De Segur: BREVI E FAMILIARI RISPOSTE ALLE OBIEZIONI CONTRO LA RELIGIONE [risp. XXIX-XXXII]

XXIX.

PERCHÈ PARLAR LATINO? PERCHÈ PARLARE UNA LINGUA SCONOSCIUTA?

R. I protestanti che hanno tutto innovato nella religione, peri primi dichiararono guerra al Ialino, senza badare che la predicazione, la sola parte del culto divino che abbiano conservato, è anche presso di noi in lingua volgare, e che così tutto ciò che essi hanno noi pure l’abbiamo. – Per il sacrifizio (che essi rigettarono e che è l’essenziale del culto) importa poco al popolo che le sue parole sacramentali che si pronunciano a voce bassa, siano recitate in francese, in italiano, ecc. o in latino o in ebraico. – Oltre che un numero considerevole di persone conoscono il latino, si provvide a tutto colla traduzione di tutte le preghiere della Chiesa. Questi libri, in numero infinito, s’adattano a tutte le età, a tutte le intelligenze, a tutti i caratteri. Certe cerimonie, certi movimenti, certi suoni conosciuti avvertono l’assistente il meno istruito di ciò che si fa e si dice nei nostri uffizi. Sempre può seguire il prete e la Messa; se egli è distratto, colpa sua. – Qual idea sublime, d’altronde, quella d’una lingua universale per la Chiesa universale! Da un capo all’altro del mondo (se si eccettuino le Chiese di rito orientale), il cattolico che entra in una Chiesa del suo rito è come in sua patria. Niente è straniero a lui. Arrivando intende ciò che intese in tutta la sua vita; può unire la sua voce a quella de’ suoi fratelli. La fratellanza che risulta da una lingua comune è un legame misterioso d’una forza immensa! Niente inoltre pareggia la dignità, la grandezza, la chiarezza, la beltà della lingua latina. È la lingua dei conquistatori dell’universo, dei Romani, è la lingua della civilizzazione, la lingua della scienza. Questa lingua è la regina delle lingue; essa meritava l’onore di diventare la lingua della religione. – Finalmente tutte le lingue, che variano (come son quelle che ancora si parlano) convengono poco ad una religione immutabile. Presso ogni moderna nazione il parlare odierno è ben differente da quello che si usava duecento, o trecent’anni orsono, ed assai più da quello, che si parlava cinque o sei secoli fa. Oltre questi grandi cambiamenti, che mutano le sembianze delle lingue viventi, ve ne sono molti altri, che sembrano poco importanti, ma infatti Io son molto. Cosi in tutti i giorni l’uso cambia il senso delle parole, e sovente le guasta per licenza. Se la Chiesa parlasse la nostra lingua, potrebbe dipendere dalla sfrontatezza d’un bello spirito il rendere la parola più sacra della liturgia o ridicola, o indecente. Per tutti i riguardi immaginabili, la lingua della religione deve esser messa fuori del dominio dell’uomo. – Ecco perché la Chiesa cattolica parla il latino.

XXX.

PERCHÈ I PRETI FANNO PAGARE I LORO SERVIGI? NON SI DEVON VENDERE LE COSE DI DIO.

