L’UFFICIO DIVINO -II-

L’UFFICIO DIVINO -2-

J.-J.- Gaume, Catechismo di Perseveranza, vol. IV, Torino 1881]

Alle notti peccaminose del mondo la Chiesa ha contrapposto sante vigilie: i suoi angeli sono stati in adorazione davanti a Dio; hanno chiesto misericordia per i traviati; hanno allontanato dall’ovile addormentato i leoni ruggenti, più formidabili nelle tenebre che nel giorno; hanno a vicenda unito le proprie voci e lacrime a quelle degli Angeli per onorare la nascita e l’agonia del Dio di Betlemme e del Getsemani. Che resta loro da fare? La notte è passata; ecco l’aurora che indora coi primi raggi la sommità delle montagne; ecco gli augelli che salutano con i loro lieti gorgheggi lo spuntare del sole; ecco i fiori che schiudendo i loro calici esalano un profumo delizioso, che la brezza del mattino trasporta verso il cielo: si crederebbero migliaia d’incensieri d’oro e di perle accesi davanti a Dio. La natura è un tempio; ecco i musici, ecco l’incenso del sacrificio; tutto si agita, tutto sembra rinascere. Ma di nuovo, che cosa stanno per fare i figli di Dio, gli Angeli della preghiera? Stanno per mescolare la loro voce a quella della natura: l’uffizio del giorno incomincia. Prima, Terza, Sesta, Nona, Vespro, Compieta, sono le parti che lo compongono. Il Salvatore del mondo ha contrassegnato ciascun’ora del giorno, come quelle della notte con benefizi inestimabili: quindi nasce l’obbligo di benedirLo. Come quelle della notte, le ore del giorno assegnano all’uomo nuovi doveri, e fa di mestieri sollecitare la grazia per adempirli come si conviene. Tale è, generalmente parlando, lo scopo dell’uffizio del giorno; la sua antichità è la più remota [Durandus, lib. V, c. 5.], come ci accingiamo a dimostrare.

