizione mutua dei due sistemi è più franca e più evidente; qui il velo di copertura non serve e non impedisce di conoscere fin dal primo momento quali siano i nemici contro i quali il Cattolico sincero del nostro tempo debba guardarsi. Il Cattolicesimo ci insegna che ogni insegnamento debba essere subordinato al dogma, per aver con esso una relazione più o meno diretta. La ragione è chiara: ciò che si chiama la scienza, anche nel suo concetto più degno e più elevato, non è ordinariamente la verità certa, bensì la verità presunta, o la verità che si ritiene essere tale, nonostante gli esempi molto frequenti che le teorie più autorizzate ed universalmente accettate, poco tempo dopo sono state annoverate come tra i più celebri paradossi. Essendo lo spirito umano essenzialmente fallibile, non si può avere un’altra idea della verità filosofica o scientifica. Non è così per la verità religiosa, nella sua parte formalmente dogmatica e definita: essa è la verità certa, fissa, oggettiva, indipendente da scoperte del domani o del secolo seguente; la verità una, immutabile, indefettibile, eterna come Dio. È dunque una regola rigorosamente scientifica che la verità puramente presunta ed ipotetica sia subordinata alla verità fissa ed assoluta, che questa sia la pietra di paragone per verificare la verità di quella; che ciò che è conosciuto come certo “a priori”, sia base e guida di cui ci si possa servire per verificare, accettare o rigettare le conoscenze acquisite posteriormente. Ecco perché il Cattolicesimo esige che tutto l’ordine delle conoscenze umane parta da questo principio in cui tutti i suoi insegnamenti dogmatici sono indiscutibili, e bisogna che si resti fedelmente e scrupolosamente attaccati ad essi, senza permettere il minimo scarto, con il pretesto della “libertà”. È così soltanto che si insegna e che si apprende in modo cattolico. In questo sistema, siano rese grazie a Dio! Non arresta in nessuno né è di danno al legittimo slancio dell’intelligenza umana; esso anzi lo favorisce, al contrario dandogli dei principi certi, come lo prova l’esperienza ripetuta centinaia di volte, che mostra in tutti i tempi i geni più sublimi che abbracciano con lo sguardo vasti orizzonti ed estendono il campo delle loro investigazioni, benché il Cattolicesimo esiga da essi questa subordinazione espressa ai suoi dogmi infallibili. Al contrario, per la larghezza di vedute, l’elevazione delle idee, la fecondità delle scoperte, la profondità dei ragionamenti, i figli delle fede hanno potuto in tutti i secoli accettare di essere messi in parallelo con i partigiani del libero pensiero. Essi lo possono ancora oggi, certi che questi ultimi resteranno ben lontano dietro ad essi. L’insegnamento organizzato massonicamente si dichiara in tutto e per tutto, “libero pensiero”. Tale è disgraziatamente quello che oggi si applica in quasi tutti i centri ufficiali, anche nella nostra Spagna. Secondo le dichiarazioni molto serie che abbiamo raccolto con impressione di orrore dalla bocca dei funzionari che malgrado tutto vogliono considerarsi cattolici, il professore è tenuto a chiudersi entro i limiti di una certa prudenza, senza offendere ciò che è legalmente reputato come inviolabile; anche se non si riesce oggi a capire cosa si intenda con questo, tanto sono divenuti labili ed incerti i limiti di questa inviolabilità. La scienza, o ciò che viene spacciato sotto questo nome, è dunque libera, al punto da permettersi ogni specie di arditezze e licenze, ivi compresa quella di insegnare che l’uomo sia nato da un orango-tango perfezionato, o che Dio non è che un puro fantasma della superstizione popolare. Massonicamente parlando, tali sono i diritti della scienza, tali i privilegi dell’insegnamento. E se qualcuno forma così la gioventù, e aggiunge ai suoi insegnamenti i principi della morale calcati sulla teoria del libero amore o sui funesti programmi della liquidazione sociale, non può essere logicamente né rimproverato né impedito. È vero che il massonismo dottrinale e viscido non tollera tali applicazioni del criterio del libero pensiero, ma questo prova soltanto che il massonismo, oltre che falso, è in più incoerente nella sua falsità, cosa che lo rende doppiamente iniquo ed odioso. In effetti, se non si ammette per la scienza il freno del dogma cattolico, perché ammettere quello del governo? Se la Chiesa non ha il diritto di esigere, in nome di Dio, il rispetto di certe verità, con qual diritto il ministro può esigere che si rispettino come inviolabili certi principi o istituzioni sociali? O l’intelligenza umana è libera, nella sua marcia e nei suoi sviluppi, di andare ove gli piacerà o dove non è: se essa è libera, lo è interamente; ed allora che la si lasci andare liberamente e senza alcun ostacolo. Rendiamo più chiara questa verità. Datasi una certa linea, con i principi massonici si può avere l’unica conseguenza della franca proclamazione della libertà confessionale, senza il timbro dell’Università. Ma questo non conviene alla setta, che sa in modo certo che sul terreno della libera concorrenza, sarebbe battuta dall’insegnamento cattolico. Alla setta conviene il monopolio ufficiale, l’insegnamento con l’avallo razionalista dello stato, che si costituisca per questo suo unico depositario e dispensatore legale. È così che si è creato ciò che nessun altro secolo aveva conosciuto, « l’idolo dello stato insegnante », così come abbiamo visto parlando della proprietà, del matrimonio e della patria potestà. Come risultato si ha l’odioso assoggettamento del cittadino al dominio di una tirannia cento e mille volte più ignominiosa di quella che, come si è preteso fraudolentemente, abbia mai oppresso altre volte l’insegnamento sottomesso al nobile Magistero della Chiesa di Dio.

XVI

Cosa pensano il massonismo ed il Cattolicesimo sull’insegnamento ufficiale (…seguito)

La tirannia massonica dello Stato insegnante, di cui abbiamo parlato in precedenza, irrita tanto più quanto più è giustificata e quando viene esercita in una nazione esclusivamente o quasi esclusivamente Cattolica, così com’è per fortuna, la nostra Spagna, al riparo dei sogni della Rivoluzione. Succede così che alla violazione brutale dei diritti della verità religiosa si aggiunge la violazione non meno empia dei diritti dei cittadini, malgrado le continue proteste con le quali lo stato massonico o liberale si dichiari con zelo protettore e guardiano di questi stessi diritti. In effetti chi può negare che i padri di famiglia cattolici, anche coloro che praticamente lasciano a desiderare sotto il rapporto del Cattolicesimo, desiderino tutti per i loro figli l’insegnamento cattolico? Chi può disconoscere che questi padri di famiglia costituiscano ancora oggi la maggioranza, o la quasi totalità dei contribuenti? Tuttavia chi dei nostri lettori si ferma per contemplare con orrore ciò che accade? Che si fermino quindi a contemplare questa infamia, che non ha ancora fissato la loro attenzione: essi pagano l’insegnamento ufficiale, danno i loro soldi ai maestri, sostengono le università, le istituzioni, le scuole normali e primarie; essi sostengono tutto questo con i loro contributi dapprima, e poi con la loro adesione ed i loro nomi iscritti sui registri delle matricole, quando affidano i loro figli a queste istituzioni. Sembrerebbe dunque che pagando l’istruzione che è venduta loro sicuramente a caro prezzo, essi debbano almeno ottenere che sia conforme al loro desiderio ed alla loro volontà. Ma non è affatto così: lo stato vende il “suo” insegnamento, lo vende caro, lo vende con privilegio esclusivo, non permettendo che si consideri valido ciò che non sia di gusto né di colui che lo paga, né di colui che lo riceve, condizione che si considera obbligatoria in ogni contratto di vendita; ma al contrario esso dà questo insegnamento contro la volontà e gli interessi dell’uno e dell’altro, violando così con il suo dispotismo professorale, i diritti del portafoglio, della dignità e della coscienza. Lo Stato insegnante, convertito in un mercato di programmi, li offre in cambio di denaro buono e sonante … dopo averli falsificati ed avvelenati; ed il dio-stato non arrossisce nel praticare ciò che ogni giorno punisce in ogni individuo che altera un commestibile o una bevanda! Ed il padre, il povero padre deve pagare con il suo denaro l’avvelenamento morale di suo figlio, e acconsentire a questo avvelenamento, almeno nel caso in cui voglia fargli abbracciare una carriera: perché lo stato massonico ha tagliato tutti i canali dell’acqua della scienza, obbligando tutti i cittadini a non poter bere se non alla sua sorgente mefitica ed avvelenata, onde ottenere un diploma che metta i loro figli in condizione di entrare in una facoltà o di esercitare una professione. Questa tirannia è simile a quella che utilizzavano negli ultimi tempi della persecuzione contro il Cristianesimo, gli Imperatori romani, quando imponevano degli idoli nei luoghi ove si vendevano i generi di prima necessità, sul mercato pubblico, ed esigevano da ogni cittadino l’adorazione dell’idolo prima di cedergli la carne, il vino o il pane di cui avevano quotidianamente bisogno. È quanto è predetto puntualmente per i tempi dell’anticristo, nell’Apocalisse di San Giovanni, quando si dice che « … verrà un tempo in cui nessuno potrà comprare né vendere, se non è marchiato dal carattere della bestia » cosa che può ben significare la rivoluzione. È così già anche ora con l’insegnamento ufficiale, dispensato unicamente dall’organo e dal sigillo della massoneria: nessuno potrà essere avvocato, medico, ingegnere, etc., se non sia passato sotto il rullo di questa macchina, che ne fa per bene un massone completo, o per lo meno indebolisce il vigore e la forza delle proprie convinzioni cristiane. Lo stato massonico vuole le coscienze, che esso proclama libere, come la moneta che non può circolare senza il marchio del suo conio o del suo punzone. – Che la Chiesa abbia le stesse esigenze per i “suoi”, che dopo tutto sono suoi e “vogliono” esserlo, questo viene indicato come una oppressione dispotica, la servitù del pensiero; che lo stato massonico agisca allo stesso modo verso le intelligenze è invece cosa nobile, generosa, liberale, con questa particolarità nuova: che qui ci si sente oppressi da un processo unico, ci si vede obbligati, con suprema umiliazione, a pagare ed a mettere da se stessi la catena ignominiosa che si deve portare. Così va oggi il mondo, così va nell’Europa, così va, padri cattolici, per i figli di questa nazione cattolica! L’Episcopato e la buona stampa lanciano ogni giorno il loro grido d’allarme, denunciando i discorsi ed i libri che il cattolico paga con il proprio denaro, affinché la massoneria faccia loro servire a strappare la fede alle anime. Che non si dica che noi esageriamo, perché su questo soggetto noi non diciamo che un quarto di ciò che occorrerebbe dire. La rete massonica è una trama sì abilmente ed universalmente ordita in tutta la nazione. Alla scuola primaria, o al collegio, o all’università, non c’è un’anima che non veda esposta la sua fede a cadere in una qualche trama di questa rete. E questo non parlando che dell’insegnamento ufficiale; se noi esaminiamo poi quello che si offre in una moltitudine di atenei, circoli, accademie, biblioteche popolari: quasi tutte, ad eccezioni di quelle che sono francamente cattoliche, sono delle vere succursali del massonismo, i nostri amici vedranno quanto potremmo generalizzare ancor più la nostra proposizione. Riassumendo: satana, sotto il mantello del professore, regna oggi nel mondo ed è la causa dei principali disastri. Non prova questo in modo tanto eloquente che è su questo terreno che tutti i buoni Cattolici devono immediatamente condurre la battaglia principale? [Continua …]

 

F. Sarda Y Salvani: MASSONISMO E CATTOLICESIMO -1-

F. Sarda y Salvany:

MASSONISMO E CATTOLICESIMO:

Parallelo tra la dottrina delle logge e quella della santa Chiesa cattolica, apostolica e romana. [Parigi, 1890] -1-

INTRODUZIONE

Alla prima impressione di stupore causato nel mondo dall’importantissima enciclica “Humanum genus” del nostro Santo Padre il Papa, Leone XIII, enciclica diretta contro la franco-massoneria e così conosciuta dai nostri lettori, si è accesa dappertutto una discussione ardente e febbrile sui punti principali di questo documento, il più considerevole forse tra tutti quelli che siano stati indirizzati al mondo cattolico dalla Santa Sede durante questo secolo. Questo documento non è tra quelli che la setta può più o meno occultare immergendolo tra la confusione delle sue arguzie e delle sue fanfaronate, o nella miserabile cospirazione del silenzio. No: questa parola sovrana ha oltrepassato fin dall’inizio per importanza tutti gli avvenimenti del giorno, essendo essa stessa l’avvenimento più rilevante e più solenne; essa ha coperto tutti i clamori della stampa e dei clubs: essa proveniva così dall’alto ed aveva un tale ascendente morale, che niente era stato capace di dominarla. Oggi ancora, malgrado tutto, tutti coloro che parlano o scrivono trattano del soggetto, i buoni come i cattivi, i cattolici ed i razionalisti. L’enciclica in effetti ha trovato dappertutto un’eco favorevole od ostile; dappertutto ancora essa è ricevuta o con una assoluta sottomissione o con una certa resistenza: da nessuna parte trova neutralità o indifferenza. Noi dunque, pure parliamo a nostra volta, e poiché abbiamo il grande onore di occupare in vero una modesta rilevanza nell’agone contemporaneo, non possiamo né dobbiamo tralasciare l’occasione che ci si presenta di combattere la buona battaglia! Il primo effetto, diciamo noi, prodotto nel mondo pontificio è stato l’ammirazione, lo sbigottimento, un profondo stupore. Come è possibile, molti dicono, che il Sovrano Pontefice abbia avuto una tale audacia? Poggiando i piedi all’inverso, se ci è permesso parlare così, come per scappare da Roma a mo’ di fuggitivo, è mai possibile che il Pontefice oppresso osi guardare in faccia e con sguardo intrepido i poteri [forti –ndt.] attuali che, tranne qualche rara eccezione, sono tutti raggiunti dagli anatemi lanciati contro la franco-massoneria? Non spera, Egli, nulla dall’Inghilterra o dalla Prussia? E con quale ardimento lancia questo guanto di sfida ai franco-massoni coronati di Prussia e di Inghilterra? Non si troverà nella necessità di chiedere ad uno di questi governi un asilo per poter gestire l’ultimo scampolo della sua indipendenza? Come dunque si chiude la porta di tutti questi Stati con tale tempestiva dichiarazione di guerra a tutto il mondo ufficiale? Bisogna convenire in verità che il Papa si espone molto, perché questo documento, è come un fischietto suonato da una sì suprema Autorità in faccia a tutti i rivoluzionari democratici o aristocratici dei tempi presenti. Egli si espone troppo? Ha dunque un santo ardore? Si spinge oltre? Dunque Egli si sente forte, anche davanti ai “potenti”? Questo potere che lo si presenta come alle prese con la morte. Ma è che egli respira vigorosamente, molto vigorosamente, amici miei! E questo moribondo che non si decide mai a morire, comunica una vita più abbondante a coloro che già vivono. Vedete cosa accade oggi, come uno spettacolo per il mondo che non attende da lui alcun servizio; ma questo non lo impaurisce affatto, Egli brucia, per così dire i suoi vascelli, questo insigne capo delle armate spirituali e, nuovo Ferdinando Cortez, Egli affronta impavido le “rapide” della Rivoluzione; Egli prende l’offensiva e mette tutto a ferro, fuoco e sangue fino all’interno delle fortezze del nemico; Egli affronta il “mostro” in un corpo a corpo per colpirlo al cuore. E viva Dio!, Egli lo ha colpito con un’abile mossa; ed ecco vediamo il mostro che si dibatte in convulsioni disperate, versando un sangue immondo ed annunciante con ruggiti orribili il furore che gli causa questa prima disfatta. Questo per ciò che concerne il “mostro” rivoluzionario. Ma per noi, è una certezza indubbia che il colpo più terribile, più decisivo, più mortale portato dall’enciclica, ha colpito la Rivoluzione all’acqua di rosa, benevola, quella che porta il nome di “cattolicesimo liberale”: il Syllabus è stato la sua sentenza di morte, l’enciclica Humanum Genus è stata la sua esecuzione e la sua sepoltura. Essi se ne vanno dogmatizzando incessantemente, questi signori semirivoluzionari [i cattolici liberali –ndt. -], che sono i peggiori di tutti, per il fatto stesso che non vogliono apparire, denunciando inoltre che la eccellente e ferma strategia dei cattolici più strenui, che provoca contro l’attuale nemico i rudi combattimenti che noi tutti ben conosciamo, sia stravagante. Per paura di non sappiamo quali conflitti giornalieri, essi vorrebbero che non si dicesse nulla, che non si parlasse neppure di queste questioni, o che si affrontassero almeno sempre in uno stile che possa, essendo l’impresa difficile, vincere il nemico ma senza irritarlo, oppure senza umiliarlo: che si combattano quanto si voglia le sette dei secoli passati, ma mai, assolutamente mai la setta attuale: come se nelle nostre cattoliche case dovessimo dare un gran colpo di spada solo al cadavere di un turco, azione che è espressione di un modo pacifico di combattere e che non offre molta difficoltà; che infine in ogni caso, ci si tenga in guardia, operando non con l’opportunità, che è una gran legge, bensì con l’opportunismo, che ne è la contraffazione e la vergognosa parodia. Ed ecco in mezzo a questi spari improvvisi, dall’alto del suo Sinai, la voce del Papa: egli sanziona, con questa Enciclica, che sarà ormai l’espressione più completa del decalogo antirivoluzionario, tutta la propaganda che, durante gli ultimi anni, son venuti a sostenere al prezzo di mortali difficoltà, i capi più valorosi dell’intransigenza cattolica. Egli solleva nel momento che sembra il più inopportuno, cioè contro tutte le regole dell’opportunismo, la questione fra tutte la più bruciante con i toni più critici e contro le persone e le cose più raccomandabili; lasciando una volta di più risoluta e decisa, una verità oggi spesso misconosciuta, benché di buon senso, e cioè che non c’è mai un momento migliore per combattere se non quello in cui i nemici si presentano o accettano il combattimento. – L’enciclica “Humanum genus”, già dicendo semplicemente “io ci sono” ha ottenuto due grandi vittorie per la buona causa della verità: 1°sulla rivoluzione crudele essa ha dato la misura del suo valore e della sua forza; 2° sulla rivoluzione ipocrita, ha evidenziato ancora una volta la sua falsità e le tolto la maschera. – Essa ha dato, a tutti noi Cattolici, nello stesso tempo una grande consolazione ed una grande lezione: a) la consolazione di sapere che noi sosteniamo un buono, un eccellente combattimento quando noi parliamo, già da qualche tempo, come parla oggi il Papa; b) l’incoraggiamento a continuare a sostenere ancora lo stesso combattimento, sempre allo stesso modo, ma con entusiasmo nuovo ed un nuovo coraggio intrepido. – In questo opuscolo, noi abbiamo compendiato un commentario semplice e popolare di questo documento pontificale. Conoscere il nemico è già un grande vantaggio per poterlo vincere ed abbattere. Facciamo dunque conoscere al mondo attuale, meno cattivo forse che ingannato, le dottrine di questa setta infernale, la cui organizzazione materiale offre un danno minore della sua continua propaganda nell’ordine delle dottrine. Noi crediamo di assolvere ad un solo unico dovere. Che i lettori ritengano anch’essi un dovere il contribuire secondo il loro potere alla diffusione di queste idee, principalmente nelle classi più modeste e meno istruite, e pertanto ancor più esposte alle seduzioni della setta infernale. Sabadell, mese del Sacro-Cuore, 1885.

MASSONISMO E CATTOLICESIMO

I

A quali fini questa nuova condanna della franco-massoneria e delle sue dottrine pronunciata dal Sovrano Pontefice nell’enciclica “Humanum Genus”?-

Il massonismo è la stessa cosa della massoneria?

L’oggetto dell’enciclica “Humanum genus” è la condanna della massoneria. Questa setta infernale era già stata a più riprese riprovata e condannata dalla Santa Sede dai precedenti Pontefici; la prima questione che si pone in presenza di questo nuovo documento è la seguente: perché mai questa nuova condanna contenuta nella attuale enciclica se a Roma era già stata pronunciata sullo stesso soggetto una sentenza ufficiale, autorizzata, definitiva e di conseguenza gravemente obbligatoria per i veri Cattolici? Perché il Papa ci parla ancora sul medesimo soggetto, e perché gli “ultramontani” considerano questo documento come una vera “novità”? Noi cercheremo di rispondere, nella modesta misura delle nostre forze, a questi dubbi; e questi stessi dubbi ci metteranno in condizione di studiare e di comprendere perfettamente l’importanza speciale che offre il suddetto documento rispetto a tutti gli altri precedenti dello stesso genere. Certo la massoneria è condannata, sotto questo stesso nome, già da molto tempo, ed il nostro Santo Padre, il Papa, tiene conto delle condanne dei suoi gloriosi predecessori. Così altre volte come oggi, era peccato appartenere alla massoneria, e questa setta è stata maledetta da quando è stata per la prima volta dichiarata satanica ed anticristiana dal Dottore universale. Ma ciò che non avevano fatto i precedenti atti pontificali, era il definirla, il rappresentarla, fotografarla in qualche modo, mostrando ciò che essa è in se stessa e nelle sue opere, con l’ampiezza e l’estensione che dispiega l’attuale Vicario di Cristo. È là ciò che fa il carattere speciale e dominante della presente Enciclica. La massoneria è detestabile; essere massone è un crimine! Noi tutti Cattolici sappiamo e predichiamo già questo. Ma che cos’è essere massone? Quali sono le dottrine essenzialmente massoniche? Fino a qual punto il massonismo ha infettato la società attuale? È questo ciò che ignorano un gran numero di uomini, anche tra i cosiddetti “buoni”; è questo che molti, anche tra i Cattolici sinceri, non vogliono comprendere interamente; è ciò che per molti non era che una manìa insensata, un tema fastidioso di affrontare la convenzione di fanatici e di intransigenti: ed ecco che il principale effetto della parola pontificia è stato, questa volta, dopo aver condannato di nuovo la setta, quello di     1° – smascherarla, dopo averla riprovata. 2° – Dipingerla; richiamando l’attenzione del mondo sulla massoneria si è richiamato anche il massonismo. Essendo così estesa l’azione della massoneria, dopo aver studiato per lungo tempo ed attentamente la parola di Leone XIII, noi abbiamo intitolato il presente lavoro, non “massoneria e Cattolicesimo”, ciò che sembrava essere una formula più concreta, ma “massonismo e Cattolicesimo”, titolo che abbraccia completamente tutto l’ampio concetto massonico. Perché a nostro umile avviso, c’è là il concetto più essenziale, più esatto, più naturale dell’enciclica. Tuttavia qualcuno riderà della nostra distinzione qualificandola sovranamente astratta e metafisica, se non addirittura arbitraria e puerile. Noi andremo a provare che essa è, al contrario, semplicemente molto pratica, facile da comprendere e di applicazione indispensabile ed immediata. La massoneria è un’associazione o una setta, fino ai nostri giorni interamente segreta, oggi pubblica ed ufficiale e conosciuta dappertutto, fin per strada, pressoché uguale ad una istituzione legale. Essa ha la sua organizzazione, la sua dottrina, i suoi processi, le sue iniziazioni, le sue assemblee, etc. I massoni sono coloro che vi sono affiliati e che non vi hanno rinunciato con un’abiura formale. Tale è, riassumendo, la società chiamata massoneria. Per il momento ci basta darne una nozione fondamentale. Ci sono la massoneria ed i massoni; ma questo non è ancora il “massonismo”. Il massonismo è più ed ancor più di questo! Tale è l’obiettivo principale e più esteso a cui mira, come si può vedere, l’enciclica “Humanum genus”. Il massonismo è la dottrina massonica che abitualmente si ritiene, si professa e si pratica, che ritengono, professano e praticano realmente molti di coloro che materialmente non possono essere chiamati massoni, perché non sono materialmente iscritti nei registri della setta. Il massonismo è l’influenza massonica nelle leggi, nella diplomazia, nelle letture, nei divertimenti, nelle opere di beneficenza, nell’insegnamento ed in tutte le sfere della vita sociale. Si può essere fautori, complici e colpevoli di tutto questo, senza essere positivamente affiliati alle logge o aver rivestito il ridicolo grembiulino massonico. Per rendere più chiaro il nostro pensiero, ricorreremo ad un mezzo semplice e popolare di comparazione. La luce che i fisici chiamano diffusa, e che è quella che rischiara durante il giorno, i luoghi in cui non penetrano i raggi del sole, non è certamente il sole stesso. Tuttavia è la luce del sole, benché non sia il disco solare. È da lui che proviene tutta la sua beltà, il suo splendore, la sua benefica influenza. Così è per il massonismo; è lo splendore, l’irraggiamento diffuso di questo focolaio tenebroso di perversione anticristiana che si chiama la massoneria. Esso estende la sua influenza molto più lontano da quest’ultima; esso avvelena corrompe ed uccide massonicamente anche un gran numero di coloro che ignorano l’esistenza dei massoni e della massoneria. L’effetto di questo massonismo o di questa massoneria diffusa, molto più funesto di quello della massoneria stessa, nel suo senso concreto e materiale, è questo orribile potere che possiedono oggi le logge nel mondo intero, e che non possiederebbe certamente se la massoneria non avesse potuto contare che sul concorso dei suoi affiliati ufficiali, e se non fosse aiutata e servita dalla protezione più efficace di un gran numero di massoni incoscienti, vale a dire di cattolici impregnati, talvolta senza volerlo, altre volte per loro devianze, dal massonismo più raffinato. Ci sembra che questa distinzione non apparirà oramai strana e metafisica a qualcuno di quelli che forse sorridevano all’inizio. Ci sembra che essi comincino a percepire dal nostro linguaggio la questione posta, lo scopo che noi perseguiamo. Da questo punto di vista elevato, si aprono ai nostri occhi orizzonti estesi ed immensi. Si vedrà già come, prendendo le parole del Papa singolarmente, e soprattutto quelle che hanno come scopo di smascherare la massoneria, noi metteremo, con l’aiuto di Dio, il dito nella piaga, e troveremo in questo ammirevole documento emanato da Roma la diagnosi di ogni male sociale dell’ora presente. La prima causa e la prima radice di questo male è la massoneria, il cui effetto più generale e più terribile nelle sue conseguenze è ciò che abbiamo chiamato “massonismo”. Questa denominazione volgare ed usuale, data come autentica da Roma in altri documenti è – perché non dirlo a nostra volta? – quella di liberalismo. Noi lo vedremo, con l’aiuto di Dio, nei capitoli seguenti. Mediante la distinzione che abbiamo indicato, il marchio iniziale e la divisione naturale del nostro lavoro, noi parleremo in primo luogo della massoneria considerata nel suo oggetto materiale, o della setta in particolare, in concreto, e questo solo come maniera di costruzione del luogo; in secondo luogo e principalmente, noi parleremo della massoneria considerata nel suo oggetto formale, “formaliter”, o del “massonismo” e delle sue opere e delle influenze massoniche in generale. Il Papa ha aperto una breccia attraverso la quale dobbiamo passare senza paura né rispetto umano, noi tutti che ci gloriamo di marciare sotto gli ordini di un Capo molto valoroso!

II

L’esistenza nel mondo attuale di questo orribile focolaio di anticristianesimo che si chiama: la massoneria.

La prima cosa che fa l’enciclica “Humanum genus” sul soggetto della massoneria, è affermarne l’esistenza. In questa affermazione sembra meritare di essere segnalata in ragione della sua importanza capitale, la tattica dei settari che, quando si sentono colpiti da una condanna pontificale, è sempre la stessa: innanzitutto essi assicurano, con tono scherzoso, che questo errore o questa setta contro la quale è lanciata l’anatema non esiste, che questa “eresia” non è che un mito fiorito nella immaginazione del Papa; poi, essi cercano sempre di distinguere nella dottrina riprovata un buono ed un cattivo concetto, pretendendo che in un senso la condanna sia legittima, ma non in tal altro, che è precisamente quello che essenzialmente la motiva. L’Arianesimo ed il pelagianesimo, che furono le eresie più formidabili; il giansenismo ed il liberalismo, che sono state le eresie più funeste degli ultimi tempi, hanno brillato fra tutte per l’abilità con la quale esse hanno saputo mantenersi come su di un campo di battaglia vasto e ben protetto dal favore di queste sottigliezze diaboliche. Contro queste sottigliezze tortuose che più di tutto il resto caratterizzano la loro perfidia nativa, la Chiesa ha sempre opposto l’infallibilità del suo insegnamento, non solo in ciò che riguarda le dottrine considerate da un punto di vista speculativo e teorico, ma anche relativamente alla loro esistenza pratica, nell’ordine dei fatti che si trovano esposte in un libro, o incarnate in una setta o in un’istituzione. Di modo che l’autorità decisiva del Magistero pontificio, si esercita non solo sul dogma e sugli insegnamenti che gli sono opposti, ma anche sul fatto dogmatico, vale a dire su ciò che noi potremmo chiamare la sua realizzazione pratica nella sfera sociale. Non è dunque una oziosità che il Papa cominci su questo grave documento affermando l’esistenza della massoneria. Per poco che si conosce il mondo miserabile nel quale viviamo oggi, questo mondo che nonostante le sue fastidiose pretese di “lumi” e di civilizzazione, è talvolta così insensato, così arretrato e su molti punti più credulone e facile da ingannare rispetto a tre secoli fa; per poco, lo ripeto, che si conosca il mondo malvagio col quale dobbiamo convivere, si vedrà che ciò che conveniva innanzitutto, era questa solenne, autorizzata e definitiva affermazione. Così in verità, da circa un anno, parlando con un uomo considerevole, che si picca di essere un “sapiente”, e che lo è realmente in una certa branca, noi abbiamo inteso con tristezza cadere dalle sue labbra questa affermazione magistrale, che cioè “la franco-massoneria è una chimera”, e che noi non siamo altro che fanciulli lattanti, tremanti al cospetto di un fantasma, noi che ci occupiamo sempre della massoneria. Sono numerosi, o almeno lo sono stati fino ad oggi, coloro che hanno creduto che realmente la massoneria non sia che una macchina da guerra inventata dagli oratori o dai giornalisti ultramontani. Essi non osservano che queste imprese nelle quali non si vede niente della massoneria, costituiscono precisamente il primo dei trucchi massonici, quello che la setta utilizza con più ardore e, senza contraddizione, con più successo. Per tutti questi uomini, le parole gravi del Papa che afferma, nella pienezza della sua infallibile autorità, che la franco-massoneria esiste, ed esiste veramente, questa parola pontificia è caduta come una bomba in mezzo alle loro negazioni innocenti o perfide. È dunque certo e dimostrato e non solo con la testimonianza dei fatti, che i ciechi volontari hanno potuto solo fino a questo giorno non vedere, ma in modo molto più formale ancora con l’autorità della Chiesa, che esiste una setta chiamata “massoneria” o franco-massoneria. È questo un fatto reale, vivente, palpitante, attuale, come gli altri che nel mondo esteriore e sensibile, richiamano la nostra attenzione. Esiste una vasta associazione o lega, segreta fino a questi ultimi tempi, quasi pubblica ed ufficiale oggi, che conta in ogni nazione dei centri secondari chiamati “logge”, ed i cui adepti o affiliati si contano a milioni, ordinati sotto una bandiera comune, senza riguardi per le differenze di nazionalità o politiche, ed animate da uno stesso odio contro il Cristo e la sua santa Chiesa. Come esiste in pieno giorno e allo splendere del sole una società visibile, organizzata, avente i suoi capi riconosciuti ed accettati, con la sua gerarchia; società che si chiama il Cristianesimo, perché essa è in qualche modo la personificazione delle dottrine e dei precetti di Cristo, suo immortale Fondatore; così esiste un’altra società che è nata e si è ingrandita col favore delle tenebre, anche essa organizzata ed in possesso della sua gerarchia, sottomessa a dei capi formidabili e misteriosi; società che, essendo come una personificazione di tutti gli odi contro il Cristo, può certamente definirsi l’anti-cristianesimo organizzato, o meglio l’anticristo, e perché? Unicamente per dei motivi di convenienza strategica non porta questo nome, ma quello di massoneria o di franco-massoneria. – Una tal società, formidabile “chiesa di satana”, in opposizione diretta ed in lotta continua con la Chiesa del Cristo, si trova diffusa, come sua eterna rivale, in tutto il mondo conosciuto, e lavora con tutto il suo potere nell’estendere ogni giorno le sue incommensurabili frontiere. Ed il suo desiderio è quello di stabilire in tutti i paesi e con tutti i mezzi un reame universale di satana al posto del Reame universale di Gesù-Cristo, al quale suo Padre ha dato in eredità tutti i secoli e tutti i popoli, benché, per fini conosciuti dalla sua insondabile provvidenza, ma che noi conosciamo in parte, Egli abbia permesso che questo divino Reame sia in lotta continua con il reame di satana, fino all’ora del trionfo completo del Cristo nel giorno del Giudizio Universale. Questa società infernale esiste, lavora cospira, scrive, perora, legifera, governa, lotta, estende il suo impero, porta in se stessa la chiave della maggior parte degli avvenimenti moderni. La sua opera è questo mondo ufficiale stabilito dappertutto, o direttamente contro Dio o, vergognosamente, facendo astrazione da Dio, o ipocritamente, volendo che Dio divida con i suoi nemici, il suo sovrano dominio. Dai suoi centri esce, come ispirato da satana, quasi tutto quello che si predica e si insegna ai popoli, in opposizione con quel che insegna la santa Chiesa Cattolica, apostolica romana. Il mondo, il demonio e la carne avevano già da Adamo, delle massime, delle attrazioni e dei processi opposti alla verità, la massoneria è venuta, nei tempi moderni, a dare a tutte queste forze individuali e, per così dire, separate e disunite, una funesta unità di obiettivo, di principio e di processi, la cui perfezione e saggezza non si comprendono e non si spiegano se non riconoscendo che siano di origine diabolica. Il diavolo è cattivo, è certo, ma egli ha una natura angelica che, secondo gli insegnamenti della teologia, non è stata distrutta né dal peccato né dalla punizione che gli è stata inflitta. – Qual è l’estensione materiale, e da questa l’influenza disastrosa di questa chiesa anticristiana, in precedenza molto segreta e occulta, ma oggi visibile, apparente, preponderante e regnante sovrana? Se ne avrà l’idea con la statistica, e i dati seguenti, che noi riprendiamo, per ciò che concerne l’Europa, da un giornale autorizzato e che crediamo ben informato:

Inghilterra.- La Grande Loggia d’Inghilterra, la cui sede è a Londra, data dal 1717; essa ha ai suoi ordini la cifra enorme di 2.019 logge. Un’altra potenza, di rito « antico ed accettato » per l’Inghilterra ed i paesi delle Gallie, porta il titolo di Supremo Consiglio del 33° grado. Essa fu stabilita nel 1845, e conta 88 capitoli.

Scozia. La Gran loggia scozzese, la cui sede è ad Edimburgo, fu fondata nel 1738, ed ha sotto i suoi ordini 891 logge. Il Supremo Consiglio del 33° grado del rito scozzese antico ed accettato conta 10 capitoli.

Irlanda. – La gran loggia d’Irlanda. La cui sede è a Dublino, ha sotto i suoi ordini il numero considerevole di 1014 logge.

Danimarca. – La grande loggia di Danimarca, la cui sede è a Copenhagen, fu fondata nel 1747 ed ha 10 logge ai suoi ordini.

Svezia e Norvegia. – La grande loggia di questi paesi, la cui sede è a Stoccolma, fu fondata nel 1754, ed ha 33 logge ai suoi ordini.

Belgio. – Il grande oriente del Belgio si è stabilito a Bruxelles nel 1832, e dispone di 24 logge.

Olanda. – Il grande oriente del Paesi Bassi ha la sua sede a la Haye, e fu fondato nel 1756, è disposta in 79 logge, nel 1884, riunenti 2185 associati.

Germania. – La Germania settentrionale possiede otto poteri massonici e cinque logge indipendenti, con un totale di 42.496 massoni attivi. La gran loggia nazionale, la loggia madre, si trova a Berlino, e fu fondata nel 1774. Essa conta 113 logge che riuniscono 13.095 affiliati. La grande loggia regionale di Germania, la cui sede è pure a Berlino, data dal 1774, e conta 107 logge, con un totale di 8.762 associati. La gran loggia reale di York, la cui sede è pure a Berlino, fu fondata nel 1798; essa conta 61 logge e 4.774 membri. La gran loggia di Amburgo , che ha la sua sede in questa città, fu fondata nel 1740, e conta 31 logge e 2.629 affiliati. La gran loggia eclettica di Francoforte fu fondata il 18 marzo 1783, e conta 12 logge e 1.396 membri. La gran loggia di Baviera, il “sole, fu fondata il 21 gennaio 1741, e conta 24 logge e 1701 membri. La gran loggia regionale di Sassonia, la cui sede è a Dresda, fu fondata nel 1811, e conta 18 logge e 3000 membri. La grande loggia dell’unione massonica, che ha la sua sede a Darmstadt, fu fondata nel 1846; essa conta 9 logge e 896 membri.

Francia. – Il grande oriente di Francia risiede a Parigi, fu fondato nel 1736, e tiene sotto la sua obbedienza 66 “laboratori”, 13 nel dipartimento della Senna, 208 negli altri dipartimenti, 14 ad Algeri, 11 nelle colonie, e 28 nelle nazioni straniere. – Oltre al grande oriente, esiste a Parigi: 1° il supremo consiglio del rito scozzese antico accreditato per la Francia e le sue dipendenze (o possessi fuori dal continente); 2° l’ordine massonico orientale del Misraim o d’Egitto; 3à la grande loggia simbolica scozzese di Francia.

Lussemburgo. – Il consiglio supremo del granducato del Lussemburgo fu stabilito nel 1844, e conta due logge.

Ungheria. – Il grande oriente d’Ungheria risiede a Pesth; fu fondato nel 1871 e conta 15 logge. Il grande oriente di Ungheria, fondato nel 1870, conta 24 logge e 783 membri.

Italia. – Il grande oriente di Italia, supremo consiglio, fu fondato nel 1861, e conta 150 “laboratori”.

Spagna.- Il grande oriente nazionale di Spagna, gran loggia spagnola, risiede a Madrid. Fu fondato il 15 gennaio 1726 da lord Warton; ha ai suoi ordini 182 logge. In più esiste un supremo consiglio della massoneria spagnola, fondato nel 1868; conta 216 logge e tre capitoli.

Portogallo. – Il grande oriente di Lisbona ed il supremo consiglio della massoneria portoghese, fondata nel 1805, si fusero nel 1869 e contano114 logge.

Svizzera.- La grande loggia di Berna, fondata nel 1844, conta 74 logge. Riassumendo da questa tenebrosa statistica risultano, solo in Europa, esserci 5.486 logge parrocchie de questa chiesa infernale. Noi diciamo: in Europa soltanto, perché bisogna notare che c’è un ugual numero nelle altre contrade del mondo conosciuto e specialmente in America, ove la corruzione massonica è penetrata in modo particolare.

III

La massoneria ha realmente l’influenza e la potenza che si suppone nel mondo attuale?