R. Ciò è vero, e voi avreste gran torto di credere che i preti vendano le cose sante, i sacramenti, la messa, etc., perché pagate, quando voi domandate quest’uffizio dal loro ministero. La ragione di quest’usanza cosi spiacevole a primo aspetto, è giustissima, come ve la spiego in due parole. Il prete non è prete per sé, ma per Dio, e per i suoi fratelli. Egli è l’uomo di Dio, e l’uomo di tutti, incaricato di salvare eternamente le anime de’ suoi fratelli, loro facendo conoscere, amare, e servire Dio. – Consacrandosi interamente ad una cosi sublime vocazione, rinuncia a tutto, alla fortuna domestica, alle gioie del matrimonio, alle dolcezze della famiglia, e così ad ogni mezzo di procacciarsi la vita, quale il commercio, il lavoro delle mani , l’industria, ecc. – Egli si consacra tutto ai suoi fratelli. È ben giusto, che in cambio di questo generale sacrificio, e della vita dell’anima, che loro dona, i fedeli contribuiscano a procurargli i mezzi d’esistenza. Benché prete egli è uomo. In tutti i secoli dopo nostro Signor Gesù Cristo, il popolo fedele ha somministrato il necessario a’suoi preti, ha variata la forma, ma la cosa fu sempre così. Non bisogna però credere, che tutto il danaro che forma la rendita delle Chiese sia per i preti. Così ne’ grandi matrimoni, ne’ pomposi funerali che sovente costano sì caro, la maggior parte di ciò che pagasi alla Chiesa, va nelle borse dei laici. Con questi mezzi inoltre si provvede alla conservazione delle Chiese, alla riparazione degli altari, alle spese necessarie del culto, al canto ecc. Vi sono taluni che s’immaginano che in quei giorni i preti prendono il pollo, cioè guadagnano grosso. È vero per niente, e prendono sovente meno il pollo di quelli che loro lo invidiano. – Lo vedete dunque, voi non pagate le cose di Dio, ma , al contrario pagate un debito di giustizia, e se posso aggiungerlo, un debito dì riconoscenza verso il prete che si è donato tutto a voi. Se alcuna volta (ciò che grazie a Dio è raro) un prete obliando la santità’ del suo stato, s’attacca troppo al denaro, fatica per la terra invece di faticare per il cielo, dovete ricordarvi, che egli è uomo, ed inclinato al male al par di voi, ma che le debolezze dell’uomo non macchiano il sacerdozio di cui è rivestito. Il prete infedele è ben colpevole, ma il suo sacerdozio rimane sempre puro. Noi l’abbiamo detto, è il sacerdozio di Gesù Cristo che niuna cosa può alterare.

XXXI.

I BENI DEL CLERO.