.I. Prima. — È questa la prima ora dell’uffìzio del giorno, ed ha il nome di “Prima” Perché era recitata al cominciare del giorno, cioè verso le sei della mattina, secondo l’antica maniera di dividere il tempo. Quest’ora è stata stabilita: 4° per onorare Nostro Signore coperto d’obbrobri dai Giudei e condotto davanti a Pilato; 2° per memoria del suo apparire ai discepoli sul lido del mare, dopo la risurrezione; 3° per offrire a Dio le primizie della giornata, come i Giudei gli offrivano le primizie della messe e dei frutti, per consacrarisi interamente a Lui. – La parte dell’uffizio che chiamasi Prima si compone dell’invocazione, “Deus in adiutorium”, del “Gloria Patri” seguito dall’Alleluia, d’un inno, di tre salmi, d’un’antifona, e d’un capitolo, d’un responsorìo, e di alcune altre preci. L’inno che noi cantiamo a Prima, e che già si cantava fino dal decimo terzo secolo [Durandus, lib. V c. 5], esprime a meraviglia i sentimenti che la fede deve eccitare in un cuore cristiano al nascere del giorno. Alla vista del sole materiale che viene ad illuminare il mondo fisico, noi supplichiamo il sole di giustizia e di verità a levarsi per noi, affinché camminando con la guida infallibile di sua luce evitiamo le tenebre e le insidie del demonio. Noi preghiamo questo sole divino ad essere Egli stesso il nostro condottiere. « Vedete voi queste pecore, dice uno dei nostri padri nella fede [Amalar. Fortunat., 1. IV, De Eccl. Offic., c. 2], le quali, nel corso della notte ricoverate nell’ovile, domandano di uscire all’aperta campagna sin dalla punta del giorno? Esse reclamano un pastore che le conduca ai pascoli, e le protegga dalle insidie dei lupi. Così noi, allorché l’aurora viene a chiamarci alla santa fatica, ci affrettiamo a domandare un maestro che c’istruisca, e un protettore che ci difenda. Abbiamo bisogno dell’uno e dell’altro, poiché senza di esso il lupo infernale verrebbe a disperdere il gregge in luoghi indifesi, e a sbranare le pecorelle ». – Per sfuggire agli agguati del demonio, la Chiesa ci rammenta ammirevolmente nei salmi di Prima, e nel Simbolo di sant’Atanasio, che bisogna vestire quella stessa armatura, che hanno portata tutti gli eroi cristiani: lo scudo della fede, l’elmo della speranza, la spada della carità. Per animarci con maggior efficacia questa attenta madre ne mette sotto gli occhi i combattimenti e i trionfi dei Santi. A Prima, si legge il Martirologio; esso è la storia cruenta, ma gloriosa dei nostri fratelli, che, essendo stati un giorno soldati come noi, si riposano adesso nel cielo sopra i loro immortali allori. – Dopo la lettura del Martirologio, l’officiante dice: “Ella è preziosa davanti a Dio!” — La morte dei suoi Santi, risponde il Coro; e allora in nome di tutti i suoi fratelli, l’officiante medesimo esprime il seguente piissimo voto: « Che la santa Vergine e tutti i Santi ci aiutino con le preghiere che essi per noi indirizzeranno al Signore, a divenir santi in tutte le cose, come è santo Quegli che ne ha chiamati alla perfezione ». Dopo questa preghiera, l’officiante ripete tre volte: Signore, venite in mio aiuto; e il Coro aggiunge: Signore, affrettatevi a soccorrermi. Questa trina ripetizione è destinata a ottener soccorso contro i nostri tre grandi nemici, il demonio, il mondo, la carne. Essa è seguita dal Gloria Patri, affine di ringraziare in nome di tutti i nostri fratelli l’augusta Trinità, mercé della quale la morte dei Santi divenne preziosa, e preziosa pure diverrà la nostra se vorremo. – Ma ohimè! vi sono delle cadute da temere, poiché la debolezza umana è estrema! Innanzi tutto domandiamo misericordia , e tre volte diciamo: Kyrie eleison, ovvero Christe eleison « Signore, Cristo, abbiate pietà di noi »; e per ottenere questa misericordia più sicuramente, noi recitiamo l’Orazione dominicale. La terminiamo supplicando il Padre celeste di dirigere i suoi figli (e i suoi figli siamo noi), e di eccitarci a dirigere i nostri (e i nostri figli sono i nostri pensieri e le nostre opere).

Terza. — Ella è questa la seconda ora dell’Uffizio diurno, la quale ha ricevuto questo nome perché era recitata alla terza ora del giorno, secondo l’antica maniera di computare. Ai dì nostri, Terza corrisponde alle nove ore del mattino. Prima e Terza son composte delle stesse parti, eccettuate le preghiere finali. – La Chiesa che col mezzo dei suoi sacramenti scolpisce ed imprime in qualche maniera la santità su tutti i nostri sensi, scrive ancora i suoi augusti misteri in ciascuna ora della giornata, e il suo Uffizio li richiama successivamente alla nostra adorazione e al nostro amore. Il Salvatore perseguitato dalle implacabili e sanguinose ostilità dei Giudei, attaccato alla colonna per ordine di Pilato, e crudelmente flagellato; lo Spirito Santo che discende sugli Apostoli, e dà vita alla Chiesa: tali sono gli avvenimenti memorabili che celebriamo con le preghiere di Terza, la quale, quanto all’origine, risale al paro delle altre ai tempi apostolici [Ignat., Epist. ad Trall.]. – In memoria della nuova legge, che fu scritta a caratteri di fuoco nel cuore degli Apostoli, si cantano alcuni salmi che celebrano la dolcezza e la perfezione di questa legge di grazia e di amore. L’inno rammenta eziandio la discesa dello Spirito Santo, al quale si porgono vive suppliche, affinché rinnovi in nostro favore le meraviglie del Cenacolo.