 Dopo avere affermato l’esistenza della massoneria contro coloro che sotto un pretesto qualunque si sforzano di far passare per un mito fantastico questa tenebrosa cospirazione contro Dio, il Papa viene a formulare sullo stesso soggetto, altre due affermazioni molto importanti: primariamente la sua formidabile influenza sociale attuale; secondariamente il carattere pernicioso ed assolutamente anticristiano di questa influenza sociale. Sono queste, due verità che i partigiani della setta si ostinano ad oscurare ed a velare, ma ora non è più loro possibile negare la sua esistenza materiale. « Nello spazio di un secolo e mezzo, dice il Papa, la setta massonica ha fatto dei progressi incredibili. Impiegando nello stesso tempo l’audacia e l’inganno che ha invaso tutti i gradi della gerarchia sociale, essa comincia a godere, in seno agli stati moderni, di un potere che equivale quasi alla sovranità. Da questa rapida e formidabile estensione, sono risultati necessariamente per la Chiesa, per l’autorità dei princìpi e la salute pubblica, dei mali che i nostri predecessori hanno previsto da lungo tempo avanzare. Ben presto ci si è trovati in presenza di gravissimi motivi di timore dell’avvenire, non sicuramente per la Chiesa, le cui fondamenta sono al sicuro da tutti gli attacchi degli uomini, ma per gli Stati in seno ai quali hanno acquisito una influenza considerevole, sia questa setta, la franco-massoneria, sia le altre associazioni simili che concorrono alla sua opera di distruzione o che servono da satelliti. » Noi abbiamo tradotto qui questo paragrafo nella sua integrità, perché nel suo austero laconismo, si rivela come il più grave di questo documento così importante. Noi sappiamo ufficialmente da esso che la franco-massoneria non è un’associazione qualunque, una lega di volgari malfattori, un riparo di gente aconfessionali, come comunemente si dice, ma una associazione che ha invaso tutti i gradi della gerarchia sociale. Sicuramente noi lo sapevamo già, ma oggi noi ne siamo ufficialmente avvertiti. Così tutti i gradi delle gerarchie sociali sono infettati da questa lebbra: non precisamente questi o quegli ambienti sociali, nei quali si trova più ordinariamente, almeno in apparenza, una disposizione più grande ad ogni specie di crimine; non i gruppi più avanzati della demagogia moderna, coloro che formano la sua avanguardia ed le sue guide, coloro che senza alcun camuffamento, annunciano il loro orribile desiderio di bandire dalla terra il nome di Dio, e di abolire sotto i colpi del loro odio egalitario ogni distinzione gerarchica, ogni idea di autorità; No!: la massoneria è ancor più il massonismo, è una malattia, una fillossera che ha infettato tutti i gradi della gerarchia sociale, come dice testualmente il Sovrano Pontefice; e questo non nel modo di una affezione senza gravità, di un male cronico poco dannoso, ma come un male che comincia a prendere, in seno agli Stati moderni, una influenza talmente preponderante, che equivale in qualche modo, secondo la parola formale del Vicario di Cristo, ad una vera sovranità. O Cielo! E noi che così spesso, ci siamo visti coperti di confusione, quasi scomunicati, quando con riserve più o meno espresse, ci siamo arrischiati ad esprimere questo medesimo pensiero, che ha scatenato contro di noi tutti gli sforzi combinati della società attuale! Noi esagerati e fanatici, che abbiamo da sempre creduto, sotto tutti i punti di vista, che la massoneria, sia la pura eterodossia, l’eresia formale contro Dio, il suo Cristo, la sua Chiesa ed i suoi figli più devoti, che essa ispiri i principali elementi costitutivi di questa moderna organizzazione, che attiri verso la terra, e sia patrocinata apertamente e scientemente da tutti i figli di Belial per far la guerra a Gesù-Cristo Nostro Signore! È vero così che noi ci siamo inchinati rispettosamente davanti alla suprema affermazione del Vicario di Gesù-Cristo, che ci assicura che questa peste abbia già infettato tutte le sfere dell’ordine sociale esistente. Incidiamo questi insegnamenti nella nostra memoria e non permettiamo che ne escano giammai.! Sappiamo dunque in quale ambiente viviamo, con chi camminiamo; pensiamo ai nemici contro i quali dobbiamo combattere in ogni momento. Noi siamo pertanto alle prese con un contagio che ha invaso tutte le sfere dell’ordine sociale, con un nemico che ci sta spalla a spalla dappertutto, con un’atmosfera che ci penetra, ci attacca, e spande il suo veleno dappertutto. Essa ci combatte apertamente sulla piazza pubblica ed anche negli impieghi ufficiali, ove il suo potere raggiunge la sovranità. Essa si nasconde astutamente e penetra fino nel nostro focolaio domestico, se non vegliamo con uno zelo costante ed attivo; essa ci punge ancora, sul modello della spina nascosta sotto i fiori, finanche nelle opere di pietà, essa cospira contro di noi in mezzo a mille trappole tese con grande abilità, che solo coloro che sono santamente intransigenti posso prevedere ed evitare. Queste parole sono solenni e racchiudono un grande principio di condotta, un’importante regola pratica per la vita del Cattolico della nostra epoca. Esse erigono come principale regola di prudenza, nel nostro modo attuale di vita e di lotta, e principalmente nei confronti dei poteri pubblici, ciò che possiamo permettere di chiamare un “criterio di diffidenza”. Sì, noi ci decidiamo a scrivere questa parola senza esitare, non alla leggera, ma dopo una matura riflessione. Alle virtù fondamentali che in ogni tempo il campionario valente della verità ha dovuto considerare proprie alla sua condizione, occorre aggiungere oggi questa che è la caratteristica dell’epoca: una saggia e prudente “diffidenza” verso tutto ciò che la circonda; questo è evidente, poiché tutto ciò che la circonda è infetto, ha subìto il contagio, la presenza di questo “virus” pestifero massonico che ha avvelenato tutti i gradi o sfere dell’ordine sociale. – Tempo addietro questo consiglio franco e leale sarebbe stato tacciato di mancanza di carità da qualche infelice che ignora forse che questa parola “carità” è quella che noi abbiamo l’abitudine di considerare da qualche anno come quella che deve ispirarci maggiore diffidenza. Lo si dirà ancor più nell’era attuale, perché questo criterio di diffidenza e di pessimismo che proclamiamo qui, non è fondato sul nostro apprezzamento, ma sulla parola formale del Papa; tanto più che questa setta diabolica, non ha trovato maschera più conveniente per nascondersi, che quella della santa pratica della carità, affettandosi di farsi passare per niente di meno che una pura associazione di beneficenza.

IV

Ma non si dice tra coloro che ritengono di essere ben informati, che la massoneria sia un’associazione di pura beneficenza?

Naturalmente! Ciò che soprattutto desidera tutta la setta massonica, la dove può ottenerlo è, come abbiamo visto, che si neghi o si metta in dubbio la sua esistenza. In questo essa agisce conformemente ai suoi istinti di setta segreta. Ma, al contrario, la dove essa dispera di riuscirci, si contenta di non essere conosciuta tale così come essa è in realtà. A questo scopo, ciò che essa cerca innanzitutto, è una maschera comoda e simpatica entro la quale avvolgersi; e non c’è niente che si presti meglio a questo gioco se non la carità. Maschera comoda, abbiamo detto, perché non c’è niente di più facile per un’associazione che darsi il nome e le apparenze di un’associazione di carità: andiamo a vederlo all’istante! Maschera simpatica, abbiamo aggiunto, come sono sempre simpatiche la generosità e la liberalità, qualunque siano il principio e la fonte, come vedremo ugualmente. Da questo risulta che lo scopo della massoneria è di mostrasi benefattrice e filantropica. Essa ottiene così due risultati: in primo luogo essa nasconde ai semplici il suo vero carattere, secondariamente attira a sé con il favore dell’aspetto esteriore delle buone opere coloro che non guardano il fondo delle cose, e che non considerano se non il loro lato esteriore e di apparenza. Il Papa, nella sua Enciclica, fa parimenti giustizia di questa trappola satanica. Di conseguenza: la massoneria è o non è una associazione di beneficenza? Si e no, e diamo la spiegazione di questa risposta singolare ed in apparenza contraddittoria. Si, in un certo qual modo la massoneria è un’associazione di beneficenza, poiché per reclutare degli adepti in gran numero e per conservarli uniti per mezzo di una certa solidarietà, attraverso le differenti nazionalità e razze, essa non ha trovato miglior mezzo che una mutua protezione universale, in virtù della quale, ogni affiliato, in qualunque distretto si trovi, è assistito dai suoi co-associati nelle sue relazioni, nell’ottenere un impiego, etc. così, in diverse circostanze ed in certe branche dell’amministrazione o dei pubblici servizi, il titolo di “massone” è la migliore delle raccomandazioni per arrivare ad essere vantaggiosamente posizionato. Si è recentemente citato il caso di un giovane ben preparato che aspirava ad un certo impiego, al quale poteva pretendere a buon diritto. Colui al quale manifestava il suo desiderio, gli rispondeva semplicemente: “ … per ottenerlo, vi è sufficiente, mio caro amico, passare da M. X …., e dare il vostro nome alla loggia”. Il giovane, che era un fervente cattolico, dichiarò che non voleva ricorrere a questo mezzo che la sua coscienza riprovava. “Andate dunque, non fate il bambino, replicò l’impertinente interlocutore: voi troverete iscritti sui registri della loggia una lunga lista di personaggi che sono cattolici come voi, e non si sono fermati a tale scrupolo. Oggi non si giunge alla fortuna se non per questa via. In effetti è così nella maggior parte dei casi, salvo qualche rara e molto onorabile eccezione. E si comprende facilmente che non possa essere altrimenti. Lo stato moderno è costituito in modo essenzialmente massonico, i suoi principali rappresentanti sono massoni, ed oggi la cosa pubblica è organizzata e stabilita in modo tale che quasi tutto dipende dall’influenza dello stato, cosa che costituisce il più alto grado di assolutismo immaginabile: ne risulta, come conseguenza rigorosa, che tutto o quasi tutto oggi è subordinato, ad esempio nelle carriere pubbliche, all’influenza diretta o indiretta della massoneria. E la massoneria sarebbe ben insensata se non facesse girare a proprio vantaggio questa potenza colossale di cui gode negli stati moderni. Ora la massoneria è scellerata, ma non manca di abilità così come lucifero, suo occulto ispiratore: non è insensata, ma al contrario estremamente abile, perversa com’è. Da lì viene che, nella distribuzione degli impieghi e delle cariche o funzioni pubbliche, si vede spesso la mano potente della massoneria elevare chi essa vuole, ed arrestare parallelamente al suo grado, questo o quell’avanzamento. È questo che spiega pienamente il fenomeno di certe progressioni e di certe disgrazie. Nei gradi delle armate, la massoneria aiuta il merito personale; ma essa può anche supplire, se lo desidera. Nei concorsi letterari e nella preparazione delle liste di questi concorsi, non è inverosimile che faccia più o meno inclinare la bilancia e ferire la coscienza. Nel commercio e nella navigazione, essa conta su relazioni che sono di un’importanza capitale per il successo. Nelle guerre, essa apre le piazze, facilita la comunicazione dei piani e le confidenze, e talvolta impiega ben altri proiettili con cui ottenere vittorie stupefacenti. Nelle lettere essa procura all’improvviso un successo favoloso a certi drammi, a certi romanzi, a delle opere scientifiche che senza di essa sarebbero rimaste nell’oscurità, così come essa soffoca, per mezzo di una criminale cospirazione del silenzio, l’opera del più sublime genio, che non consente di accettare l’odioso “imprimatur” della setta. Con il favore delle immense risorse che offrono oggi il giornalismo e le associazioni, la massoneria può arrivare, su certi determinati punti, a monopolizzare funzioni sociali e l’opinione pubblica stessa, al punto da mettere chiunque non si sottometta al suo dominio, nella impossibilità di crearsi un posto qualsiasi nella vita sociale. È così che si vede compiere alla lettera ciò che l’Apocalisse ha profetizzato del regno di questa bestia simbolica, che designa, secondo tutti gli interpreti, il potere anticristiano degli ultimi tempi. “Essa otterrà, è detto, che nessuno possa comprare o vendere se non colui che porta sulla fronte il marchio o il sigillo della bestia o la cifra del suo nome”. È alla realizzazione di questo fine che nella vita moderna tende incessantemente la massoneria, e chi può dubitare che essa non l’abbia già in gran parte realizzata? Così con uno scopo di pia unione o di associazione di interessi individuali, convergenti tutti però verso l’interesse generale della setta, essa si converte in società di mutuo soccorso per i suoi affiliati. Questo trucco nel contempo l’aiuta a guadagnare ed a conservare questi affiliati, servendo così a coprire con un mantello onorevole il contrabbando della sua propaganda. È la che si trova la ragione della nostra domanda, o meglio della nostra risposta affermativa e negativa. La massoneria è un’associazione perniciosamente di beneficenza, in quanto lavora, con l’aiuto del soccorso che si prestano mutualmente i suoi membri, ad estendersi ed a esercitare la sua disastrosa influenza sulla macchina sociale, di cui oggi essa è il più potente motore. Essa non è un’associazione di beneficenza, se con essa si intende, come si dovrebbe, un’associazione consacrata all’esercizio della carità per fini puramente caritatevoli, tanto a favore del corpo che dell’anima di colui che ne è l’oggetto, e senza limitare la sua assistenza al cerchio di coloro che sono già affiliati o che si vuole guadagnare all’associazione.

V

Conferma, con l’aiuto di un’osservazione molto ben appropriata alla circostanza, di ciò che è stato detto nel paragrafo precedente.

Che la massoneria non sia un’associazione di beneficenza e di carità, come affermano i suoi affiliati ed i suoi mentori, è un punto di cui si acquisisce la dimostrazione e la convinzione con l’aiuto di un solo argomento, davanti al quale tutti gli altri diventano inutili, ed al quale è impossibile opporre una risposta soddisfacente e ragionevole. Ecco l’argomento: la massoneria gode, per i nostri peccati, di una preponderanza e di una influenza considerevole nel mondo moderno ufficiale ed extraufficiale. In molti punti, ed il Papa lo ha detto, il suo potere occulto equivale in qualche modo alla sovranità. Noi esprimiamo lo stesso pensiero in termini meno velati. Molto frequentemente la massoneria è giunta a sostituire completamente l’antica influenza sociale della quale godeva il Cattolicesimo in tempi migliori. Sì, è così purtroppo, ed i massoni non si vantino affatto di tale trionfo. In un gran numero di sfere della nostra società, il massonismo possiede pienamente oggi tutta l’influenza e tutta l’azione di cui godevano in altre epoche, la Chiesa Cattolica. Ma è qui che noi entriamo in pieno nella nostra argomentazione. Quando, ai tempi della sua preponderanza sociale, l’influenza cattolica dominava il mondo, essa lasciava dappertutto dei monumenti insigni del suo spirito veramente umanitario e caritatevole. Che i nostri avversari non vengano qui a gettarci in faccia le loro banali ridicole accuse di tenebre ed oscurantismo. Questo è scritto nella storia, ed ogni retorica sarà impotente a cancellarla. Quando la Chiesa esercitava nel mondo la sua preponderanza per il bene di questo mondo, non c’era un bisogno al quale Ella non si interessasse, una lacrima che non asciugasse, un’amarezza che non raddolcisse, una sofferenza fisica e morale sulla quale non stendesse la sua materna mano. I grandiosi acquedotti, le confortevoli stazioni termali, i vasti circhi, i superbi archi di trionfo, inventati dal paganesimo, potevano essere splendidi, ancorché essi siano frequentemente arrossati dal sangue; gli ospedali, gli orfanotrofi, gli asili di pellegrinaggio, gli istituti per il riscatto dei prigionieri, non sono stati fondati, sostenuti e serviti che dal Cattolicesimo e nel Cattolicesimo! Non c’è un angolo di terra ove il Cristianesimo abbia dominato, senza che si vedano prove chiare ed irrefutabili di questa verità. Le mille associazioni che esso ha ispirato a questo fine, gli ordini religiosi che ha stabilito con questo scopo, le grazie spirituali per mezzo delle quali ha vivificato ed incoraggiato tutto questo, gli eroi della beneficenza pubblica che esso ha canonizzato: tutto questo è conosciuto e riempie i nostri gloriosi annali. Anche oggi, povera, disprezzata, perseguitata, spogliata nel mondo intero, la Santa Chiesa di Dio trova nel fondo inesauribile della sua immensa carità mille risorse e mezzi per soccorrere e consolare il genere umano. Le sue istituzioni antiche si mantengono in tutto il loro vigore, ed ogni giorno si vedono rifiorire come nuove sotto l’azione della fede generosa che vive in essa. Non è passato nemmeno mezzo secolo da quando ha fondato le Piccole Sorelle dei poveri: e questi angeli terrestri hanno già aperto degli asili per anziani nel mondo intero. Da meno tempo ancora, don Bosco ha fondato i suoi laboratori salesiani, ove già più di centomila giovani operai sono occupati e strappati alla propaganda socialista dallo zelo dell’infaticabile fondatore. Si annunciava già da qualche giorno, la fondazione a Grenoble di queste Piccole Sorelle dell’operaio, che apriranno incessantemente le loro case in mezzo ai fumi del carbone fossile delle nostre fabbriche, per disinfettarle da questo altro fumo infernale che asfissia così spesso l’anima del povero lavoratore. Ecco le meraviglie che ha generato, che genera e produrrà ancora in favore dei suoi nemici e dei suoi persecutori, questa Chiesa di Dio, vilipesa, impoverita e attaccata da ogni parte! – Che fa, dal canto suo, in favore dei poveri e degli abbandonati, la franco-massoneria onnipotente e trionfante? Dove sono le opere che essa ha fondato, le istituzioni che ha creato, i fratelli e le sorelle che essa ha inviato a morire nei giorni lugubri delle epidemie, gli abbandonati che essa accudisce, i fanciulli che raccoglie, le donne perdute che essa riabilita, gli anziani che consola, gli infermi che assiste, i morti che seppellisce? Ove sono i suoi vasti ospizi, i suoi asili spaziosi, gli orfanotrofi ed i lebbrosari, le sue scuole di artigianato e dei mestieri, i suoi rifugi? Invano le cercheremo nelle statistiche contemporanee: i quadri ufficiali mostrati dai governi, non ne fanno alcuna menzione. La massoneria non ha dunque fatto niente? Oh si!, essa ha fatto, ha ben fatto, o meglio disfatto, tante cose. Essa si è impegnata con estremo furore, per anni ed anni, a demolire tutte le istituzioni, a distruggere tutte le nostre opere. Per mezzo delle leggi di confisca, che sono le sue leggi, essa ha rapito alla Chiesa tutto ciò che la pietà dei fedeli aveva accumulato nelle sue mani in favore dei poveri. Per mezzo di leggi ostili alle congregazioni, anche esse sue leggi, essa ha allontanato in Francia, e dal letto dei moribondi, la stessa suora di carità. Per mezzo di altri mille inganni e processi, che sono egualmente opera sua, essa è riuscita a paralizzare dappertutto la nostra azione, a diminuire la nostra influenza, ad allontanare il povero dal prete, a strapparlo, per mezzo delle “solidarietà”, che sono parallelamente una delle sue invenzioni, dalle mani della misericordia divina nell’ora suprema della morte ed a privarlo degli onori della sepoltura cristiana dopo il suo decesso! Ah! Si, a questo punto essa è benefacente, filantropica ed umanitaria, la massoneria! Domandiamolo ai lussuosi monumenti che essa ha elevato per rimpiazzare gli antichi monasteri, per il piacere dei suoi signori usurai: domandiamolo a questa superba carrozza trainata da vigorosi cavalli, e sulla quale si erge nella rispettabile persona questo massone filantropo che si è arricchito con i beni delle istituzioni di beneficenza; chiediamolo a questi demagoghi convertiti in opulenti proprietari con i beni degli ospedali venduti all’asta. Che si metta ancora in dubbio, dopo ciò, la questione di sapere se la massoneria è o non una associazione di beneficenza, che ha saputo trarre buon profitto per se stessa e per i suoi adepti, dai beni dei poveri della Chiesa!

VI

La massoneria considerata dal punto di vista dottrinale, o “massonismo”, il principale oggetto di questo opuscolo.

Dopo il breve articolo consacrato a dare una debole idea della setta massonica dal punto di vista materiale, ci sembra arrivato il momento di parlarne da un punto di vista dottrinale e formale, che è il vero oggetto dell’attuale lavoro, di cui ciò che precede non è che un preliminare o il prologo. È evidente in effetti, come abbiamo detto all’inizio, che per noi e per ogni cattolico che vede le cose con chiarezza, così come le vede il Papa, ciò che costituisce la vera gravità di questo soggetto, non è il raggruppamento di un numero più o meno considerevole di uomini, armati di grembiuli, compassi, sciarpe e squadre, che in certi giorni si divertono a fare una mascherata più o meno esteriore e buffonesca. Quale è il numero di questi uomini? Qual è la loro organizzazione? Quali sono i loro gradi? Le loro feste, le loro cerimonie? è questo uno studio che richiederebbe più di cento volumi, e che ha perso oggi gran parte del suo interesse, dal momento che la massoneria ha cessato di tenere i suoi misteri racchiusi nell’ombra o nella penombra. I nostri lettori possono su questo punto ricorrere a qualche autore che ha scritto su questa materia.- Il soggetto che sollecita attualmente la nostra attenzione è meno conosciuto. Il “massonismo” è qualcosa più della massoneria: è una parola, come si direbbe nel linguaggio scolastico, che ha un significato più esteso: è un concetto più generale, più ampio, di più vasta comprensione. Il massonismo è la dottrina della massoneria, è il suo spirito, la sua influenza; è questa atmosfera che si estende in tutti i sensi e giunge ad infettare col suo veleno il mondo intero ed a fare numerose vittime tra coloro che massoni non sono. Il massonismo è un insieme di principi, di massime, di teorie, di processi, di applicazioni, che sono riusciti a formare una corrente che coinvolge il mondo moderno, dopo averlo fatto uscire completamente, almeno nella sua parte ufficiale, dalla fede antica che Dio e la Chiesa avevano tracciato. Il massonismo è questa cosa che fa che un cristiano convinto, e che vuole perseverare nella sua fermezza, sembri oggi un “fenomeno”, una singolarità esotica che contrasta con tutto ciò che lo circonda. Il massonismo infine, è pressappoco ciò che troveranno naturale ed accettabile gli uomini di mondo nell’era attuale, ed anche numerosi cattolici obbligati in coscienza a ragionare secondo altri principi. Ed essi li giudicano naturali ed accettabili, perché si sono formati, spesso senza pensarci, un criterio massonico in luogo di un criterio cattolico: essi vedono, apprezzano, giudicano, decidono, agiscono secondo dei principi massonici; ed essi fanno tutto questo senza essere massoni, e persuasi forse di aborrire in cuor loro la massoneria. È questo il carattere più orribile dell’epoca attuale: l’ignoranza completa della loro vera situazione, nella quale vivono un gran numero di uomini cattolici a “loro modo”, e che la rivoluzione trova come suoi ausiliari più attivi e potenti. Tale è il trionfo veramente satanico che si propone di ottenere la massoneria, e che, diciamolo francamente, ha già in gran parte ottenuto. Dopo aver escluso dal mondo sociale l’immagine di Cristo che la predicazione cristiana vi aveva impresso, ed averla rimpiazzata con l’immagine di satana, senza che il mondo sembri accorgersi di questo cambiamento, essa ha rimpiazzato il Cattolicesimo, che è l’anima della società, con il massonismo, senza che l’imprevidenza degli uomini abbia permesso di constatare la differenza che esiste tra lo spirito che anima oggi il corpo sociale e quello che lo animava in altri tempi. [Questa situazione oggi si è realizzata anche nella Chiesa Cattolica che insensibilmente e lentamente, si è trasformata per l’apporto della massoneria ebraica e della “quinta colonna” dei marrani, in sinagoga di satana, guidata da antipapi servi di lucifero, e senza che quasi nessuno se ne sia accorto, o meglio, se ne “voglia” accorgere – ndt.-]. Ecco perché noi diamo al “massonismo” una sì grande importanza ben al di sopra della massoneria. Quest’ultima è stata lo strumento di cui esso si è servito per demolire l’antico edificio di cui la Croce era il coronamento, per edificare il nuovo edificio, che non vuole affiggere segni cristiani. Lo strumento perde la sua importanza quando questo edificio è costruito. Così infatti, quando la massoneria ha raggiunto il suo scopo sociale, comincia a mettere da parte questo ridicolo apparato cerimoniale del quale fino ad ora si era circondata e del quale oramai non ha più bisogno per compiere la sua infernale missione. Fino al punto che non saremo più stupefatti, se le cose continuano ad andare avanti, di vedere un giorno dichiarare la chiusura di tutte le logge. A cosa serviranno in effetti esse, quando tutto il mondo ufficiale non sarà più che una immensa loggia? Si ha dunque ragione, fino ad un certo punto, di dire che la massoneria ha oggi meno importanza di un secolo fa. Questo è naturale, perché essendo dappertutto il massonismo sovrano, la massoneria deve rinunciare alla propaganda che ha perso così la sua principale ragion d’essere. Il massonismo domina tutto oggi, e di fronte ad esso, in mezzo alle rovine che ha accumulato, non resta in piedi se non il Cattolicesimo. Il massonismo ed il Cattolicesimo sono i veri elementi essenzialmente opposti, nella terribile lotta attuale: ecco perché abbiamo sintetizzato, riassunto in poche parole tutto il piano del nostro presente lavoro. Andiamo dunque a vedere, prendendo come guida il Papa, ciò che è il massonismo, quali siano le applicazioni pratiche nelle quali si riflette la sua ispirazione satanica nell’ambito della società attuale, e quali siano i punti principali sui quali è in disaccordo con la Dottrina Cattolica.

VII

Concetto intrinseco della massoneria sotto il rapporto dottrinale, o concetto essenziale di tutta la dottrina massonica.

 La massoneria non è soltanto una società che ha degli adepti; essa è un simbolo di dottrine che gli adepti si sforzano di far prevalere ad ogni costo nella sfera sociale. È a queste dottrine massoniche, alle mille influenze che tentano di far prevalere, all’applicazione variegata che si da’ di queste dottrine nella vita pubblica e, ai nostri giorni, finanche nella vita privata, che noi diamo il nome di massonismo. Qual è dunque, ci chiediamo ora, il concetto, l’idea fondamentale del massonismo? Il Papa risponde, nella sua magistrale Enciclica “Humanum genus”, in questi termini che precisano e definiscono chiaramente tutta la questione: « I franco-massoni si propongono, in tutti i loro sforzi tendenti a questo scopo, di distruggere interamente ogni disciplina religiosa e sociale nata dalle istituzioni cristiane, e sostituirle con altre adattate alle loro idee, ed i cui princìpi e leggi fondamentali sono tratte dal naturalismo ». Il massonismo, pertanto, in bare a questa definizione, non è dunque che il “naturalismo”. Che cos’è questo naturalismo? Questa parola porta in se stessa il suo significato, e la sua etimologia ne fornisce la più chiara definizione. Il naturalismo è la negazione, o almeno l’esclusione, dell’ordine soprannaturale cristiano. Il naturalismo è dunque un anticristianesimo completo e perfetto. Entriamo in qualche spiegazione. Tutto l’ordine cristiano è fondato sul dogma della caduta originaria dell’uomo e sulla sua riabilitazione mediante l’Incarnazione del Figlio unico di Dio. L’uomo naturale è dunque l’uomo del peccato, che non ha alcun mezzo, né per essere convenientemente buono sulla terra, né per arrivare al suo fine ultimo all’uscita da questa vita. Per essere convenientemente buono ed ottenere il suo fine ultimo, l’uomo deve essere non l’uomo naturale, che è decaduto, ma l’uomo soprannaturalizzato che Gesù-Cristo ha rivelato e sostiene con la sua grazia. Per parlare più chiaramente, non è oggi sufficiente all’uomo essere l’uomo della creazione, egli deve essere l’uomo della Redenzione. L’esistenza dell’uomo non gli dà la sua perfezione intera, ma occorre che sia bensì cristiano. È sui principi della verità eterna, presentiti un giorno dalla stessa filosofia umana, ma messa in luce solamente dalla rivelazione divina su cui è fondato il Cattolicesimo, ed è da questi principi che trae logicamente tutte le sue conseguenze. – Il naturalismo parte da principi radicalmente opposti. Secondo esso, l’uomo non è caduto, e di conseguenza non ha bisogno di riabilitazione. Se c’è un Dio Creatore, il naturalismo non ne ha certezza; ma in cambio esso sa pertinentemente che non c’è Redentore. Gesù-Cristo è stato dunque un uomo “puro”, e la Chiesa è un puro inganno. L’essere ragionevole è perfetto e per arrivare a tutti i suoi fini, anche al suo fine ultimo, non ha bisogno di alcun soccorso che sia al di fuori della conoscenza e della portata del naturalismo! L’uomo ha dunque in se stesso tutti i mezzi propri ad ottenere questi fini, mezzi che gli sono assolutamente sufficienti; egli sa tutto ciò che gli è necessario sapere, perché la sua ragione è in tutta la sua integrità; egli osserva tutto ciò che gli conviene, perché la sua volontà non è stata indebolita; egli supera tutte le resistenze che l’appetito o la passione oppongono alla legge morale, perché il suo libero arbitrio non ha subìto alcuna influenza. E come l’uomo si rende autosufficiente in tutto, così pure la società è ugualmente autosufficiente, poiché nella sua ragione essa è perfettamente illuminata e possiede l’onniscienza; nella sua volontà essa è perfettamente sana e non ha alcuna tendenza al male; nel suo libero arbitrio, essa non deve affatto resistere alle cattive inclinazioni ed agli istinti perversi. Quindi si ignori tutto questo ordine soprannaturale che il Cristianesimo proclama come un ausilio indispensabile della natura inferma e decaduta! Che non ci siano più, inoltre: 1° – una questione che riguardi Gesù-Cristo considerato come l’Autore, il conservatore ed il consumatore di questo ordine soprannaturale; – 2° l’organizzazione speciale del soprannaturale che si chiama Chiesa Cattolica, ed infine – 3° questo Essere supremo, misterioso, che si chiama Dio, e che è l’ultima logica negazione del naturalismo. Ecco, superficialmente schizzato, nei suo tratti principali, questo sistema anticristiano del quale è facile ora distinguere a prima vista i fondamenti assurdi. Anche facendo astrazione da ciò che insegna la rivelazione di Gesù-Cristo, appoggiata su tutti i suoi potenti motivi di credibilità, l’idea che il naturalismo si fa dell’uomo e della società, è un’idea evidentemente falsa. Secondo questo sistema, l’uomo è perfetto, la società è perfetta, essi trovano da se stessi tutto ciò che sia loro necessario, e non hanno bisogno di nulla che sia loro superiore. – Ma l’uomo è debole, cieco, miserabile; da se stesso inclinato al male, il suo libero arbitrio è continuamente in lotta con gli istinti perversi, ai quali non resisterebbe senza la grazia di Dio. Egli ha dunque bisogno di una Luce superiore per conoscere, di una Forza superiore per agire, di un Soccorso superiore per non essere continuamente vinto. Egli non è un essere perfetto, egli è una miserabile rovina di qualche cosa che un giorno ebbe la sua perfezione, e che poi ha avuto bisogno di essere restaurato a caro prezzo. Egli nasce piangendo e non può essere buono se non lottando e trionfando da se stesso; in più, anche per ben morire, bisogna che qualcuno gli venga in aiuto. E la società? La società, unione di uomini, è come ogni insieme, della stessa natura delle sue parti. Essa è imperfetta, decaduta, portata al male, e non riesce a vivere che grazie alla repressione ed al freno che essa si impone; ciò che è da sé, il segno di una ben esile perfezione. – Ecco dunque come, fondato su queste basi ingannevoli, il naturalismo intero è pura menzogna. E tuttavia il naturalismo o il massonismo è il grande sistema teorico e pratico del mondo attuale! [Continua …]

LE INDULGENZE

LE INDULGENZE

[J.-J.- Gaume: il “Catechismo di Perseveranza”, Speirani ed. Torino 19881, vol. II, cap. XLI]

Che cosa siano le indulgenze. — Potestà di concederle. — Loro utilità. — Sono irreprensibili agli occhi della ragione. — Tesoro delle indulgenze. — Indulgenza plenaria e particolare. — Che cosa sia necessario per lucrarle. — Mezzi per guadagnare le indulgenze. — Che cosa sia il Giubileo.

Nella tema che fossimo spaventati e disanimati dal rigore delle penitenze, che siamo obbligati di fare per ragione dèi numero e dell’enormità delle nostre colpe, il Padre nostro celeste ha trovato un mezzo di provvedere alla debolezza de’suoi figli, conservando ad un tempo intatti i sacri diritti della sua giustizia. Egli perciò volle che l’innocente pagasse pel colpevole, e che le soddisfazioni soprabbondanti dei nostri fratelli ritornassero abbastanza a comune profitto, e d’altrettanto diminuissero il nostro debito; questo mezzo di cui parliamo sono le indulgenze. Noi non temiamo di asserire, che questo è uno dei più bei dogmi del Cristianesimo, e nello stesso tempo uno dei mezzi i meno apprezzati e i più calunniati. Per rivendicarlo dai blasfemi, basterà, noi crediamo, di esporre ciò ch’egli è realmente, e questo appunto apprendiamo a dimostrare.

Che cosa sono le indulgenze? — In una famiglia, un fanciullo si mostra disobbediente, ed il padre perciò gl’impone una penitenza. Il colpevole è in procinto di eseguirla, allorché la madre, o il fratello, o la sorella, sopraggiungono ed implorano grazia pel medesimo. Il padre si lascia piegare e perdona, a riguardo delle preghiere e della intercessione della sua sposa o de’ suoi figli: ed ecco che questo padre di famiglia ha accordato un’indulgenza. – In un regno, un uomo si rende colpevole di delitto, e le leggi lo condannano a morte. Già sale sul patibolo, quando un illustre personaggio gettasi a’ piedi del monarca, ed implora grazia pel condannato. Il re si lascia piegare, ed il colpevole è salvo: questo re concede un’indulgenza. Nella persona di Adamo il genere umano tutto intero si ribellò contro Dio, e fu quindi condannato alla morte eterna. Ben tosto il Figlio di Dio si presenta e si offre di morire in vece nostra. L’eterno Padre accetta il sacrifizio, e l’uomo viene assolto: Iddio allora accordò un’indulgenza. Fondato su questo mistero, il Cristianesimo intero non è che una grande indulgenza concessa al genere umano, che si è reso malfattore, ad intercessione del Giusto per eccellenza, volontariamente sacrifìcatosi per il mondo colpevole. Voi vedete perciò che l’indulgenza, in generale, è la riversibilità dei meriti del giusto sul colpevole; è la sorgente consolatrice, e ad un’ora terribile, della fraternità e della solidarietà che stringe fra di loro tutti gli uomini; è in fine la base stessa delle società, l’essenza stessa del Cristianesimo. Scendiamo ora da queste generali indicazioni, e vediamo che cosa si abbia ad intendere sotto il nome d’indulgenza propriamente detta, di cui è nostro obbligo occuparci al presente. La teologia definisce l’indulgenza: La remissione della pena temporale che rimane a subire dopo la remissione della colpa e della pena eterna; remissione accordata fuori del Sacramento della Penitenza, per l’applicazione de’ meriti di Gesù Cristo e dei Santi. [“Indulgentia est gratia, qua certo aliquo opere quod concedens praescribit, praestito, debita Deo poena temporalis (non autem culpa) extra Sacramentum, sacrifìcium et martyrium, per applicationem satisfactionum Christi et Sanctorum remittitur”. S. ALPH., lib. VI, tract. IV, n. 531; Ferraris, art. Indulg.] – Per comprendere la natura delle indulgenze e gli effetti che producono, è mestieri ricordarsi: 1° che ogni peccato deve essere punito in questa vita o nell’altra. Se il peccato è mortale, dev’essere punito nell’altra vita con pene eterne senza pregiudizio delle pene temporali: se poi non è che veniale, esso dev’essere punito con pene temporali qui in terra, oppure nel purgatorio; 2° che dopo la remissione, mercé il sacramento della Penitenza, tanto del peccato veniale quanto del mortale e della pena eterna che a questo è dovuta, rimane ordinariamente da subire una pena temporale: imperocché è raro che si abbiano disposizioni perfette di contrizione e di carità, che escludano ogni affezione al peccato e che pienamente ne giustifichino in faccia a Dio. – Che nel rimettere il peccato e la pena eterna, Iddio non rimetta già sempre la pena temporale che Gli è dovuta, ella è questa una verità resa incontestabile dalla condotta di Dio medesimo per riguardo ai più illustri penitenti. Adamo diviene colpevole, e Iddio gli rimette e il suo fallo e la pena eterna ch’esso merita; ma nullameno non lo esonera dalle pene temporali dovute al suo peccato: gli lascia il duro incarico di procacciarsi il pane col sudore della fronte, e la triste necessità di patire e di morire. Gl’Israeliti sono assolti dalle loro mormorazioni, e Davide egualmente dal suo doppio delitto; pur ciò nonostante subiscono per queste colpe, già perdonate, delle pene temporali. Ora, in questo disegno, noi dobbiamo riconoscere la sapiente sollecitudine del nostro Padre celeste, « il quale, dice sant’Agostino, allo scopo di mostrare al peccatore la grandezza del male che ha commesso e la punizione che ha meritato; affine di correggere una natura sempre inclinata all’errore, ed indurla ad esercitare la pazienza che le è necessaria, permette che pene temporali colpiscano l’uomo, anche quando più non sia condannato per i suoi falli ad una eternità di supplizi ».

Chi può accordare le indulgenze? — Ma è forse necessario che queste pene temporali siano assolutamente da noi subite, in tutto il loro rigore e in tutta la loro estensione, o in terra, o nel purgatorio? No: La fede c’insegna che la Chiesa ha ricevuto dal Signor Nostro Gesù Cristo il potere di addolcirle, potere consolatore, che noi con gratitudine riponiamo fra i più segnalati benefizi del divino Mediatore: dogma sacro, che riposa, al pari della stessa Religione, sopra fondamenti inconcussi.Noi ben cel sappiamo: un padre nella propria famiglia, un re nei suoi domini, godono la pacifica prerogativa di conceder grazia; e perché dunque la Chiesa, nostra madre e nostra regina, non avrebbe ugual privilegio rispetto ai suoi figli? L’Unigenito di Dio che l’ha fondata, avrebbe forse mancato del potere o della volontà di concederlo alla medesima? Del potere? Niuno lo sostiene. Della volontà? Niuno può sostenerlo. E difatti il Salvatore ha donato alla Chiesa l’autorità di accordare le indulgenze, allorquando ha detto a San Pietro: “E a te io darò le chiavi del regno de’Cieli; e qualunque cosa avrai legato sopra la terra, sarà legata anche nei Cieli; e qualunque cosa avrai sciolta sopra la terra, sarà sciolta anche ne’Cieli [Matteo XVI, 19].Codesta promessa è generale e non ammette eccezione di sorta. Su di che noi formiamo il seguente raziocinio: La Chiesa ha ricevuto da Gesù Cristo, nella persona di San Pietro, che è il suo capo, la podestà di aprire le porte del Cielo ai peccatori pentiti; essa ha dunque il potere di togliere tutti gli ostacoli che potrebbero loro impedire di entrarvi. Ora, le pene temporali che rimangono ad essi da subire dopo la remissione della pena eterna, sono altrettanti ostacoli, che vietano al peccatore convertito il suo ingresso nel Cielo, ove non è dato di entrare senza aver pagato alla giustizia divina, e sino all’ultimo obolo, tutto ciò che le è dovuto. La Chiesa ha dunque ricevuto il potere di rimettere queste pene; ed ella ne usa col mezzo delle indulgenze. Brevemente, la Chiesa ha ricevuto autorità di rimettere i peccati: dunque a più forte ragione può rimettere la pena dovuta ai peccati. Un’altra prova che la Chiesa ha ricevuto da Gesù Cristo la podestà di concedere le indulgenze, desumesi dal contegno degli Apostoli. Ammaestrati da Gesù Cristo medesimo, hanno usato di tale autorità, testimonio l’apostolo San Paolo. Codesto infaticabile operaio di Cristo aveva predicato il Vangelo nella città di Corinto, dove era giunto a stabilire una Chiesa fiorente. Chiamato dallo zelo che l’infiammava in altre provincie, sente che uno de’suoi neofiti è caduto in gravissimo fallo. Tosto egli scrive alla Chiesa di Corinto di espellerlo dal suo seno [Cor. V] . Gli vien risposto che il colpevole si mostra pentito; l’Apostolo, tocco da compassione, scrive una seconda lettera, nella quale ei si mostra pronto ad usare indulgenza verso questa pecora traviata sì ma penitente, per tema che un eccesso di tristezza divenga per essa una tentazione a disperare, e soggiunge: Io ho usato indulgenza per amor vostro, e la ho usata a nome di Cristo [Cor. II, 10]. – San Paolo credeva dunque che il Figlio di Dio aveva concesso ai suoi Apostoli, e per conseguenza alla sua Chiesa, il potere di conceder grazia ai peccatori, per riguardo alle preghiere ed ai meriti de’suoi fratelli innocenti, vale a dire, il potere di accordare indulgenze. Gli eretici e gli empi, che hanno negato alla Chiesa questo diritto, oserebbero essi forse di credersi meglio istruiti sui disegni di Gesù Cristo che non San Paolo, e di determinare con maggiore esattezza tutta l’estensione dei poteri che il divino Fondatore ha accordato alla sua Chiesa? Il più grande inimico delle indulgenze nei tempi moderni, Lutero, non diceva forse, innanzi di venir condannato dal sovrano Pontefice: Se alcuno osa negare la verità delle indulgenze del Papa sia anatema? – Una terza prova ritrovasi nella condotta dei successori degli Apostoli, i quali sino dai primi secoli, e sull’esempio dei loro maestri, ritennero costantemente l’usanza di concedere delle indulgenze. Nel terzo secolo i montanisti, nel quarto i novaziani, combatterono con falso zelo la facilità colla quale i pastori della Chiesa ammettevano i peccatori alla penitenza, e loro accordavano l’assoluzione e la comunione. A far cessare consimili clamori, fu spinto molto innanzi il rigore delle penitenze che s’imponevano ai peccatori prima di riconciliarli colla Chiesa. Ma i pastori, malgrado la testardaggine degli eretici, continuarono ad usare indulgenza [‘ Essi erano autorizzati dai canoni dei Concili di Nicea, di Ancira, di Lerida, ecc. ecc.— S . BASILIO, S. GIOV. CRISOSTOMO, ecc. approvano tale condotta.] verso i penitenti, tanto per riguardo al fervore col quale essi compievano le loro penitenze, quanto per l’approssimare delle persecuzioni, onde poter loro distribuire la comunione, quale necessario preservativo contro i pericoli da cui erano minacciati, come in fine per rispetto ai martiri ed ai confessori trattenuti nelle prigioni o condannati alle miniere, i quali chiedevano spesse volte ai Vescovi cotali indulgenze in favore di alcuni penitenti. – Questi generosi campioni di Cristo, imitando il loro Maestro sul punto di spirare, racchiusi nelle carceri e destinati alla morte, erano da impulsi di carità sospinti verso i loro fratelli, e chiedevano grazia per loro. Quando sapevano o potevano scrivere ponevano il nome de’ loro protetti sopra un biglietto, ch’era perciò comunemente detto libello dei martiri; allorché non potevano scrivere si contentavano di nominarli ai diaconi da’quali erano visitati nelle carceri. I diaconi portavano tali libelli o riferivano le raccomandazioni verbali ricevute dai martiri ai Vescovi; e questi per rendere onore alla costanza dei martiri concedevano indulgenze ai penitenti, vale a dire, accorciavano la durata delle loro penitenze. Fra i figli della Chiesa tutti i beni spirituali essendo comuni, essi giudicavano che i meriti dei martiri potessero essere legittimamente applicati ai penitenti, pei quali i campioni della fede si degnavano di pregare [CYPR , ep. X, XI, XII, XIII, XXIII.]. – Dopo la conversione degli Imperatori non v’ebbero più martiri per intercedere in favore dei penitenti; ma non per questo si ritenne che la sorgente delle grazie della Chiesa fosse inaridita e nemmeno diminuita. E noi infatti vedremo fra poco che questa fonte è inesauribile. Ella è dunque verità di fede appoggiata sulle parole di Gesù Cristo medesimo, sull’esempio degli Apostoli e sulla tradizione di tutti i secoli, che la Chiesa ha la podestà di concedere indulgenze. Quindi il santo Concilio di Trento pronunzia l’anatema contro chiunque osasse asserire che le indulgenze sono inutili, o che la Chiesa non ha l’autorità di accordarle [Sess. XV, c. 23].