Sì muove frattanto una guerra accanita ai beni che gode il clero — si cercano tutti i pretesti, e tutti gli appunti per spogliarli — si va malignamente decantando la povertà degli Apostoli, e dei Vescovi nei secoli primitivi della Chiesa, per opporla alle attuali possessioni della Chiesa — Principalmente poi non cessasi dì opporre le fallaci conclusioni dell’economia politica alla conservazione delle da loro chiamate Mani morte, cioè de’ beni ecclesiastici nelle mani del clero — Miseri che s’illudono, e la passione loro impedisce d’accorgersene! — Osservate difatti come essi dimenticano il gran bene che procurano agli stati le proprietà direttamente amministrate dal clero — Il sollievo dei poveri, oltre essere un dovere cristiano, anzi un dei primi, è anche un obbligo dello stato sì stretto, che gli scrittori d’economia politica prescrissero a quest’uopo somme grosse di danaro a carico del Governo — Così si pratica in Inghilterra e in altri paesi acattolici della Germania, ove nei tempi della pretesa riforma si fecero passare nelle mani dei secolari i beni della Chiesa, e in cui non pertanto regna tuttora in tutta la sua orridezza il pauperismo. Ora ditemi: — Non viene scemato un gran peso del governo, se i beni ecclesiastici, cioè il patrimonio dei poveri, servono specialmente al loro sollievo, a cui ogni chierico deve dispensare ciò che gli sopravanza ad una decente sustentazione? — Sentite infatti uno scrittore non sospetto a questi falsi politici (Mirabeau, Ami des hommes t. A. pag. 159). « Sono le abadìe, che fauno vivere una quantità d’operai: esse dispensano le loro rendite con una saggia economia: esse lasciano un onesto assegnamento ai loro affittuari, affinchè nutriscano i poveri pei loro contorni, e nei tempi di carestia alimentino una quantità d’uomini, che senza il loro soccorso soccomberebbero sotto il peso della miseria » — Quando dunque sentite calunniare i sacerdoti per questi loro beni, mostrate a quest’insensati le opere di pietà, i luoghi d’educazione, gli ospedali, e tanti luoghi, in cui si viene in soccorso all’umanità soffrente, tutti quasi o fondati o sostenuti colle rendite ecclesiastiche, e di cui ovunque vedete l’esistenza sia nelle città, che nei borghi, e villaggi. — Dite loro, che per l’ordinario gli ecclesiastici non hanno quel forte motivo che suol distogliere dalla limosina i secolari, cioè il lusso, che pure è molto dannoso [La legge di residenza imposta dai canoni ai benefiziali prova pure quanto la Chiesa abbia a cuore oltre gl’interessi spirituali, anche il temporale bene dei popoli facendo che l’ecclesiastico spenda sul luogo ove ha il benefizio ciò che da esso ricava, mentre d’altronde ben a ragione si deplora nei laici molto ricchi l’assenteismo dalle loro terre e quindi la miseria, che ne conseguita, come quotidianamente lo va provando l’Irlanda e altri paesi d’Europa.]. Quanto dunque sarebbe contrario alla politica utilità, che fossero ingiustamente tolti dalla Chiesa e dati al governo, o venduti ai secolari i beni di essa, che sono in gran parte applicati ai soccorsi dei poveri! — Ma le rendite ecclesiastiche non circolano nel paese, quindi non arrecano vantaggio al pubblico stando nelle mani del clero: che se il governo se ne impossessasse, e le vendesse ai laici, sarebbero più proficue alla generalità dei cittadini — Speciosa falsità, che basta a distruggerla il pensare che nel mentre che i fondi dei laici restano per più secoli in una stessa stirpe, che sola ne gode, i fondi della Chiesa passano a tante famiglie, quanti sono ordinariamente gli individui, che s’ascrivono al clero — Inoltre ai beni dei laici ha dritto il solo erede; ai beni della Chiesa chiunque del popolo, che sia chiamato da Dio al sacerdozio — Il laico tesoreggia per i suoi figli; il sacerdote che è celibe è tenuto a dispensare ai poveri ciò che è superfluo al suo sostentamento. Il secolare distribuisce le rendite a capriccio; l’ecclesiastico invece secondo la norma dei canoni, che tendono al vero bene dell’umanità— Un padre di famiglia non può collocare tutta la numerosa figliolanza in decorosa condizione — ebbene, se Dio chiama alcuno dei suoi figli a quest’augusto stato del sacerdozio, avrà questi di che vivere, e ne godrà il rimanente della bisognosa famiglia. Da tutto questo ben dunque vedete quanto sia utile alla società che i fondi ecclesiastici siano posseduti, e amministrati dal clero stesso. – Ma le possessioni ecclesiastiche sono mal coltivate — non rendono ciò che dovrebbero—sarà meglio dunque darle all’attività, e al commercio dei cittadini, dei laici. — Anche qui un falso supposto mena ad una