III. Qual è l’utilità delle indulgenze? — Egli è certo che l’indulgenza concessa con quella discrezione, che sempre ha contrassegnato in modo si luminoso la sposa infallibile di Gesù Cristo, è interamente rivolta al vantaggio dei fedeli. Essa è per i Santi viventi una ragione di più per moltiplicare le loro buone opere; pei peccatori un motivo di confidenza nella comunione dei Santi, ed uno stimolo efficace ad evitare tutti i peccati ai quali è annessa la scomunica; pei giusti e pei peccatori ad un tempo un vincolo ammirabile di fraterna carità! È dunque errore gravissimo darsi a credere che le indulgenze conducano alla rilassatezza ed alla depravazione; poiché esse non hanno mai autorizzato un peccatore a ricusare la penitenza impostagli dal Confessore, ad esimersi da una restituzione, o da una riparazione che fosse in obbligo di fare. L’obbietta delle indulgenze fu sempre quello di supplire a penitenze omesse, o malamente adempiute, o troppo leggere per riguardo alla enormità delle colpe. La Chiesa dice presso a poco così ai peccatori, verso dei quali usa di tale favore: «Voi siete debitori di tanto; e nulla avete o quasi nulla per pagare: ma se voi fate quella tal cosa sarete esonerati dal debito ». È un padre, un re che commuta la pena meritata da un figlio disobbediente o da un suddito ribelle. Operando in tal guisa, la Chiesa non fa che seguire l’esempio di Dio medesimo. Che cosa infatti, come altrove abbiamo detto, che cosa è il Cristianesimo? Che cosa è la redenzione di Gesù Cristo, primo fondamento della nostra fede? Non è essa forse una grande indulgenza concessa all’uomo colpevole per riguardo alla gran Vittima innocente? In una parola: l’uomo è colpevole; egli non può soddisfare neanche per la più piccola delle offese; la divina giustizia reclama nonostante tutti i suoi diritti: dunque senza indulgenza, vale a dire, senza i meriti del Giusto applicati ai peccatori e ricevuti in pagamento del suo debito, non si dà remissione possibile, non redenzione, non Cristianesimo. Ecco ciò che mostra come il dogma delle indulgenze si fondi sulla base stessa della Religione di Gesù Cristo; imperocché le indulgenze che accorda la Chiesa non sono che una particolare applicazione della grande indulgenza, che è la base pur anco del Cristianesimo. – Il dogma delle indulgenze è esso contrario alla ragione? — Nulla è più conforme alla ragione quanto il dogma delle indulgenze, imperocché nulla concilia più mirabilmente i diritti della giustizia e della misericordia divina. Iddio non può lasciare un peccato senza punizione, più di quanto possa lasciare un’opera buona senza ricompensa: ed è rigorosamente necessario che un peccato sia punito quando lo merita. [Aug., lib. III, De Lib. Arbitr., c. 9 et 10; id. De Natur. Boni, c. 7. — “Nec sufficit solummodo reddere quod ablatum est, sed prò contumelia illata plus debet reddere quam abstulit…” — Anselm., lib. \, Cur Deus homo, cap. II]. La sua misericordia pertanto non è riposta nel dare l’impunità al colpevole, ma sebbene, come ci dimostra il dogma delle indulgenze, a contentarsi della soddisfazione di Gesù Cristo e dei Santi per l’espiazione dei peccati degli uomini. Egli potrebbe esigere da noi stessi tutto quanto Gli dobbiamo, sino all’ultimo obolo; ma, per bontà, degnasi accettare l’altrui soddisfazione in pagamento di un debito, che avrebbe avuto diritto di reclamare da noi in tutta la sua integrità.

  1. Qual è il tesoro delle indulgenze? — Queste nozioni suppongono: 1° che si danno nella Chiosa soddisfazioni sovrabbondanti; 2° che queste soddisfazioni possono essere applicate ai fedeli. Questa doppia supposizione è una realtà. E primieramente si danno nella Chiesa soddisfazioni sovrabbondanti. Difatti tutte le buone opere fatte in istato di grazia sono ad un tempo stesso impetratorie, meritorie, soddisfattorie; esse ottengono la grazia, meritano la gloria, espiano il peccato. In questo modo le azioni di Nostro Signore, esemplare di tutte le buone opere dei Santi, Gli hanno acquistato, per gli uomini grazie di salute, per la sua umanità il più alto grado di gloria, e finalmente hanno cancellato il peccato dal mondo. Egualmente un giusto che faccia un’opera buona in istato di grazia aggiunge una gemma di più alla propria corona, ottiene una grazia di più, e da ultimo espia qualcuno de’ peccati che può avere commesso. Che se questo giusto non ha peccati da espiare, oppure il merito della sua opera buona sopravanza il suo debito, la sua buona azione non ottiene che una parte della dovuta ricompensa, ed in quanto ella è espiatoria, rimane priva del suo effetto: e innanzi a Dio, che è la giustizia stessa, questo genere di merito non può andare perduto.Ciò premesso, egli è certo: che le soddisfazioni di Nostro Signore hanno di molto sorpassato i peccati del mondo; esse sono infinite, mentre i peccati del mondo non lo sono. Quindi le memorande parole del pontefice Clemente VI, che spiegano sì bene il pensiero della Chiesa sul proposito delle indulgenze. « Il Salvatore, immolato sull’altare della Croce, non ha soltanto versato una goccia del suo sangue, che pure, per ragione della dignità di sua natura, avrebbe bastato per la redenzione del genere umano, ma lo ha versato tutto quanto. Come dunque dev’essere immenso il tesoro delle grazie che ha acquistato alla Chiesa militante, affinché si gran copia di meriti non restasse vana ed inutile! Esso non ha sepolto codesto tesoro, ma sebbene ha donato al Principe degli Apostoli ed a suoi successori il potere di distribuirne le ricchezze ai fedeli [“Unigenitus Dei Filius… pretioso sanguine nos redemit, quem in ara Crucis innocens immolatus, non gutlam sanguinis modicam, quae tamen propter unionem ad Verbum prò redemptione totius humani generis suffecisset, sed copiose, velut quoddam profluvium nascitur effudisse… Quantum ergo exinde ut nec supervacua, inanis et superflua tantae effusionis miseratio redderetur, thesaurum militanti Ecclesiae acquisivit, volens suis thesaurizare filiis pius Pater, ut sic sit infinitus thesaurus hominibus quo qui usi sunt, Dei amicitiae participes sunt affecti. Quemquidem thesaurum, non in sudario repositum, non in agro absconditum, sed per B. Petrum Coeli clavigerum, eiusque successores, suos in terris vicarios, commisit fldelibus salubriter dispensandum, et propriis et rationalibus causis, nunc prò totali, mine prò partiali remissione poenae temporalis pro peccatis debitae, tam generaliter, quam specialiter (prout cum Deo expedire cognoscerent) vere poenitentibus et confessis miserieorditer applicandum”. Extravag. Unigenitus, etc.»]. – Egli è certo che i Santi hanno fatto molte soddisfazioni sovrabbondanti. Chi può negarlo della santa Vergine, la quale, esente da ogni macchia, ha ciò non ostante sofferto cotanto? Chi può negarlo di tanti Martiri, che dal sacro fonte del Battesimo, nel quale erano stati pienamente purificati, sono saliti ben tosto sul patibolo, ove han fatto il sacrificio della vita? Chi può negarlo di tanti altri Santi, che colpevoli appena di qualche leggiera mancanza, hanno nondimeno passata la vita nelle austerità, nei digiuni, nelle privazioni di ogni specie? Tale si è ancora la dottrina della Chiesa [Extravag. Unigenitus,]. Laonde il tesoro delle indulgenze si compone dei meriti sovrabbondanti del Signor Nostro Gesù Cristo, della santa Vergine e dei Santi: questo tesoro è inesausto, poiché i meriti del Salvatore sono infiniti. – Noi abbiamo detto in secondo luogo, che questi meriti possono essere applicati ai fedeli, e noi ciò abbiamo stabilito, col dimostrare che la Chiesa ha la podestà di concedere indulgenze. Aggiungiamo che la giustizia medesima esige che cosi appunto avvenga: ed è agevole l’intenderlo. Ditemi di grazia, non sarebbe forse cosa strana che in una società così perfetta com’è la Chiesa un tesoro sì dovizioso rimanesse sepolto? Iddio potrebbe mai lasciare inutili tanti meriti di Gesù Cristo e dei Santi? Egli non può farli servire né a benefizio del suo Figlio né de’ Beati, poiché essi non hanno debiti personali da pagare. La giustizia richiede dunque che simile tesoro divenga fruttuoso in vantaggio de’ suoi figli che ne hanno bisogno: e ciò Egli ha fatto sin dall’ origine del mondo, e lo fa tuttavia. Nel terrestre paradiso accettò l’intercessione del Figlio suo in favore dell’uomo colpevole : nell’antica Alleanza fu visto spesse volte perdonare ai più grandi peccatori, quantunque non facessero che leggiere penitenze, purché qualche santo personaggio offrisse per loro le proprie soddisfazioni. Così egli perdonò agli Israeliti ribelli per intercessione di Mose suo servitore; così avrebbe perdonato alle cinque infami città, se vi si fossero trovati solamente dieci giusti; così al profanatore Eliodoro, per riguardo al gran sacerdote Onia. Nella Legge novella moltiplica per sua grazia i meriti de’ Santi che ci sono applicati mediante le indulgenze.

VI . Che cosa si deve intendere per indulgenza plenaria, e per indulgenza parziale? — La remissione della pena temporale dovuta ai nostri peccati non ci sempre accordata nella istessa misura: talvolta essa è piena ed intera, altre volte non è tale. Da ciò le indulgenze plenari e le indulgenze parziali: per esempio di sette anni, di sette quarantene, ed altre, più o meno lunghe. – L’indulgenza plenaria è la remissione non solo di tutte le penitenze sacramentali e canoniche, ma ancora di tutte le pene del Purgatorio. [v. S. Alfonso lib IV, tract. IV, n. 535, p. 264, etc. etc.] Laonde il Cristiano, cosi felice da guadagnare in tutta la sua interezza un’indulgenza plenaria, diventa puro come il fanciullo all’uscire dal fonte battesimale: se muore in questo stato avventuroso, egli sale diritto al Cielo senza passare pel Purgatorio [Raccolte di indulgenze, etc. Roma, 1841, p. XVI]. Conoscete voi una verità più di questa consolatrice? Ma direte voi: Colui che acquista in tutta la sua pienezza un’indulgenza plenaria a benefizio de’ trapassati è sicuro di liberare infallibilmente dal Purgatorio quell’anima a cui si è inteso di applicarla? – No, egli non è sicuro, ed eccovi la ragione. Un’anima può essere ritenuta nel Purgatorio o per peccati veniali che non sono stati rimessi, ovvero, se sono stati rimessi, per subire la pena da essi meritata, non meno che per peccati mortali perdonati nel Sacramento della Penitenza. – Se l’anima è ritenuta nel Purgatorio per ragione di peccati veniali che non siano stati condonati, l’indulgenza non potrebbe liberamela, attesoché, e scolpitelo bene nella memoria, l’indulgenza non rimette né i peccati mortali né i veniali, ma solamente la pena temporale ad essi dovuta. Perciò allorquando voi leggete nella formula ossia concessione di qualche indulgenza le parole: «Colui che l’acquisterà, riceverà la remissione di tutti i suoi peccati, « remissionem omnium peccatorum » voi sempre dovete intendere le pene temporali dovute ai peccati stessi. [Ferraris, art. Indulg., p. 232]. Se l’anima è trattenuta nel Purgatorio per subire soltanto le pene temporali, egli è certo, secondo Sant’Agostino, San Giovanni Crisostomo, San Tommaso ed i principali Teologi, che l’anima è infallibilmente liberata, sempreché Iddio ne’ disegni imperscrutabili di sua giustizia non giudichi conveniente di negarle l’applicazione di quel benefizio nella intera sua estensione. Aggiungasi ch’è assai difficile il conoscere se noi abbiamo guadagnato in tutta la sua pienezza un’indulgenza plenaria; ed ecco perché, senza pretendere di scrutare i misteri di Dio, noi facciamo opera buona applicandone il più gran numero possibile alle anime che ci son care. – Rispetto alle indulgenze di sette anni, per esempio, di sette quarantene, ecc., esse rimettono la pena che sarebbe stata cancellata da sette anni, o da sette volte quaranta giorni, di penitenza pubblica imposta nei primi secoli della Chiesa; ma ciò non vuol significare menomamente ch’esse diminuiscano di sette anni o di sette volte quaranta giorni le pene del Purgatorio [“Indulgenza alia est partialis, qualis est unius, vel aliquot annorum; itera septenae, quadragenae, etc. Per quas non significatur tolli tantam durationem Purgatorii, sed tantam poenam remitti, quanta deleretur per ieiunium unius, aut aliquot annorum, aut quadraginta dierum in pane et aqua, secundum canones olira imponi solitum”. S. ALPH. , n. 555; FERRARIS, 225. — Noi faremo osservare con Sant’Antonino che il numero sette si trova spesso adoperato nelle indulgenze per contrapposizione ai sette peccati capitali.]. per eccitare in noi il più vivo desiderio di acquistarle, basta sapere ch’esse le diminuiscono in quella misura ch’è stabilita dalla misericordia sapientissima del Giudice sovrano. Ma è ormai tempo di passare alla settima questione, alla quale risponderemo con brevi parole.

VII. Che cosa dobbiamo fare per acquistare le indulgenze? — Siccome abbiamo superiormente insegnato, le indulgenze sono un immenso benefizio tanto per noi quanto per le anime del Purgatorio. Ciò che ne accresce il pregio e manifesta luminosamente l’infinita bontà del nostro Padre celeste, è la facilità delle condizioni che ci sono imposte per ottenerle. Facilità negli atti che sono richiesti. Talora è una breve preghiera, tal’altra una visita ad una Chiesa; spesso il conservare una croce, una medaglia, accompagnando tale azione con certi atti di pietà, che tutti, e dotti e ignoranti, e giovani e vecchi, possono egualmente adempire, Cosi, né alcuno di voi può ignorarlo, parecchie indulgenze sono annesse alla recitazione del rosario, degli atti delle virtù teologali, delle litanie dei santi nomi di Gesù e della Vergine, dell’Angelus e di una quantità d’altre preghiere che lutti sanno a memoria, o che leggonsi in quei libri che corrono per le mani d’ ognuno. Sono pure annesse delle indulgenze alle diverse confraternite della santa Vergine, del Santissimo Sacramento, del sacro Cuore , del catechismo, delle anime del Purgatorio, del Rosario, del sacro Scapolare, della propagazione della fede, ecc.; né fa d’uopo ch’io m’intrattenga nel dimostrarvi la facilità di tutte le pratiche religiose di queste devote confraternite. La giornaliera meditazione, l’atto pio di accompagnare il Santissimo Sacramento che si porta agli ammalati, non meno che la maggior parte delle opere di carità spirituale e corporale verso il prossimo, sono tutte sorgenti feconde di sante indulgenze. – Facilità nel modo di compiere gli atti prescritti. Si osservi primamente, che le indulgenze sono beni che appartengono alla Chiesa. Per goderne, bisogna dunque appartenere a questa santa società; è necessario essere battezzato. Questi sono beni destinati a pagare i nostri debiti; è dunque necessario di averne contratti; ossia, in una parola, aver commesso dei peccati. Laonde i fanciulli che sono senza peccati non potrebbero guadagnarne per se medesimi. – I fedeli defunti non cessano di esser membri della Chiesa, e possono perciò profittare delle Indulgenze. Ciò non ostante è necessario che il sommo Pontefice autorizzi ad applicare quelle tali indulgenze alle anime del Purgatorio, perciocché a lui spetta di regolare la distribuzione dei meriti di Gesù Cristo. È mestieri da ultimo che i fedeli abbiano intenzione di applicarle. – Ciò premesso, è necessario, per acquistare le indulgenze: 1° farle nel tempo e nel modo prescritti, e conforme all’intenzione di colui che accorda l’indulgenza; 2° farle intere, e personalmente; 3° essere in istato di grazia, allorché almeno si compie l’ultima azione comandata, giacché la pena dovuta al peccato non può essere rimessa prima che il peccato stesso abbia ottenuto perdono; 4° avere intenzione, almeno abituale ed interpretativa di acquistare l’indulgenza [FERRIRIS, p. 228. — “Etsi in opere praestito non habueris intentionem consequendi induldentias … et videtur certum si habueris interpretativam”. S. ALPH. , n. 5, 54, p. 261. — 1’intenzione interpretativa consiste nella disposizione in cui ci troviamo di acquistare le indulgenze, senza che vi sia per parte della volontà intenzione alcuna o attuale, o virtuale e nemmeno implicita. M. GOUSSET, t . I , p. 20. Vedi Raccolta etc. p. XXIII]. Per compiere quest’ultima condizione, basta il volgerle la propria attenzione nel mattino, dicendo per esempio: “Mio Dio, io ho l’intenzione di acquistare in oggi tutte le indulgenze che stanno unite alle orazioni e alle buone opere che io farò nel corso di questa giornata”. – È questo il luogo di fare quattro importanti osservazioni sulla confessione, sulla comunione, sulle preghiere da recitarsi, e sugli obbietti privilegiati d’ indulgenza.

1° Sulla confessione. Le persone che conservano la santa abitudine di confessarsi ogni otto giorni possono acquistare tutte le indulgenze che si presentano nel corso della settimana, purché perseverino nello stato di grazia. È d’uopo soltanto di eccettuare le indulgenze del Giubileo e quelle in cui la confessione è prescritta come parte essenziale dell’opera buona che deve farsi1.

2° Sulla comunione. Quando la comunione è comandata per acquistare un’indulgenza plenaria in particolare, ella può farsi nella vigilia della festa stabilita per l’indulgenza.

3° Sulle preghiere. Sebbene noi siamo obbligati a compiere da noi stessi le buone opere ingiunte, null’ostante la Santa Sede ha definito che le persone le quali recitano, alternativamente con altre, le preghiere stesse, acquistano le indulgenze.

4° Per acquistare le indulgenze annesse ai rosari, alle croci, ai crocifissi, alle medaglie, è necessario o di portare sulla propria persona questi diversi obbietti, senza che perciò abbiano a tenersi fra le mani, oppure conservarle presso di sé. Le preghiere prescritte come condizione per acquistare le suddette indulgenze devono essere recitate, o avendo addosso le croci, le medaglie, ecc., oppure tenendole custodite rispettosamente nella propria stanza, o in altro luogo decente della casa, ovvero recitando davanti a questi obbietti le preci ingiunte. Finalmente non è lecito donarle, venderle, prestarle ad altri allo scopo di acquistare indulgenze senza che perdano ben tosto il loro privilegio. Che cosa può darsi di più semplice e di più facile di tali condizioni? Per adempierle basta solo volere; ma quand’anche fossero così ardue come son facili, non dovremmo nemmeno per questo esimerci da verun sacrificio onde ottenere gli immensi benefizi che ne procurano le indulgenze.

VIII. Quali sono i motivi che abbiamo per guadagnare le indulgenze, tanto per noi stessi quanto pei trapassati ? — Parliamo primamente per noi stessi. Qual è colui fra gli uomini, che riguardando alla sua vita cogli occhi della fede non debba ripetere col profeta Isaia: « La mia vita rassomiglia a pannolino insozzato »; tante sono le imperfezioni ed i difetti che macchiano le nostre buone opere istesse [“Quasi pannus menstruatæ universæ iustitiæ nostræ”. Isaia, LXIV, 6]. – Chi è colui che non debba soggiungere con Davide: Il cumulo delle mie iniquità sopravanza l’altezza del mio capo? “Iniquitates meæ supergressæ sunt caput meum?” [Ps. XXXVII]. E non dovrà interrogare se stesso con quelle altre parole del Profeta: Chi è che gli errori conosca? [“Delicta quis intelligit?” Ps. XVIII]. – Qual è l’età della nostra vita che non sia stata bruttata da particolari peccati? Fra i dieci comandamenti di Dio avvi un solo che sia stato da noi costantemente rispettato? Ma che dico io mai? Qual è quella delle leggi divine che non sia stata trasgredita, e spessissimo trasgredita con pensieri, con parole, con opere, con omissioni? I precetti della Chiesa hanno essi forse ottenuto per parte nostra una fedeltà più religiosa, un rispetto più reale e più costante? Ohimè! e non li abbiamo forse disprezzati più facilmente ancora che non i comandamenti di Dio? Tale pur troppo è la fedele pittura dell’intera nostra vita. – E d’altra parte quali penitenze abbiamo noi fatto per tanti peccati? Quali penitenze facciamo noi presentemente? C’imponiamo forse di buon grado mortificazioni od austerità per soddisfare alla divina giustizia? «Le penitenze che ci vengono imposte nel sacro tribunale della riconciliazione sono elleno proporzionate al numero ed alla enormità dei nostri peccati? E con qual fervore si compiono da noi? Accettiamo noi forse, non dirò già con gratitudine, ma almeno con rassegnazione, le croci e le tribolazioni che nella sua misericordia ci manda il Signore? Lo scoraggiamento, la tristezza, i pianti, le mormorazioni, l’impazienza non sorgono forse nel nostro cuore, non escono forse dalle nostre labbra, non solo per rendere inutili questi avvisi salutari, ma anche per farne pretesto di nuove cadute? Tutto ciò significa che noi siamo carichi di debiti, che tutto giorno ne facciamo di nuovi, e che noi non ne paghiamo alcuno. Eppure Iddio è tale creditore, a cui niuno impunemente può rifiutarsi di pagare. Continuiamo pure a vivere nella spensieratezza, e tardi purtroppo ci persuaderemo, che ogni peccato sarà punito, punito come merita di essere, o in questo mondo o nell’altro! – Dacché noi per liberarci dai nostri debiti non facciamo nulla o quasi nulla, è evidente che in luogo di studiarci affin di addolcirli o di evitarli, noi procuriamo al mondo tanti flagelli pubblici e privati, come sono, per esempio, le rivoluzioni, le infermità, i dolori di ogni fatta che sono il castigo del peccato; ed inoltre egli è evidente che colla nostra noncuranza accettiamo, come condizione la più favorevole che nell’altro mondo possiamo sperare, il fuoco del Purgatorio, quei tormenti la cui durata è sconosciuta, il cui rigore sopravanza tutto ciò che di penoso può immaginarsi sulla terra. E siamo noi che facciamo questi calcoli, noi che tanto paventiamo il soffrire! – Sforzarsi di acquistar le indulgenze, non è utile soltanto per pagare i nostri debiti, ma ben anco per non incontrarne de’ nuovi; non solo per chiudere il Purgatorio, ma inoltre per aprire il Cielo. Abbiamo già detto, che per acquistare un’indulgenza mestieri di essere in istato di grazia. Ora, non è forse un possente stimolo per rimanere o per ritornare in questo felice stato il salutar pensiero che possiamo ottenere un’indulgenza? Quanto più noi apprezzeremo somigliante favore, tanto maggiori saranno gli sforzi che faremo per adempiere le condizioni, senza le quali non possiamo meritarla. Adunque il dogma delle indulgenze, anziché portare alla rilassatezza, come pretendono certi eretici, e come ripetono certi cattivi Cristiani, questo dogma degnamente apprezzato basta solo per innalzare i fedeli al più alto grado di pietà, per popolare la terra di Santi, per riempiere il Cielo di Beati. Tali sono i possenti motivi che abbiamo per ottenere le indulgenze a nostro particolare vantaggio; ma non meno possenti sono le ragioni che noi abbiamo per acquistarle a benefizio delle anime del Purgatorio. – Signore, venite e vedete, diceva al Salvatore la sorella di Lazzaro; e in così dire lo conduceva all’ingresso del sepolcro, in cui da quattro giorni era rinchiuso il suo fratello. E il Redentore pianse e risuscitò il suo amico. Io dirò altresì a voi: Fratello mio, mia sorella, veni et vide. Venite sul limitare del Purgatorio, ed osservate per entro quelle fiamme divoratrici il padre vostro, vostra madre, vostro fratello, vostra sorella, che sollevano verso di voi le loro mani supplichevoli, e vi scongiurano di liberarli. Essi colà patiscono, non già da quattro giorni, ma forse da molti mesi, e son condannati a rimanervi tuttavia per dieci, per venti, per un numero anche maggiore di anni. Voi potete alleviare questi loro tormenti, accorciarne la durata, ridurla forse anche a nulla: per questo basta il guadagnare e l’applicare ad essi le indulgenze, che la Chiesa vi accorda con tanta liberalità ed a sì facili condizioni, e voi ricusate farlo? E intanto voi oserete ripetere in tutti i luoghi il vostro affanno, il vostro rammarico per la perdita de’congiunti? vestirvi a lutto, e parlare del vostro affetto per coloro che avete perduto? Dolore pagano! Lutto ipocrita! Affezione mentita! Il vero affetto, dice il Salvatore, non è riposto in vane parole; esso consiste in atti positivi: se amate i vostri trapassati, dimostratelo col sollevarli. In caso diverso io vi chiederò: Avete voi la carità? È ben palese che ne siete privi. Vi domanderò ancora: Avete voi la fede? Allorquando si pensa alla prodigiosa influenza che il dogma delle indulgenze ha esercitato sui secoli cristiani; quando si riflette che più volte l’Europa intera coi suoi re, coi suoi guerrieri, colle sue intere popolazioni si è mossa per ottenere un’indulgenza; quando si legge che il più magnifico tempio dell’universo è stato terminato mediante un’indulgenza [Vedi ancora per quello che avviene nella Chiesa della Madonna degli Angeli il giorno dell’indulgenza plenaria, la Vita di San Francesco d’Assisi scritta da CHEVIN]; quando sappiamo che tutti i paesi cristiani si sono coperti di monasteri, di chiese, di meravigliosi monumenti per ottener delle indulgenze; quando ci si narra che S. Francesco Saverio non conosceva mezzo più efficace dell’indulgenza per togliere dall’abisso dei vizi i propoli cristiani delle Indie; e pel contrario quando si medita sull’indifferenza mortale che noi mostriamo per questo favore inestimabile, una profonda tristezza ci trafigge il cuore, ed abbiamo tutta la ragione di chiedere, tremando per la risposta: Questo nostro mondo ha ancora la fede? Io suppongo che andiamo a visitare una vasta prigione, nella quale trovasi rinchiusa moltitudine di sgraziati, carichi di catene. Eglino son condannati a pene gravissime, gli uni per anni dieci, altri per venti, altri per quaranta. Noi loro diciamo: Il re nella sua clemenza vuole abbreviare le vostre miserie, e forse ancora interamente perdonarvi, al solo patto che voi reciterete la tale preghiera, porrete in pratica la tal opera di pietà, del resto facilissima e brevissima. Se voi accettate si apriranno le porte della prigione, potrete rivedere i parenti, gli amici, la famiglia. – Vi sarebbe forse un solo prigioniero che ricusasse sì dolce, sì facile condizione? Or bene, questi prigionieri siamo noi; noi, debitori insolvibili verso la giustizia di Dio. Tale prigione si è il Purgatorio; le pene di questa terra sono un nulla in paragone di quelle che ivi soffronsi. Ci vien proposto di liberarcene a condizioni facilissime, e noi le ricusiamo: e noi le adempiamo con scandalosa svogliatezza! E possiamo dirci ragionevoli? Ma se un giorno saremo condannati a languire per lunga serie di anni nelle fiamme del Purgatorio, di chi ne sarà la colpa? – Parliamo da ultimo della grande indulgenza della Chiesa cattolica; il Giubileo. Il Giubileo è un’indulgenza plenaria alla quale vanno uniti molti privilegi straordinari: 1° Essa è più estesa; essa è data alla Chiesa universale, laddove le altre indulgenze plenarie non sono destinate che ad una parte dell’ovile di Gesù Cristo. 2° I Confessori approvati hanno facoltà di assolvere da tutti i casi riservati e dalle censure; di commutare i voti, non meno che le opere prescritte per acquistare il Giubileo, a quelli che non trovansi in grado di compierle. Queste opere sono per l’ordinario in numero di sette: la processione, la visita delle chiese, la preghiera nelle chiese, la confessione, la comunione, il digiuno e l’elemosina. Durante il Giubileo, tutte le indulgenze rimangono sospese, eccettuate le seguenti ed alcune altre: le indulgenze concesse in articolo di morte; quelle che stanno unite alla recita dell’Angelus, ed al pio costume di accompagnare il Santissimo Sacramento allorché vien portato agli infermi; quelle degli altari privilegiati pei defunti; quelle concesse direttamente pei defunti [Vedi FERRARIS, art. Giubileo.] – Il Giubileo propriamente detto, ossia il grande Giubileo, è quello che si celebra al compiersi di ogni venticinquesimo anno, che perciò vien detto l’anno santo. Oh! sì; anno santo per eccellenza, e perché la Chiesa ci fa una singolare applicazione dei meriti di Gesù Cristo, sorgente inestinguibile di ogni santità, e perché quello è sopra di ogni altro il tempo della grazia, della clemenza, della liberalità del Signore. I sommi Pontefici nel salire al trono di San Pietro, hanno pure il costume di concedere un Giubileo; ma non è di questo che ora ci proponiamo di parlare. – La parola Giubileo vuol dire ritorno o remissione. Era questo presso i giudei il nome che si dava ad ogni anno cinquantesimo. Al ricorrere di questo anno felice, tutti i prigionieri, tutti gli schiavi venivano rimessi in libertà; le vendute eredità tornavano agli antichi loro padroni, i debiti erano cancellati, e la terra si lasciava incolta: era questo un anno di grazia e di riposo [Levit. XV — Num. X]. – Ora il Giubileo della Legge antica non era che figura di quello della Legge novella. Il Giubileo del Cristianesimo rimette i debiti spirituali di cui sono carichi i peccatori; libera i prigionieri e gli schiavi del giogo del demonio, ci ritorna al possesso dei beni spirituali che abbiamo perduto col peccato. Finalmente, nell’intenzione della Chiesa, devono i fedeli tutti considerare quest’anno come tempo di santo riposo, e durante il medesimo, dimentichi delle cure terrene e raccolti nel silenzio e nella meditazione, occuparsi degli anni eterni. Laonde il Giubileo richiama alla mente dei Cristiani che la loro Religione è nata col mondo, che è l’adempimento delle figure Mosaiche, ch’essi sono figli del Dio d’Israele ed i veri eredi delle promesse fatte ad Abramo, ad Isacco, a Giacobbe. Risveglia pure il Giubileo tutte le rimembranze della pietà antica. Codesta ammirabile istituzione risale ad epoca più assai remota di quanto si creda comunemente. – Il pontefice Bonifacio VIII, al quale essa è attribuita, in sul principio del secolo quattordicesimo, non altro fece che regolare un uso assai antico; imperocché ci narra l’istoria, che ne’ primi giorni dell’anno stesso in cui questo Pontefice pubblicò la sua bolla intorno al Giubileo, gli abitanti di Roma, in ciò imitati da molti stranieri, per spontaneo loro impulso accorrevano a visitare la basiliche del Vaticano per acquistare quelle indulgenze che solevano ottenersi ogni cent’anni secondo la tradizione degli antichi. Clemente VIII giudicando che il periodo di un secolo fosse troppo lungo, atteso ché poche persone vedono la fine di tal periodo, e che perciò gran numero di fedeli rimanevano privi di tal grazia, stabilì che il Giubileo dovesse celebrarsi ogni anno cinquantesimo. Per somigliante ragione Paolo II, nell’anno 1460, ne fissò la ricorrenza ad ogni venticinquesimo anno. – Il grande Giubileo comincia a Roma la vigilia del Natale; ed è annunziato nel giorno dell’Ascensione precedente col mezzo della bolla papale, il che si fa colla massima pompa nella basilica di San Pietro dopo l’Evangelo della Messa solenne. Dura un anno in Roma, e poscia si estende a tutto l’orbe cattolico. Quant’era mai splendido, quanto esemplare, quanto commovente lo spettacolo che nei tempi addietro offriva la cristianità nell’occorrenza dell’anno santo! Appena la sacra tromba si era fatta udire dall’alto del Vaticano, le parole del comun padre dei Cristiani, col ministero dei Vescovi e degli Arcivescovi, giungevano alle estremità della terra. Allora tutti i cuori battevano dalla gioia all’udire questa voce sì cara alla pietà. Come i figli d’Israele, cosi i figli della Chiesa si rallegravano poiché ricevevano l’avviso che ben presto essi andrebbero alla casa del Signore, a quella eterna Roma che è dimora del Vicario di Cristo. Allora s’indossavano gli abiti del pellegrino, e preso il bordone ricevuto in eredità dai padri si mettevano in cammino. Da ogni parte numerosi viaggiatori, abbandonando la loro patria, i congiunti, gli amici, affrontavano a piedi un viaggio lunghissimo e disagi d’ogni sorta. Era questa un’immensa deputazione che ogni venticinque anni il mondo cattolico inviava al Vicario di Gesù Cristo per rendergli omaggio, protestargli al suo cospetto la propria fede, la propria affezione, raccoglierne le benedizioni e portarle in tutti i paesi abitati dalla numerosa sua famiglia. – Nulla era più edificante che il pellegrinaggio di queste religiose carovane. Dall’aurora di quel giorno in cui si ponevano in cammino, innalzavano al Cielo cantici devoti in lode del Signore e dei Santi, protettori dei pellegrini; oppure, come il marinaio perduto nell’immensità dell’Oceano, invocavano la Vergine del Buon Soccorso, rivolgendole quella preghiera angelica, della quale l’esule soltanto può appieno comprendere ed apprezzare la divina beltà e l’affetto inenarrabile che suscita in cuore. Al giungere della sera battevano alla porta di un monastero, e quivi ritrovavano durante la notte in quei religiosi albergatori tanti fratelli, prima d’allora non conosciuti, ma che la religione loro faceva ben tosto conoscere. I servigi i più cordiali, le sollecitudini le più ingegnose ristoravano i viaggiatori dalle loro fatiche, e loro facevano sembrare di trovarsi, benché tanto lontani dalla paria, in seno alla famiglia ch’essi avevano abbandonato: la fede spingeva ad intraprendere questo pellegrinaggio, la carità ne sosteneva, per cosi dire, le spese. – Frattanto si giungeva al termine del cammino. La città eterna cominciava a disegnarsi confusamente e da lontano agli occhi dei viandanti; i pellegrini salutavano quella apparizione con grida festose, anelando l’istante in cui potessero inginocchiati baciare rispettosamente i sacri suoi monumenti. L’accoglimento il più affettuoso aspettava questi pellegrini in quella Roma, che è patria comune di tutti i fedeli. – Immensi ospizi erano preparati per albergarli; erano figli, erano fratelli che si aspettavano da lunga pezza. Allora che nobile spettacolo! Quanti affetti si destavano in folla nel cuore commosso! Uomini di tutte le nazioni si assidevano alla mensa stessa, l’abitatore d’Europa a lato dell’Africano e dell’Asiatico; uomini che prima d’allora non si erano giammai veduti, che neppure intendevano le favelle l’uno dell’altro, mangiavano gratuitamente lo stesso pane, si amavano, si comprendevano, né altrimenti si consideravano che quali fratelli riuniti nella casa paterna. Il Padre comune di tanti Cristiani si riputava fortunato di poter visitare questa numerosa famiglia; e per imitare l’esempio del divino Maestro, li serviva colle proprie mani, li contemplava con immenso affetto, e stringeva al seno dei figli non più veduti, e che più non doveva rivedere. – Invano si cercherebbe nell’istoria delle diverse nazioni qualche cosa egualmente sublime, qualche cosa che più di questa toccasse il cuore. Qual circostanza più acconcia per proclamare altamente e sanzionare quella gran massima, la cui osservanza formò la gloria della Chiesa fin dal suo nascere, e formerebbe ancora la felicità della terra; vale a dire, che tutti gli uomini sono fratelli, che non devono avere che un cuor solo, un’anima sola, siccome non v’ha che un Dio, un Battesimo, una Chiesa, un Capo visibile di tutti i Cristiani! Che di più atto a richiamare l’uomo ai gravi e santi pensieri della religione, di questi esempi di fervore e di penitenza, che venivano offerti da persone di ogni grado e di ogni paese? Qual cosa infine è più efficace, onde rianimare la fede, della vista di Roma, teatro dei combattimenti dei martiri e delle vittorie del Cristianesimo? Codesti figli venuti da sì lontano, non redivano al loro paese se non dopo di aver ricevuto la benedizione del loro Padre comune. Ma chi può dipingere gli effetti che questa splendida cerimonia doveva produrre sopra gli uomini non abituati a simili pompe, e nelle quali il cuore e i sensi trovavano ciascuno ad un tempo un’alta soddisfazione? Si ricordino tutti quelli, scrive un autore, ch’ebbero il benefizio di esserne gli avventurosi testimoni, quanto la Religione apparisca divina, come il Sommo Pontefice si mostri grande, allorché circondato da tutta la pompa di un monarca e da tutta la dignità di capo della Chiesa universale, composta di cento milioni di cattolici, si avanza fra il suono delle campane ed il fragore delle artiglierie, preceduto da Cardinali e da Vescovi della Chiesa Greca e della Chiesa Latina, sull’immenso portico del maggior tempio del mondo, e di quivi si presenta a migliaia di spettatori accorsi da tutte le parti per contemplarlo. Quale spettacolo non offre questo Re, Pontefice e Padre di tutti gli uomini [Mettendogli la tiara sul capo, il Cardinale pronunzia queste parole: « Accipe thiaram tribus coronis ornatam, ut scias te esse patrem principum et regum, rectorem orbis in terra vicarium Salvatoris Domini Nostri Jesu Christi, cui honor et gloria in sæcula sæculorum »], immerso nella felicità di vedere nel più vasto recinto i suoi innumerevoli figli prostrati ai suoi piedi! Il Vicario di Gesù Cristo, il successore dei pescatori di Galilea, stabilito su quel circo medesimo ove il crudele Nerone immolò tante vittime al suo odio feroce pel nome cristiano! Qual trionfo per la Religione! Quale conforto per la fede! Da ogni parte regna profondo silenzio: ed allora dall’alto della cattedra Apostolica in cui si asside, e che sorge sublime adornata da tutta la pompa e magnificenza religiosa, il successore di Pietro getta uno sguardo di paterna bontà su questa immensa famiglia. Col cuore commosso egli si alza maestosamente in piedi, avendo cinta la fronte del triplice diadema e sembra, a chi riguarda nei suoi occhi pieni di fede, che, nell’impartire l’Apostolica benedizione, egli cerchi di attingere nel Cielo quei tesori di grazie, che egli prodiga a Roma ed all’universo, Urbi et Orbi ». – Testimonio di questa ineffabile cerimonia, uno dei nostri filosofi esclamava: In quel momento io ero cristiano». Queste parola non abbisogna di commenti! Noi ci siamo diffusi su questo argomento per mostrare quanto siano ingiuste le declamazioni degli empi contro il Giubileo, i pellegrinaggi e le pompe della Chiesa Romana.

Preghiera

O mio Dio, che siete tutto amor: ringrazio che abbiate lasciato alla Chiesa un tesoro d’indulgenze nei meriti sovrabbondanti di Gesù Cristo e dei Santi: concedetemi la grazia ch’io possa rimarne degno. – Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose, e il prossimo come me stesso, per amor di Dio, ed in prova di queste non ometterò nessun mezzo per acquistare delle indulgenze.

 

PROFEZIA SU FLOS FLORUM (GREGORIO XVIII) DI S. GIOVANNI DA CAPISTRANO

Profezia su Flos Florum (Gregorio XVIII) di S. Giovanni da Capistrano

“Le persone moriranno di fame quando viene creato (Cardinale?), egli dividerà e darà ai poveri (Fior dei fiori).”

S. Giovanni da Capistrano, XV sec.

 * Nota: Fr. Culleton inserisce il suo commento tra parentesi “il Cardinale?” [Vale a dire, la parola “il cardinale” con un punto interrogativo] in questa famosa profezia del XV ° secolo di San Giovanni da Capistrano sugli ultimi papi nel tempo. La citazione si trova nel suo popolare libro sulle profezie Cattoliche: “I Profeti e del nostro tempo”, di p. Gerald Culleton, pag. 157 – 1941 Imprimatur.

La Provvidenza partorì un fiore raro nell’aridità dei deserti in cui la Chiesa si trova …”

Elementare è l’analisi della Profezia di San Giovanni da Capistrano su “Flos Florum”: La gente “moriva di fame” [era cioè senza la grazia soprannaturale dei “Sacramenti”], nutrita per decenni dallo sterco e dal veleno delle eresie degli scismatici, quando nella primavera del 1988, il “Papa in ostaggio “, Gregorio XVII, CREAVA dei veri cardinali, tra i quali un Cardinal Camerlengo, dando loro l’ordine di eleggere il successore tempestivamente, qualora dovesse morire in maniera imprevista. (“Il diritto di eleggere il Romano Pontefice spetta unicamente e personalmente ai Cardinali di Santa Romana Chiesa, mentre  è da escludere e rifiutare assolutamente ogni intervento da parte di non importa qualsiasi autorità ecclesiastica o da parte di ogni potere secolare, di qualsiasi grado, che possa condizionarne la regolarità”Papa Pio XII, Costituzione Apostolica “Vacantis Apostolicae Sedis“.. – I suoi cardinali in obbedienza, dopo aver superato molti ostacoli, tennero con successo il Conclave convocato (segreto) a Roma il 2 maggio 1991 e, dopo la Messa da requiem per Papa Gregorio XVII, procedettero il 3 maggio 1991 alla elezione del nuovo Papa, S. S. Gregorio XVIII, tuttora vivente. Deo gratias!., San Giovanni da Capistrano pertanto nella profezia: “che questo Papa dividerà e darà ai poveri”, sembra implicare che i più piccoli, coloro cioè che possiedono la vera infantile semplicità di cuore, ora (e dopo i 3 giorni di buio) raccoglieranno i tesori di grazie celesti senza precedenti, come ricompensa per la loro incrollabile fiducia nelle promesse divine di Cristo fatte alla sua Chiesa e al suo Vicario in terra: Flos Florum “fiore dei fiori”. Nella celebre lista profetica dei Papi di San Malachia, Papa Gregorio XVII è Pastor et nauta ” – mentre, cronologicamente, il successore è proprio Flos florum “Fior dei fiori”.

*La Santità di S. Giovanni da Capestrano: “ Nicola di Fara, dopo aver menzionato diversi grandi predicatori che hanno evangelizzato l’Italia in questo periodo (XV sec.), dice: “Ma di tutti questi nessuno è stato più stimato dai suoi fratelli di Giovanni da Capistrano; nessuno più favorevole alla corte romana; nessuno più sapiente in diritto civile e canonico, nessuno più zelante per la conversione degli eretici, degli scismatici, e degli ebrei, nessuno più sollecito per il progresso della religione, nessuno più potente nei miracoli mostrati … Tante persone .. . lo hanno ricevuto con onore ed erano così ansiosi di ascoltarlo, che coloro che venivano per ascoltare la parola di Dio spesso riempivano le piazze più grandi e gli spazi più ampi: spesso ci sono stati ventimila, trentamila, a volte anche oltre un centinaio di migliaia di persone presenti ai suoi sermoni “. (Dal libro, “San Giovanni da Capistrano”, di P. Vincent Fitzgerald, O.F.M., pp. 24-25, 1911, Longmans, Green and Co., New York. Imprimatur)

Allora la Chiesa sarà … nelle catacombe …. Tale è la testimonianza universale dei Padri della Chiesa antica.” -Cardinal Manning, “The Present Crisis of the Holy See“, 1861, London: pp. 88-90.

” … la successione dei vescovi fino ad oggi nella Sede di San Pietro … è caratteristica della Chiesa Cattolica, e di nessun altro.” -S. Agostino

“Quindi, come dice S. Ireneo,” E necessario che tutti debbano dipendere dalla Chiesa romana come loro testa e fontana; tutte le Chiese devono essere d’accordo con questa Chiesa per la sua priorità del suo principato, perché le tradizioni consegnate dagli Apostoli sono state sempre conservate” (S. Iren, lib 3, c 3..); pertanto dalla tradizione derivata dagli Apostoli che la Chiesa fondata a Roma conserva, e dalla Fede conservata dalla successione dei Vescovi, possiamo confondere coloro che per cecità o per una cattiva coscienza traggono conclusioni errate (ibid).

“Volete sapere”, dice S. Agostino, “quale è la vera Chiesa di Cristo? Contate quei sacerdoti che, in una successione regolare, sono usciti da San Pietro, che è la roccia, contro la quale le porte dell’inferno non prevarranno”(S. Agostino in Psalm. cont. Donat..): e il santo Dottore sostiene come uno dei motivi che lo trattengono nella Chiesa cattolica, sia la successione dei Vescovi fino ad oggi nella Sede di San Pietro” ; (.. Epis fondo, c 4, n. 5),. perché in verità la successione ininterrotta degli Apostoli e dei discepoli è solo caratteristica della Chiesa cattolica, e di nessun altro” [-S. Alphonso M. dei Liguori, La Storia delle Eresie e loro confutazioni; O, Il Trionfo della Chiesa. *Vol I]

Tutta la forza della Chiesa è nel Papa, tutti i fondamenti della nostra fede si basano sul successore di Pietro. Coloro che desiderano il suo assalto del male il Papato in ogni modo possibile ….”.

-Monsignor Sarto, Vescovo di Mantova (il futuro Papa San Pio X) annota: riferendosi a ciò che San Paolo scrive nella II lettera ai Tessalonicesi, II:. I-IV (la rivolta e la separazione dal vero Legale Pontefice, “garanzia della fede” [Gregorio XVII, eletto Papa il 26 ottobre 1958), che il più grande corpo dei persecutori del vero Papato (attualmente in esilio) di oggi, è costituito dallo eretico-scismatico Novus Ordo (con le loro “gemelle” Fraternità non-sacerdotali San Pio X e S. Pietro) nonché dalle sette sedevacantiste antipapali della perdizione.

Preghiera a Gesù risorto

 

O Gesù che confondeste tutti i vostri nemici col rivestire di gloria e di magnificenza quel corpo che era già stato il bersaglio di tutte le umane persecuzioni, fatemi la grazia di morire a me stesso per risorger con Voi e per condurre a vostra somiglianza una vita nuova, divina, immortale: nuova per cambiamento di condotta; divina per la nobiltà purità dei sentimenti; immortale per la perseveranza nel bene. Operate in me, o Signore, questo fortunato cambiamento, fatemi passare dalla morte alla vita, dalle tenebre alla luce, da una vita piena di imperfezioni ad una vita perfetta e degna di Voi. Fate che io vada crescendo di lume in lume, di virtù in virtù, finché giunga a Voi, o Dio dello virtù, sorgente di ogni vita e d’ogni lume. Voi pure ricorro, o Vergine santa, che più di tutti partecipaste ai patimenti ed alle glorie del vostro divin Figliuolo perché vi degniate di farmi partecipe di quella divina allegrezza che aveste nel giorno faustissimo della sua risurrezione. Asciugate Voi le mie lacrime, e togliete dal mio cuore ogni importuna malinconia. Fate che il vostro Figliuolo risuscitato entri nel mio cuore come nel Cenacolo, a porte chiuse; che dica a me come agli Apostoli: sia con te la pace; che mostri a me, come a S. Tommaso, le sacrosante sue piaghe: che dimori con me stabilmente, né mai da me si parta.

ALLE PIAGHE DI GESÙ RISORTO.

I. – Risorto mio Gesù, adoro e bacio devotamente la piaga dolorosa del vostro piede sinistro, e vi prego a concedermi grazia di fuggire le occasioni pericolose, e di non camminare mai per la via dell’iniquità che conduce alla perdizione. Gloria.

II. – Risorto mio Gesù, adoro e bacio devotamente la piaga gloriosa del vostro piede destro, e vi prego a darmi grazia di camminare costantemente pe la via delle virtù cristiane fino ad arrivare alla patria del paradiso. Gloria.

III. – Risorto mio Gesù, adoro e bacio devotamente la piaga gloriosa della vostra mano sinistra, e vi prego di liberarmi da tutti i sinistri accidenti dell’anima e del corpo, e più particolarmente dell’infelice sorte degli empi che staranno alla vostra sinistra nel finale Giudizio. Gloria.

IV. – Risorto mio Gesù, adoro e bacio devotamente la piaga gloriosa della vostra mano destra, e vi prego di benedire con essa l’anima mia, ed aprirmi dopo la morte le porte beate del Paradiso.

V. – Risorto mio Gesù, adoro e bacio devotamente la piaga gloriosa del vostro Costato, e vi prego di accendere nel mio cuore il fuoco del vostro amore, affinché dopo avervi amato sempre fedelmente sopra la terra, passi ad amarvi eternamente nel cielo.

A Maria.

Vi prego infine, o Santissima Vergine Maria, che per il gran contento che aveste vedendo glorioso il vostro divin Figliuolo, c i impetriate la grazia di sorgere anche noi da una vita di tiepidezza ad una vita di fervore, per poi passare, alla morte, dallo miserie di questa terra, alla gloria eterna del Paradiso. 3 Ave e un Gloria.

Cantico sulla Risurrezione.

Dal cupo sen di morte

Risorge il Redentor,

dalle tartaree porte

Trionfa vincitor.

S’empia di pace e giubilo

Ogni anima fedel.

D’armoniosi cantici

Suoni la terra ed il ciel.

Si terga il mesto pianto

Tempo di duol non è!

 

Il duro laccio è infranto

Che già ci strinse il pie’.

T’allegra in sì bel giorno,

Afflitta Umanità,

Che al mondo fan ritorno

E grazia e santità:

Si vede alfin squarciato

Di morte il tetro vel

E tolto il rio peccato,

S’apre la via del ciel.

TEMPO PASQUALE

TEMPO PASQUALE

[Dom Guéranger. L’Anno Liturgico, vol. I]

Definizione del Tempo Pasquale.

Si dà il nome di Tempo Pasquale al periodo formato dalle settimane che decorrono dalla Domenica di Pasqua al Sabato dopo la Pentecoste. Questa è certo la parte più sacra dell’anno, perché ad essa converge l’intero ciclo liturgico. Ce ne renderemo conto facilmente considerando l’importanza della festa di Pasqua, chiamata fin dagl’inizi del Cristianesimo la « Festa delle feste », la « Solennità delle solennità », allo stesso modo, ci dice il Papa san Gregorio, per cui la parte più sacra del Tempio di Gerusalemme si chiamava il « Santo dei Santi » e tuttora si dà il nome di « Cantico dei cantici » al sublime epitalamio dell’unione del Figlio di Dio con la santa Chiesa. – È infatti nel giorno di Pasqua che la missione del Verbo incarnato, fino ad ora sempre tesa a questa meta, raggiunge la pienezza del suo compimento; è nel giorno di Pasqua che il genere umano viene risollevato dalla sua caduta e rientra in possesso di tutto ciò che aveva perduto per il peccato di Adamo.

Il Cristo vincitore.

Il Natale ci aveva dato un Uomo-Dio; tre giorni fa abbiamo raccolto il suo Sangue di un valore infinito per il nostro riscatto; ma all’alba della Pasqua non abbiamo più sotto i nostri occhi una vittima immolata, vinta dalla morte: è il trionfatore che l’ha annientata perché figlia del peccato, e che proclama la vita, quella vita immortale che ci ha riconquistata. Non è più l’umiltà delle fasce, non sono più gli spasimi dell’agonia e della croce; è la gloria, prima per Lui, poi per noi. Nel giorno di Pasqua Dio restaura nell’Uomo-Dio risuscitato la sua opera iniziale; il passaggio della morte non ha lasciato maggior traccia di quella del peccato, di cui l’Agnello divino si era degnato prendere la somiglianza; e non è solo Lui che torna alla vita immortale, ma tutta intera l’umanità. « Poiché per mezzo di un uomo è venuta la morte, ci dice l’Apostolo, anche per mezzo di un uomo vi è la risurrezione dei morti. E come tutti muoiono in Adamo, così tutti in Cristo saranno vivificati » (I Cor. XV, 21-22).

La preparazione della Pasqua.

L’anniversario di questo evento è dunque il giorno più grande, il giorno di allegrezza, il giorno per eccellenza, quello a cui tutto l’anno converge, quello su cui esso si fonda. Ma proprio perché questo giorno è santo fra tutti gli altri, perché ci apre la porta della vita celeste nella quale entreremo risuscitati come Cristo, la Chiesa non ha voluto che venisse a splendere su di noi senza che avessimo prima purificato il nostro corpo per mezzo del digiuno e restaurato con la compunzione le nostre anime. È a questo fine che ha istituito la penitenza quaresimale e che, fin dalla Settuagesima, ci avverte che è venuto il momento di aspirare alle gioie purissime della Pasqua e di disporre l’animo nostro ai sentimenti che deve infonderci il suo avvicinarsi. – Ed ecco che ormai abbiamo terminato di prepararci e il Sole della Risurrezione si alza su di noi!

Santità della Domenica.

Ma non era sufficiente festeggiare il giorno solenne che ha visto Cristo, nostra Luce, sfuggire dall’ombra del sepolcro; un altro anniversario reclamava pure il nostro culto riconoscente. – Il Verbo incarnato è risuscitato il primo giorno della settimana, lo stesso giorno in cui, Verbo increato del Padre, aveva cominciato l’opera della creazione, sprigionando la luce dal seno del caos, separandola dalle tenebre e dando inizio così al giorno dei giorni. Nella Pasqua dunque il nostro divino risuscitato consacra la domenica una seconda volta e da allora il sabato cessa di essere il giorno sacro della settimana. La nostra risurrezione, compiutasi in Nostro Signore Gesù Cristo una domenica, completa la gloria del giorno iniziale; il precetto divino del sabato soccomberà insieme con tutta la legge mosaica; e gli Apostoli d’ora in avanti ordineranno ai fedeli di santificare il primo giorno della settimana, nel quale la gloria della creazione si unisce a quella della divina rigenerazione.

Data della festa di Pasqua.

La resurrezione delI’Uomo-Dio era avvenuta di domenica; la sua commemorazione, quindi, non poteva aver luogo in un altro giorno della settimana. Era perciò necessario separare la Pasqua dei Cristiani da quella degli Ebrei, la quale, fissata irrevocabilmente al quattordici della luna di marzo, anniversario dell’uscita del popolo dall’Egitto, cadeva ora in uno, ora in un altro dei giorni della settimana. La loro Pasqua non era che una figura: la nostra è la realtà, dinanzi alla quale l’ombra svanisce. Fu necessario dunque, che la Chiesa spezzasse quest’ultimo legame con la Sinagoga e proclamasse la sua emancipazione, fissandola più solenne delle sue feste in un giorno tale da non coincidere mai con quello in cui gli Ebrei celebravano la loro Pasqua, sterile ormai di ogni speranza. Gli Apostoli decisero che d’ora innanzi essa non sarebbe mai più il quattordici della luna di marzo, neppure quando questo cadesse di domenica, ma che si sarebbe celebrata in tutto l’universo la domenica che segue il giorno in cui l’ormai scaduto calendario della Sinagoga seguita a piazzarla. Nondimeno, in considerazione del gran numero di Ebrei che avevano ricevuto il Battesimo e che formavano da principio il nucleo della Chiesa cristiana, per non urtare la loro suscettibilità, fu pure presa la risoluzione che la legge relativa al giorno della nuova Pasqua sarebbe stata applicata successivamente e con prudenza. Del resto Gerusalemme non doveva tardare a soccombere sotto i colpi dei Romani, secondo la predizione del Salvatore, e la nuova città, ricostruita sulle sue rovine e abitata dalla colonia cristiana, avrebbe avuto anche la sua Chiesa, ma una Chiesa completamente indipendente dall’elemento giudaico, che la giustizia di Dio aveva in modo così chiaro ripudiato in quei medesimi luoghi. – La maggior parte degli Apostoli, nelle loro lontane predicazioni e nella fondazione delle Chiese in tante regioni situate anche fuori dei confini dell’Impero Romano, non ebbero da lottare contro consuetudini ebraiche. Delle loro reclute i più erano gentili. La Chiesa di Roma, che diveniva Madre e Maestra di tutte le altre, non conobbe mai altra Pasqua da quella che unisce, nella domenica, il ricordo del primo giorno del mondo e la memoria della gloriosa risurrezione del Figlio di Dio e di noi tutti che ne siamo le membra.

Usi dell’Asia Minore.

Una sola provincia della Chiesa, l’Asia Minore, rifiutò per molto tempo di uniformarsi a questo uso comune. San Giovanni, che visse a lungo ad Efeso e vi morì, aveva creduto bene di non esigere dai numerosi Ebrei che dalla Sinagoga erano passati al Cristianesimo la rinuncia alla legge giudaica per la celebrazione della Pasqua, ed i fedeli che, convertiti dal paganesimo, vennero ad accrescere il numero di quella cristianità così fiorente si appassionarono fino all’eccesso per quella tradizione, che si riallacciava all’origine delle Chiese dell’Asia Minore. Ma con l’andare avanti degli anni una tale anomalia era fonte di scandalo; vi si sentiva come un’impronta di giudaismo e l’unità del culto cristiano veniva a soffrire di una divergenza che impediva ai fedeli di essere tutti uniti nella gioia della Pasqua e nella tristezza dei giorni santi che la precedono. Il Papa san Vittore, che governò la Chiesa dall’anno 185, rivolse le sue cure contro tale abuso e pensò che era venuto il momento di far trionfare l’unità anche esteriore del culto cristiano in un punto tanto essenziale da formarne il centro. Già sotto il pontificato di S. Aniceto, circa l’anno 150, la Sede apostolica aveva tentato per mezzo di trattative amichevoli di condurre le Chiese dell’Asia Minore all’uso universale; ma nulla si era potuto ottenere contro un pregiudizio che si fondava su di una tradizione reputata sacra in quelle regioni. S. Vittore credé di potervi riuscire meglio dei suoi predecessori: per aver maggior influenza sugli abitanti dell’Asia, mediante la testimonianza unanime di tutte le Chiese, dette ordine che si tenessero concili nei vari paesi in cui il Vangelo era penetrato, e che vi venisse esaminata la questione della Pasqua. Ovunque l’accordo fu perfetto: e lo storico Eusebio, un secolo e mezzo dopo, scriveva che ancora si conservava il ricordo delle decisioni prese in proposito, oltre che dal concilio di Roma, anche da quelli tenuti nelle Gallie, nell’Acaia, nel Ponto, nella Palestina e nell’Osroene in Mesopotamia. – Il concilio di Efeso, presieduto da Policrate, Vescovo di quella città, fu il solo a resistere agli intenti del Pontefice ed all’esempio dato da tutta la Chiesa. Vittore, giudicando che questa opposizione non poteva venire sopportata più oltre, emise una sentenza con la quale le Chiese ribelli dell’Asia Minore venivano separate dalla comunione con la Santa Sede. Una condanna tanto severa formulata solo dopo ripetute istanze da parte di Roma perché si rinunziasse a quei pregiudizi asiatici, suscitò la commiserazione di molti vescovi. S. Ireneo, che reggeva allora la cattedra di Lione, intervenne presso il Papa in favore di quelle Chiese, le quali, secondo lui, non erano colpevoli che di una decisione poco illuminata. E ottenne la revoca di un provvedimento la cui severità sembrava sproporzionata alla colpa. Questa indulgenza produsse il suo effetto: durante il secolo seguente S. Anatolio, vescovo di Laodicea, nel suo libro sulla Pasqua, scritto nel 276, attesta che già da qualche tempo le Chiese dell’Asia Minore seguivano l’uso romano.

L’opera del concilio di Nicea.

Per una strana coincidenza, press’a poco nella stessa epoca, vi fu lo scandalo di una nuova scissione circa la celebrazione della Pasqua, questa volta da parte delle Chiese della Siria, della Cilicia e della Mesopotamià. Si videro infatti abbandonare la consuetudine cristiana e apostolica, per riprendere quella, di rito giudaico, del quattordici della luna di marzo. – Questo scisma nella liturgia afflisse la Chiesa; e uno dei primi intenti del Concilio di Nicea fu di promulgare l’obbligo universale di celebrare la Pasqua di domenica. Il decreto fu approvato all’unanimità ed i Padri componenti il Concilio ordinarono che « essendo stata superata ogni controversia, i fratelli orientali solennizzerebbero la Pasqua nello stesso giorno dei Romani, degli Alessandrini e di tutti gli altri fedeli » [Spicilegium Solesmense. t. IV. p, 541] – Interessando l’essenza stessa della liturgia cristiana, la questione sembrava così grave che S. Atanasio, nel riassumere i motivi che avevano provocato la convocazione del Concilio di Nicea, ci dice che essi furono: 1° condannare l’eresia ariana e 2° ristabilire l’unione nella celebrazione della Pasqua [Lettera ai Vescovi d’Africa]. Il Concilio di Nicea decise pure che il vescovo di Alessandria sarebbe incaricato di far fare i calcoli astronomici, necessari a determinarne ogni anno il giorno preciso, e che avrebbe inviato al Papa il risultato di tali studi affidati agli scienziati di quella città, scienziati che godevano della più grande reputazione. Il Romano Pontefice si sarebbe poi incaricato d’indirizzare a tutte le Chiese lettere con l’ordine della simultanea celebrazione della grande festa del Cristianesimo. In questo modo l’unità della Chiesa si manifestava con l’unità della liturgia; e la Cattedra Apostolica, fondamento della prima, era nel medesimo tempo mezzo per realizzare la seconda. Del resto, anche prima del Concilio di Nicea, il Romano Pontefice aveva la consuetudine d’indirizzare ogni anno a tutte le Chiese un’enciclica pasquale recante l’intimazione del giorno in cui si sarebbe dovuta celebrare la solennità della Risurrezione. Ce lo dice la lettera sinodale indirizzata al Papa S. Silvestro, nel 314, dai Padri componenti il concilio di Arles. « In primo luogo, essi scrivevano, noi chiediamo che il tempo e il giorno destinato alla celebrazione della Pasqua del Signore sia il medesimo nel mondo intero e che, secondo l’usanza già esistente, a tutti tu faccia pervenire lettere in proposito » (Concilio delle Gallie). – Nondimeno quest’uso non sopravvisse di molto al Concilio di Nicea. L’imperfezione dei mezzi astronomici condusse a confusione nel modo di calcolare il giorno della Pasqua. È vero che ormai essa fu sempre solennizzata di domenica e che nessuna Chiesa si permise più di celebrarla lo stesso giorno di quella degli Ebrei, ma, essendovi vari pareri sull’epoca precisa dell’equinozio di primavera, accadde che in alcuni anni la data della festa variò a seconda dei luoghi. A poco a poco ci si allontanò dalla regola del Concilio di Nicea, che stabiliva di considerare il 21 marzo come il giorno dell’equinozio. Occorreva riformare il calendario e nessuno era in grado di farlo. I calendari si moltiplicavano in contraddizione gli uni con gli altri, di modo che spesso Roma ed Alessandria non riuscivano a mettersi d’accordo. Pur essendoci buona fede da entrambe le parti, alcune volte la Pasqua venne così celebrata senza quella simultaneità universale che il Concilio di Nicea aveva voluto instaurare.

La riforma del Calendario.

L’Occidente si uniformò all’uso di Roma, che finì per trionfare anche di alcune opposizioni sorte nella Scozia e in Irlanda, le cui Chiese erano state sviate da Cicli inesatti. Finalmente i progressi della scienza permisero al Papa Gregorio XIII d’intraprendere e di portare a termine la riforma del calendario. Si trattava di ristabilire al 21 marzo l’equinozio di primavera, in conformità alla decisione presa dal Concilio di Nicea. Ciò che fece il Sommo Pontefice per mezzo della bolla del 24 febbraio 1581, togliendo dieci giorni all’anno seguente, dal 4 al 15 ottobre, e completando così l’opera di Giulio Cesare, che al tempo suo aveva già rivolto la sua attenzione ai calcoli astronomici. Ma la Pasqua era stata l’idea fondamentale e lo scopo della riforma operata da Gregorio XIII. Il ricordo e le regole dettate dal Concilio di Nicea influivano ancora su tale questione capitale dell’anno liturgico, e il Romano Pontefice ancora una volta fissava il giorno della Pasqua per tutto l’universo; non più però per un solo anno, ma per tutti i secoli. Le nazioni dove imperava l’eresia sentirono, loro malgrado, la potenza divina della Chiesa in questa grande innovazione, che interessava tanto la vita religiosa che quella civile, e protestarono contro la riforma del calendario come già avevano protestato contro la regola della fede. L’Inghilterra e gli Stati luterani della Germania conservarono ancora a lungo l’antico calendario, che la scienza ripudiava, piuttosto di accettare dalle mani di un Papa una riforma che il mondo riconosceva indispensabile. – Ai giorni nostri, tra le nazioni europee, non c’è che la Russia che, per avversione verso la Roma di S. Pietro, persiste a restare in ritardo dai dieci ai dodici giorni sul resto del mondo civile.

Avvenimenti miracolosi.

Tutti questi dettagli, che noi siamo obbligati di abbreviare notevolmente, mostrano però a sufficienza quale importanza si debba attribuire alla data della solennità di Pasqua, e il Cielo ha spesso manifestato, con dei prodigi, di non rimanerne indifferente. All’epoca in cui la confusione dei vari cicli e l’imperfezione dei mezzi astronomici portarono a tante indecisioni nello stabilire l’epoca dell’equinozio di primavera, fatti miracolosi servirono più di una volta a fornire quelle indicazioni che la scienza e l’autorità non potevano più dare con certezza. – Pascasino, vescovo di Lilibeo in Sicilia, in una lettera indirizzata nel 444 a S. Leone Magno, attesta che sotto il pontificato di S. Zosimo, mentre Onorio era console per l’undicesima volta e Costanzo per la seconda, il giorno della vera Pasqua fu rivelato ad una popolazione semplice ma religiosa, per mezzo di un intervento del Cielo. Tra montagne inaccessibili e fitte di foreste, in un angolo isolato della Sicilia, si trovava un villaggio chiamato Meltina. La sua chiesa era delle più povere, ma lo sguardo e la bontà di Dio vigilavano su di essa, poiché ogni anno, durante la notte pasquale, al momento in cui il sacerdote si dirigeva verso il battistero per benedirne l’acqua, il sacro fonte se ne trovava miracolosamente riempito, senza che esistesse condotto o sorgente per alimentarlo. Una volta finito di amministrare il Battesimo, l’acqua scompariva da se stessa, lasciando la piscina completamente asciutta. Ma avvenne che nell’anno più sopra indicato, quando il popolo, che era caduto in inganno per calcoli sbagliati, si radunò a celebrare la notte di Pasqua e, finite le profezie, si recò col sacerdote al battistero, il fonte apparve completamente privo d’acqua. I catecumeni attesero invano la presenza dell’elemento per mezzo del quale dovevano essere rigenerati: al levarsi del giorno si ritirarono. Il 22 aprile seguente (decimo dalle calende di maggio) la piscina si trovò riempita fino al labbro, manifestando così che quello era il giorno della vera Pasqua per l’anno in corso. – Cassiodoro, scrivendo in nome del re Atalarico ad un certo Severo, racconta un altro prodigio che sì verificava annualmente, per il medesimo fine, la notte di Pasqua in Lucania, presso l’isoletta di Leucotea, in un luogo chiamato Marciliano, ove esisteva una grande piscina scelta per amministrare il Battesimo. Appena il sacerdote cominciava le preghiere solenni della benedizione sotto la volta del cielo, naturale copertura di questo fonte, l’acqua sembrava prender parte alla gioia pasquale aumentando nel suo bacino, di modo che, se prima arrivava fino al quinto gradino, dopo si vedeva salire fino al settimo, quasi volesse andare incontro alle meraviglie della grazia di cui era lo strumento. Dio dimostrava in tal modo che anche le cose insensibili, quando Egli lo permette, possono associarsi alle gioie sacre del più solenne dei giorni dell’anno. – S. Gregorio di Tours ci parla di un altro fonte, che ai suoi tempi esisteva in una chiesa dell’Andalusia, in un luogo chiamato Osen, i cui fenomeni miracolosi servivano a discernere il vero giorno di Pasqua. Tutti gli anni, il giovedì santo, il vescovo vi si recava con i fedeli. Il fondo e le pareti della piscina, a forma di croce, erano ornati di mosaici. Si costatava che essa era completamente asciutta, e dopo alcune preghiere tutti uscivano dalla chiesa e il vescovo ne chiudeva là porta apponendovi il suo sigillo. Il sabato santo il pontefice vi ritornava insieme con il popolo e ne riapriva le porte, dopo aver verificato che i sigilli fossero intatti. Entrati scorgevano la piscina piena d’acqua fin sopra il livello del pavimento, senza però che si riversasse all’intorno. Il vescovo pronunciava gli esorcismi su quest’acqua miracolosa e vi versava il sacro Crisma. Venivano poi battezzati i catecumeni; e quando il Sacramento era stato amministrato a tutti, l’acqua spariva immediatamente, senza sapere che cosa avvenisse di essa. – Anche le cristianità orientali furono testimoni di prodigi simili. Giovanni Mosco, nel XII secolo, parla di un fonte battesimale in Licia: l’acqua lo riempiva ogni anno la vigilia di Pasqua, dimorandovi per cinquanta giorni e prosciugandosi improvvisamente dopo la festa di Pentecoste. Il prato spirituale, c. CCXV]. – Nel cenno storico sul tempo della Passione noi abbiamo ricordato la legge degli imperatori cristiani che proibivano i processi civili e penali durante tutta la quindicina di Pasqua, ossia dalla domenica delle Palme fino all’ottava dopo la Risurrezione. S. Agostino, in un sermone pronunciato il giorno di detta ottava, esorta i fedeli ad estendere a tutto l’anno una simile sospensione da liti, contese e inimicizie che la legge civile aveva voluto interrompere almeno durante quei quindici giorni.

Il dovere della Comunione.

La Chiesa impone a tutti i suoi figli di ricevere la santa Eucaristia durante il tempo pasquale. Questo dovere si fonda sulla stessa intenzione del divin Salvatore che, se non ha fissato direttamente l’epoca in cui i fedeli si sarebbero accostati a questo grande Sacramento, ne ha però lasciato la missione alla sua Chiesa, insieme con l’autorità di determinarla. Nei primi secoli del Cristianesimo la Comunione era frequente e in alcuni luoghi quotidiana. Più tardi i fedeli divennero freddi verso questo mistero divino e noi sappiamo dal canone diciottesimo del concilio di Agde nel 506 che molti cristiani, anche nelle Gallie, avevano perduto il loro fervore primitivo. Perciò si decise che quei laici che non si fossero accostati alla Comunione a Natale, a Pasqua e a Pentecoste non sarebbero più stati annoverati tra i cattolici. Questa disposizione del concilio di Agde passò come legge quasi generale in tutta la Chiesa d’Occidente. La troviamo, fra l’altro, nelle prescrizioni dettate da Egberto, arcivescovo di York, e nel terzo concilio di Tours. Nello stesso periodo, in parecchi luoghi si vede la Comunione prescritta tutte le domeniche di Quaresima e negli ultimi tre giorni della settimana santa, senza che per questo ne fosse pregiudicato l’obbligo per la festa di Pasqua. Fu solo al principio del XIII secolo, nel IV concilio ecumenico Lateranense del 1215, che la Chiesa, testimone della freddezza sempre più diffusa nella società, decretò, pur con dolore, che la Comunione per i cristiani era strettamente obbligatoria solo una volta l’anno e che doveva aver luogo a Pasqua. E per far sentire ai fedeli che questa condiscendenza rappresentava l’ultimo limite accordato alla loro negligenza, il santo concilio dichiarò che a colui, il quale osasse infrangere questa legge, potrebbe venire interdetto l’ingresso in chiesa durante la vita e sarebbe poi privato della sepoltura ecclesiastica dopo la morte, come se egli stesso avesse rinunciato a far parte della comunità cattolica [Più tardi il Papa Eugenio IV, nella costituzione «Fide digna» dell’anno 1440, dichiarò che questa Comunione annuale poteva aver luogo dalla domenica delle Palme fino alla domenica « Quasi modo » (in Albis) inclusa. – Queste disposizioni, prese da un concilio ecumenico, mostrano sufficientemente l’importanza del dovere che sono destinate a sanzionare. Nello stesso tempo ci fanno dolorosamente costatare il miserando stato di una nazione cattolica, ove milioni di cristiani sfidano ogni anno le minacce della santa madre Chiesa rifiutandosi di sottomettersi d un obbligo il cui adempimento porterebbe la vita nelle anime e costituirebbe la prova essenziale della loro fede. Detraendo dal numero di coloro che non sono sordi alla voce della Chiesa e che vengono ad assidersi al banchetto pasquale coloro i quali hanno vissuto come se la penitenza quaresimale non esistesse, ci sarebbe da abbandonarsi all’angoscia ed al timore sulla sorte di questo popolo, se qualche indizio consolante non venisse di tanto in tanto a risollevare le speranze e promettere per l’avvenire generazioni più cristiane della nostra.

Riti Liturgici.

Il periodo di cinquanta giorni che separa la festa di Pasqua da quella di Pentecoste è stato sempre oggetto del maggior rispetto da parte della Chiesa. La prima settimana di esso, consacrata in modo speciale ai misteri della Risurrezione, doveva essere celebrata con adeguato splendore, ma anche le altre seguenti furono degnamente onorate. Oltre la divina allegrezza che pervade tutta questa parte dell’anno, di cui l’Alleluia è l’espressione, la tradizione cristiana assegna due usi, esclusivi al tempo pasquale, che servono a differenziarlo dal resto dell’anno. Il primo consiste nella proibizione di digiunare durante questi quaranta giorni, estendendo così l’antico precetto, che già lo vietava in tutte le domeniche. E ciò perché questo periodo di gioia deve essere considerato come una sola ed unica domenica. Tale uso fu accolto anche dagli Ordini religiosi più severi, sia dell’Oriente sia dell’Occidente. L’altro rito particolare, conservatosi scrupolosamente nelle Chiese orientali, consiste nel non genuflettere durante la celebrazione degli uffici, dalla Pasqua fino alla Pentecoste. Le consuetudini occidentali hanno poi modificato quest’uso che aveva regnato pure da noi per alcuni secoli. La Chiesa latina ha riammesso da un pezzo le genuflessioni nella Messa durante il tempo pasquale e le sole vestigia che essa ha conservato delle antiche prescrizioni sono diventate quasi impercettibili ai fedeli che non hanno familiarità con le rubriche del servizio divino. – Tutto il tempo pasquale è dunque come un solo giorno di festa; è ciò che attesta anche Tertulliano già nel III secolo, rimproverando certi cristiani che per la loro sensualità si dolevano di aver dovuto rinunziare, dopo il Battesimo, a tante gaie solennità del mondo pagano. Così loro diceva: « Se amate le feste, ne trovate certamente da noi; e feste di molti giorni, non di uno solo come nel paganesimo, dove, una volta avvenuta, la celebrazione non si ripete più per tutto l’anno. Per voi adesso tante settimane, altrettante feste! Addizionate pure tutte le solennità dei gentili: non arriverete mai ai nostri cinquanta giorni della Pentecoste » De Idolatria, c. XIV). – S. Ambrogio, sul medesimo soggetto, scrivendo ai suoi fedeli, fa questa osservazione: « Se gli Ebrei, non contenti del loro sabato settimanale, ne celebrano un altro che dura tutto un anno, quanto più dovremo fare noi per onorare la Risurrezione del Signore! È per questo che ci hanno insegnato a celebrare i cinquanta giorni della Pentecoste quale parte integrante della Pasqua. Sono sette settimane complete e la Pentecoste ne comincia l’ottava. Come in ogni domenica, che è il giorno della Risurrezione del Signore, anche durante questo periodo la Chiesa vieta il digiuno, perché simili ad una sola ed unica domenica sono considerati tutti questi giorni » (Comm. in Lucam, 1. VIII, c. XXV).

Il vertice dell’Anno Liturgico.

Tra tutti i periodi dell’Anno Liturgico, il Tempo Pasquale è sicuramente il più fecondo per i grandi misteri che commemora: il punto culminante di tutta la Mistica liturgica dell’Anno. Chiunque ha la fortuna di penetrare, con la pienezza dello spirito e del cuore, nell’amore e nell’intendimento del mistero pasquale, può dirsi giunto al centro stesso della vita soprannaturale; ed è per questo motivo che la Santa Madre Chiesa, venendo in aiuto alla nostra debolezza, ogni anno ci invita nuovamente a commemorarlo. – Ciò che l’ha preceduto non ne era che la preparazione: l’attesa dell’Avvento, la gioia del Tempo Natalizio, i grandi ed austeri pensieri della Settuagesima, la compunzione e la penitenza della Quaresima , la visione lacerante della Passione; tutta questa serie di sentimenti e di fatti meravigliosi convergevano alla meta a cui siamo giunti. E per farci capire meglio che la solennità di Pasqua rappresenta ciò che sulla terra vi è di più importante per l’uomo, Dio ha voluto che questi due grandi misteri, tesi ad un unico fine, la Pasqua e la Pentecoste, venissero offerti alla Chiesa nascente dopo un passato che contava già quindici secoli: periodo enorme, che non è però sembrato troppo lungo alla Divina Sapienza per preparare, con apposite figure, le grandi realtà di cui noi oggi siamo in possesso. – In questi giorni si uniscono le due grandi manifestazioni di Dio verso gli uomini: la Pasqua d’Israele e la Pasqua Cristiana; la Pentecoste del Sinai e la Pentecoste della Chiesa; i simboli, concessi ad uno solo tra i popoli, e la verità svelata e propagata a tutte le nazioni. Dobbiamo ora dimostrare dettagliatamente come le antiche figure si siano avverate nella realtà della nuova Pasqua e della Pentecoste: il crepuscolo della legge mosaica lascia il posto allo splendore del giorno evangelico. Ma noi ci sentiamo compresi da profondo rispetto, riflettendo che le solennità che noi celebriamo contano già più di tremila anni di esistenza, e che esse si ripeteranno ogni anno, finché non si udirà la voce dell’angelo gridare: « non vi sarà più tempo » (Apoc. X, 6). Allora vedremo aprirsi le porte dell’eternità!

La Pasqua eterna.

L’eternità felice è la vera Pasqua: ed è per questo che la Pasqua di quaggiù è la Festa delle feste, la Solennità delle solennità. II genere umano era in preda alla morte, si sentiva oppresso sotto la sentenza che lo aveva lasciato nella polvere del sepolcro: le porte della vita gli erano chiuse. Ed ora ecco che il Figlio di Dio esce dalla tomba ed entra in possesso della vita eterna; e non sarà Lui solo a non morir più; il suo Apostolo ci insegna che Egli « è il primogenito tra i morti » (Col. I, 18). La Santa Chiesa vuole dunque che noi ci consideriamo risorti con Lui, come fossimo già in possesso della vita che non ha fine. I Santi Padri dicono che questi cinquanta giorni del tempo pasquale sono l’immagine della beatitudine eterna. Essi sono completamente consacrati alla gioia, esclusa ogni tristezza; e la Chiesa non sa più rivolgere la parola al suo Sposo senza intramezzarla con l’Alleluia, questo grido del cielo che risuona nelle vie e nelle piazze della Gerusalemme Celeste, secondo quanto ci dice la Liturgia [Pontificale Romano, per la Dedicazione delle chiese.]. Eravamo stati privati di quel canto di ammirazione, di allegrezza durante nove settimane: dovevamo immolarci insieme con Cristo, nostra vittima; ma adesso che siamo usciti con Lui dalla tomba e che non vogliamo più morire di quella morte che uccide l’anima e fa spirare sulla Croce il nostro Redentore, l’Alleluia è di nuovo a noi!

La Pasqua e la natura.

La sapiente provvidenza di Dio, che ha disposto in una perfetta armonia l’opera visibile di questo mondo e l’opera soprannaturale della grazia, ha voluto far coincidere la risurrezione del nostro divin Salvatore con l’epoca in cui anche la natura sembra uscire dalla sua tomba. I campi rinverdiscono, gli alberi della foresta hanno rimesso le foglie, il canto degli uccelli rallegra l’aere, e il sole, emblema di Gesù trionfante, versa fiotti di luce sulla terra rigenerata. A Natale invece, liberandosi a stento dalle ombre che sembravano minacciare di spegnerlo per sempre, l’astro benefico si mostrava in armonia con la nascita dell’Emmanuele, avvenuta nel profondo della notte, sotto umili spoglie; oggi possiamo dire insieme con il salmista: «È un campione che si slancia a correre la sua via… e nulla si asconde al suo calore » (Sal. XVIII, 6-7). Ascoltate la sua voce nel Cantico (II, 10-13) ove invita l’anima fedele ad unirsi a questa vita nuova che comunica a tutto ciò che respira: « Levati, amata mia colomba » esso dice « e vienitene; perché, vedi, l’inverno è passato, la pioggia è passata, se n’è andata. I fiori si mostrano per la campagna, si ode per la nostra contrada il tubar della tortora. Il fico getta i suoi frutterelli, le viti in fiore mandano il loro profumo ».

Nobiltà della Domenica.