conclusione ancor più falsa — L’esperienza, e l’autorità di dotti scrittori attesta il contrario — Jay, e Rossi celebri scrittori d’economia politica affermano come i beni posseduti dai regolari, e da altre comunità ecclesiastiche sono più e assai meglio coltivati che i beni delle case secolari private, i quali per lo più son sempre mal tenuti e derelitti, massimamente quando si posseggono da dette case in gran quantità, ond’è che si vede ocularmente, che le più gran tenute dei più ricchi signori sono ordinariamente deserte, e ridotte a macchia, o ad erba solamente — Dunque se tutti fossero in mano dei laici, sarebbero meno coltivati, e quindi gran danno allo stato — I laici non tenuti come gli ecclesiastici da un dovere positivo che loro impone la Chiesa, di rendere migliori, o almeno nello stato cche si ricevettero, i beni ecclesiastici ai propri successori. Il dovere è una forza più potente che i propri comodi, e la libera volontà dei secolari a questa cultura non astretto — E poi a confessione dello stesso Mirabeau, non erano che orridi deserti gli odierni stabilimenti ecclesiastici, e noi dobbiamo, egli dice, ai primi cenobiti lo sterpamento di più della metà dell’interiore delle nostre terre — Bella gratitudine sarebbe dunque a questi benefizi del clero per la società, toglier ad essi la possessione di tali suoi migliorati, e ben coltivati fondi. – Il clero è troppo ricco, soggiungono, gli apostoli fondarono la Chiesa senza tante ricchezze — Il clero è per le cose spirituali, dunque deve astenersi dai preoccuparsi dei beni di quaggiù, deve lasciare ai laici i beni temporali — Scaltra, ed ipocrita fallacia dei nemici dei beni del clero — Osservate difatti come male si appongono— Si vuole fingere strabocchevole ricchezza dove non è che il puro necessario, ed il superfluo è tutti i giorni in memoria di benedizione, e gratitudine accolto, e ricevuto dai poveri — Guardate questi poveri di Gesù Cristo, che si affollano alla casa del beneficiato e ne partono soddisfatti nei loro bisogni, e ditemi se questa sia lussuriosa ricchezza — Quanti poi vi sono tra i sacerdoti che non hanno che il puro necessario! — E poi non ha il clero diritto ad un decoroso sostentamento, esso che esercita il più augusto dei ministeri sulla terra?—È falso poi, che gli apostoli siano stati poveri nel senso, che si vorrebbe dagli avversari — Il clero sarebbe contentissimo d’essere trattato oggidì dalla liberalità dei fedeli, come furono trattati gli apostoli dai primitivi cristiani che vendevano i loro beni, e ne portavano il prezzo agli apostoli [Act.. II. v. 54]. Se la missione del clero è tutta spirituale, se esso deve occuparsi degl’interessi eterni del popolo a lui affidato, non scema però in esso il diritto di vivere coi beni della terra, che per contrario s’accresce il dovere dei laici di sussidiare il ministro dell’altare che si impiega in officio così nobile, quale è l’eterna salvezza dei popoli — Perché dunque invece di concorrere al mantenimento del clero, si pensa oggi cotanto a levargli pur anco quei beni, che la pietà dei nostri padri loro ha dati? Il perché lo ravviserete nelle tendenze irreligiose dei nostri politici, che non contenti di sconnettere le cose civili, vorrebbero riformare la veneranda antichità di questa disciplina della Chiesa in ciò che concerne i beni da essa sempre legittimamente posseduti. – I cavilli e le obiezioni, che v’esposi e confutai, non son le sole, che escono dalla feconda sorgente che n’è l’irreligiosità politica — I tranelli di essa son multiformi e molteplici.— Saprete però resistere a tutti questi inganni se ben riterrete: 1.° che il clero per la sua dignità merita un decoroso trattamento; 2.° Che cominciando dai leviti dell’antico testamento, e venendo agli Apostoli, e ai loro successori, si vede come i fedeli fossero liberali verso di essi, in ogni tempo; 3.° Che gl’invasori dei beni ecclesiastici furono sempre creduti rei di sacrilegio.- 4.° Che i principi buoni sempre accrebbero i beni della Chiesa e ne furono ricompensati; 5.° Che i diritti, che il clero acquistò per i beni che possiede è sacrosanto quanto quello d’un privato qualunque, e che deve essere garantito e difeso dalla legge civile. 6.° Che l’opera della pietà di diciotto secoli nel sovvenire il clero ha ben più valore morale, che le strane idee dei tempi che corrono — Se, dico, riterrete tutto ciò, ben comprenderete che il disegno degli avversari dei beni del clero, altro non è se non d’avere, col mezzo della miseria, sacerdoti abbietti, ignoranti, alieni delle sagre funzioni, per ottenere infine la decadenza della Religione, e dei troni.