Nel capitolo precedente abbiamo spiegato perché il Figlio di Dio avesse scelto la domenica, a preferenza di tutti gli altri giorni, per trionfar della morte e proclamar la vita. Non poteva dimostrare con maggiore energia, come tutto il creato si rinnova nella Pasqua, che ridando l’immortalità all’uomo, attraverso la sua persona, nel medesimo giorno in cui aveva creato la luce dal nulla. Non soltanto l’anniversario della sua Risurrezione diventa d’ora in avanti il più importante dei giorni, ma; in ogni settimana, la domenica ricorderà la Pasqua, sarà la giornata sacra. Israele, secondo il comandamento di Dio, festeggiava il Sabato per onorare il giorno del riposo del Signore dopo l’opera della creazione: la santa Chiesa, sposa del Cristo, si associa all’opera stessa dello Sposo. Lascia trascorrere il Sabato, il giorno che Egli passò nel riposo del sepolcro, ma, illuminata dagli splendori della Risurrezione, consacra d’ora in poi il primo giorno della settimana alla contemplazione dell’opera divina, che vide di volta in volta uscire dall’ombra e la luce materiale, prima manifestazione della vita sul caos, e Colui che, essendo lo Splendore eterno del Padre, si è degnato di dirci: « Io sono la luce del mondo » (Gv. VIII, 12). – Che la settimana, dunque, termini pure col suo Sabato: a noi cristiani occorre l’ottavo giorno, quello che supera la misura del tempo; a noi occorre il giorno dell’eternità, il giorno in cui la luce non sarà più intermittente, né data con circospezione, ma si spanderà senza fine e senza limiti. Così parlano i santi Dottori della fede, rivelandoci gli splendori della domenica ed il motivo dell’abrogazione del sabato. – Senza dubbio era bello per l’uomo prendere quale giorno di religioso riposo settimanale quello stesso in cui il Creatore del mondo visibile si era riposato; ma in esso non si trovava che il ricordo della creazione materiale. – Il Verbo riappare nel mondo, che Egli aveva creato nel principio: questa volta nasconde la luce della sua natura divina sotto i veli della carne umana. È venuto a compiere la realizzazione delle antiche figure. Prima di abrogare il Sabato vuole realizzarlo nella sua Persona, come tutto il resto della legge, passandolo nell’assoluto riposo, dopo il travaglio della Passione, sotto la volta funebre del sepolcro. Ma ai primi albori dell’ottavo giorno il divin prigioniero si slancia verso la vita e inaugura il regno della gloria. « Lasciamo dunque » ci dice Ruperto « lasciamo all’ebreo, schiavo dell’amore per i beni di questo mondo, di abbandonarsi alla gioia ormai sorpassata del suo sabato, che non rappresenta più altro che il ricordo di una creazione materiale. Assorto in questioni terrestri, esso non ha saputo riconoscere il Signore che ha creato il mondo; non ha voluto vedere in lui il Re dei Giudei, perché Egli diceva loro: «Beati i poveri». Il Sabato dei cristiani, il nostro Sabato, è l’ottavo giorno, che, allo stesso tempo, è il primo; e la gioia che noi vi attingiamo non viene dal fatto che il mondo è stato creato, ma piuttosto da quello che esso è stato salvato » [Gli Offici Divini, 1. VII, c. XIX.]. Il mistero del settenario seguito da un ottavo giorno, che è quello sacro, ha un’applicazione nuova e ancor più larga nella stessa disposizione del Tempo Pasquale. Questo periodo si compone di sette settimane, che formano una settimana di settimane, di cui il giorno seguente viene di nuovo ad essere una domenica, quella di Pentecoste. Dio stesso stabilì, senza che noi ne comprendiamo il mistero, il numero di questi giorni, quando istituì, nel deserto del Sinai, la prima Pentecoste, cinquanta giorni dopo la prima Pasqua. – Quest’ordine fu raccolto dagli Apostoli per essere applicato al periodo pasquale dei cristiani. Ce lo insegna sant’Ilario di Poitiers, la cui dottrina ci viene trasmessa da sant’Isidoro, da Amalario, da Rabano Mauro, e generalmente da tutti gli antichi interpreti dei misteri liturgici. « Se noi moltiplichiamo per sette il settenario – egli ci dice – riconosceremo che questo santo periodo di tempo è veramente il sabato dei sabati; ma ciò che lo completa e lo eleva fino alla pienezza evangelica, è l’ottavo giorno’che lo segue, quel giorno che è contemporaneamente il primo e l’ottavo. Gli apostoli hanno fatto delle sette settimane una istituzione così sacra, che durante tutto questo tempo non si deve genuflettere in segno di adorazione né turbare, col digiuno, le delizie spirituali di questa festa così prolungata. – La medesima disposizione si estende ad ogni domenica, poiché questo giorno, che segue il sabato, è divenuto, mediante l’applicazione dei progressi evangelici, il perfezionamento del sabato stesso e il giorno che noi passiamo festosamente e nell’allegrezza» [Prologo sul Salmi]. Cosi, dunque, maggiormente sviluppato nella forma, noi ritroviamo nel Tempo Pasquale lo stesso mistero che in ogni domenica ci viene ricordato. Tutto per noi ormai ha la sua data di origine nel primo giorno della settimana, perché la resurrezione del Cristo l’ha illuminato per sempre della sua gloria, di cui la creazione della stessa luce materiale non era che un’ombra. Abbiamo visto poco fa che questa istituzione era già accennata nell’antica Legge, anche se il popolo d’Israele ancora non ne possedeva il segreto. La Pentecoste degli Ebrei cadeva nel cinquantesimo giorno dopo la Pasqua, in quello, ossia, che seguiva immediatamente le sette settimane. Un’altra figura del nostro Tempo Pasquale la troviamo pure in una delle prescrizioni che Dio aveva dato a Mosè nell’anno giubilare. In ogni cinquantesimo anno le case ed i campi che erano stati alienati durante gli altri quarantanove precedenti, dovevano ritornare ai loro possessori, e gli Israeliti che la miseria aveva costretto a vendersi, avrebbero riacquistata la loro libertà. – Quell’anno, chiamato espressamente anno sabbatico, seguiva le sette settimane di anni che l’avevano preceduto e portava così l’immagine del nostro ottavo giorno, nel quale il Figlio di Maria, risuscitato, ci ha riscattato dalla schiavitù della tomba, facendoci tornare eredi della nostra immortalità.

Usi liturgici.

Gli usi liturgici che caratterizzano il Tempo Pasquale nell’attuale disciplina dei riti sono principalmente i due seguenti: la ripetizione continua dell’Alleluia, di cui abbiamo già parlato poco fa, e l’impiego dei colori bianco e rosso, secondo le esigenze delle due solennità, di cui una apre questo periodo e l’altra lo chiude. Si esige il colore bianco per il mistero della Risurrezione, che è quello della luce eterna, luce senza ombra e senza macchia, e che produce in coloro che lo contemplano un sentimento di inenarrabile purezza e di beatitudine sempre crescente. – La Pentecoste, che fin da questa vita ci dona lo Spirito Santo con il suo fuoco che brucia, col suo amore che consuma, richiedeva un colore speciale che potesse esserne l’espressione e la Chiesa ha scelto il rosso per esprimere il mistero del divino Paraclito, che, manifestandosi in lingue di fuoco, scese su tutti coloro che si erano radunati nel Cenacolo. Più sopra abbiamo già detto che nella liturgia latina non restano che poche tracce dell’antico uso di non genuflettere durante il Tempo Pasquale. – Le feste dei Santi, sospese in tutto il corso della settimana precedente la Pasqua, lo saranno ancora durante i primi otto giorni del Tempo Pasquale, ma, dopo, esse ricompariranno nel ciclo, gioconde e numerose, attorno al Sole Divino. Lo scorteranno nella sua gloriosa Ascensione; ma, tanto grandioso è il mistero della Pentecoste, che ne verranno nuovamente sospese a cominciare dalla vigilia di questa solennità fino al termine di tutto il Tempo Pasquale. I riti della Chiesa primitiva in rapporto ai neofiti che erano stati rigenerati nella notte di Pasqua, offrono ancora numerosissimi episodi del più commovente interesse. Non è qui il momento di parlarne, poiché non si riferiscono che alle due ottave, quelle della Pasqua e della Pentecoste; ma ne daremo ampie spiegazioni a mano a mano che se ne presenterà l’occasione nello svolgersi della Liturgia.

La gioia spirituale.

Il riflesso di questo periodo sacro si riassume nella gioia spirituale che esso deve produrre nelle anime risuscitate assieme a Cristo, gioia che è una pregustazione della felicità eterna e che il Cristiano deve, d’ora in avanti, conservare in sé, cercando sempre più con ardore quella Vita che è nel nostro divin Salvatore e fuggendo, con costante energia, la morte, figlia del peccato. – Nelle settimane precedenti abbiamo dovuto dolerci di noi stessi, piangere le nostre colpe, abbandonarci all’espiazione, seguire Gesù fino al Calvario; ma adesso la Chiesa c’impone, invece, di rallegrarci. Essa stessa ha bandito ogni tristezza; non geme, ormai, che come la colomba; canta, quale sposa che ha ritrovato il suo sposo! E per rendere più universale questo sentimento di gioia, essa si è adattata alla debolezza dei suoi figli. Dopo aver loro ricordato la necessità dell’espiazione, ha concentrato tutto il vigore della penitenza cristiana nei quaranta giorni appena trascorsi; ed ora, rendendo la libertà al nostro corpo, e nel medesimo tempo ai sentimenti dell’anima nostra, ci ha trasportato in una regione dove non esiste che allegrezza, luce e vita, dove tutto è gioia, serenità, dolcezza e speranza di immortalità. – È così che è riuscita a suscitare, anche nelle anime meno elevate, un sentimento analogo a quello di cui godono le più perfette: di modo che, nell’inno che si eleva dalla terra per dar lode al nostro adorabile trionfatore, non vi sono dissonanze, e tutti, ferventi e tiepidi, uniscono le loro voci nell’entusiasmo universale. – Il più profondo e dotto liturgista del secolo XII, Ruperto, Abate di Deutz, così spiega questo indovinato stratagemma della Santa Chiesa: «Vi sono – egli dice – degli uomini sensuali che non sanno aprire gli occhi per contemplare i beni spirituali che quando si presenta loro l’occasione di qualche incidente materiale che gliene dà l’impulso. La Chiesa, per commuoverli, ha dovuto cercare un mezzo proporzionato alla loro debolezza. A questo fine ha istituito il digiuno quaresimale che rappresenta la decima dell’anno offerta a Dio, di modo che questa santa carriera non debba terminarsi che con la solennità della Pasqua, e che dopo vi siano cinquanta giorni consecutivi, durante i quali non se ne trovi neppure uno di digiuno. «Accade così che gli uomini mortificano il loro corpo, sostenuti però dalla speranza che la festa di Pasqua verrà a liberarli da quel giogo di penitenza; essi, nei loro desideri, pregustano l’arrivo della solennità; ogni giorno della Quaresima è per loro ciò che è una sosta per il viaggiatore; essi le contano con cura, pensando che il numero diminuisce progressivamente; ed è così che questa festa, da tutti desiderata, a tutti diviene cara, come lo è la luce per coloro che camminano nelle tenebre, la sorgente zampillante per quelli che hanno sete e la tenda preparata dal Signore medesimo per il viandante affaticato » [Gli Offici Divini, 1. IV, c. XXVII.]. Felice quel tempo in cui, in tutto l’esercito cristiano, come dice san Bernardo, nessuno si asteneva dal compiere il proprio dovere; quando giusti e peccatori camminavano di pari passo nella pratica delle cristiane osservanze. Ai giorni nostri la Pasqua non produce più la medesima sensazione di gioia nella nostra società. Senza dubbio la causa risiede nella mollezza e nella falsità delle coscienze che conducono molte persone a considerare l’obbligo della Quaresima come se per loro non esistesse. Ne consegue che tanti fedeli vedono giungere la Pasqua come una grande festa, è vero, ma non sono che superficialmente impressionati da quel sentimento di viva gioia sul quale la Chiesa impronta in questi giorni tutto il suo atteggiamento. E si sentono ancor meno disposti a mantenere, durante il periodo dei cinquanta giorni, quell’allegrezza a cui hanno partecipato in misura così esigua nel giorno tanto desiderato dai veri cristiani. – Non hanno digiunato, non hanno osservato l’astinenza durante la Quaresima; la condiscendenza della Chiesa verso la loro debolezza non è stata neppure sufficiente; per loro si sono dovute dare altre dispense; e, fortuna ancora, quando non se ne sono esonerati da se medesimi; essi non sentono neppure il rimorso di non aver adempiuto a questi ultimi resti del dovere cristiano! Quale sensazione può produrre in loro il ritorno dell’Alleluja? Quelle anime non sono state purificate dalla penitenza: sarebbero esse abbastanza agili per seguire Cristo Risuscitato, la cui vita è ormai più del cielo che della terra? Ma non andiamo contro le intenzioni della Chiesa rattristandoci con questi pensieri scoraggianti: preghiamo piuttosto il Divin Risuscitato, affinché, nella sua infinita potenza e bontà, illumini queste anime con gli splendori della sua vittoria sul mondo e sulla carne, e che le sollevi fino a Lui. Niente deve distoglierci in questi giorni dalla nostra felicità. Lo stesso Re di gloria ci dice: « Possono forse i compagni dello sposo stare afflitti, finché lo sposo è con essi? » (Mt. IX, 15). Gesù resterà ancora con noi per quaranta giorni; non soffrirà più; non morirà più; che dunque i nostri sentimenti siano consoni al suo stato di gloria e di felicità, che deve ormai durare per sempre. – Ci lascerà, è vero, per salire alla destra del Padre; ma di là ci manderà il divin Consolatore, che resterà con noi, affinché non restiamo orfani (Gv. XIV). Che tali parole siano dunque nostra bevanda e nutrimento per questi giorni: « I figli dello stesso sposo non devono rattristarsi mentre lo sposo è con essi ». Esse sono la chiave di tutta la liturgia di quest’epoca; non perdiamole di vista neppure per un istante e sentiremo che, se la compunzione e la penitenza della Quaresima ci sono state salutari, la gioia pasquale non lo sarà certo di meno. Gesù in croce e Gesù risuscitato è sempre il medesimo Gesù; ma in questo momento Egli ci vuole attorno a Lui, insieme con la sua Santissima Madre, con i suoi Discepoli, con la Maddalena, tutti abbagliati e rapiti per la sua gloria, dimenticando, in queste ore troppo veloci, le angosce della Passione.

Il desiderio della Pasqua eterna.

Ma quest’epoca piena di delizia giungerà al suo termine e non ci resterà che il ricordo della gloria e della familiarità del nostro Redentore. Cosa faremo noi allora nel mondo quando Colui, che ne era la vita e la luce, non sarà più visibile? Cristiano, tu aspirerai ad una nuova Pasqua! Ogni anno tornerà a darti quella felicità che tu hai saputo comprendere; e di Pasqua in Pasqua tu arriverai alla Pasqua eterna che durerà tanto quanto Dio stesso, il cui splendore arriva fino a te quale preludio alle gioie che essa ti riserva. Ma non è ancora tutto: ascolta la Santa Chiesa che ha previsto il disinganno nel quale potresti essere tentato di cadere; ascolta ciò che domanda per te al Signore: « Concedi ai tuoi servi di esprimere colla vita il Sacramento ricevuto mediante la fede » [Colletta del martedì di Pasqua]. – Il mistero di Pasqua non deve cessare di essere visibile sulla terra; Gesù, risuscitato, sale al Cielo, ma lascia in noi l’impronta della sua risurrezione e noi dovremo conservarla finche Egli ritorni.

Vita nuova in Cristo.

E come, effettivamente, questa impronta divina potrebbe non rimanere in noi, sapendo che partecipiamo a tutti i misteri di Cristo? Dacché Egli si è incarnato non ha fatto un passo senza di noi. Quando è nato a Betlemme, noi nascevamo con Lui; quando è stato crocifisso a Gerusalemme, l’antico uomo che era in noi, secondo la dottrina di san Paolo, è stato con Lui inchiodato alla Croce; quando è stato posto nel sepolcro, anche noi siamo stati sepolti assieme a Lui. Ne consegue che quando Egli risuscita da morte, anche noi dobbiamo vivere di una nuova vita (Rom. VI, 6-8). – Ora « Cristo risorto da morte – seguita l’Apostolo – più non muore e la morte non ha più dominio su di Lui. Poiché morendo Egli morì al peccato una sola volta per tutte; vivendo Egli vive a Dio » (ibidem 9-10). – Noi formiamo le sue membra: la nostra sorte, quindi, deve essere uguale alla sua. Morire nuovamente per via del peccato significherebbe rinunziare a Lui, separarci da Lui, rendere per noi inutile quella morte e quella risurrezione a cui noi abbiamo partecipato. Vegliamo dunque per mantenere in noi quella vita che non viene da noi, ma che, nondimeno, ci appartiene completamente, poiché Colui che l’ha conquistata morendo, ce l’ha data insieme a tutto ciò che possiede. Peccatori, che avete ritrovato la vita della grazia in occasione della solennità pasquale, non vi esponete più alla morte, ma compite opere degne di una vita di risurrezione e di redenzione. – Giusti, che il mistero pasquale ha rianimato, intraprendete una vita più generosa sia nei vostri sentimenti che nelle vostre opere. È così che tutti vi incamminerete nella vita rinnovata che l’Apostolo ci raccomanda. Noi non svilupperemo qui le meraviglie del mistero della Risurrezione di Gesù Cristo: risalteranno esse stesse dal nostro modesto commento e metteranno anche in maggior evidenza il dovere imposto ai fedeli di imitare il loro Divin Salvatore, mentre ci aiuteranno a capire meglio la magnificenza e l’estensione dell’opera essenziale dell’Uomo-Dio. – Troviamo qui nel Tempo Pasquale il punto culminante della Redenzione con le tre grandi manifestazioni dell’amore e del potere divino: Risurrezione, Ascensione e discesa dello Spirito Santo. Nell’ordine dei tempi, tutto ha servito a preparare questa conclusione, in seguito alla promessa fatta ai nostri progenitori, dopo la loro colpa, dal Signore irritato, ma misericordioso; e nell’ordine della Liturgia, dopo le settimane di attesa dell’Avvento, eccoci giunti al termine; e Dio appare come una potenza e una sapienza che sorpassano infinitamente tutto ciò che noi potevamo prevedere. Gli stessi Spiriti celesti ne rimangono confusi di ammirazione e di stupore, e la Chiesa ce lo esprime in uno dei cantici del Tempo Pasquale: « Gli Angeli – è detto – sono commossi dal terrore vedendo la rivoluzione che si opera nello stato della natura umana. La carne ha peccato ed è la carne che purifica; un Dio viene a regnare e in Lui la carne è unita alla Divinità» [Inno del Mattutino dell’Ascensione]. – Il tempo pasquale appartiene pure alla « vita illuminativa ». Esso ne è la parte più elevata, poiché non ci manifesta solamente le umiliazioni e le sofferenze dell’Uomo-Dio come nei precedenti periodi, ma ce le mostra in tutta la sua gloria, ce lo fa scorgere, esprimendo nella sua umanità, il più alto grado della trasformazione della creatura in Dio. La discesa dello Spirito Santo viene poi ad aggiungere il suo splendore a questa luce e rivela alle anime i rapporti che devono unirle alla Terza Persona della Santissima Trinità. Così si sviluppa la via ed il progresso dell’anima fedele, che, essendo diventata l’oggetto dell’adozione del Padre celeste, è iniziata a questa splendida vocazione dagli insegnamenti e dagli esempi del Verbo incarnato, e perfezionata dalla visita e dall’inabitazione dello Spirito Santo. Da qui risulta l’insieme delle pie pratiche che la conducono all’imitazione del suo Divin modello, e la preparano a quell’unione a cui è invitata da Colui che « a quanti lo accolsero, a quelli che credono nel suo nome, diede il diritto di diventare figli di Dio; i quali, non da sangue, né da voler di carne, né da voler di uomo, ma da Dio sono nati» (Gv. I, 12-13).

DOMENICA DI PASQUA

DOMENICA DI PASQUA

Introitus Ps CXXXVIII:18; CXXXVIII:5-6. Resurréxi, et adhuc tecum sum, allelúja: posuísti super me manum tuam, allelúja: mirábilis facta est sciéntia tua, allelúja, allelúja. [Son risorto e sono ancora con te, allelúia: ponesti la tua mano su di me, allelúia: miràbile si è dimostrata la tua scienza, allelúia, allelúia.] Ps CXXXVIII:1-2. Dómine, probásti me et cognovísti me: tu cognovísti sessiónem meam et resurrectiónem meam. [O Signore, tu mi provi e mi conosci: conosci il mio riposo e il mio sòrgere.] V. Glória Patri, et Fílio, et Spirítui Sancto. R. Sicut erat in princípio, et nunc, et semper, et in saecula saeculórum. Amen Resurréxi, et adhuc tecum sum, allelúja: posuísti super me manum tuam, allelúja: mirábilis facta est sciéntia tua, allelúja, allelúja. [Son risorto e sono ancora con te, allelúia: ponesti la tua mano su di me, allelúia: miràbile si è dimostrata la tua scienza, allelúia, allelúia.]

Oratio V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spiritu tuo. Orémus. Deus, qui hodiérna die per Unigénitum tuum æternitátis nobis áditum, devícta morte, reserásti: vota nostra, quæ præveniéndo aspíras, étiam adjuvándo proséquere. [O Dio, che in questo giorno, per mezzo del tuo Figlio Unigénito, vinta la morte, riapristi a noi le porte dell’eternità, accompagna i nostri voti aiutàndoci, Tu che li ispiri prevenendoli.] Per eundem Dominum nostrum Jesum Christum filium tuum, qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti, Deus, per omnia saecula saeculorum. R. Amen.

Lectio

Léctio Epístolæ beáti Pauli Apóstoli ad Corinthios. 1 Cor 5:7-8

“Fratres: Expurgáte vetus ferméntum, ut sitis nova conspérsio, sicut estis ázymi. Etenim Pascha nostrum immolátus est Christus. Itaque epulémur: non in ferménto véteri, neque in ferménto malítiae et nequitiæ: sed in ázymis sinceritátis et veritátis.” R. Deo gratias. [Fratelli: Purificàtevi dal vecchio liévito per essere nuova pasta, come già siete degli àzzimi. Infatti, il Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato. Banchettiamo dunque: non col vecchio liévito, né col liévito della malízia e della perversità, ma con gli àzzimi della purezza e della verità.]

Alleluja Alleluia, alleluia Ps. CXVII:24; CXVII:1 Hæc dies, quam fecit Dóminus: exsultémus et lætémur in ea. [Questo è il giorno che fece il Signore: esultiamo e rallegriàmoci in esso.] V. Confitémini Dómino, quóniam bonus: quóniam in saeculum misericórdia ejus. Allelúja, allelúja. [Lodate il Signore, poiché è buono: eterna è la sua misericòrdia. Allelúia, allelúia.] 1 Cor V:7 V. Pascha nostrum immolátus est Christus. [Il Cristo, Pasqua nostra, è stato immolato.]

Sequentia

“Víctimæ pascháli laudes ímmolent Christiáni. Agnus rédemit oves: Christus ínnocens Patri reconciliávit peccatóres. Mors et vita duéllo conflixére mirándo: dux vitæ mórtuus regnat vivus. Dic nobis, María, quid vidísti in via? Sepúlcrum Christi vivéntis et glóriam vidi resurgéntis. Angélicos testes, sudárium et vestes. Surréxit Christus, spes mea: præcédet vos in Galilaeam. Scimus Christum surrexísse a mórtuis vere: tu nobis, victor Rex, miserére. Amen. Allelúja.” [Alla Víttima pasquale, lodi òffrano i Cristiani. – L’Agnello ha redento le pécore: Cristo innocente, al Padre ha riconciliato i peccatori. – La morte e la vita si scontràrono in miràbile duello: il Duce della vita, già morto, regna vivo. – Dicci, o Maria, che vedesti per via? – Vidi il sepolcro del Cristo vivente: e la glória del Risorgente. – I testimónii angélici, il sudàrio e i lini. – È risorto il Cristo, mia speranza: vi precede in Galilea. Noi sappiamo che il Cristo è veramente risorto da morte: o Tu, Re vittorioso, abbi pietà di noi. Amen. Allelúia.]

Evangelium Munda cor meum, ac labia mea, omnípotens Deus, qui labia Isaíæ Prophétæ cálculo mundásti igníto: ita me tua grata miseratióne dignáre mundáre, ut sanctum Evangélium tuum digne váleam nuntiáre. Per Christum, Dóminum nostrum. Amen. Jube, Dómine, benedícere. Dóminus sit in corde meo et in lábiis meis: ut digne et competénter annúntiem Evangélium suum. Amen. V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Marcum. R. Gloria tibi, Domine! Marc. XVI:1-7.

“In illo témpore: María Magdaléne et María Jacóbi et Salóme emérunt arómata, ut veniéntes úngerent Jesum. Et valde mane una sabbatórum, veniunt ad monuméntum, orto jam sole. Et dicébant ad ínvicem: Quis revólvet nobis lápidem ab óstio monuménti? Et respiciéntes vidérunt revolútum lápidem. Erat quippe magnus valde. Et introëúntes in monuméntum vidérunt júvenem sedéntem in dextris, coopértum stola cándida, et obstupuérunt. Qui dicit illis: Nolíte expavéscere: Jesum quǽritis Nazarénum, crucifíxum: surréxit, non est hic, ecce locus, ubi posuérunt eum. Sed ite, dícite discípulis ejus et Petro, quia præcédit vos in Galilǽam: ibi eum vidébitis, sicut dixit vobis.” [In quel tempo: Maria Maddalena, Maria di Giacomo, e Salòme, comperàrono degli aromi per andare ad úngere Gesú. E di buon mattino, il primo giorno dopo il sàbato, arrivàrono al sepolcro, che il sole era già sorto. Ora, dicévano tra loro: Chi mai ci sposterà la pietra dall’ingresso del sepolcro? E guardando, vídero che la pietra era stata spostata: ed era molto grande. Entrate nel sepolcro, vídero un giòvane seduto sul lato destro, rivestito di càndida veste, e sbalordírono. Egli disse loro: Non vi spaventate, voi cercate Gesú Nazareno, il crocifisso: è risorto, non è qui: ecco il luogo dove lo avévano posto. Ma andate, e dite ai suoi discépoli, e a Pietro, che egli vi precede in Galilea: là lo vedrete, come vi disse.] R. Laus tibi, Christe! S. Per Evangelica dicta, deleantur nostra delicta.

Omelia

Omelia della Domenica di Pasqua

[del Canonico G.B. Musso, 1851]

-Risurrezione Vera e Costante-

Quanto grande dovett’essere la sorpresa delle sante donne, che si condussero a visitare il sepolcro di Gesù Cristo! Credevano trovarlo chiuso , e lo trovarono aperto, credevano trovarvi il suo corpo, e vi trovarono un angelo. Ma quanto più grande fu la loro allegria in sentire dall’angelo stesso: voi cercate Gesù Nazzareno poc’anzi crocifisso, Lo cercate invano. È questo il luogo ove venne riposto, Egli è risorto, non è più qui. “Surrexit, non est hic”. Per sì glorioso risorgimento la Chiesa è tutta in giubilo, in mille guise festose esprime la sua letizia, e vuole che sia comune a tutti i suoi figli un giorno sì lieto. “Haec dies, quam fecit Dominus, exultemus et laetemur in ea.” Esulta la nostra madre perché risorse da morte il divino suo Sposo. Esulta per la speranza, che siano risorti dal peccato i figli suoi. Sarà piena la sua allegrezza, se la nostra resurrezione sarà conforme a quella del Redentore. Quella fu vera e costante. E la nostra, uditori miei, la nostra qual è? Ha queste due qualità, di vera e costante? Vediamolo a nostra consolazione, o nostra riforma colla maggiore brevità.

I. “Surrexit Dominus vere (Luc. XXIV, 34). Fu vera la resurrezione di Gesù Cristo, e i soldati custodi del suo sepolcro ne diedero, anche non volendo, chiara testimonianza con l’infelice astuzia d’asserire che dal sepolcro fu tolto il suo corpo, mentre dormivano, come riflette S. Agostino. Fu cera, e pel corso di giorni quaranta si fe’ vedere alla Maddalena, a Pietro, a Giacomo, a Giovanni, agli Apostoli, ai discepoli in Galilea, al castello di Emmaus, al mare di Tiberiade. Fu vera, e prima di ascendere al cielo si mostrò a cinquecento discepoli. E a togliere ogni dubbio sulla verità del suo corpo risorto, comparso a porte chiuse in mezzo agli Apostoli nel cenacolo congregati, “la pace sia con voi, dice loro, non vi turbate, Io son quel desso che fui tra voi. Accertatevene, miei cari, ecco queste son le mie mani, questi i miei piedi, questo il mio fianco”. “Videte manas meas, et pedes meos, quia ego ipse sum (Luc. XXIV, 39). Se la mia comparsa può parervi un fantasma, appressatevi, e toccata il vero ravvivato mio corpo. Uno spirito non è né carne, né ossa onde si renda palpabile. Fu vera, e rivolse l’incredulità di Tommaso a confermare la fede del suo risorgimento, e, “… vieni, gli dice, e metti il tuo dito nell’apertura delle mie mani, de’ miei piedi traforati dai chiodi, e poni la mano in quella ferita, che nel mio petto ha lasciato la lancia”. Fu vera, finalmente, e gli Apostoli in Gerosolima, nella Giudea, nella Samaria, in tutte le parti dell’universo l’annunziano con fermezza, la predicano con lo zelo più ardente, la confermano con i più stupendi miracoli, la sigillano col proprio sangue; e la verità comprovata di Gesù Nazzareno risuscitato confonde la pagana filosofia, atterra gli idoli, discaccia i demoni, e sulle rovine del gentil esimo fa piantare la croce, e adorare il Crocifisso. – Non si pretende che il risorgimento di un peccatore abbia tutti questi luminosi caratteri di verità; ma è indispensabile una sostanziale somiglianza e conformità tra la Risurrezione del Salvatore, e la nostra. Voi nella presente solennità vi siete accostati al tribunale di penitenza, ed alla sacra mensa colla sacramentale Comunione, avete fatto la Pasqua. Siete con questo veramente risorti dal peccato alla grazia, dalla morte alla vita? Veniamo ad un troppo necessario confronto. Gesù Cristo, fra le altre prove del suo vero risorgimento, mostra e mani e piedi e costato. Lasciate che io veda le vostre mani, per giudicare se siete veramente risorti. Ritengono queste ingiustamente la roba altrui? Continuano a fare scarse misure, a spogliare i poveri, a falsificare scritture, a scrivere lettere infamanti, a mandar biglietti amorosi, canzoni oscene, ad impiegarsi in azioni indegne? Voi non siete risorti, siete ancor morti! Osserviamo i piedi. Son questi sempre rivolti alle cose sospette, al ridotto, al giuoco, alle pericolose conversazioni? Voi non siete risorti, siete ancor morti! Vediamo il cuore. Se questo è gonfio dalla superbia, infetto dalla lussuria, avvelenato dall’odio, posseduto dall’avarizia, voi non siete risorti, siete ancor morti! Non fu resurrezione la vostra, fu una larva, un’ombra, un’apparenza, che agli occhi del mondo vi fece comparire risorti alla luce di grazia, ma in realtà non va ha cavati dalle tenebre ed ombre di morte. A che giova la Confessione, se non intacca il vostro cuore dal peccato? A che giova la pasquale Comunione per un’anima impenitente? La pelle della pecora nasconde, ma non fa cangiare il lupo. La vera conversione cangia il lupo in agnello, come avvenne a S. Paolo. “Tu sarai convertito davvero, disse S. Remigio a Clodoveo re di Francia, se tu farai tutto l’opposto di quel che già facesti. Adorasti gli idoli, ora devi incenerirli, bruciasti la croce, ora devi adorarla!”- “Adora quod incendisti, incendi quod adorasti.” – La vera conversione di un’anima traviata è abbandonare del tutto la strada dell’iniquità e della perdizione, e d’incamminarvi in quella della penitenza e della salute. Consiste la risurrezione vera in un totale cangiamento di vita, di volontà, di pensieri, di affetti, di azioni, di costumi. Lo Spirito del Signore opera questa gran mutazione in quell’anima che apre gli occhi a’ suoi lumi, che porge orecchio alle sue voci, che ascolta gli impulsi della sua grazia. “Insiliet in te Spiritus Domini … et mutaberis in virum alium” (I Re, X, 6). Senza di questa mutazione, per cui si deponga l’uomo vecchio con tutte le sue viziose abitudini, e si rivesta il nuovo con ricopiare in sé Gesù Cristo per l’imitazione dei suoi esempi, sarà la nostra risurrezione un inganno, una illusione, un fantasma.

II. Io voglio credere però che la risurrezione vostra sia vera, che siate passati da morte a vita, e lasciato il vecchio fermento, gustiate degli azzimi della sincerità e della purezza. Ma per essere somigliante a quella de Gesù Cristo fa d’uopo che sia costante. Egli è risorto da morte, dice l’Apostolo, ed alla morte non è più soggetto. “Christus resurgens ex mortuis iam non moritur, mors illi ultra non dominabitur(Rom. VI, 9). Ecco il modello del vostro risorgimento. Cristo è risorto per non morire mai più; voi, risorti con Cristo, non dovete più spiritualmente morire. – Fu vera, fu stupenda la risurrezione di Lazzaro quatriduano già fetido, ma non fu permanente. Vivo uscì dal sepolcro, ma dopo alcuni anni tornò morto nel sepolcro. Ah! Miei direttissimi, non avvenga a voi per mutazione di volontà, ciò che a lui avvenne per necessità di natura. Mantenete la grazia ricevuta, conservate la vita riacquistata. M’interrogate dei mezzi da adoperarsi per rendere costante il vostro risorgimento? Seguite ad ascoltarmi, ed osservate la facile maniera per riuscirvi. Fate per l’anima quel che fate pel corpo. Col cibo si mantiene la vita del corpo, col cibo si mantiene la vita dell’anima. Cibo dell’anima è la parola di Dio o udita, o letta, o meditata. Lo dice in termini espressi il nostro divin Salvatore, “Non in solo pane vivit homo, sed in omni verbo quod procedit de ore Dei” (S. Matt. IV, 4). L’uomo non vive solamente di pane, o di qualunque altro cibo che viene sotto di questo nome, ma del cibo vivifico di quella parola, che esce dalla bocca di Dio. La parola di Dio ha creato il mondo, la parola di Dio ha convertito il mondo, la parola di Dio mantiene nella fede e nella grazia il cattolico mondo. Chi non si pasce di questo cibo, non può conservare la vita dell’anima. “Iustus ex fide vivit” (Rom. I, 17). Il giusto vive di fede, e la fede è per fondamento la divina parola. Cibo dell’anima è altresì la santa Comunione Eucaristica, ricevuta con mondezza di cuore, con frequenza discreta. Cibo dell’anima è l’orazione mentale, è la preghiera, colla quale si ottiene il pane quotidiano della divina grazia. – Per mantenere la vita del corpo, si ripara dall’inclemenza delle stagioni, dal freddo, dal caldo eccessivo, dalla furia dei venti, dalle arie infette. L’aria infetta per l’anima è quella che si respira nei teatri, nei festini, nelle bettole, nelle conversazioni licenziose. Venti furiosi sono le tentazioni, che assaltano per la via dei sensi non custoditi. Freddo, l’accidia, la vita oziosa, l’omissione dei propri doveri. Caldo eccessivo, il fuoco dell’ira, il fuoco della libidine. Tutto ciò conviene riparare, se come la salute del corpo vi preme quella dell’anima. – Se il corpo cade infermo, quanto si fa per risanarlo? Medici, medicine, consulti, tutto si adopera, nulla si omette per ristabilirlo, l’anima anch’essa è soggetta ad infermità. La sua medicina è il Sacramento della Penitenza. A questa probatica fa d’uopo accostarsi frequentemente, acciò le vostre piaghe non si convertano in cancrene, acciò le spirituali malattie non rechino la morte. – Ditemi in grazia, uditori umanissimi, vi si domanda troppo, se vi si chiede che abbiate un’ugual cura a mantenere la vita dell’anima come l’avete a conservare la vita del corpo? In un secolo così delicato siamo ridotti a discendere a patti sì dolci, a condizioni così limitate. Ma si adempiano almeno con quell’impegno che vi assicuri d’una resurrezione vera, d’una risurrezione costante e permanente come fu quella di Gesù Cristo, glorioso ed eterno trionfatore della morte, del peccato, e dell’inferno.

 Credo…

Offertorium V. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo. Orémus Ps. LXXV:9-10. Terra trémuit, et quiévit, dum resúrgeret in judício Deus, allelúja. [La terra tremò e ristette, quando sorse Dio a fare giustizia, allelúia.]

Secreta

Súscipe, quaesumus, Dómine, preces pópuli tui cum oblatiónibus hostiárum: ut, Paschálibus initiáta mystériis, ad æternitátis nobis medélam, te operánte, profíciant. [O Signore, Ti supplichiamo, accogli le preghiere del pòpolo tuo, in uno con l’offerta di questi doni, affinché i medésimi, consacrati dai misteri pasquali, ci sérvano, per òpera tua, di rimédio per l’eternità.] – Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

Communio 1 Cor 5:7-8

Pascha nostrum immolátus est Christus, allelúja: itaque epulémur in ázymis sinceritátis et veritátis, allelúja, allelúja, allelúja.[Il Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato, allelúia: banchettiamo dunque con gli àzzimi della purezza e della verità, allelúia, allelúia, allelúia.]

Postcommunio S. Dóminus vobíscum. R. Et cum spíritu tuo.

Orémus. Spíritum nobis, Dómine, tuæ caritátis infúnde: ut, quos sacraméntis paschálibus satiásti, tua fácias pietáte concordes. [Infondi in noi, o Signore, lo Spírito della tua carità: affinché coloro che saziasti coi sacramenti pasquali, li renda unànimi con la tua pietà.] Per Dominum nostrum Jesum Christum, Filium tuum: qui tecum vivit et regnat in unitate eiusdem Spiritus Sancti Deus, per omnia sæcula sæculorum. R. Amen.

VEGLIA PASQUALE: LE PROFEZIE ED UN’OMELIA DI S. S. GREGORIO XVII (1973)

-I Profezia-

Genesi I, 1-31 e II, 1-2

“In princípio creavit Deus cœlum et terram. Terra autem erat inánis et vácua, et ténebræ erant super fáciem abýssi: et Spíritus Dei ferebátur super aquas. Dixítque Deus: Fiat lux. Et facta est lux. Et vidit Deus lucem, quod esset bona: et divísit lucem a ténebris. Appellavítque lucem Diem, et ténebras Noctem: factúmque est véspere et mane, dies unus. Dixit quoque Deus: Fiat firmaméntum in médio aquárum: et dívidat aquas ab aquis. Et fecit Deus firmaméntum, divisítque aquas, quæ erant sub firmaménto,ab his, quæ erant super firmaméntum. Et factum est ita. Vocavítque Deus firmaméntum, Cœlum: et factum est véspere et mane, dies secúndus. Dixit vero Deus: Congregéntur aquæ, quæ sub cœlo sunt, in locum unum: et appáreat árida. Et factum est ita. Et vocávit Deus áridam, Terram: congregationésque aquárum appellávit Maria. Et vidit Deus, quod esset bonum. Et ait: Gérminet terra herbam viréntem et faciéntem semen, et lignum pomíferum fáciens fructum juxta genus suum, cujus semen in semetípso sit super terram. Et factum est ita. Et prótulit terra herbam viréntem et faciéntem semen juxta genus suum, lignúmque fáciens fructum, et habens unumquódque seméntem secúndum spéciem suam. Et vidit Deus, quod esset bonum. Et factum est véspere et mane, dies tértius. Dixit autem Deus: Fiant luminária in firmaménto cœli, et dívidant diem ac noctem, et sint in signa et témpora et dies et annos: ut lúceant in firmaménto cœli, et illúminent terram. Et factum est ita. Fecítque Deus duo luminária magna: lumináre majus, ut præésset diéi: et lumináre minus, ut præésset nocti: et stellas. Et pósuit eas in firmaménto cœli, ut lucérent super terram, et præéssent diéi ac nocti, et divíderent lucem ac ténebras. Et vidit Deus, quod esset bonum. Et factum est véspere et mane, dies quartus. Dixit etiam Deus: Prodúcant aquæ réptile ánimæ vivéntis, et volátile super terram sub firmaménto cæli. Creavítque Deus cete grándia, et omnem ánimam vivéntem atque motábilem, quam prodúxerant aquæ in spécies suas, et omne volátile secúndum genus suum. Et vidit Deus, quod esset bonum. Benedixítque eis, dicens: Créscite et multiplicámini, et repléte aquas maris: avésque multiplicéntur super terram. Et factum est véspere et mane, dies quintus. Dixit quoque Deus: Prodúcat terra ánimam vivéntem in génere suo: juménta et reptília, et béstias terræ secúndum spécies suas. Factúmque est ita. Et fecit Deus béstias terræ juxta spécies suas, et juménta, et omne réptile terræ in génere suo. Et vidit Deus, quod esset bonum, et ait: Faciámus hóminem ad imáginem et similitúdinem nostram: et præsit píscibus maris et volatílibus cœli, et béstiis universæque terræ, omníque réptili, quod movétur in terra. Et creávit Deus hóminem ad imáginem suam: ad imáginem Dei creávit illum, másculum et féminam creávit eos. Benedixítque illis Deus, et ait: Créscite et multiplicámini, et repléte terram, et subjícite eam, et dominámini píscibus maris et volatílibus cœli, et univérsis animántibus, quæ movéntur super terram. Dixítque Deus: Ecce, dedi vobis omnem herbam afferéntem semen super terram, et univérsa ligna, quæ habent in semetípsis seméntem géneris sui, ut sint vobis in escam: et cunctis animántibus terræ, omníque vólucri cœli, et univérsis, quæ movéntur in terra, et in quibus est ánima vivens, ut hábeant ad vescéndum. Et factum est ita. Vidítque Deus cuncta, quæ fécerat: et erant valde bona. Et factum est véspere et mane, dies sextus. Igitur perfécti sunt cœli et terra, et omnis ornátus eórum. Complevítque Deus die séptimo opus suum, quod fécerat: et requiévit die séptimo ab univérso ópere, quod patrárat.”

[In principio Dio creò il cielo e la terra. Or la terra era solitudine e caos, e le tenebre coprivano la faccia dell’abisso, ma lo Spirito di Dio si librava sopra le acque. Allora Dio disse: «Sia la luce». E luce fu. E Dio vide che la luce era buona, e separò la luce dalle tenebre. E diede il nome di Giorno alla luce e di Notte alle tenebre. Così si fece sera e poi mattina: primo giorno. Poi Dio disse: «Ci sia uno strato in mezzo alle acque, e separi le acque dalle acque». E Dio fece lo strato, e separò le acque che erano sotto da quelle che erano sopra lo strato. E così fu. E Dio chiamò Cielo lo strato. Intanto si fece sera e poi mattina: secondo giorno. Poi Dio disse: «Le acque che sono sotto il cielo si radunino in un solo luogo, e appaia l’asciutto». E così fu. E Dio chiamò Terra l’asciutto, e Mare l’ammasso delle acque. E Dio vide che ciò era ben fatto. Quindi disse: «Produca la terra erba verdeggiante che faccia seme, e piante fruttifere che diano frutto secondo la loro specie ed abbiano in se stesse la propria semenza sopra la terra». E così fu. E la terra produsse verdura, erba che fa seme della sua specie, e piante che danno frutto ed hanno ciascuna la semenza secondo la propria specie. E Dio vide che ciò era ben fatto. Intanto si fece sera e poi mattino: terzo giorno. Dio disse ancora: «Vi siano dei luminari nella volta del cielo per distinguere il giorno dalla notte e siano segni dei tempi, dei giorni e degli anni, e risplendano nel firmamento del cielo per far luce sulla terra». E così fu. E Dio fece i due grandi luminari: il luminare maggiore, affinché presiedesse al giorno: il luminare minore, affinché presiedesse alla notte; e fece pure le stelle. E le mise nella volta del cielo, perché dessero luce alla terra e regolassero il giorno e la notte, e separassero la luce dalle tenebre. E Dio vide che ciò era ben fatto. Intanto si fece sera e poi mattino: quarto giorno. Disse poi Dio: «Brulichino le acque di animali e gli uccelli volino sopra la terra, sotto la volta del cielo». E Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli animali viventi striscianti, di cui si popolarono le acque, secondo le loro specie, ed ogni volatile secondo la sua specie. E Dio vide che ciò era ben fatto. E li benedisse, dicendo: «Crescete e moltiplicatevi, e popolate le acque del mare, e si moltiplichino gli uccelli sopra la terra». E intanto si fece sera e poi mattino: quinto giorno. Disse ancora Dio: «Produca la terra animali viventi secondo la loro specie, animali domestici, e rettili e bestie selvatiche della terra, secondo la loro specie». E così fu. E Dio fece le fiere terrestri, secondo la loro specie, e gli animali domestici, e tutti i rettili della terra, secondo la loro specie. E Dio vide che ciò era ben fatto. Poi Dio disse: «Facciamo l’Uomo a nostra immagine e somiglianza, che domini i pesci del mare, i volatili del cielo, le bestie, e tutta la terra, e tutti i rettili che strisciano sopra la terra». Dio creò l’uomo a sua immagine, lo creò a immagine di Dio; li creò maschio e femmina. E Dio li benedì dicendo: «Crescete e moltiplicatevi, e riempite la terra e rendetevela soggetta, e dominate sui pesci del mare, e sui volatili del cielo, e sopra tutti gli animali che si muovono sulla terra». E Dio disse: «Ecco io vi do tutte le erbe che fanno seme sulla terra e tutte le piante che hanno in se stesse semenza della loro specie, perché servano di cibo a voi; e a tutti gli animali della terra, e a tutti gli uccelli del cielo e a quanto si muove sulla terra ed ha in sé anima vivente, affinché abbiano da mangiare». E così fu. E Dio vide tutte le cose che aveva fatte; ed esse erano molto buone. Intanto si fece sera e poi mattino: sesto giorno. Così furono compiuti i cieli e la terra e tutto il loro assetto. E Dio nel settimo giorno finì l’opera che aveva fatta e nel settimo giorno si riposò da tutte le opere che aveva compiute.]

-II Profezia-

Gen V;VI; VII; VIII

“Noë vero cum quingentórum esset annórum, génuit Sem, Cham et Japheth. Cumque cœpíssent hómines multiplicári super terram et fílias procreássent, vidéntes fílii Dei fílias hóminum, quod essent pulchræ, accepérunt sibi uxóres ex ómnibus, quas elégerant. Dixítque Deus: Non permanébit spíritus meus in hómine in ætérnum,quia caro est: erúntque dies illíus centum vigínti annórum. Gigántes autem erant super terram in diébus illis. Postquam enim ingréssi sunt fílii Dei ad fílias hóminum illæque genuérunt, isti sunt poténtes a sæculo viri famósi. Videns autem Deus, quod multa malítia hóminum esset in terra, et cuncta cogitátio cordis inténta esset ad malum omni témpore, pænítuit eum, quod hóminem fecísset in terra. Et tactus dolóre cordis intrínsecus: Delébo, inquit, hóminem, quem creávi, a fácie terræ, ab hómine usque ad animántia, a réptili usque ad vólucres cœli; pænitet enim me fecísse eos. Noë vero invénit grátiam coram Dómino. Hæ sunt generatiónes Noë: Noë vir justus atque perféctus fuit in generatiónibus suis, cum Deo ambulávit. Et génuit tres fílios, Sem, Cham et Japheth. Corrúpta est autem terra coram Deo et repléta est iniquitáte. Cumque vidísset Deus terram esse corrúptam , dixit ad Noë: Finis univérsæ carnis venit coram me: repléta est terra iniquitáte a fácie eórum, et ego dispérdam eos cum terra. Fac tibi arcam de lignis lævigátis: mansiúnculas in arca fácies, et bitúmine línies intrínsecus et extrínsecus. Et sic fácies eam: Trecentórum cubitórum erit longitúdo arcæ, quinquagínta cubitórum latitúdo, et trigínta cubilórum altitúdo illíus. Fenéstram in arca fácies, et in cúbito consummábis summitátem ejus: óstium autem arcæ pones ex látere: deórsum cenácula et trístega fácies in ea. Ecce, ego addúcam aquas dilúvii super terram, ut interfíciam omnem carnem, in qua spíritus vitæ est subter cœlum. Univérsa, quæ in terra sunt, consuméntur. Ponámque fœdus meum tecum: et ingrédiens arcam tu et fílii tui, uxor tua et uxóres filiórum tuórum tecum. Et ex cunctis animántibus univérsæ carnis bina indúces in arcam, ut vivant tecum: masculíni sexus et feminíni. De volúcribus juxta genus suum, et de juméntis in génere suo, et ex omni réptili terræ secúndum genus suum: bina de ómnibus ingrediántur tecum, ut possint vívere. Tolles ígitur tecum ex ómnibus escis, quæ mandi possunt, et comportábis apud te: et erunt tam tibi quam illis in cibum. Fecit ígitur Noë ómnia, quæ præcéperat illi Deus. Erátque sexcentórum annórum, quando dilúvii aquæ inundavérunt super terram. Rupti sunt omnes fontes abýssi magnæ, et cataráctæ cœli apértæ sunt: et facta est plúvia super terram quadragínta diébus et quadragínta nóctibus. In artículo diei illíus ingréssus est Noë, et Sem et Cham et Japheth, fílii ejus, uxor illíus et tres uxóres filiórum ejus cum eis in arcam: ipsi, et omne ánimal secúndum genus suum, univérsaque juménta in génere suo, et omne, quod movétur super terram in génere suo, cunctúmque volátile secúndum genus suum. Porro arca ferebátur super aquas. Et aquæ prævaluérunt nimis super terram: opertíque sunt omnes montes excélsi sub univérso cœlo. Quíndecim cúbitis áltior fuit aqua super montes, quos operúerat. Consúmptaque est omnis caro, quæ movebátur super terram, vólucrum, animántium, bestiárum, omniúmque reptílium, quæ reptant super terram. Remánsit autem solus Noë, et qui cum eo erant in arca. Obtinuerúntque aquæ terram centum quinquagínta diébus. Recordátus autem Deus Noë, cunctorúmque animántium et ómnium jumentórum, quæ erant cum eo in arca, addúxit spíritum super terram, et imminútæ sunt aquæ. Et clausi sunt fontes abýssi et cataráctæ cœli: et prohíbitæ sunt plúviæ de cœlo. Reversæque sunt aquæ de terra eúntes et redeúntes: et cœpérunt mínui post centum quinquagínta dies. Cumque transíssent quadragínta dies, apériens Nœ fenéstram arcæ, quam fécerat, dimísit corvum, qui egrediebátur, et non revertebátur, donec siccaréntur aquæ super terram. Emísit quoque colúmbam post eum, ut vidéret, si jam cessássent aquæ super fáciem terræ. Quæ cum non invenísset, ubi requiésceret pes ejus, revérsa est ad eum in arcam: aquæ enim erant super univérsam terram: extendítque manum et apprehénsam íntulit in arcam. Exspectátis autem ultra septem diébus áliis, rursum dimisit colúmbam ex arca. At illa venit ad eum ad vésperam, portans ramum olívæ viréntibus fóliis in ore suo. Intelléxit ergo Noë, quod cessássent aquæ super terram. Exspectavítque nihilminus septem álios dies: et emísit colúmbam, quæ non est revérsa ultra ad eum. Locútus est autem Deus ad Noë, dicens: Egrédere de arca, tu et uxor tua, fílii tui et uxóres filiórum tuórum tecum. Cuncta animántia, quæ sunt apud te, ex omni carne, tam in volatílibus quam in béstiis et univérsis reptílibus, quæ reptant super terram, educ tecum, et ingredímini super terram: créscite et multiplicámini super eam. Egréssus est ergo Noë et fílii ejus, uxor illíus et uxóres filiórum ejus cum eo. Sed et ómnia animántia, juménta et reptília, quæ reptant super terram, secúndum genus suum, egréssa sunt de arca. Ædificávit autem Noë altáre Dómino: et tollens de cunctis pecóribus et volúcribus mundis, óbtulit holocáusta super altáre. Odoratúsque est Dóminus odórem suavitátis.”

[Noè, essendo in età di cinquecento anni, generò Sem, Cam e Jafet. E avendo principiato gli uomini a moltiplicarsi sopra la terra e avendo procreato delle figliuole, vedendo i figliuoli di Dio la bellezza delle figliuole degli uomini presero per loro mogli quelle che più di tutte loro piacevano. E disse il Signore : Non rimarrà il mio spirito per sempre nell’uomo, perché egli è carne e i suoi giorni saranno solamente di cento veti anni. In quel tempo vi erano sopra la terra dei giganti: poiché, dopo che si accostarono i figliuoli di Dio alle figliuole degli uomini, esse generarono, e ne vennero questi uomini, forti e robusti, famosi nei secoli. — Vedendo dunque Dio quanto grande era la malizia degli uomini sopra la terra, e tutti i pensieri del loro cuore erano continuamente intesi al mal fare, si pentì d’aver fatto l’uomo. E preso come da un intimo strazio a! cuore: Sterminerò, disse egli, l’uomo da me creato dalla faccia della terra, dall’uomo sino agli animali, dai rettili fino agli uccelli dell’aria; poiché mi pento di averli fatti. — Ma Noè trovò grazia dinanzi al Signore. Questa è la Ascendenza di Noè. Noè fu uomo giusto e perfetto nei suoi, tempi, e camminò con Dio. E generò tre figliuoli: Sem, Cam e Jafet. Ma era corrotta la terra davanti a Dio e ripiena d’iniquità. E avendo veduto Dio come la terra era corrotta, poiché ogni uomo era corrotto nella sua maniera di vivere sulla terra, disse a Noè: Nei miei decreti è imminente la fine di tutti gli uomini; la terra è ripiena d’iniquità per opera loro, e io li sterminerò insieme con la terra. Tu costruirai un’arca con legni lavorati; tu farai delle piccole stanze nell’arca e la invernicerai di bitume di dentro e di fuori. E in questo modo la farai: la lunghezza dell’arca sarà di trecento cubiti, di cinquanta cubiti la larghezza e di trenta l’altezza. Farai una finestra nell’arca e il tetto dell’arca lo farai che vada alzandosi fino ad un cubito. La porta poi dell’arca la farai da un lato; vi farai un piano in fondo, un secondo piano e un terzo piano. Ecco che io manderò le acque del diluvio sopra la terra ad uccidere tutti gli animali che hanno spirito di vita sotto il cielo: tutto quello che è sopra la terra andrà in perdizione. Ma io farò un patto con te ed entrerai nell’arca tu, e i tuoi figli, tua moglie e le mogli dei tuoi figli. E di tutti gli animali d’ogni specie, ne farai entrare nell’arca una coppia, un maschio e una femmina, affinché si salvino con te. Degli uccelli secondo la specie e delle bestie di ogni specie, e di tutti i rettili della terra secondo la loro specie, due entreranno nell’arca con te, affinché possano conservarsi. Prenderai dunque con te di tutte quelle cose che si possono mangiare, e le porterai in questa tua casa e serviranno a te e a loro di cibo. Fece dunque Noè tutto quello che gli aveva comandato il Signore. Ed. egli era in età di seicento anni allorché le acque del diluvio inondarono la terra. Si squarciarono allora tutte le sorgenti del grande abisso, e le cateratte del cielo si aprirono: e piovve sopra la terra per quaranta giorni e quaranta notti. In quello stesso giorno entrò Noè e Sem, Cam e Jafet suoi figliuoli, la moglie di lui e le tre mogli dei suoi figliuoli con essi nell’arca: essi e tutti gli animali secondo la loro specie, e tutto quello che si muove sopra la terra secondo la loro specie. Ora l’arca galleggiava sopra le acque. E le acque ingrossarono fuor di misura sopra la terra: e rimasero coperti tutti i monti più alti sotto il cielo, Quindici cubiti si alzò l’acqua sopra i monti che aveva ricoperti. E restò consunta ogni carne che ha moto sopra la terra, gli uccelli, gli animali; le bestie e tutti i rettili che strisciano sopra la terra: e rimase solo Noè e quelli che con lui erano nell’arca. Le acque occuparono la terra per centocinquanta giorni, ma ricordandosi il Signore di Noè e di tutti gli animali e di tutte le bestie che erano con essi nell’arca, mandò il vento sulla terra, e si abbassarono le acque. E furono chiuse le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo, e si arrestarono le piogge dal cielo. E si ritirarono le acque dalla terra andando e venendo: e cominciarono a scemare dopo centocinquanta giorni. E passati quaranta giorni, Noè, aperta la finestra che egli aveva fatta nell’arca, mandò fuori il corvo, il quale uscì e non tornò fino a tanto che le acque non s’asciugarono sulla terra. Mandò ancora dopo di esso la colomba per vedere se fossero sparite le acque sopra la faccia della terra. Ma la colomba, non avendo trovato ove posare il suo piede tornò a lui nell’arca: poiché le acque erano per tutta la terra: egli stese la mano e presala, la mise dentro l’arca. E avendo aspettato altri sette giorni, di nuovo mandò la colomba fuori dell’arca; ed ella tornò a lui alla sera portando in bocca un ramo d’olivo con verdi foglie. Comprese allora Noè che erano cessate le acque sopra la terra e aspettò non di meno altri sette giorni e rimandò la colomba, la quale non tornò più a lui. E parlò Dio a Noè dicendo: Esci dall’arca tu e tua moglie, i figli tuoi e le mogli dei tuoi figli con te. Tutti gli animali che sono presso di te d’ogni specie, sia di volatili sia di bestie o di rettili striscianti sulla terra, conducili con te; rientrate sulla terra: crescete e moltiplicatevi. E Noè usci coi figliuoli e sua moglie e le mogli dei suoi figli con lui. E tutti, con gli animali e le bestie e i rettili che strisciano sulla terra secondo la loro specie, uscirono dall’arca. E Noè edificò un altare al Signore e, presi tutti gli animali e uccelli mondi, ne offrì in olocausto sopra l’altare. E il Signore gradì il soave odore.]

-III Profezia-

Gen. XXII, 1-19

“In diébus illis: Tentávit Deus Abraham, et dixit ad eum: Abraham, Abraham. At ille respóndit: Adsum. Ait illi: Tolle fílium tuum unigénitum, quem diligis, Isaac, et vade in terram visiónis: atque ibi ófferes eum in holocáustum super unum móntium, quem monstrávero tibi. Igitur Abraham de nocte consúrgens, stravit ásinum suum: ducens secum duos júvenes et Isaac, fílium suum. Cumque concidísset ligna in holocáustum, ábiit ad locum, quem præcéperat ei Deus. Die autem tértio,elevátis óculis, vidit locum procul: dixítque ad púeros suos: Exspectáte hic cum ásino: ego et puer illuc usque properántes, postquam adoravérimus, revertémur ad vos. Tulit quoque ligna holocáusti, et impósuit super Isaac, fílium suum: ipse vero portábat in mánibus ignem et gládium. Cumque duo pérgerent simul, dixit Isaac patri suo: Pater mi. At ille respóndit: Quid vis, fili? Ecce, inquit, ignis et ligna: ubi est víctima holocáusti? Dixit autem Abraham: Deus providébit sibi víctimam holocáusti, fili mi. Pergébant ergo páriter: et venérunt ad locum, quem osténderat ei Deus, in quo ædificávit altáre et désuper ligna compósuit: cumque alligásset Isaac, fílium suum, pósuit eum in altare super struem lignórum. Extendítque manum et arrípuit gládium, ut immoláret fílium suum. Et ecce, Angelus Dómini de cœlo clamávit, dicens: Abraham, Abraham. Qui respóndit: Adsum. Dixítque ei: Non exténdas manum tuam super púerum neque fácias illi quidquam: nunc cognóvi, quod times Deum, et non pepercísti unigénito fílio tuo propter me. Levávit Abraham óculos suos, vidítque post tergum aríetem inter vepres hæréntem córnibus, quem assúmens óbtulit holocáustum pro fílio. Appellavítque nomen loci illíus, Dóminus videt. Unde usque hódie dícitur: In monte Dóminus vidébit. Vocávit autem Angelus Dómini Abraham secúndo de cœlo, dicens: Per memetípsum jurávi, dicit Dóminus: quia fecísti hanc rem, et non pepercísti fílio tuo unigénito propter me: benedícam tibi, et multiplicábo semen tuum sicut stellas cœli et velut arénam, quæ est in lítore maris: possidébit semen tuum portas inimicórum suórum, et benedicéntur in sémine tuo omnes gentes terræ, quia obœdísti voci meæ. Revérsus est Abraham ad púeros suos, abierúntque Bersabée simul, et habitávit ibi.”

[In quei giorni Dio provò Abramo e gli disse: Abramo, Abramo. Ed egli rispose: Eccomi. E Dio gli disse: Prendi il tuo figlio unigenito, il diletto Isacco, e va nella terra della visione e ivi lo offrirai in olocausto sopra uno dei monti che io ti indicherò. Abramo, dunque, mentre era ancora notte alzatosi, preparò il suo asino e prese con se due servi e Isacco suo figliuolo: e tagliate le legna per l’olocausto, s’incamminò verso il luogo assegnatogli da Dio. E il terzo giorno, alzati gli occhi, vide il luogo da lungi e disse ai suoi servi: aspettate qui con l’asino: io e il fanciullo andremo fin là con prestezza; e, come avremo fatto adorazione, torneremo da voi. Prese anche la legna per l’olocausto e la pose addosso a Isacco suo figliuolo: egli poi portava colle sue mani il fuoco e il coltello. E mentre tutti e due camminavano insieme, disse Isacco a suo padre: Padre mio. E quegli rispose: Che vuoi figliuolo? Ecco, disse quegli, il fuoco e la legna: dov’è la vittima dell’olocausto ? E Abramo soggiunse: Dio ci provvederà la vittima per l’olocausto, figliuolo mio. Andavano dunque innanzi assieme. E giunti al luogo mostrato a lui da Dio, edificò un altare e sopra vi accomodò la legna, e avendo legato Isacco, suo figlio, lo collocò sull’altare, sopra il mucchio della legna.. E stese la mano, e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma ecco l’Angelo del Signore dal cielo gridò, dicendo: Abramo, Abramo. E questi rispose: Eccomi. E quegli a lui disse: Non stendere le tue mani sopra il .fanciullo e non fare a lui male alcuno; adesso ho conosciuto che tu temi Iddio e non hai risparmiato il figliuolo tuo unigenito per me. Alzò Abramo gli occhi e vide dietro a se un ariete che si dimenava tra i pruni e presolo per le corna, lo tolse e lo offerse in olocausto invece del figlio, e a quel luogo pose nome: il Signore vede! Donde fin a quest’oggi si dice: Sul monte il Signore provvederà. Per la seconda volta l’Angelo del Signore chiamò Abramo dal cielo dicendo: Per me medesimo ho giurato, dice il Signore: giacche hai fatto una tal cosa e non hai perdonato al tuo figlio unigenito per me, io ti benedirò e moltiplicherò la tua stirpe come le stelle del cielo e come l’arena che è sul lido del mare; s’impadronirà la tua stirpe delle porte dei suoi nemici; e nella tua discendenza benedette saranno tutte le nazioni della terra, perché hai ubbidito alla mia voce. Tornò Abramo dai suoi servi: e se ne andarono insieme a Bersabea, ove egli abitò.]

-PROFEZIA IV-

Exod. XIV 24-31 e XV, 1-2

“In diébus illis: Factum est in vigília matutina, et ecce, respíciens Dóminus super castra Ægyptiórum per colúmnam ignis et nubis, interfécit exércitum eórum: et subvértit rotas cúrruum, ferebantúrque in profúndum. Dixérunt ergo Ægýptii: Fugiámus Israélem: Dóminus enim pugnat pro eis contra nos. Et ait Dóminus ad Móysen: Exténde manum tuam super mare, ut revertántur aquæ ad Ægýptios super currus et équites eórum. Cumque extendísset Moyses manum contra mare, revérsum est primo dilúculo ad priórem locum: fugientibúsque Ægýptiis occurrérunt aquæ, et invólvit eos Dóminus in médiis flúctibus. Reversæque sunt aquæ, et operuérunt currus, et équites cuncti exércitus Pharaónis, qui sequéntes ingréssi fúerant mare: nec unus quidem supérfuit ex eis. Fílii autem Israël perrexérunt per médium sicci maris, et aquæ eis erant quasi pro muro a dextris et a sinístris: liberavítque Dóminus in die illa Israël de manu Ægyptiórum. Et vidérunt Ægýptios mórtuos super litus maris, et manum magnam, quam exercúerat Dóminus contra eos: timuítque pópulus Dóminum, et credidérunt Dómino et Moysi, servo ejus. Tunc cécinit Moyses et fílii Israël carmen hoc Dómino, et dixérunt: Cantémus Dómino: glorióse enim honorificátus est: equum et ascensórem projécit in mare: adjútor et protéctor factus est mihi in salútem,

Hic Deus meus, et honorificábo eum: Deus patris mei, et exaltábo eum.

Dóminus cónterens bella: Dóminus nomen est illi.”

[In quei giorni, era già la vigilia del mattino, e il Signore da una nuvola di fuoco guardò verso il campo degli Egiziani e lo scompigliò. Fece rovesciare le ruote dei cocchi, che erano trascinati nel profondo. Dissero allora gli Egiziani: «Fuggiamo Israele, perché il Signore combatte per loro contro di noi!». E il Signore disse a Mosè: «Stendi la tua mano sopra il mare, affinché le acque si rovescino sugli Egiziani, sopra i loro cocchi e i loro cavalieri». E avendo Mosè stesa la mano verso il mare, sul far della mattina, il mare tornò al suo posto di prima, e le acque piombarono addosso agli Egiziani che fuggivano: così il Signore li travolse in mezzo ai flutti. E le acque, ritornando, coprirono i cocchi e i cavalieri di tutto l’esercito del Faraone, che per inseguire erano entrati nel mare: né un solo di loro scampò. Ma i figli d’Israele camminarono sull’asciutto nel mezzo del mare, e le acque erano per loro come un muro a destra e a sinistra. Così in quel giorno il Signore liberò Israele dalle mani degli Egiziani. E gli Israeliti videro sul lido del mare gli Egiziani morti e la grande potenza che il Signore aveva dispiegato contro di essi. E il popolo temé il Signore e credettero al Signore e a Mosè, suo servo. E allora Mosè cantò coi figli d’Israele questo cantico al Signore, dicendo: Cantiamo al Signore perché si è maestosamente glorificato; ha precipitato in mare cavallo e cavaliere. Il Signore è la mia forza ed il mio cantico; V. Egli è il mio Dio e lo glorificherò; il Dio di mio padre e Lo esalterò. V. Il Signore debella le guerre: il suo nome è l’Onnipotente.]

-Profezia V-

Isai. LIV, 17 e LV, 1-11

“Hæc est heréditas servórum Dómini: et justítia eórum apud me, dicit Dóminus. Omnes sitiéntes, veníte ad aquas: et qui non habétis argéntum, properáte, émite et comédite: veníte, émite absque argénto et absque ulla commutatióne vinum et lac. Quare appénditis argéntum non in pánibus, et labórem vestrum non in saturitáte? Audíte audiéntes me, et comédite bonum, et delectábitur in crassitúdine ánima vestra. Inclináte aurem vestram, et veníte ad me: audíte, et vivet ánima vestra, et fériam vobíscum pactum sempitérnum, misericórdias David fidéles. Ecce, testem pópulis dedi eum, ducem ac præceptórem géntibus. Ecce, gentem, quam nesciébas, vocábis: et gentes, quæ te non cognovérunt, ad te current propter Dóminum, Deum tuum, et sanctum Israël, quia glorificávit te. Quærite Dóminum, dum inveníri potest: invocáte eum, dum prope est. Derelínquat ímpius viam suam et vir iníquus cogitatiónes suas, et revertátur ad Dóminum, et miserébitur ejus, et ad Deum nostrum: quóniam multus est ad ignoscéndum. Non enim cogitatiónes meæ cogitatiónes vestræ: neque viæ vestræ viæ meæ, dicit Dóminus. Quia sicut exaltántur cœli a terra, sic exaltátæ sunt viæ meæ a viis vestris, et cogitatiónes meæ a cogitatiónibus vestris. Et quómodo descéndit imber et nix de cœlo, et illuc ultra non revértitur, sed inébriat terram, et infúndit eam, et germináre eam facit, et dat semen serénti et panem comedénti: sic erit verbum meum, quod egrediátur de ore meo: non revertátur ad me vácuum, sed fáciet, quæcúmque volui, et prosperábitur in his, ad quæ misi illud: dicit Dóminus omnípotens.”

[Questa è l’eredità dei servi del Signore, e la loro giustizia è affidata a me, dice il Signore. Voi tutti che avete sete venite alle acque; e voi che non avete argento fate presto, comprate e mangiate venite, comprate senza argento e senz’altra permuta, del vino e del latte; per qual motivo spendete voi il vostro argento in cose che non sono pane e la vostra fatica in ciò che non vi sazia? Con docilità ascoltatemi e cibatevi di buon cibo; l’anima vostra si delizierà nel sostanzioso, nutrimento. Porgete l’orecchio vostro e venite a me: Udite, e vivrà l’anima vostra, ed io stabilirò con voi un patto eterno, l’adempimento delle misericordie assicurate a David. Ecco che ho dato lui per testimoniare ai Popoli, condottiero e maestro delle nazioni. Ecco che quel popolo che tu non riconoscevi, tu lo chiamerai; le genti che non ti conoscevano, a te correranno per amor del Signore Dio tuo, e del santo d’Israele, perché ti ha glorificato. Cercate il Signore mentre lo si può trovare: invocatelo mentre egli è vicino. Abbandoni l’empio, la via sua, e l’iniquo i suoi maligni progetti, e ritorni al Signore, il quale avrà misericordia di lui; al nostro Dio, che è largo nel perdonare. Poiché i pensieri miei non sono i pensieri vostri, ne le vie vostre son le vie mie, dice il Signore. Poiché di quanto il cielo sovrasta alla terra, tanto sovrastano le mie vie alle vostre e i miei pensieri ai pensieri vostri. E come scende la pioggia e la neve dal cielo e lassù non ritorna, ma inebria la terra e la bagna e la fa germogliare affinché dia il seme da seminare e il pane da mangiare; così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: essa non tornerà a me senza frutto, ma opererà tutto quello che io voglio, e felicemente adempirà quelle cose per le quali io l’ho mandata: così dice il Signore onnipotente.]

 

-Profezia VI-

Baruch III, 9-38

Audi, Israël, mandata vitæ: áuribus pércipe, ut scias prudéntiam. Quid est, Israël, quod in terra inimicórum es? Inveterásti in terra aliéna, coinquinátus es cum mórtuis: deputátus es cum descendéntibus in inférnum. Dereliquísti fontem sapiéntiæ. Nam si in via Dei ambulásses, habitásses útique in pace sempitérna. Disce, ubi sit prudéntia, ubi sit virtus, ubi sit intelléctus: ut scias simul, ubi sit longitúrnitas vitæ et victus, ubi sit lumen oculórum et pax. Quis invénit locum ejus? et quis intrávit in thesáuros ejus? Ubi sunt príncipes géntium, et qui dominántur super béstias, quæ sunt super terram? qui in ávibus cœli ludunt, qui argéntum thesaurízant et aurum, in quo confídunt hómines, et non est finis acquisitiónis eórum? qui argéntum fábricant, et sollíciti sunt, nec est invéntio óperum illórum? Extermináti sunt, et ad ínferos descendérunt, et álii loco eórum surrexérunt. Júvenes vidérunt lumen, et habitavérunt super terram: viam autem disciplínæ ignoravérunt, neque intellexérunt sémitas ejus, neque fílii eórum suscepérunt eam, a fácie ipsórum longe facta est: non est audíta in terra Chánaan, neque visa est in Theman. Fílii quoque Agar, qui exquírunt prudéntiam, quæ de terra est, negotiatóres Merrhæ et Theman, et fabulatóres, et exquisitóres prudéntiæ et intellegéntias: viam autem sapiéntiæ nesciérunt, neque commemoráti sunt sémitas ejus. O Israël, quam magna est domus Dei et ingens locus possessiónis ejus! Magnus est et non habet finem: excélsus et imménsus. Ibi fuérunt gigántes nomináti illi, qui ab inítio fuérunt, statúra magna, sciéntes bellum. Non hos elegit Dóminus, neque viam disciplínæ invenérunt: proptérea periérunt. Et quóniam non habuérunt sapiéntiam, interiérunt propter suam insipiéntiam. Quis ascéndit in cœlum, et accépit eam et edúxit eam de núbibus? Quis transfretávit mare, et invénit illam? et áttulit illam super aurum eléctum? Non est, qui possit scire vias ejus neque qui exquírat sémitas ejus: sed qui scit univérsa, novit eam et adinvénit eam prudéntia sua: qui præparávit terram in ætérno témpore, et replévit eam pecúdibus et quadrupédibus: qui emíttit lumen, et vadit: et vocávit illud, et obædit illi in tremore. Stellæ autem dedérunt lumen in custódiis suis, et lætátæ sunt: vocátæ sunt, et dixérunt: Adsumus: et luxérunt ei cum jucunditáte, qui fecit illas. Hic est Deus noster, et non æstimábitur álius advérsus eum. Hic adinvénit omnem viam disciplínæ, et trádidit illam Jacob púero suo et Israël dilécto suo. Post hæc in terris visus est, et cum homínibus conversátus est.

[Ascolta, o Israele, i comandamenti di vita; porgi le orecchie ad imparare la prudenza: quale è la ragione, o Israele, per la quale tu sei in terra nemica? Tu invecchi in paese straniero, sei contaminato tra i morti, sei stato contuso con quelli che scendono nella fossa. Infatti tu abbandonasti la fonte della sapienza. Poiché se tu avessi camminato per la via di Dio, saresti vissuto in una pace eterna. Impara dove sia la prudenza, dove sia la fortezza, dove sia l’intelligenza; affinché sappia a un tempo dove sia la lunghezza della vita e il nutrimento, dove sia il lume degli occhi e la pace. Chi trovò la sede di essa? E chi penetrò nei tesori di lei? Dove sono i principi delle nazioni e coloro che dominano sopra le bestie della terra? Coloro che coi volatili del cielo scherzano; coloro che tesoreggiano argento ed oro, in cui confidano gli uomini, né mai finiscono di procacciarsene? coloro che lavorano l’argento, e gran pensiero se ne danno e non hanno termine le opere loro? Furono sterminati e discesero negli abissi e a loro altri succedettero. Questi, giovani, videro la luce e abitarono sopra la terra, ma la via della disciplina non conobbero e non ne compresero la direzione, né i loro figli l’abbracciarono; essa andò lungi da essi, di lei non si udì più parola nella terra di Canaan, non fu veduta in Theman. I figli ancora di Agar, che cercano la prudenza che viene dalla terra, e i negozianti di Merrha e di Theman e i favoleggiatori e gli scopritori della prudenza e della intelligenza, non conobbero la via della sapienza; né fecero tesoro dei suoi ammaestramenti. O Israele, quanto grande è la casa di Dio, e quanto grande è il luogo del suo dominio! Grande egli è e non ha termine: eccelso e immenso. Ivi furono quei giganti famosi che da principio furono di statura grande, maestri di guerra. Non scelse questi il Signore, né questi trovarono la via della disciplina; per questo perirono. E perché non ebbero la sapienza, perirono per la loro stoltezza. Chi salì al cielo e ne fece acquisto, e chi la trasse dalle nubi? Chi varcò il mare e la trovò e la portò a preferenza dell’oro più fino? Non è chi possa conoscere le vie di lei, né chi comprenda i suoi sentieri. Colui che sa tutto la conosce e la discoprì con la sua prudenza; colui che fondò la terra per l’eternità e la riempì di animali e di quadrupedi, colui che manda la luce ed essa va, la chiama ed essa ubbidisce a lui con tremore. Le stelle diffusero dai loro posti il loro lume, e ne furono liete: chiamate, dissero : Eccoci, e risplenderono con gioia per lui che le creò. Questi è il Dio nostro e nessun altro può essere messo in paragone con lui, questi fu l’inventore della via della disciplina e la insegno a Giacobbe suo servo, e ad Israele suo diletto. Dopo tali cose egli fu visto sopra la terra, e con gli uomini ha conversato.]

-Profezia VII-

Ezech. XXXVII, 1-15

“In diébus illis: Facta est super me manus Dómini, et edúxit me in spíritu Dómini: et dimísit me in médio campi, qui erat plenus óssibus: et circumdúxit me per ea in gyro: erant autem multa valde super fáciem campi síccaque veheménter. Et dixit ad me: Fili hóminis, putásne vivent ossa ista? Et dixi: Dómine Deus, tu nosti. Et dixit ad me: Vaticináre de óssibus istis: et dices eis: Ossa árida, audíte verbum Dómini. Hæc dicit Dóminus Deus óssibus his: Ecce, ego intromíttam in vos spíritum, et vivétis. Et dabo super vos nervos, et succréscere fáciam super vos carnes, et superexténdam in vobis cutem: et dabo vobis spíritum, et vivétis, et sciétis, quia ego Dóminus. Et prophetávi, sicut præcéperat mihi: factus est autem sónitus prophetánte me, et ecce commótio: et accessérunt ossa ad ossa, unumquódque ad junctúram suam. Et vidi, et ecce, super ea nervi et carnes ascendérunt: et exténta est in eis cutis désuper, et spíritum non habébant. Et dixit ad me: Vaticináre ad spíritum, vaticináre, fili hóminis, et dices ad spíritum: Hæc dicit Dóminus Deus: A quátuor ventis veni, spíritus, et insúffla super interféctos istos, et revivíscant. Et prophetávi, sicut præcéperat mihi: et ingréssus est in ea spíritus, et vixérunt: steterúntque super pedes suos exércitus grandis nimis valde. Et dixit ad me: Fili hóminis, ossa hæc univérsa, domus Israël est: ipsi dicunt: Aruérunt ossa nostra, et périit spes nostra, et abscíssi sumus. Proptérea vaticináre, et dices ad eos: Hæc dicit Dóminus Deus: Ecce, ego apériam túmulos vestros, et edúcam vos de sepúlcris vestris, pópulus meus: et indúcam vos in terram Israël. Et sciétis, quia ego Dóminus, cum aperúero sepúlcra vestra et edúxero vos de túmulis vestris, pópule meus: et dédero spíritum meum in vobis, et vixéritis, et requiéscere vos fáciam super humum vestram: dicit Dóminus omnípotens”.

[In quei giorni la mano del Signore fu sopra di me: e lo spirito del Signore mi trasse fuori e mi posò in mezzo ad un campo che era pieno di ossa e mi fece girare intorno ad esso: esse poi erano in gran quantità sulla faccia del campo e molto inaridite: e disse a me: Figlio dell’uomo, pensi tu che possano riavere vita queste ossa? Ed io dissi: Signore Dio, tu lo sai. Ed egli disse a me: Profetizza sopra queste ossa e dirai loro: Ossa aride, udite la parola del Signore: queste cose dice il Signore Dio a queste ossa. Ecco che io infonderò in voi lo spirito e avrete la vita. E farò risalire su di voi i nervi e ricrescere sopra di voi le carni, e sopra di voi stenderò la pelle e darò a voi lo spirito, e vivrete e conoscerete che io sono il Signore. E profetai come egli mi aveva ordinato e mentre io profetavo, si udì uno strepito, ed ecco un brulichio: e si accostarono ossa ad ossa, ciascuna alla propria giuntura. E mirai, ed ecco sopra di esse i nervi e le carni vennero e si distese sopra di loro la pelle; ma non avevano spirito. Allora mi disse: Profetizza allo spirito, profetizza. figlio dell’uomo e dirai allo spirito: queste cose dice il Signore Iddio: Dai quattro venti vieni, o spirito, e soffia sopra questi morti ed essi rivivranno. E profetai come egli mi aveva comandato ed entrò in quelli lo spirito e riebbero la vita e stettero sui piedi loro, un esercito grande fuor di misura. Ed egli disse a me: Figlio dell’uomo, tutte queste ossa sono figli di Israele: essi dicono: Aride sono le ossa nostre, ed è perita la nostra speranza, e noi siamo troncati: per questo tu profetizza e dirai loro: queste cose dice il Signore: Ecco che io aprirò le vostre tombe e vi trarrò fuori dai vostri sepolcri, popolo mio, e vi condurrò nella terra d’Israele. E conoscerete che io sono il Signore allorquando avrò aperto i vostri sepolcri e vi avrò tratti dai sepolcri vostri, popolo mio, ed avrò infuso il mio spirito in voi, e vivrete, e vi avrò dato riposo nella terra vostra, dice il Signore, onnipotente.]

-Profezia VIII-

Isai. IV, 1-6

“Apprehéndent septem mulíeres virum unum in die illa, dicéntes: Panem nostrum comedémus et vestiméntis nostris operiémur: tantúmmodo invocétur nomen tuum super nos, aufer oppróbrium nostrum. In die illa erit germen Dómini in magnificéntia et glória, et fructus terræ súblimis, et exsultátio his, qui salváti fúerint de Israël. Et erit: Omnis, qui relíctus fúerit in Sion et resíduus in Jerúsalem, sanctus vocábitur, omnis, qui scriptus est in vita in Jerúsalem. Si ablúerit Dóminus sordes filiárum Sion, et sánguinem Jerúsalem láverit de médio ejus, in spíritu judícii et spíritu ardóris. Et creábit Dóminus super omnem locum montis Sion, et ubi invocátus est, nubem per diem, et fumum et splendórem ignis flammántis in nocte: super omnem enim glóriam protéctio. Et tabernáculum erit in umbráculum diéi ab æstu, et in securitátem et absconsiónem a túrbine et a plúvi”a.

[Sette donne si disputeranno un sol uomo in quel giorno dicendo: Noi mangeremo il nostro pane, del nostro ci vestiremo; solamente dacci il tuo nome, togli la nostra confusione. In quel giorno il «Germoglio del Signore sarà in magnificenza e gloria, e il «Frutto della terra» sarà il sublime vanto e la gioia dei salvati d’Israele. Tutti quelli restati in Sion, quelli rimasti in Gerusalemme, saranno chiamati santi, tutti quelli inscritti per la vita saranno in Gerusalemme . Quando il Signore avrà lavata dalle macchie la figlia di Sion, e Gerusalemme dal sangue che è in mezzo ad essa con lo spirito di giustizia e lo spirito di fuoco, il Signore allora creerà sopra tutto il monte di Sion, e dovunque sarà invocato, una nuvola di fumo durante il giorno, e lo splendore del fuoco fiammante nella notte, e sopra tutta la sua Gloria vi sarà protezione. Il Santuario farà ombra per il calore del giorno, e di difesa contro la bufera e la pioggia.]

-Profezia IX-

Es. XII, 1-11

“In diébus illis: Dixit Dóminus ad Móysen et Aaron in terra Ægýpti: Mensis iste vobis princípium ménsium: primus erit in ménsibus anni. Loquímini ad univérsum cœtum filiórum Israël, et dícite eis: Décima die mensis hujus tollat unusquísque agnum per famílias et domos suas. Sin autem minor est númerus, ut suffícere possit ad vescéndum agnum, assúmet vicínum suum, qui junctus est dómui suæ, juxta númerum animárum, quæ suffícere possunt ad esum agni. Erit autem agnus absque mácula, másculus, annículus: juxta quem ritum tollétis et hædum. Et servábitis eum usque ad quartam décimam diem mensis hujus: immolabítque eum univérsa multitúdo filiórum Israël ad vésperam. Et sument de sánguine ejus, ac ponent super utrúmque postem et in superlimináribus domórum, in quibus cómedent illum. Et edent carnes nocte illa assas igni, et ázymos panes cum lactúcis agréstibus. Non comedétis ex eo crudum quid nec coctum aqua, sed tantum assum igni: caput cum pédibus ejus et intestínis vorábitis. Nec remanébit quidquam ex eo usque mane. Si quid resíduum fúerit, igne comburétis. Sic autem comedétis illum: Renes vestros accingétis, et calceaménta habébitis in pédibus, tenéntes báculos in mánibus, et comedétis festinánter: est enim Phase Dómini”.