XXXII.

SONO I PRETI CHE INVENTARONO LA CONFESSIONE

R. Si, è facile cosa il dirlo, ma ben altra il provarlo. No non sono i preti, si è Colui che ha fatto i preti, si è nostro Signor Gesù Cristo che stabilì la confessione dei peccati come il mezzo necessario per ottenerne il perdono. – Aprite infatti il Vangelo: nel giorno stesso di sua risurrezione, nel giorno di Pasqua, i suoi apostoli erano riuniti in Gerusalemme, nel cenacolo. Tutto ad un tratto, a porte chiuse. Gesù Cristo compare in mezzo d’essi. Essi son tosto compresi da timore, prendendolo per un fantasma. Ma Egli mostrando loro le sue mani, ed il costato: « Pace a voi: come mandò me il Padre, anch’Io mando voi – e detto questo soffiò sopra di essi, e disse: Ricevete lo Spirito Santo: saranno rimessi i peccati a chi li rimetterete, e saranno ritenuti a chi li riterrete » (S. Giovanni cap. XX vers. 22.). Queste parole non hanno bisogno di commenti. Nostro Signore concede dunque a’ suoi primi preti, di cui il sacerdozio ed i poteri durano sino alla fine dei secoli, la virtù di perdonare, potere talmente assoluto, che i peccati ormai non possono essere perdonati che mediante il loro ministero, o in riguardo di questo loro ministero [Noi aggiungiamo a bello studio queste ultime parole; perché quando non puossi ricorrere al ministero di un confessore, si può ottenere da Dio la remissione dei peccati mediante un perfetto dolore. Ma uopo è che a questa contrizione perfetta sia congiunta la ferma risoluzione d’obbedire al più presto possibile al comando di Gesù Cristo che vuole che ogni grave peccato sia portato al tribunale della penitenza. Dunque non è che in riguardo del ministero dei suoi sacerdoti che Dio rimette i peccati in questi casi straordinari.]. – Ma il sacerdote non può perdonarci peccati che ignora; quando un penitente si presenta a lui, esso non sa neppure se questo penitente abbia peccato. Uopo è dunque che costui faccia conoscere la sua coscienza, dichiari i suoi peccati, di maniera che il sacerdote possa giudicare se debba perdonargli tosto, oppure ritenere i suoi peccati sino a migliore disposizione. – Or bene in ciò sta la confessione. E voi ben vedete dietro la parola sì chiara di Gesù Cristo, interpretata dal più semplice buon senso, che si è Egli che inventò la confessione. – Chi lo nega non conosce più la storia, di quello che conosca il Vangelo. Dai primi secoli del Cristianesimo si vede la confessione dei peccati, sia segreta sia pubblica, fatta al Sacerdote, e susseguita dalla assoluzione sacramentale riguardala come la condizione necessaria del perdono. Sempre e dovunque la si vede praticala come istituzione divina. – I protestanti che rigettarono la confessione perché loro recava molestia, si sono sforzati invano a trovar l’inventore umano di essa. Furonvi taluni che ignoravano talmente l’istoria della religione, che dichiararono la confessione essere stata inventata nel secolo tredicesimo dal concilio di Laterano. Sventuratamente per questi dotti l’istoria della Francia ci conservò il nome del confessore di Carlo Magno e di quello di suo figlio Luigi il Buono, che vivevano qualche cinque cento anni avanti il concilio di Laterano I. – Colui, che inventò la confessione, giova il ripeterlo, è Colui che ha inventato i concili, Colui che ha inventato la Chiesa, Colui che ha fatto la religione, Colui, che ha fatto l’uomo, il mondo, e tutte le cose, il Figlio eterno di Dio, che si è fatto uomo, nel tempo, per salvarci. Si, è per misericordia, che ci ha dato la confessione. È per meglio assicurarci del perdono dei nostri peccati e per dare così la pace all’anima nostra. Quando noi abbiamo domandato a Dio perdono di qualche mancanza, noi siamo sicuri dì aver domandato il perdono, ma non siamo sicuri d’averlo ottenuto. Quando al contrario, abbiamo udito la parola sacramentale del sacerdote : « Io t’assolvo da’ tuoi peccati in nome del Padre, del Figliuolo, e dello Spirito Santo, » e che d’altronde abbiamo fatto ciò che abbiamo dovuto, e potuto per parte nostra, siamo assolutamente sicuri, che la nostra anima è purificata. Gesù Cristo l’ha detto: « Saranno rimessi i peccati a chi li rimetterete. » Inoltre noi riceviamo nel Sacramento della Penitenza una perfetta ed intera applicazione dei meriti del Salvatore, come in tutti i sacramenti. Gesù Cristo supplisce all’imperfezione, all’insufficienza della nostra contrizione; mentre che, abbandonati a noi stessi, noi non riceviamo la grazia di Dio, che in proporzione delle nostre disposizioni personali sempre ben povere e misere. Nostro Signore coll’ istituire la confessione de’ peccati, non fece, del resto, che trasportare nella religione uno degl’istinti, uno dei bisogni del nostro cuore nell’ordine naturale. Chiunque ha commesso una mancanza, sembra sollevato, e quasi giustificato, col confessarla. Chi non ha provato in un momento di dispiacere, il desiderio di espandere il suo cuore nel seno d’un amico? Tale è la confessione. Il peccato è il vero male, che pesi sopra un cuore onesto e retto; il sacerdote è il confidente di questo rimorso, il consolatore di questa pena. Egli fa più che sollevarla, la toglie, e gli rende la calma, e la gioia della buona coscienza! Non confesserete voi, che Dio è assai buono in quest’invenzione della confessione? Traduciamo in volgare, come ci accade alcuna volta questa parola inconsiderata: « Sono i preti, che hanno inventata la confessione. » – Essa vuol dire il più delle volte :« Io non voglio confessarmi, perché: Io sono un orgoglioso o un libertino, che ne avrei troppe a raccontare; « e che 2.° non voglio correggermi de’ miei vizi. » Voi che parlate contro la confessione, oserete dire, che io m’inganno?