[In quei giorni disse il Signore a Mosè ed Aronne nella terra di Egitto: questo mese sarà per voi il principio dei mesi, il primo dei mesi dell’anno. Parlate a tutta l’adunanza dei figliuoli d’Israele, e dite loro: Il decimo giorno di questo mese, prenda ciascuno un agnello per famiglia e per casa. Che se il numero delle, persone è insufficiente per mangiare tutto l’agnello, inviterà, il suo vicino di casa, in modo che si abbia il numero sufficiente per consumare l’agnello. Questo poi sarà senza macchia , maschio, di un anno; e con lo stesso rito prenderete anche un capretto. E serberete l’agnello fino al giorno quattordicesimo di questo mese; e tutta la moltitudine dei figliuoli d’Israele lo immolerà alla sera. E prenderanno del sangue suo e lo metteranno su ambedue gli stipiti della porta e sull’architrave della porta delle case nelle quali lo mangeranno. E quella notte mangeranno quelle carni, arrostite al fuoco, con pani azzimi e lattughe selvatiche. Di esso non mangerete niente di crudo, o cotto nell’acqua, ma soltanto arrostito col fuoco; mangerete anche il capo, i piedi e le interiora. Niente di esso deve avanzare per il mattino; se qualche cosa ne avanzasse lo brucerete nel fuoco. E lo mangerete in questo modo; avrete i fianchi cinti, le scarpe ai piedi, e i bastoni in mano, e mangerete alla svelta perché è la Phase (il passaggio) del Signore.]

-Profezia X-

Jon. III, 1-10

“In diébus illis: Factum est verbum Dómini ad Jonam Prophétam secúndo, dicens: Surge, et vade in Níniven civitátem magnam: et prædica in ea prædicatiónem, quam ego loquor ad te. Et surréxit Jonas, et ábiit in Níniven juxta verbum Dómini. Et Nínive erat cívitas magna itínere trium diérum. Et cœpit Jonas introíre in civitátem itínere diéi uníus: et clamávit et dixit: Adhuc quadragínta dies, et Nínive subvertétur. Et credidérunt viri Ninivítæ in Deum: et prædicavérunt jejúnium, et vestíti sunt saccis a majóre usque ad minórem. Et pervénit verbum ad regem Nínive: et surréxit de sólio suo, et abjécit vestiméntum suum a se, et indútus est sacco, et sedit in cínere. Et clamávit et dixit in Nínive ex ore regis et príncipum ejus, dicens: Hómines et juménta et boves et pécora non gustent quidquam: nec pascántur, et aquam non bibant. Et operiántur saccis hómines et juménta, et clament ad Dóminum in fortitúdine, et convertatur vir a via sua mala, et ab iniquitáte, quæ est in mánibus eórum. Quis scit, si convertátur et ignóscat Deus: et revertátur a furóre iræ suæ, et non períbimus? Et vidit Deus ópera eórum, quia convérsi sunt de via sua mala: et misértus est pópulo suo, Dóminus, Deus noster”.

[In quei giorni il Signore per la seconda volta parlò a Giona profeta e disse: Alzati e va a Ninive città grande, e predica ivi quello che io dico a te. E si mosse Giona e andò a Ninive secondo l’ordine del Signore. Or Ninive era una città grande che aveva tre giornate di cammino. E Giona incominciò a percorrere la città per il cammino di un giorno e gridava e diceva: Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta. E i Niniviti credettero a Dio; e intimarono il digiuno e si vestirono di sacco tanto i grandi quanto i piccoli. E fu portata la nuova al re di Ninive: ed egli si levò dal suo trono e gettò via le sue vesti e si vestì di sacco e si assise sopra la cenere. E pubblicò e intimò in Ninive quest’ordine del re e dei suoi principi: Uomini e bestie, bovi e pecore non mangino niente, non vadano al pascolo, e acqua non bevano. E si coprano di sacco gli uomini e gli animali, e gridino verso il Signore con tutta la loro forza e si converta ciascuno dalla sua cattiva vita e dalle sue opere inique. Chi sa che Dio non si rivolga a noi e ci perdoni: e calmi il furore dell’ira sua, e così non ci faccia perire. E Dio vide le opere loro e come si erano convertiti dalla loro mala vita, ed ebbe misericordia del suo popolo il Signore Dio nostro.]

-Profezia XI-

Deut. XXXI, 22-30

“In diébus illis: Scripsit Móyses canticum, et dócuit fílios Israël. Præcepítque Dóminus Josue, fílio Nun, et ait: Confortáre, et esto robústus: tu enim introdúces fílios Israël in terram, quam pollícitus sum, et ego ero tecum. Postquam ergo scripsit Móyses verba legis hujus in volúmine, atque complévit: præcépit Levítis, qui portábant arcam fœderis Dómini, dicens: Tóllite librum istum, et pónite eum in látere arcæ fœderis Dómini, Dei vestri: ut sit ibi contra te in testimónium. Ego enim scio contentiónem tuam et cérvicem tuam duríssimam. Adhuc vivénte me et ingrediénte vobíscum, semper contentióse egístis contra Dóminum: quanto magis, cum mórtuus fúero? Congregáte ad me omnes majóres natu per tribus vestras, atque doctóres, et loquar audiéntibus eis sermónes istos, et invocábo contra eos cœlum et terram. Novi enim, quod post mortem meam iníque agétis et declinábitis cito de via, quam præcépi vobis: et occúrrent vobis mala in extrémo témpore, quando fecéritis malum in conspéctu Dómini, ut irritétis eum per ópera mánuum vestrárum. Locútus est ergo Móyses, audiénte univérso cœtu Israël, verba cárminis hujus, et ad finem usque complévit.”

[In quei giorni Mosè scrisse un cantico e lo insegnò ai figli di Israele. E il Signore diede i suoi ordini a Giosuè figlio di Nun e gli disse: «Fatti coraggio e sii forte: tu introdurrai i figli d’Israele nella terra che ho loro promessa, io poi sarò con te». Or quando Mosè ebbe finito di scrivere le parole di questa legge in un libro, diede ordine ai leviti, che portavano l’arca del patto del Signore: «Prendete questo libro e mettetelo in un lato dell’arca del patto del Signore Dio vostro, che vi rimanga come testimonio contro di te, ; perché ben conosco la tua ostinazione e la tua durezza di testa. Se, mentre sono ancor vivo e cammino con voi, siete stati sempre ribelli contro il Signore; quanto più dopo la mia morte! Radunate presso di me tutti gli anziani di ciascuna delle vostre tribù, e i vostri prefetti, che pronunzierò dinanzi a loro queste parole, chiamando a testimonio contro di loro il cielo e la terra. Poiché so bene che dopo la mia morte agirete iniquamente, uscendo ben presto dalla strada che vi ho prescritta; e vi cadranno addosso i mali negli ultimi tempi, allorché avrete fatto il male nel cospetto del Signore, provocandolo a sdegno colle opere vostre». Mosè quindi pronunciò e recitò sino alla fine le parole di questo cantico mentre tutto Israele stava ad ascoltarlo.]

-Profezia XII-

Dan. III, 1-24

“In diébus illis: Nabuchodónosor rex fecit státuam áuream, altitúdine cubitórum sexagínta, latitúdine cubitórum sex, et státuit eam in campo Dura provínciæ Babylónis. Itaque Nabuchodónosor rex misit ad congregándos sátrapas, magistrátus, et júdices, duces, et tyránnos, et præféctos, omnésque príncipes regiónum, ut convenírent ad dedicatiónem státuæ, quam eréxerat Nabuchodónosor rex. Tunc congregáti sunt sátrapæ, magistrátus, et júdices, duces, et tyránni, et optimátes, qui erant in potestátibus constitúti, et univérsi príncipes regiónum, ut convenírent ad dedicatiónem státuæ, quam eréxerat Nabuchodónosor rex. Stabant autem in conspéctu státuæ, quam posúerat Nabuchodónosor rex, et præco clamábat valénter: Vobis dícitur populis, tríbubus et linguis: In hora, qua audiéritis sónitum tubæ, et fístulæ, et cítharæ, sambúcæ, et psaltérii, et symphóniæ, et univérsi géneris musicórum, cadéntes adoráte státuam áuream, quam constítuit Nabuchodónosor rex. Si quis autem non prostrátus adoráverit, eádem hora mittétur in fornácem ignis ardéntis. Post hæc ígitur statim ut audiérunt omnes pópuli sónitum tubæ, fístulæ, et cítharæ, sambúcæ, et psaltérii, et symphóniæ, et omnis géneris musicórum, cadéntes omnes pópuli, tribus et linguæ adoravérunt státuam auream, quam constitúerat Nabuchodónosor rex. Statímque in ipso témpore accedéntes viri Chaldæi accusavérunt Judæos, dixerúntque Nabuchodónosor regi: Rex, in ætérnum vive: tu, rex, posuísti decrétum, ut omnis homo, qui audiérit sónitum tubæ, fístulæ, et cítharæ, sambúcæ, et psaltérii, et symphóniæ, et univérsi géneris musicórum, prostérnat se et adóret státuam áuream: si quis autem non prócidens adoráverit, mittátur in fornácem ignis ardéntis. Sunt ergo viri Judæi, quos constituísti super ópera regiónis Babylónis, Sidrach, Misach et Abdénago: viri isti contempsérunt, rex, decrétum tuum: deos tuos non colunt, et státuam áuream, quam erexísti, non adórant. Tunc Nabuchodónosor in furóre et in ira præcépit, ut adduceréntur Sidrach, Misach et Abdénago: qui conféstim addúcti sunt in conspéctu regis. Pronuntiánsque Nabuchodónosor rex, ait eis: Veréne, Sidrach, Misach et Abdénago, deos meos non cólitis, et státuam áuream, quam constítui, non adorátis? Nunc ergo si estis parati, quacúmque hora audieritis sonitum tubæ, fístulæ, cítharæ, sambúcæ, et psaltérii, et symphóniæ, omnísque géneris musicórum, prostérnite vos et adoráte státuam, quam feci: quod si non adoravéritis, eadem hora mittémini in fornácem ignis ardéntis; et quis est Deus, qui erípiet vos de manu mea? Respondéntes Sidrach, Misach et Abdénago, dixérunt regi Nabuchodónosor: Non opórtet nos de hac re respóndere tibi. Ecce enim, Deus noster, quem cólimus, potest erípere nos de camíno ignis ardéntis, et de mánibus tuis, o rex, liberáre. Quod si nolúerit, notum sit tibi; rex, quia deos tuos non cólimus et státuam áuream, quam erexísti, non adorámus. Tunc Nabuchodónosor replétus est furóre, et aspéctus faciéi illíus immutátus est super Sidrach, Misach et Abdénago, et præcépit, ut succenderétur fornax séptuplum, quam succéndi consuéverat. Et viris fortíssimis de exércitu suo jussit, ut, ligátis pédibus Sidrach, Misach et Abdénago, mítterent eos in fornácem ignis ardéntis. Et conféstim viri illi vincti, cum braccis suis et tiáris et calceaméntis et véstibus, missi sunt in médium fornácis ignis ardéntis: nam jússio regis urgébat: fornax autem succénsa erat nimis. Porro viros illos, qui míserant Sidrach, Misach et Abdénago, interfécit flamma ignis. Viri autem hi tres, id est, Sidrach, Misach et Abdénago, cecidérunt in médio camíno ignis ardéntis colligáti. Et ambulábant in médio flammæ laudántes Deum, et benedicéntes Dómino”.

[In quei giorni il re Nabuchodonosor fece una statua d’oro alta sessanta cubiti, larga sei cubiti e la fece alzare nella campagna di Dura, provincia di Babilonia. E così il Re Nabuchodonosor mandò a radunare i satrapi e i magistrati e i giudici e i capitani e i dinasti e i prefetti e tutti i governatori delle Provincie affinché tutti insieme andassero alla dedicazione della statua alzata dal re Nabuchodonosor. Allora si radunarono i satrapi e i magistrati e i giudici e i capitani, e i dinasti, e i grandi che erano costituiti in dignità, e tutti i governatori delle Provincie per andare tutti insieme alla dedicazione della statua, eretta da Nabuchodonosor. E stavano in faccia alla statua alzata dal re Nabuchodonosor: e l’araldo gridava ad alta voce: A voi si ordina, popoli tribù e lingue che nel punto stesso in cui udirete il suono della tromba e del flauto, della cetra, della zampogna, del saltero, del timpano è di ogni sorta di strumenti musicali, prostrati adoriate la statua d’oro eretta dal re Nabuchodonosor. Se alcuno non si prostra e adora, nello stesso momento sarà gettato in una fornace di fuoco ardente. Poco dopo, dunque, appena che i popoli tutti udirono il suono della tromba, del flauto, della cetra, della zampogna, del saltero, del timpano e di ogni genere di strumenti musicali, tutti senza distinzione di tribù e di lingua prostrati, adorarono la statua d’oro alzata dal re Nabuchodonosor. Subito, in quel punto stesso andarono alcuni uomini Caldei ad accusare i giudei e dissero al re Nabuchodonosor: Vivi, o re, in eterno; tu, o re, hai fatto un decreto che qualunque uomo che avesse udito il suono della tromba, del flauto, della cetra, della zampogna, del saltero, del timpano e di ogni sorta di strumenti musicali si prostrasse e adorasse la statua d’oro: che se alcuno non si prostrasse e adorasse, fosse gettato in una fornace di fuoco ardente. Vi son dunque tre uomini giudei i quali tu hai deputati sopra affari della provincia di Babilonia: Sidrach, Misach e gli Abdenago; questi uomini han dispregiato, o re, il tuo decreto: ai tuoi dei non rendono culto, non adorano la statua d’oro, alzata da te. Allora Nabuchodonosor pieno di furore e d’ira, ordinò che gli fossero condotti Sidrach, Misach e Abdenago; i quali furono condotti al cospetto del re. E parlò Nabuchodonosor re, e disse: È vero, o Sidrach. Misach e Abdenago, che voi non rendete culto ai miei dei e non adorate la statua d’oro che io ho eretta? Ora dunque se voi siete a ciò disposti, in quel momento in cui udirete il suono della tromba, del flauto, della cetra, della zampogna, del salterio, del timpano, e ogni genere di strumenti musicali, prostratevi e adorate la statua che io ho fatta che se non l’adorerete in quel punto stesso sarete gettati in una fornace di fuoco ardente: e quale è il Dio che vi sottrarrà al mio potere? Risposero Sidrach, Misach e Abdenago e dissero al re Nabuchodonosor: Non è necessario che noi ti diamo risposta. Perché certamente il Dio nostro che noi adoriamo, può liberarci dalla fornace di fuoco ardente e sottrarci al tuo patere, o re. Ma se anche non lo volesse fare, sappi, o re, che non rendiamo culto ai tuoi dei e non adoriamo la statua d’oro da te eretta. Allora Nabuchodonosor entrò in furore, e la sua faccia cambiò di colore verso Sidrach, Misach e Abdenago, e comandò che si accendesse il fuoco nella fornace sette volte più dell’usato. E ad uomini fortissimi del suo esercito diede ordine che legassero i piedi di Sidrach, Misach e Abdenago, e li gettassero nella fornace di fuoco ardente. E tosto, questi tre uomini legati nei piedi, avendo, i loro calzoni e tiare e i loro calzari e le loro vesti, furono gettati in mezzo alla fornace di fuoco ardente: poiché il comando del re non ammetteva indugi, e la fornace era accesa straordinariamente. Ma la fiamma di, improvviso incenerì coloro che vi avevano gettato Sidrach, Misach e Abdenago: mentre questi tre e cioè Sidrach, Misach e Abdenago caddero legati nel mezzo della fornace ardente. E camminavano in mezzo alle fiamme lodando Dio e benedicendo il Signore.]

OMELIA

di S. S. Gregorio XVII (G. Siri) – (1973)

Dal fuoco si è tratta la scintilla per accendere il cereo pasquale e tutti gli altri ceri. Perché questo? Per indicare che Cristo è luce. Ma questa luce sfavillò pienamente il giorno della Risurrezione e sfavillò perché portava la Risurrezione con sé il documento, la prova per la certezza; la verità non sfavilla se non è certa. La grande certezza di Cristo fu raggiunta per gli altri – la certezza obiettiva, dico – nel momento della Risurrezione, e allora fu luce, quale luce! Allora fu certo che Lui era il Figlio di Dio perché era Signore della vita e della morte, il limite sul quale gli uomini non arrivano. Fu luce perché allora si capì l’amore che Dio ha per le Sue creature. Fu luce perché allora fu certa l’elevazione dell’uomo all’ordine soprannaturale, il Suo intervento nelle anime, lasciando libera la volontà dell’uomo e trattandola e sostenendola con la grazia Sua. Fu luce perché allora si seppe che questa vita dalle apparenze così misere aveva un traguardo eterno: la stessa vita divina. La luce materiale che è stata accesa era ed è soltanto un piccolo, umile simbolo della luce di certezza che si accende nelle nostre anime. – Poi abbiamo sentito leggere tratti della Sacra Scrittura, e così è riapparsa la storia del mondo nelle sue grandi tappe. Anzitutto la creazione. Abbiamo sentito il canto di Mose, il canto lirico dal fondo storico del primo capitolo del Genesi (1, 1-2, 2), il canto che Mose in forma lirica – e questo è necessario tener presente per leggere con chiarezza quel testo – compose per inculcare al popolo suo la prima legge dell’Antico Testamento, la legge del riposo festivo, perché il settimo giorno deve essere dedicato a Dio; non una mezz’ora, un giorno! Quest’obbligo, scritto nella prima pagina della Sacra Scrittura, resta legato alla creazione del mondo, alla ragione per cui noi sussistiamo. Tutte le cose proclamano quello che la creazione esige: che si adori Dio. Poi abbiamo sentito un secondo momento, il momento in cui la storia incomincia a prendere forma e a snodarsi con chiarezza verso Cristo. Abbiamo sentito leggere di Abramo (Gen. XXII, 1-18). Con Abramo la storia si concreta in una linea che mira a Cristo, linea meravigliosa, tutta intessuta di soprannaturale, illuminata dallo spirito profetico. Ma questa storia inizia con un preannunzio del futuro: ad Abramo è chiesto il sacrifìcio del figlio; quando con la volontà egli l’ha fatto, l’angelo l’ha fermato, ma quando Cristo è andato in croce nessun angelo ha fermato gli eventi. Allora era profezia e promessa; sulla Croce si ebbe la magnificenza di questa fedeltà divina alle promesse fatte agli uomini. Poi abbiamo sentito leggere del passaggio del Mar Rosso (Es. XIV e XV, 1), altro punto fondamentale della storia umana, perché in questo punto prese definitivamente forma la storia che camminava verso Cristo. E la prese a questo modo: il mare si aprì ed il popolo camminò tra le due muraglia d’acqua, che si sarebbero dopo del popolo rovesciate sugli Egiziani per mandarli a morte. Così la storia prese forma. Abbiamo sentito poi parlare di questa salvezza attraverso la bocca di Ezechiele (XXXVI, 16-17a. 18-28). – E, finalmente, abbiamo sentito l’epistola (Rm VI, 3-11) e poi il Vangelo (Mc XVI, 1-8): la Resurrezione. La Risurrezione è l’epilogo di questa storia. – Davanti a questo epilogo noi ci chiediamo questo: in che misura la Risurrezione di Cristo si trasferisce a noi? Siamo qui solo per godere di una gloria altrui? No, siamo qui perché la Risurrezione di Cristo si trasferisce anche a noi. Vediamo con che gradi, vediamo in che modi, vediamo con quali traguardi. Si trasferisce a noi quando siamo battezzati, perché allora dall’anima è tolto il seme della morte, il peccato d’origine. Si trasferisce a noi quando noi volontariamente deponiamo il peccato grande e piccolo dall’anima. Il peccato non lo potremo trasferire da noi; lo possiamo trasferire soltanto per la Redenzione che ha avuto la sua manifestazione finale nella Risurrezione di Cristo. E allora attraverso la penitenza, che richiama sempre il Sacramento della Penitenza, risorgiamo dal peccato nel quale eravamo sepolti. E poi questa Risurrezione potrà con la Grazia di Dio camminare con la nostra libertà, portata anche sulle ali del nostro libero volere verso traguardi infiniti, continuando fino all’ultimo dei giorni, l’ultimo, dico, per ciascheduno di noi. E poi l’abito da lavoro sarà deposto, l’abito da lavoro ritornerà alla terra, rientrerà nel cerchio delle cose, in attesa che la Risurrezione di Cristo si trasferisca a noi in modo completo, e questo sarà l’ultimo giorno. Quando l’ifinita ed eterna scienza divina troverà quello che è appartenuto al nostro corpo, ce lo restituirà, restituirà il corpo all’anima e l’anima al corpo nella risurrezione finale. E allora completamente la Risurrezione di Cristo sarà trasferita a noi. – Per il momento siamo a mezza strada di questa grande storia, di cui in questa notte e solo in questa notte vengono riassunti gli elementi fondamentali, le grandi e vere svolte. Siamo a mezza strada, fratelli, e dico che siamo a mezza strada sia per rievocare la certezza della nostra risurrezione finale, ma anche per dire che nella mezza strada che ci rimane possiamo perdere tutto. Che questo non accada! Che per nessuno di noi e per nessuno di quelli che non sono qui possa accadere questo! Preghiamo. Così sia.

 

 

 

LE TRE ORE D’AGONIA DI NOSTRO SIGNOR GESÙ CRISTO

LE TRE ORE D’AGONIA

DI

NOSTRO SIGNOR GESÙ CRISTO

del

p. ALFONSO MESSIA (1).

[da “Il Giardino spirituale”, Tip. Pesole, Napoli, s. d. -imprim.-]

INTRODUZIONE — Per ciò che si deve fare e contemplare il Venerdì Santo nelle tre Ore dell’ Agonia, cominciandole dalle ore diciotto.

INVITO

Già trafitto in duro legno

Dall’indegno popol rio,

La grand’alma un Domo Dio

Va sul Golgota a spirar.

Voi, che a Lui fedeli siete,

Non perdete, o Dio! i momenti;

Di Gesù gli ultimi accenti

Deh venite ad ascoltar!

Si darà principio con un breve ragionamento per disporre alla venerazione e al profitto di queste tre Ore, terminato il quale si leggerà quanto segue:

Noi tutti fedeli Cristiani, amanti del nostro Salvatore Gesù, redenti e riscattati a costo del Sangue suo preziosissimo, della sua Passione e Morte, dalla schiavitù della colpa e del demonio, dobbiate contemplare con somma attenzione e riverenza i tormenti, le ambasce e le angustie mortali che nello spazio di queste tre Ore d’Agonia patì sulla Croce il nostro amorosissimo Redentore. Furono tanto crudeli e orrende che, al dire di S. Bernardo, non vi ha intelletto umano che valga a comprenderle, nè lingua creata a spiegarle. Dalla pianta del piede alla sommità della testa nulla aveva il Salvatore di sano. Guardalo bene, o Anima, su quella Croce: tutto da capo ai piedi fatto una piaga: le spalle e tutto il corpo lacerato dai flagelli, il petto snervato dalle percosse, il capo trapassato orribilmente dalle spine, i capelli strappati, la barba schiantata, il volto ferito dalle guanciate, le vene vuote di sangue, la bocca inaridita dalla sete, la lingua amareggiata dal fiele e dall’aceto, le mani e i piedi crivellati e trafitti da fieri chiodi, e questi squarci inaspriti anche più dal peso del suo medesimo corpo: il cuore afflitto, l’anima sul punto di spirare, divelta da un’indicibile tristezza ed angoscia. Ma ciò non era veramente quel che più lo cruciava, poiché si era già offerto di volersi assoggettare ai tormenti della croce. – Quello che più gli trafiggeva il cuore nell’agonia di queste tre ore erano le nostre colpe e la nostra iniqua corrispondenza. Era la nostra ingratitudine che Gli cagionava quelle tremende agonie di morte. Ah! chi non aborrirà, o Anima, con tutto il suo cuore, le colpe, che furono cagione d’agonie sì mortali al nostro amorosissimo Salvatore? – In queste tre ore di un sì lungo tormento, senza che le acque di tante amarezze potessero spegnere la vampa della sua carità, tutti Ei ebbe davanti a sé per offerire a prò nostro con amore sviscerato il suo Sangue e la sua vita in sacrifizio all’eterno suo Padre. In queste tre Ore, benché con gli occhi nostri noi nol vedessimo, colla immensa sua vista ben vide Egli noi, e ci tenne presenti, per offerirsi in favor di ciascuno; come se ciascuno di noi fosse l’unico al mondo, e l’unico amato da Lui. In queste tre ore vide chiaramente ciascuna delle nostre colpe con tutte le sue circostanze, come le vede allora che si commettono, e ne fu si intimamente penetrato ed afflitto, che mosso a pietà di noi offrì il suo Sangue suo preziosissimo in pagamento dei nostri delitti. In queste tre Ore coll’amarezza delle sue agonie levò di mano al demonio, principe del mondo la scrittura e l’obbligazione delle nostre colpe, e, seco inchiodandola sulla croce, la cancellò col suo Sangue. – In queste tre Ore col prezzo delle sue agonie ci guadagnò dall’eterno suo Padre i tesori tutti della sua clemenza, tutt’i buoni pensieri e le sante inspirazioni, e tutti gli aiuti della sua grazia. Oh avventurosa memoria del nostro dolcissimo Redentore! Oh beate tre preziose Ore spese per i nostri falli, nelle quali meritammo di star presenti sul monte Calvario, e non da lontano, non da vicino alla Croce, ma nel cuore stesso, nella stessa memoria del nostro amorosissimo Redentore, per acquistare tutta la grazia dell’amor suo e dell’infinita sua carità! Davvero, o Anima, non soddisfacciamo abbastanza per quel che dobbiamo al dolcissimo nostro Gesù se in queste tre Ore non moriamo noi d’amore. – Voltiamoci, Anime, all’eterno Padre, nostro Dio e nostro Giudice, e fatti animosi dell’agonia del nostro Redentore Gesù, diciamoGli con tutto l’affetto e con l’umiltà del nostro cuore: “Oh eterno Padre, Giudice e Signore delle anime nostre, la cui giustizia è incomprensibile! Giacché ordinaste, o Signore, che l’innocentissimo Figlio vostro pagasse i nostri debiti, guardate, o Signore e Padre nostro, alla sì tremenda agonia, nella quale per la vostra obbedienza e per le nostre colpe si trova in queste tre Ore: guardate al sì pietoso pagamento che vi offre nel suo Sangue e nella sua agonia, affinché si plachi così la vostra Giustizia. Cessi, o Signore, la vostra indignazione, e poiché vi vedete pagato e soddisfatto sì abbondantemente, noi debitori restiamo liberi: e per queste tre Ore d’agonia dell’amantissimo Figlio vostro Gesù, meritiamo noi tutto quello che vi chiese per noi, il perdono cioè delle nostre colpe e gli aiuti efficaci della vostra grazia,adesso e nell’ora della nostra morte”. Amen.

Qui tutti si pongano ginocchioni a meditare quel che si è detto, e intanto si canta qualche strofa; o brevemente si suona qualche strumento; poi si mettono a sedere e si legge:

LA PRIMA PAROLA.

“Padre perdonate loro, perché non sanno quel che si fanno”.

Posto il nostro Signore Gesù Cristo, come celeste Maestro sulla cattedra della Croce, avendo fine allora taciuto con sì profondo silenzio, apri le divine sue labbra per insegnare al mondo in sette Parole la dottrina più alta dell’amor suo. Bada , o anima, dunque, ravviva le tue potenze, guarda bene che Egli è Iddio stesso che t’ammaestra, e strutto conto ti chiederà di queste sette lezioni. Oh Gesù amoroso! O Maestro divino! parlate pure, o Signore, che i vostri figli v’ascoltano. – Tutta la natura si commoveva nel vedere il suo Creatore patire aggravi si atroci. Si offusca il Cielo di tetre ombre: stava per dar la terra orribili scosse, per cozzar fra loro le pietre, per aprirsi le sepolture: sono gli Angeli istupiditi, mirando il loro Signore fra sì crudeli tormenti; i demonii poi pieni di rabbia e d’invidia per non veder eseguire sopra degli uomini il castigo che meritavano le loro colpe, come si era eseguito sopra dì essi. Possiamo immaginare che irritata la Natura contro dei peccatori, domandasse al Padre eterno giustizia e vendetta: “Usquequo, Domine, sanctus et verus, non vindicas sanguinem Filii fui?” E quando ancor tarderete, giusto Signore e santo, a prendere nei peccatori vendetta del Sangue e delle ingiurie dell’innocente vostro Figliuolo? E che, quando ad un tal clamore la divina Giustizia stava già per vibrare il fulmine dell’ira sua per vendicarsi: allora il Redentore del mondo mostrando la carità sua infinita, alzando gli oscurati suoi occhi all’eterno suo Padre, e rappresentandoGli la sua ubbidienza e i suoi meriti, gli dicesse: Padre, e Signor mio, trattenete il braccio della vostra giustizia per questa Croce in cui muoio; pel Sangue che per Voi in essa spargendo vi domando, o Signore, e vi prego di perdonare ai peccatori le colpe, colle quali mi han messo in questa Croce; perdonate loro, o Padre, perché non sanno quel si fanno. O anima peccatrice, apri gli occhi e gli orecchi e ascoltando in questa prima parola Gesù, che chiama Padre tuo e di tutti l’eterno suo Padre, riconosci l’altezza della tua origine! Non d’altro Padre sei figlia che dell’eterno Iddio. Oh Padre eterno! Voi mio Padre; ed io figliuol sì reo? Quale cecità m’allontana da’vostri occhi? Che stoltezza è la mia! lasciar le vostre carezze e la vostra grazia pel vile amore delle creature? Dove sto coi miei peccati? Dove vado colle mie passioni? In che stato mi trovo io dacché vi offesi? Oh Padre amoroso! io perisco qui miserabile nei miei debiti! A chi volterò gli occhi? A Voi li volterò io, Padre benignissimo. Ma come ha da aver occhi un ingrato per ritornare alla presenza di un padre che ha tanto offeso? Ritorna, sì, Anima afflitta, ritorna, che finalmente è tuo Padre. Andrò; ma, ahimè! oh Dio mio! che mi manca la lena, perché son senza numero le mie malvagità, le mie scelleratezze; e temo che i vostri sguardi non siano per me fulmini spaventevoli: morir sarà meglio, e non andare. Via, ritorna, Anima pentita, ritorna ch’Egli in fine è tuo Padre: è il tuo stesso Fratello Gesù che hai crocifisso colle tue colpe, e quegli che t’introduce e prega il Padre Sovrano a perdonarti, offrendo per le tue colpe il suo Sangue. – Oh mio Gesù! Oh Fratello amorosissimo! A me codesti piedi, che li baci colle mie labbra e li bagni colle mie lacrime. Voi domandate il perdono delle mie abominazioni; e d’amore io qui non muoio per Voi? Ahimè! qual durezza è la mia! Su, va con fiducia, Anima pentita: andate, peccatori tutti, a procacciarvi misericordia, che già trabocca il cielo in pietà, perché l’amorosissimo Gesù prega l’eterno Padre per tutti, e con profonda riverenza Gli dice: “O Padre pietosissimo, ecco che avete già qui i miseri peccatori! Non guardate, o Signore, che abbiano essi crocifisso me, ma che muoio per loro: vivano essi: non guardate alla loro ignoranza, ma all’amor mio: non guardate alla loro ingratitudine, ma al Sangue ch’Io ho versato: non guardate alle loro colpe, ma a questa vita che vi offro per loro su questa Croce: perdonate, che non sanno quel che si fanno.” – Oh carità infinita dell’amantissimo nostro Gesù, il cui incendio amoroso non poterono estinguer le acque di tanta crudeltà e tribolazione. Oh che alla dottrina c’insegna Egli in questa prima parola! Osserva, Anima, come scusa, alla maniera che può, quelli che Lo crocifiggono, e come perdona ai suoi crudeli nemici, e in essi a tutti i peccatori che l’offendono, e con le loro offese l’han messo in Croce. “Padre, dice, perdonate loro, perché non sanno quel che si fanno”. Impara, o Anima, da questo esempio a non accusare, né esagerare gli altrui difetti, né gli affronti che ti vengono fatti: impara a scusar le mancanze dei tuoi prossimi, benché ti siano nemici, attribuendole non al peggio, ma ad ignoranza ed inavvertenza, a zelo o ad altra men cattiva intenzione. Oh carico spaventoso che questa prima parola deve farsi il vendicativo e pieno di rancore! Gesù Cristo prega l’eterno Padre che ti perdoni tante ree parole, tante malvagie opere, con cui l’oltraggi e crocifiggi; e tu poi, Anima vendicativa e fomentatrice di odii, non perdoni una lieve parola, o un lieve affronto per Gesù Cristo! Che ostinazione è codesta, o cuore cattolico? Che ha di cristiano chi non ha pietà verso del suo nemico? Se accarezzi chi ti lusinga, mordi chi ti offende, che hai tu meno del bruto? E perché conservi il nome di cristiano? Guarda bene che Gesù Cristo ti tratterà nello stesso modo, e negherà a te tutto quello che negherai al tuo prossimo. Gli neghi tu la parola, gli neghi tu lo guardo, non gli porgi la mano? Neppure a te porgerà la mano Gesù, non ne udirai una buona parola, non vedrai che ti guardi. Perdona, o Cristiano, se vuoi che Gesù ti perdoni. Oh Padre eterno! Già perdono, Signore, a tutt’i miei nemici una e mille volte in riverenza del santissimo Figlio vostro, acciocché mi perdoniate Voi pure le innumerabili colpe che ho commesse contra la divina vostra Maestà. Perdonatemi, o Signore, che non seppi quel che mi feci quando io v’offesi, e se per essere stato a Voi tanto ingrato non merito di essere esaudito, lo merita il preziosissimo vostro Figliuolo, che pel suo Sangue e per la sua Agonia in quest’ora vi prega di perdonarmi. Perdonatemi, o Signore, che non seppi quei che mi feci: misericordia, pietosissimo Padre, per l’amantissimo Figlio vostro Gesù. – Qui s’inginocchiano tutti per meditare alquanto su questa parola: si canta frattanto questa strofa:

“Di mille colpe reo,

Lo sa Signore, io sono:

Non merito perdono.

Né più il potrei sperar.

Ma senti quella voce,

Che per me prega, e poi

lascia Signor se puoi,

Lascia di perdonar!”

Poi in rendimento di grazie del perdono che il Signore domandò per noi, si reciti cinque o più volte quello che segue.

“Siate infinitamente lodato, o mio Gesù Crocifisso, del perdono che domandaste per noi di tutti i nostri peccati”.

Si faranno poi gli atti seguenti:

“Credo in Dio: spero in Dio: amo Dio sopra tutte le cose: mi dolgo d’aver offeso Dio per essere quel Dio ch’è: propongo di non offenderlo mai più. Maria, Madre ammirabile. Avvocata dei peccatori, deh! per Gesù Cristo Crocifisso, impetrateci perdono e grazia efficace di non cadere mai più in peccato.”

LA SECONDA PAROLA

“Oggi sarai meco in Paradiso.”

Considera, anima divota, Gesù in mezzo a due peccatori: l’uno pentito, l’altro indurito; l’uno che si arrende, l’altro che si ostina; l’uno che si saJva, l’altro che si danna. Oh misteri profondi della predestinazione! Ma, oh trascuratezza la più lacrimevole dei mortali! Ànima, che ascolti la differenza di queste sorti impenetrabili, osserva ben nel tuo interno, a qual classe appartieni tu? A quella del buon Ladro che si salvò, o a quella del cattivo che si dannò? Ti salverai tu coll’uno, oppure coll’altro ti dannerai? Quanti dei qui presenti andranno a farsi compagni del Ladro misero nell’inferno? Oh punto spaventosissimo! Uomo, come vivi sì negligente? E tu, donna, sì spensierata in materia sì incerta e dubbiosa? Rifletti a qual di questi due ladri abbi invidia: allo sciagurato e ribelle, ovvero all’umile? E, se all’umile, come non sei tu umile? Come anzi ti stai in codesta croce dei tuoi vizi tanto ribelle? Peccatore e superbo? (cattivo ladro);Peccatore e umile? felice uomo! Il cattivo si rivolta contro a Gesù e come rinnegandolo l’ingiuria, e Lo maltratta qual falso Dio. Questo fa chi pecca e chi maledice: questo fa chi rinnega e chi bestemmia, aggiungendo all’offesa de’ vizi la contumelia dei disprezzi. – Non così il Ladro felice che, illuminato dai raggi divini di Gesù Cristo, Lo riconosce, Lo confessa, Lo adora per suo vero Dio. Il lume vostro, oh Dio, quanto è mai efficace! A’ vostri aiuti chi sarà che resista? Deh non rendete vane,o Anime, le chiamate: sentitele. L’uomo felice si rivolge a Cristo, e Gli dice con tenera voce: Signore, in Voi confido, io spero in Voi: il mio Signore Voi siete, il mio Dio e il mio Redentore, ricordatevi di me quando sarete nel vostro Regno. O fortunatissimo peccatore! li chi ti disse, o uomo facinoroso, che codesto Crocifisso fosse il tuo Signore, il tuo Dio, il tuo Redentore? Che gran vergogna per i Giudei il vedere che un Ladro confessa Gesù Cristo in una Croce, e negarlo dopo tanti miracoli? Ma quanti Cristiani Lo confessano colle labbra, e Lo negano colle opere. Che confessione è la tua, uomo turpe e vizioso? sfacciata donna e scandalosa, come ti confessi? Se alla tua confessione non sei tanto stabile da morirvi come il buon Ladro, ma anzi ti confessi appena che fai ritorno ai tuoi vizi e ai tuoi scandali; che confessare è codesto? Non è confessare da buon Ladro, ma da ladro cattiva, ostinato, reprobo. – Sul momento dell’ udir Cristo la voce del Ladro che Lo confessa e che Gli dimanda perdono, senza il minimo indugio gli perdona le colpe e le pene. Oggi, gli dice, sarai meco in Paradiso, oggi stesso, il Venerdì dei miei dolori. Ah giorno! chi ci sarà, chi non s’approfitti di te? Oh peccatore felice! Oh penitente avventurato, arrivasti in gran giorno: arrivasti quando stava il Redentore colle chiavi in mano, e colla porta non solo aperta, ma spalancata. – Oggi, o Anima, non è giorno di pene per l’uomo, che le pene se le addossò tutte Gesù. Oggi non v’ha pur gocciola di tormento: ché Gesù si ha assorbiti tutti i tormenti! Oggi per chi si pente non havvi inferno, «ché l’Inferno andò a chiudersi pei dolori di Gesù. Oggi pel peccatore tutto è Paradiso, tutto soavità, tutto gloria. Venite dunque a godere di sì buon tempo, enormissimi peccatori: con poco costo, con un buon cuore, con una parola, con un tenero sguardo amoroso, con un sospiro di petto penetrato si conseguisce. E come oggi potrà esserci cuore che non vi curi, o Gesù benignissimo? Quanto siete mai liberale, preciso, prodigo del Cielo! Oh cuore dolcissimo, tutto amore, tutto ansietà di salvar peccatori! Comunicaste al mondo o Signore, codesta pietà, accendete di cotesto affetto ogni cuore; si converta oggi il mondo, Signor grande; mirate come s’empie l’inferno non pur di Gentili, d’eretici, di Giudei; ma ancor di cristiani: qual crepacuore! Oggi, o Gesù mio, s’hanno a dannare moltissimi! Basta così, o Signore, ché è danno e dolore insopportabile che in tanti si disperda il vostro Sangue. Pietà, o Signor grande, verso i Cristiani: mirate la vostra greggia: non si vanti il demonio di vedere tanto trionfo: tutti si salvino, oggi, che a larga mano perdonate: e tutti già, o Signore, col buon Ladro pentiti vi confessiamo per nostro Dio e nostro Redentore: e proponiamo di fare una confessione vera: per questo, o Signore, vi chiediamo un vero dolore, e che oggi vi ricordiate di noi nel vostro regno.

Posti qui in ginocchio per meditare su questa parola, si canti poi la sua strofa:

Quando morte coll’orrido artiglio.

La mia vita a predare ne venga,

Deh! Signor, ti sovvenga di me,

Tu m’assisti nel fiero periglio,

e deposta la squallida salma.

Venga l’alma a regnare con Te.”

Si dica 5 volte al Signore la preghiera del buon Ladro, con dire: f Ricordatevi di me, o Signore, nel vostro Regno, per vostra pietà e misericordia. Poscia si dice: Credo in Dio, etc..

LA TERZA PAROLA

“Donna, ecco costì il tuo Figliuolo, ed al discepolo Giovanni:

Ecco costì la tua Madre”.

Vedendo il Salvatore dall’alta Croce in un profondo pelago d’amarezze la Madre sua amorosissima, le gettò nell’addolorato seno un’altra piena di sollecitudine e d’ambasce consegnando a lei per figliuolo in persona di Giovanni tutti i mortali. Oh Madre afflittissima! quale spada é codesta che nuovamente vi passa il cuore? Per figli il vostro divin Figlio Gesù vi raccomanda tutti i peccatori, affinché per figli li riceviate in suo luogo. Oh scambio sensibilissimo! Perdete in Gesù un Figlio sì amabile,e per figli avete da accogliere, nei peccatori, alcuni figli si villani e perversi che han crocifisso colle loro colpe il Figliuol vostro medesimo? Oh Signora addoloratissima! che tormento è cotesto? Non siete Voi addolorata abbastanza? Un tanto ingrato, come io sono, ci vuole di più a vostro carico? Al vostro seno trafitto, un figlio si scellerato! Oh carità infinita del Salvatore verso dei peccatori, poiché lascia loro per madre la Madre sua stessa! O somma pietà della Madre che pietosa, compassionevole, amorosa, tenera, accetta fin da quel punto, e qual madre sollecita stringe al suo seno tutto il mondo! Oh rifugio universale del mondo intero! come potrà il nostro cuore mostrarvi la riconoscenza che merita l’accettar noi per figliuoli? Con quali ossèqui potremo noi corrispondervi? Oh felici peccatori! guardate bene alla Madre di cui godrete, guardate bene alla Madre che avete: la madre vostra è Maria quella che è Madre di Dio, una Madre tutta piena di grazia, una Madre specchio di santità ci purezza: dice bene, Madre sì santa e figli sì perversi, Madre sì pura e figli sì deformi e sì immondi. O gran Signora! pigliateci ora sotto il vostro patrocinio, affinché siamo degni figli vostri, che già con gran sottomissione e fiducia, Madre vi ha da confessare tutto il mondo. Qui senza dubbio dovette tutto tremar l’inferno all’udire da Cristo questa parola; dovettero senza dubbio bruciar d’invidia i demoni. Uomini, udite; Inferno Maria è madre dei peccatori, Madre dei giusti, di tutti Madre. Oh Signora! Non una volta vi bacio, ma mille volte codesti sacri piedi, e con un grido, che s’oda in terra e in cielo, esclamo: Sì, sono figlio, quantunque indegno, di Maria. Oh Signora! Impetratemi voi che qual figlio vi riguardi e vi serva; e che vi ami quanto mi sia possibile, come vi ama il vostro Figlio Gesù. – Gli affetti vostri più teneri, Anime devote, debbano essere per la vostra Madre. Alzate gli occhi a Gesù che ve la dà e consegna per Madre, e in essa tutti raccolti i beni della sua misericordia per la vostra salvezza; perché nessuno si salva, fuorché per mezzo di Maria; nessuno ottiene perdono, fuorché per mezzo di Maria; beneficio alcun nessuno impetra fuorché per mezzo di Maria. Oh amorosissimo e liberalissimo Gesù! che amor fu quello che v’impegnò a tal tenerezza, a tal eccesso, a tal beneficenza? “Ecce Mater tua”, ti dice, o Anima, mira tua Madre. Ah Madre! vi rimiro, coll’amore più fervido del cuore, e coll’anima mia. Guarda bene o Anima, a Maria; alza gli occhi verso di Lei, innalza a Lei il cuore, che Ella ancor ti dice “Ecce Mater tua”. Guardami per tua Madre. Guardala addolorata per le tue colpe; accompagnala col dolore tuo stesso, giacché Ella prega per te; chiedile misericordia e perdono: domandale per i suoi dolori aiuti efficaci, e che ti riguardi qual figlio nell’ora terribile della morte. Oh Signora! oh Madre mia! adesso e nell’ora della mia morte, mostrate d’esser mia Madre, a me volgete codesti misericordiosi vostri occhi di Madre amorosa, guardate a quell’inesplicabile dolore che vi costammo ai pie della croce. No, a vuoto non vadano i vostri dolori: giovino a me, col vostro patrocinio, adesso e nel mio bisogno estremo. Ma oggi io vorrei, Madre amabilissima, per mostrar che son vostro figlio, morire d’amore e di dolore a pie di codesta croce. Oh morte tenerissima, vieni tu adesso; e fa che di dolore, e d’amore io muoia a piedi della mia Madre Maria e dell’amorosissimo mio Gesù.

Ci si ponga in ginocchi a meditare in questa parola; si canti poi la strofa:

“Volgi, deh volgi,

A me il tuo ciglio,

Madre pietosa;

poiché amorosa,

Me quel tuo figlio

Devi guardar.

Di tanto onore

Degno mi rendi.

Del santo amore

Tu il cor m’accendi.

Nè un solo istante

Freddo incostante

Ah! mai non sia,

Gesù e Maria

Lasci d’ amar”.

E in ringraziamento a Gesù di averci data Maria per Madre, e a Maria implorandola per madre, si recita cinque volte quello che segue:

“Gesù dolcissimo, vi ringraziamo che ci deste per Madre la’ vostra Madre Maria.”

A Lei poi si dirà: “Madre dolorosissima, Madre nostra, pregate pei vostri figli peccatori adesso e nell’ora della nostra morte”. … Poscia: Credo in Dio, etc..

LA QUARTA PAROLA.

“Dio mio, Dio mio, perché mi avete abbandonato?”

Dopo di avere il Salvatore soddisfatto a tutte le, più attente sollecitudini del Redentore del mondo, domandato già perdono per i peccatori, ed eletta Madre universale di tutti Maria sua Madre, cominciarono nell’ intimo dell’ anima sua santissima a farsi più vive le pene e gli sconforti più intensi. Esausto già, e consumato per le perdite del sangue, principiano i deliqui e le agonie della morte: più avvalorata la sua fantasia gli avviva la memoria delle ingratitudini degli uomini; se gli rappresentano da una parte le ingiurie gravissime dei malvagi, le tiepidità e le debolezze dei buoni; e dall’altra parte vede intuitivamente l’amore infinito del Padre verso degli uomini, la ribelle ostinazione degli empi, la dimenticanza di finezze sì grandi, lo sprezzo della SS. sua passione, i pochi a profittare della sua croce e della sua morte, gli innumerevoli che si sarebbero dannati, il dolore della sua Madre Santissima, la timidità dei suoi mesti Discepoli, le atroci persecuzioni della sua sposa, la Chiesa: e aggiunti tutti questi motivi a’ suoi tormenti e dolori, con la testa trafitta da una corona di spine, colle tempie penetrate da quelle punte acutissime, con gli occhi ingombrati dal polverio e dal sangue, e con le spalle squarciate, col petto oppresso, con le mani e i piedi traforati, (oh Gesù mio infinito nei dolori, come immenso nella pazienza!) in questo stato domandò al Padre la salvezza di tutto il mondo: ed al vedere che il suo sangue e la sua morte sarebbero stati infruttuosi in anime senza numero, che per colpe loro si sarebbero perdute, cominciò con questo maggior tormento ad agonizzare nell’anima: ed un sì profondo cordoglio più gli si accrebbe, quando vide che il Padre Lo lasciava patire senza conforto, tanti tormenti nel corpo, tanti affanni nell’anima; ed al vedersi abbandonato così fin dall’eterno suo Padre (così meritando i peccati che caricavano la sua croce), per tanto sensibile ed amaro abbandonamento cadde in tanta angustia e travaglio che prorompendo in un tristo e doloroso gemito, se ne lagnò coll’eterno Padre, dicendo; “Dio mio, Dio mio, perché mi avete abbandonato?” O amabilissimo mio Gesù! la cagione, o Signore, del vostro abbandono furono i miei peccati. Ah, Anima traviata! guarda all’orrendo abbandono che soffre il Figlio di Dio per il tuo traviamento: trema pure che Iddio pure non abbandoni te: trema che abbandonato da Dio, non avrai a chi voltar 1’occhio. – E perché dunque, o Anima, ti vuoi perdere? “Ut quid?” Rispondi a Gesù, che agonizzando, te ancora interroga da quella croce: perché vorrai rendere infruttuoso il mio sangue e la mia redenzione? Perché vorrai tu dannarti? “Ut quid?” Per cose della terra tanto vili? Per qualche piacere tanto sozzo? Per qualche interesse tanto caduco che svanisce nell’aria e sgraziatamente finisce? “Ut quid?” Su via rispondi, o Anima, sciolta in dolore ed in pianto. Ah Gesù mio! “Ut quid?” E perché m’avrò io da perdere, o Signore, stando voi in codesta Croce per me? Perché m’avrò io a dannare, spargendo per me cotesto preziosissimo Sangue ? Perché avrò io da mandarlo a male? No, Salvator mio, non sarà così; lo dicano questi miei occhi: il mio dolore e il mio pentimento lo dica: non mi abbandonate, o Gesù mio, pel santissimo vostro abbandono.

Qui la meditazione, e poi la strofa:

“Dunque dal padre ancora

Abbandonato sei,

Ridotto ti ha 1’amore

A questo, e buon Gesù?

Ed io con i falli miei

Per misero gioir

Potrotti abbandonar?

Piuttosto, oh Dio! morir,

Non più, non più peccar:

Non più peccar, non più!”

Indi a pregare, il Signore che: non ci abbandoni, cinque volte si recita quello che segue: “Gesù dolcissimo, pel santissimo vostro abbandono, non ci abbandonate né in vita né in morte.”

E una volta a nostra: Signora:

“Maria Madre di grazia, Madre di misericordia, ed in vita e in morte, o Signora, proteggeteci.

Poscia: Credo in Dio, etc..

LA QUINTA PAROLA

“Ho sete”.

Qual intelletto vi sarà che comprenda le cagioni che in questo estremo fecero più viva la sete del nostro dolcissimo Salvatore? Attaccata al palato quella lingua che fu strumento di tante meraviglie; secche per l’amarezza di tanti tormenti quelle labbra amorose: esausto di sangue e di sudore, era indicibile la sete che lo cruciava con nuova pena e maggiore: e però con rauca voce, ma tenera, esclamò, dicendo: “Sitio”, ho sete. Oh dolcissimo mio Gesù! Che sete è codesta che tanto vi molesta ed addolora? Che sete ha da essere? Sete insaziabile di anche maggiori tormenti per la nostra salute: sete accesa e cocente d’anime e di lacrime, come se dicesse: in questa ambascia ed agonia altra consolazione non vi è per me che il pianto dei miei cari devoti. Piangete dunque anime amanti di Gesù: piangete, ché arido e sitibondo è il buon Gesù agonizzante. Fonti, ruscelli, fiumi, date acqua ai miei occhi. O Signore, chi porgerà qualche sollievo alla vostra sete? chi lascerà il peccato? che questa è la sete che da a Cristo più pena, la sete che non si pecchi: “Sitio”, ho sete, o Gesù mio, chi vi darà refrigerio? Chi vi cercherà una pecorella smarrita? che questa è la sete che vi tormenta, la sete di guadagnare anime. Or io, o Signore, io vi cercherò anime; io insegnerò ai zotici ed ai fanciulletti le vostre vie; io esorterò i cattivi colla parola e coll’esempio; si convertiranno molti. “Sitio”. Ho sete, o mio Gesù, di chi mai siete tanto assetato? D’amore, d’amor più grande. Orsù, mirate dunque, o Signore, che un esercito avrete di vergini, di martiri, di confessori che morranno per impulso di un fervido vostro amore. D’ un amore vivissimo morrà la cara vostra Maddalena, le vostre spose Caterina, Lutgarda, Teresa, ed altre innumerabili. “Sitio”, ho sete; anche più amore; che mai amore non dice, basta. Deh! Anime, a morir d’amore con Gesù Cristo, che ha sete molta, v’è poco amore. “Sitio”. Ho sete: di che, o Signore? Che il mondo si salvi. Consolatevi dunque, o mio Bene, che i vostri Apostoli o discepoli vi convertiran regni interi, ed anime a migliaia. “Sitio”. Ho sete. Più anime ancora. Or via, Signor mio, il gran Domenico e il gran Francesco innumerabili ve ne guadagneranno sino alla fine del mondo. “Sitio”. Ho sete:” vengano ancor più anime. Mirate, o Signore, che l’infiammato Ignazio vi condurrà eretici senza numero, infedeli e peccatori, attaccando fuoco in ogni stato e nazione; e il gran Saverio, figlio di lui, ed il gran Saverio, figlio di lui, vi conquisterà .alla sua vampa un nuovo mondo. “Sitio”. Ho sete, Anche più anime, ancor più vengano, ancor più peccatori. Oh induriti peccatori, ponete mente alla sete insaziabile che ha della vostra salvezza il vostro amorosissimo Redentore, ed alla poca che avete voi di salvarvi! E come mai tanta sete di ricchezze, di vanità, di ribalderie che vi spingono a perdizione? Fine una volta, fine al peccare, che arde di sete Gesù per salvarvi. Schiudete codeste fontane de’ vostri occhi. Per quante saran le lacrime? Purgate le vostre colpe che di codest’acqua vuole appagar la sua sete il nostro amorosissimo Redentore. Ma, o mio Gesù, chi vi potrà sollevare, se mai amore non dice basta? Siete voi il sollievo della sete vostra medesima col dare a noi di codesta sete una sete ardente di amore prima di offendervi. Moriamo dunque, anime, moriam di amore; e sciogliendo in pianto di tenerezza il nostro cuore, alleviamo la sete a Gesù colle lacrime del nostro pentimento e dolore.

Qui meditazione e strofa:

“Qual giglio candido

Allorché il cielo

Nemico negagli

Il fresco umor

Il capo languido

Sul verde stelo

Nel raggio fervido

Posa talor.

Fra mille spasimi

Tal pure esangue

Di sete lagnasi

Il mio Signor.

Ov’è quel barbaro,

Che mentr’Ei langue,

Il refrigerio

Di poche lagrime

Gli neghi ancor?”

Indi per alleviar la sete a Gesù gli si dia il cuore, cinque volte dicendo quello che segue:

“Gesù mio dolcissimo ed assetato, io vi consegno il mio cuore”.

Poscia: Credo in Dio, etc..

LA SESTA PAROLA.

“Tutto già è terminato”.

Già, o Anime, si adempirono le profezie della antiche Scritture: il fine già si compì degli alti decreti di Dio; furono pagati già alla divina giustizia i debiti dei peccatori: fu già comperato al vero suo prezzo il premio della beatitudine per li giusti: si è dato già fine alla schiavitù del demonio, e principio al trionfo della gloria: già il dolcissimo nostro Gesù è nell’ultimo estremo agonizzando tra orribili svenimenti, dopo d’aver terminato gli uffici tutti di Redentore; e già dentro le porte della morte sta finalmente offrendo la dolce sua vita in prò dei peccatori. Entra, o Anima, nell’intima sua memoria, e tutte vedrai presenti le petizioni che dovranno farsi all’eterno Padre sino alla fine del mondo: tutte le fa Gesù Cristo: e per Lui e per la morte sua tutte hanno le suppliche un favorevole rescritto. Già il dispaccio è spedito di tutte le altre disposizioni del mondo finché starà in piedi: e da questa morte, che già compie, tutta dipende la nobile restaurazione dei seggi del Cielo. Guarda quel gran Signore, che in questo punto vide colla sua alta sapienza tutte le tue battaglie e tentazioni, le tue più secrete cadute, i tuoi più occulti pensieri, tutti gli avvenimenti della tua vita, tutti i tuoi pericoli di peccare e di dannarti. Guarda, come applica a te tutta la sua Passione e Morte, come se fossi tu solo l’oggetto unico dell’amor suo. Rendigli infinite grazie di quello che ebbe per te sì speciale, come fossi al, mondo tu solo. Adesso è che il sovrano suo Padre gli concede la salvazione di quei gran peccatori che son dalle storie riferiti; e le eroiche imprese dei Santi: adesso è che dà valore ai suoi Apostoli, fortezza ai suoi martiri, purità alle Vergini, coraggio ai Confessori ed ai Penitenti; adesso che vede pieni i campi delle raccolte dei giusti, e retti i suoi tempi, popolati i suoi chiostri, abbattuti gli idoli e inalberata in ogni parte la trionfale insegna della sua Croce: adesso che vede dover per la sua morte ricever lume moltissime nazioni e salvarsi ancora le più barbare. E nel mirare 1’adempimento di questi sì alti fini della sua Redenzione, si raccolse quasi come nell’intimo del suo cuore a vedere se altra cosa gli restasse a fare e patire per i peccatori: “Quid ultra debui facere et non fecit?” Che doveva io fare per li peccatori e che non ho fatto? Che altro mancami a fare? O Redentore dell’anima mia! no, non vi resta più altro a fare. Arrivaste alla cima più alta della carità, al segno ultimo dell’amore, quanto poteva far l’amor vostro, tanto avete Voi fatto e patito. Osservando dunque il Salvatore che niente più gli rimaneva di fare in obbedienza al Padre, ed in riparo degli uomini, alzò la voce e con generoso affetto disse: “Consummatum est”. Tutto è già terminato, tutto conchiuso. Siate benedetto, o Redentore dell’ anima mia, per un beneficio e per una carità così immensa. Concedetemi o Signore, che pel preziosissimo vostro Sangue possa anch’io della mia vita dirvi con pentimento vero: Già tutto è finito: è finito l’offendervi: son finiti miei scandali: finite le mie iniquità : tutto è conchiuso per amor vostro; tutto è terminato.Ah! come sarà stato, o Anime, in questo momento quel cuore, quella volontà di Gesù Cristo? Che fuoco, che amorevolezze, che tenerezze? Queste, Anime, è il tempo di far provvisione d’amore; ché sta avvampando Gesù. Tutto, dice, è già terminato, tutto compiuto; non mi resta più nulla: fin qua poterono giungere i miei affetti: arse già il fuoco fin dove poté; il cuor già mi bolle entro il petto nel suo accendimento maggiore. All’incendio, o cuori amanti, petti gelati, al petto di Gesù. Oh tiepidi cuori! Questo è già terminato. O peccatori insensibili! Questo ha già conchiuso; la fiamma è già nel suo punto: gettatevi nell’incendio del cuor di Gesù:amore e più amore; ardore ed ardore sempre più. Sia cosi, Gesù mio. Esso pur unisca il mio cuore, disfatto da dolore ed arso nel vostro amore.

Qui meditatione e strofa:

“L’alta impresa è già compita;

E Gesù con braccio forte,

Negli abissi la ria morte,

Vincitor precipitò.

Chi alle colpe ornai ritorna

Della morte brama il regno,

E di quella vita è indegno

Che Gesù ci ridonò”.

Poi in rendimento di grazie per aver compiuta la nostra Redenzione si recita:

“Vi ringrazio, o Signore, che compiste la mia Redenzione; sia, o mio Gesù, per la salvezza mia”.

Indi: Credo in Dio, etc..

LA SETTIMA PAROLA.

“Padre, nelle vostre mani raccomando

lo spirito mio”.

In quest’ultima parola ci dà il nostro amorosissimo Redentore l’ultimo documento dell’amor suo, insegnandoci l’atto il più importante e sublime per l’ora strema della morte; abbandonarsi cioè e mettersi tutto quanto con umile confidenza nelle mani di Dio, come nelle mani del nostro Padre. Gesù Cristo insegna a morire. Impariamo, o Cristiani, ciò che è la morte da quella del nostro Salvatore. Oh che passo tremendo! oh che arduo punto! Nell’accostarvisi un Uomo-Dio, si altera la sua santissima Umanità: perde la faccia il suo colore, s’annerano le labbra, tra le angustie ed agonie scuotesi tutto il corpo. Anche quell’alto ed animoso grido, con cui, già vicino a spirare, raccomandò il suo spirito nelle mani dell’ eterno Padre che lo poteva liberar della morte, fu accompagnato da tenere lagrime: Cum clamore valido et lachrymis. Muore così un Uomo-Dio. E voi, uomini, riguardate la morte con tanta indifferenza? Siete mortali, e vivete così trascurati? E come potete mostrarvi insensibili alla considerazione di un momento così terribile? Anime , cosa sia il morire, osservatelo in Gesù; mirate cosa sia agonizzare. Che battaglie! che angustie! che dolori! Oh passo forte! Come ci può essere persona che differisca le sue disposizioni a quel tempo, in mezzo ad amarezze di tanto affanno? Come c è uomo che riservi a quell’ora, fra tali e tante ambasce, l’affare più serio e più difficile della salute? Ora, ahimè, d’agonia! chi potrà ponderarvi? Quali angustie non soffrì Gesù nella separazione dell’anima e del sacro suo corpo! L’anima santissima riguardava in quel corpo il suo prezioso compagno, vi riguardava quella carne pura di Maria; quella stretta unione; ed al vedersene distaccare, la se parazione era sì dolorosa che obbligò tramutarsi e a tremarne tutta la sacratissima Umanità. Oh forza del morire: oh duro colpo che fa scuotere un Uomo-Dio! Ma siate benedetto, o mio Gesù, che vi metteste Voi in codeste agonie per aiutar me a passare il fiume delle mie miserie, Voi, o Signore, lo tragittaste per addolcire a me le amarezze della mia morte. – Or trovandosi in questo estremo il Redentor nostro Gesù, fece silenzio e domandò ai mortali attenzione con quell’alto vigoroso grido; significando di voler già morire, e per insegnarne a noi la sublime e sincera maniera, prima che spiri, raccomanda e pone il suo spirito nelle mani dell’eterno suo Padre, dicendoGli con gran riverenza: Padre, nelle vostre mani raccomando lo spirito mio. Oh che eccelso e divino ammaestramento! Gesù Cristo onora in questo atto il suo eterno Padre col maggior onore che può rendergli: perché mettendo nelle mani di Lui il suo spirito, mostra verso del Padre l’immenso amor suo, la sua sicura fiducia, la sua profonda umiltà, la sua total sottomissione: giacché si consegna Egli tutto alla discrezione e provvidenza di Lui, come a Padre fedele, giusto, santo, potente che mancar non può mai a chi a Lui si affida, né lascia di esser asilo infallibile di misericordia e di sicurezza, e nelle cui mani consegnando l’anima, non può non esser che felice e beata. Col più sublime atto della sua dottrina e perfezione così c’insegna Cristo a morire. Oh eterno Padre, giusto e santo! col sacro spirito dell’amabilissimo vostro Gesù pongo anch’io, e raccomando il mio spirito nelle vostre mani. Ricevetemi, o Signore, fin da quest’ora per sempre: miratemi agonizzante fra tanti pericoli di offendervi: miratemi tra le battaglie e gli sbigottimenti delle mie tentazioni e cadute: non mi lasciate andar giù, Padre pietosissimo, che insieme col dolcissimo Figlio vostro Gesù raccomando il mio spirito nelle vostre mani, non solo nell’ora della mia morte, ma in tutto il tempo ancora della mia vita. Nelle mani vostre raccomando, o Signore, lo spirito mio, quanto ho, quanto sono. Abbiate di me misericordia. – Avendo il nostro Redentore Gesù raccomandato il suo spirito nelle mani dell’eterno Padre, vide che l’ora si andava già accostando di renderlo: ed affinché tutto il mondo conoscesse che moriva spontaneo, per volontaria obbedienza al Padre, e per amore verso degli uomini, alla morte diede licenza di giungere. Innanzi però di morire, per mostrare che non era la morte che gli facesse piegar la testa, ma il peso immenso dell’amor suo, Egli stesso prima di spirare inchinò dolcemente sul petto la testa sua sacrosanta. Oh inchinamento tutto pieno di profondi misteri! Con tale inchina mento significò il Salvatore la sua obbedienza all’eterno suo Padre, la sua propensione e benevolenza versi degli uomini, la sua povertà ed umiltà, il non avere in croce ove posar la sua testa , per la gravità delle nostre colpe, che col peso gli facevan chinare il capo e morire. La chinò anche alla ingrata terra per congedarsi da lei, e darle nel suo spirare, come al principio del mondo, spirito di nuova vita. La chinò inoltre per chiamar con tal segno i peccatori all’amor suo, invitandoli alle carezze e tenerezze del suo cuore. Rivolse per ultimo questa inclinazione alla sua dolcissima Madre Maria (che trafìtta dolore stava ai piedi della croce) per farle questa riverenza profonda, e prendere da Lei congedo, dirigendo a Lei l’estremo fiato del viver suo, anche per insegnare agli uomini che non può veruno partir bene dal mondo, se non con dirigere a Maria e per mezzo di Maria l’ultimo respiro della sua vita. Siate benedetto, o Maestro della mia vita, pei misteri della santa vostra inchinazione, e per gl’insegnamenti che in essa mi dà la carità vostra infinita. – Chinata in tal modo con tanti misteri la testa del nostro amorosissimo Redentore, non rimanendogli più che fare per render l’anima, comincia a tramutarsi, e tutto trema il sacro suo corpo al volersene distaccare l’anima sacratissima. Già la morte, per esercitare il suo officio, principia a spogliar di colore il suo bellissimo volto, già gli affila il naso, già gli fa livide le labbra, già gli sfigura il sembiante, già gli esalta il petto, già gli va togliendo il respiro, e tutte le insensibili creature, all’accorgersi che già vuole spirare il loro Creatore, non possono trattenersi di risentisene e cominciano a cangiarsi gli elementi. Il sole si ottenebra, la luna si fa sanguigna, i cieli si oscurano, geme e trema la terra, e tutto il mondo piange e si scuote. Deh, Gesù mio, aspettate un poco, o Signore, che voglio anche io morir con Voi: moriamo insieme, o mio Gesù: che se Voi morite di amor per me, io voglio morire d’amor per Voi. No, più non mi curo di vivere, o mio Dio, se vi ho da tornare ad offendere e crocifiggere. – O Gesù del mio cuore! veggo già che l’ora si affretta; ben Voi potete morire, o Redentore dell’anima mia, che tutto il cielo, in terra tutta stanno con grande aspettazione attendendo la vostra morte. Con le braccia aperte l’attende il vostro eterno Padre per raccogliere il vostro Spirito; l’attendono gli Angeli per applaudire alla vostra vittoria; l’attendono i Padri santi nel Limbo, per risplendere alla vista di Voi in libertà gloriosa, l’attendono tutti i giusti per rendervi eterne grazie e lodi ; l’attendono tutti i peccatori per ispezzarsi il cuore di dolore, con fermo proponimento di più non esservi ingrati, tutto finalmente 1’attende il mondo per rinnovarsi, e gli uomini tutti per vedersi redenti dalla schiavitù del peccato. – Vedendo pertanto il Signore l’ansietà ed i sopiri con cui tutto il mondo aspetta la sua morte, già si arrende alle brame, ed in mezzo al suo affetto e alle sue tenerezze verso i peccatori, consegna il suo spirito all’eterno Padre, e la sua Vita ed il suo Sangue pel general rimedio di tutti gli uomini. Via dunque, dolcissimo mio Gesù: già è ora: morite dunque, e Redentore dell’anima mia, ed allorché dopo morte sarete col vostro eterno Padre, pregatelo, o Signore, che sempre siamo coi Voi; che viviamo e moriamo nella grazia vostra, nel vostro amore per il vostro preziosissimo Sangue, Passione e Morte; che per la vostra gran riverenza sarete ben ascoltato e favorito per noi peccatori, vostri redenti e cari. Oh altissimo Iddio! Oh incomprensibile maestà! Voi solo, o Signor grande, potete intendere ed apprezzare la morte del vostro Figlio, il nostro Signore Gesù Cristo. L’uomo l’ascolta, e si rimane insensibile, cieco, sordo e muto. Vede morire il suo Dio, e non sospira, non piange, non si ravvede, mentre sa che muore il suo Dio, perché non muoia egli eternamente nell’Inferno. Oh che obbligazione tremenda! oh Venerdì Santo! oh tre Ore d’Agonia! Svegliate, o mortali, codesti occhi dell’addormentata vostra fede; muore il vostro Dio per voi, e alcuno non havvi che non muoia d’amore e di dolore col suo Dio? Per i vostri peccati Egli muore, e non havvi alcuno che non muoia di disgusto d’aver peccato? Oh Dio, oh cieli, oh pietre prestateci voi la vostra commozione per morir oggi col nostro Redentore Gesù Cristo di amore e di dolore. A morir, Anime, con Gesù Cristo, a morir d’amore, a morir di dispiacere per averLo offeso.

Qui inginocchiandosi tutti, cantano i musici.

Iesus antem, emissa voce magna, espiravit.

Dopo qualche minuto di silenzio, ripiglieranno

“Gesù morì .. Ricopresi

di nero ammanto il cielo

I duri sassi spezzansi,

Si squarcia il sacro velo,

E l’universo attonito

compiange il suo Signor.

Gesù morì insensibile

In mezzo a tanto duolo

Più dei macigni stupido,

Resterà l’uomo solo,

Che coi suoi falli origine

Fu del comun dolor?”

.(1) Chi fa le tre Ore continuate di Agonia nel Venerdì Santo in pubblico o in privato; solo o in unione di altri, meditando o recitando Salmi, Inni ed altre preci, purché sia confessato e comunicato il Giovedì Santo, pregando secondo l’intenzione del sommo Pontefice, o le farà nella seguente settimana di Pasqua, guadagna INDULGENZA PLENARIA da potersi applicare alle Anime Purganti, (Pio VII, 14 febbraio 1815).

 

L’UFFICIO DELLE TENEBRE

[Dom Guéranger: l’Anno Liturgico, I vol.]

Prima dell’ultima riforma, la Chiesa anticipava, negli ultimi tre giorni della Settimana Santa, il Notturno al pomeriggio della vigilia, per permettere ai cristiani di parteciparvi. Mattutino e Lodi venivano quindi recitati nel pomeriggio. In seguito tali ore vennero scomode, occupate dal lavoro, e quindi la Chiesa ha stabilito di celebrare l’ufficio nelle ore normali. Per quanto lo permettono le loro occupazioni, i fedeli devono cercare di prendervi parte. Quanto al merito di tale devota assistenza, non v’è, dubbio ch’è superiore ad ogni altra pratica di devozione privata. Il mezzo più sicuro per arrivare al cuore di Dio è sempre quello di servirsi come intermediaria della sua Chiesa; quanto alle salutari impressioni che potranno aiutarci a penetrare i misteri di questi tre grandi giorni, ordinariamente, quelle che attingeremo nei divini Uffici saranno più potenti e più solide di quelle che potremo trovare nei libri degli uomini. Nutrita della meditazione delle parole e dei riti della Liturgia, l’anima cristiana s’avvantaggerà doppiamente degli esercizi e delle letture, alle quali non mancherà d’abbandonarsi secondo la particolare devozione. In questi anniversari, sarà dunque la preghiera della Chiesa la base sulla quale eleveremo tutto l’edificio della pietà cristiana: e con essa imiteremo i nostri padri, che, nei secoli di fede, erano così profondamente cristiani, perché vivevano della vita della Chiesa per mezzo della sua Liturgia.

GIOVEDÌ’ SANTO

AL NOTTURNO

Carattere di tale Ufficio.

L’Ufficio del Mattutino e delle Lodi dei tre ultimi giorni della Settimana Santa differisce non poco da quello degli altri giorni dell’anno. Giovedì, Venerdì e Sabato la Chiesa tralascia quelle esclamazioni di gioia e di speranza con cui suole cominciare la lode di Dio. Non si sente il recitativo del « Domine, labia mea aperies : Signore, sciogli le mie labbra, affinché possa annunziare la tua lode »; nè il “Deus, in adjutorium meum intende”: O Dio, vieni in mio soccorso; né il Gloria Patri alla fine dei Salmi, dei Cantici e dei Responsori. Negli Uffici rimane solo ciò ch’è loro essenziale nella forma, scomparendo tutte quelle vive aspirazioni che i secoli vi avevano aggiunte.

Il Nome.

Si dà comunemente il nome di Tenebre ai Mattutini ed alle Lodi degli ultimi tre giorni della Settimana Santa, perché vengono celebrate al mattino presto, prima del levar del sole.

Il Triangolo dei quindici ceri.

[Ufficio delle tenebre a Sessa Aurunca -CE-]

Un rito imponente e misterioso, esclusivo di questi Uffici, conferma tale appellativo. Nel tempio, presso l’altare, si colloca un grande candeliere di forma triangolare, dove si dispongono quindici ceri. Questi ceri, come pure i sei dell’altare, sono di cera gialla, come quelli degli Uffici dei Defunti. Al termine d’ogni Salmo, o Cantico, si spegne successivamente uno dei ceri del grande candeliere; alla fine ne rimarrà acceso uno solo, quello posto al vertice del triangolo. Ora spieghiamo il senso di queste diverse cerimonie. Siamo nei giorni in cui la gloria del Figlio di Dio rimane eclissata sotto le ignominie della sua Passione. Egli era la « luce del mondo », potente in opere ed in parole, poco fa accolto dalle acclamazioni di tutto un popolo; ed ora eccolo spogliato di tutte le sue grandezze e divenuto « l’uomo dei dolori, un lebbroso », dice Isaia; « un verme della terra, e non più uomo », dice il Re Profeta; « un motivo di scandalo per i suoi discepoli», dice egli stesso. Tutti s’allontanano da Lui: Pietro stesso nega d’averlo conosciuto. Tale abbandono e tale defezione pressoché generale sono appunto figurati nell’estinzione successiva dei ceri che stanno sul Triangolo e di quelli dell’altare.

Un antico rito.

Secondo un’usanza di origine franca, che ci è confermata da Amalario e ch’ebbe vita fino alla recente riforma, essendo stati spenti i ceri dell’altare durante la recita del Benedictus, il cerimoniere prendeva l’unico cero rimasto acceso sul candeliere e lo teneva appoggiato sull’altare durante il canto dell’antifona che si ripete dopo il Cantico. Poi andava a nascondere questo cero, senza spegnerlo, dietro l’altare. E lo conservava così, lontano da tutti gli sguardi, per tutta la recita del Miserere e della sua orazione conclusiva. Terminata la quale, si faceva un po’ di rumore contro gli scanni del coro fino all’apparire del cero ch’era stato nascosto dietro l’altare. Con la sua luce sempre conservata annunciava la fine dell’Ufficio delle Tenebre. – In realtà, la luce misconosciuta del Cristo non s’era mai spenta. Si metteva per un momento il cero sull’altare per indicare ch’esso era là come il Redentore sul Calvario dove soffriva e moriva. Poi, per significare la sepoltura di Gesù, si nascondeva il cero dietro l’altare e la sua luce scompariva. Allora un brusio confuso si diffondeva nel tempio immerso nelle tenebre per la scomparsa di quell’ultima fiammella. Tale rumore, unito alle tenebre, esprimeva la convulsione della natura nel momento in cui, spirato il Salvatore sulla croce, la terra aveva tremato, le rocce si erano spaccate e s’erano aperti i sepolcri. Ma tutto ad un tratto il cero riappariva nel pieno splendore della sua luce e tutti rendevano omaggio al vincitore della morte.

Le Lamentazioni di Geremia su Gerusalemme.

Le Lezioni del primo Notturno di ciascuno di questi tre giorni sono prese dalle Lamentazioni di Geremia. In esse vediamo lo spettacolo desolante che offrì la città di Gerusalemme, quando il suo popolo fu portato prigioniero in Babilonia, in punizione del peccato dell’idolatria. La collera di Dio è tutta impressa su queste rovine che Geremia deplora con parole così vere e terribili. Però un tale disastro non era che la figura d’un altro ancora più spaventoso. Se Gerusalemme cade in mano altrui ed è condannata alla solitudine dagli Assiri, almeno conserva il proprio nome; del resto, il Profeta che oggi si lamenta sopra di lei, aveva pure predetto un limite alla sua desolazione, che non sarebbe durata più di settant’anni. Ma nella seconda rovina la città infedele perdette anche il nome. Riedificata poi dai vincitori, per più di due secoli portò il nome di Elia Capitolina; e se, ristabilita la pace della Chiesa, tornò a chiamarsi Gerusalemme, non fu in ossequio a Giuda, ma per ricordarsi del Dio del Vangelo che Giuda aveva crocifisso nella sua città. – Non è valsa la pietà di S. Elena e di Costantino, né i valorosi sforzi dei crociati a ridare in maniera durevole a Gerusalemme almeno l’ombra d’una città secondaria: la sua sorte è d’essere schiava degl’infedeli, fino alla fine dei tempi. È la maledizione che s’è attirata addosso in questi giorni: ecco perché la santa Chiesa, per farci capire la grandezza del delitto commesso, ci fa rintronare nelle orecchie i pianti del Profeta, che solo ha potuto adeguare le lamentazioni ai dolori. È un’elegia commovente, che si canta su un tono semplicissimo, e risale alla più remota antichità. Le lettere dell’alfabeto ebraico, che separano le strofe, indicano la forma acrostica che questo poema contiene nell’originale; noi le cantiamo perché anche i Giudei le cantavano.

BENEDIZIONE DEGLI OLI SANTI

La seconda Messa che anticamente si celebrava il Giovedì Santo, era accompagnata dalla consacrazione degli Oli santi, rito annuale che ha sempre richiesto il Vescovo come consacratore. Ora questa importante cerimonia si compie nella prima Messa, detta crismale, che si celebra solo nelle cattedrali. Avendo luogo soltanto nelle chiese cattedrali, noi non illustreremo qui tutti i dettagli di questa benedizione; però neppure vogliamo privare i lettori dell’utile istruzione che potranno ricavare dal mistero degli Oli santi. La fede c’insegna che, se mediante l’acqua noi siamo rigenerati, mediante l’olio consacrato siamo confermati e fortificati. L’olio è fra i principali elementi, che il divino autore dei Sacramenti scelse a significare ed insieme produrre la grazia nelle anime. – La Chiesa ha fissato molto per tempo il giorno, nel quale rinnovare ogni anno i santi Oli, la cui virtù è molto grande, sotto i suoi molteplici aspetti; infatti s’avvicina il momento in cui ne deve fare abbondante uso sui neofiti, che genererà nella notte di Pasqua. Occorre quindi che i fedeli conoscano dettagliatamente la sacra dottrina d’un sì alto simbolo; e noi qui la spiegheremo, sebbene brevemente, per eccitare la loro riconoscenza verso il Redentore, che s’è servito di creature visibili nelle opere della sua grazia, dando loro, per il suo sangue, la virtù sacramentale che ormai in esse risiede.

L’Olio degl’infermi.

Il primo degli Oli santi a ricevere la benedizione del Vescovo è quello che si chiama l’Olio degli infermi, e che è la materia del sacramento dell’Estrema Unzione. Esso cancella nel cristiano morente i resti del peccato, lo fortifica nell’estremo combattimento e, per la virtù soprannaturale che possiede, talvolta gli restituisce anche la sanità corporale. Anticamente, la benedizione di quest’Olio non si faceva solo il Giovedì Santo, perché il suo uso è per così dire, continuo (i). Più tardi la si fissò nel giorno in cui si consacrano gli altri due Oli per la somiglianza dell’elemento che loro è comune. – I fedeli assisteranno con raccoglimento alla santificazione di quell’olio che un giorno scorrerà sulle loro membra languenti e purificherà ogni parte del loro corpo: pensino alla loro ultima ora, e benedicano l’inesauribile bontà del Salvatore, « che fa scorrere abbondante il suo sangue insieme a questo liquido prezioso » (Bossuet, Orazione funebre ad Enrichetta d’Inghilterra).

Il sacro Crisma.

Il più nobile degli Oli santi è il Sacro Crisma, e la sua consacrazione si svolge con maggiore solennità. Per mezzo del Crisma lo Spirito Santo imprime il suo indelebile sigillo nel cristiano già membro di Gesù Cristo per il Battesimo. Mentre l’Acqua ci fa nascere, l’Olio del Crisma ci conferisce robustezza; e finché non riceviamo questa unzione, non possediamo ancora la perfezione del carattere di cristiano: unto di quest’olio, il fedele diviene visibilmente un membro dell’Uomo-Dio, il cui nome Cristo significa l’unzione ricevuta come Re e Pontefice. La consacrazione del cristiano col Crisma è talmente nello spirito dei nostri misteri, che all’uscire dal fonte battesimale, un momento prima d’essere ammesso alla Confermazione, il neofita riceve sulla testa una prima unzione, sebbene non sacramentale, di quest’Olio regale, a dimostrare ch’egli già partecipa della regalità di Gesù Cristo. – Per esprimere con un segno sensibile l’alta dignità del Crisma, la tradizione apostolica vuole che il Vescovo vi unisca del balsamo, che rappresenta ciò che l’Apostolo chiama « il buon odore di Cristo » (II Cor. II, 15), [I Canoni d’Ippolito (III secolo) ci mostrano questa cerimonia in tutte le Messe pontificali. Sul punto di terminare il Canone della Messa, il Vescovo benediceva i frutti o i legumi che gli si presentavano, e così pure consacrava l’olio che doveva servire all’unzione dei malati, sia nel sacramento dell’Estrema Unzione che per privata devozione, come si fa oggi di quello d’alcuni santuari], di cui è anche scritto «che correremo all’odore dei suoi profumi» (Cant. 1, 3). La rarità e l’alto costo dei profumi, in Occidente, obbligò la Chiesa Latina ad usare il balsamo solo nella confezione del sacro Crisma; mentre la Chiesa Orientale, più favorita dal clima e dai prodotti delle regioni che abita, vi fa entrare fino a trentatrè sorta di profumi che, condensati con l’Olio santo, formano un unguento dall’odore delizioso. Oltre all’uso sacramentale nella Cresima e sui nuovi battezzati, il sacro Crisma è usato dalla Chiesa nella consacrazione dei Vescovi, per ungerne la testa e le mani; in quella dei calici e degli altari e nella benedizione delle campane; infine, per la dedicazione delle Chiese, in cui il Vescovo ne segna le dodici croci che attesteranno ai posteri la gloria della casa di Dio.

L’Olio dei Catecumeni.

Il terzo degli Oli santi è quello chiamato dei Catecumeni. Non è materia d’alcun Sacramento, ma è ugualmente d’istituzione apostolica, e serve nelle cerimonie del Battesimo per le unzioni che si fanno al Catecumeno sul petto e sulle spalle, prima dell’immersione o infusione dell’acqua. Si usa anche nell’ordinazione dei Sacerdoti, per ungere le mani, e nella consacrazione dei Re e delle Regine. Sono queste le nozioni che deve conoscere il fedele, per avere un’idea della funzione compiuta dal Vescovo nella Messa odierna, in cui, come canta S. Fortunato nell’Inno che daremo qui appresso, egli soddisfa al suo dovere operando la triplice benedizione che non può venire che da lui solo.