III. Sesta. — È questa la terza ora del l’Uffizio del giorno, e corrisponde al mezzodì. Si compone delle stesse parti e ha la stessa antichità della precedente! [Constit. Apostol., lib. VIII, c. 20]. Vi si ricordano delle grandi memorie, giacché quest’ora memorabile è consacrata da grandi avvenimenti. A Terza la Chiesa ci aveva condotti al pretorio, e in faccia di quella colonna insanguinata ella aveva aperte le nostre labbra a pregare. Qui, prendendoci per la mano, ne conduce al Calvario, e soffermandoci addita uno strumento di supplizio. Gesù pendente in croce, ecco il primo oggetto delle nostre preghiere e delle nostre meditazioni all’ora di Sesta. Cosi la Chiesa, penetrata di riconoscenza, ci fa cantare salmi che spirano un ardente amore. “Gli occhi miei si sono stancati nell’aspettazione della tua salute e delle parole di tua giustizia”.[Salmo CXVII1 in cui parlasi della venuta del Salvatore aspettato. A questo passo campeggia una magnifica armonia, che non è sfuggita alla sagacità dei nostri padri nella fede. Istruiti dalla tradizione, insegnano che fu alla sesta ora del giorno che Adamo si rese colpevole e perì mangiando il frutto dell’albero; sicché, per far coincidere la redenzione con la caduta, Gesù volle essere alzato nell’ora medesima sull’albero della nostra salute 8! [Quo tempore eversio fuit eodem rursus facta reparatio. Cyril. Hierosol., Catech. XVI. Teophilact., in Matth. ad ea verba : A sexta autem hora, etc. Ecco ancora alcune altre armonie: « Propter protoplastum Adam… (Chrislus) sexta hora in crucem ascendit, sexlo die sacculi , in sexta hora eiusdem millenarii, et sexta liebdomadis et sexta bora sexti diei, etc » . S. Anast.]. – E un altro ricordo eziandio è proposto alla gratitudine del cristiano, poiché fu appunto nell’ora di sesta che Pietro ebbe la chiara rivelazione della vocazione dei gentili, e che ricevé l’ordine di portare il Vangelo alle nazioni; benefizio inapprezzabile, del quale noi tutti in oggi esperimentiamo gli effetti preziosi. Forseché il Figlio di Dio confitto in croce, e Pietro che porta il Vangelo alle nazioni, non sono memorie più che bastanti per eccitare il nostro fervore e la nostra riconoscenza durante questa nuova ora?

Nona. — Questa che viene a continuare le riferite ammirabili memorie, è la quarta ora dell’Uffizio del giorno. Per noi è la terza ora di sera, e per gli antichi era la nona del giorno; dal che appunto ha sortito il nome. Ella contiene le stesse parti che le precedenti, e risale alla stessa antichità [Basil., in Regul. interrog. 34]. – La Chiesa si ritiene ancora sul grande teatro dei dolori ; il sole oscurato, la terra vacillante, il velo del tempio squarciato, l’Uomo-Dio spirante, il fianco del nuovo Adamo aperto dalla lancia del soldato, e che dà vita alla nuova Eva, vale a dire la Chiesa cattolica nostra tenera madre: ecco gli avvenimenti che quest’ora ci rammenta. Quali altri sarebbero più idonei a farci versare davanti a Dio lacrime e preghiere? I salmi delle brevi ore della Domenica ci offrono un’armonia sì bella, che non possiamo astenerci dall’esporla alla vostra ammirazione. Essa vi farà conoscere che tutto, tutto fino ad un iota, è disposto negli uffizi della Chiesa con una saggezza e una profondità di disegno che non potranno mai essere abbastanza encomiate. – Tutte le brevi ore di questo giorno son composte di due salmi, di cui il secondo è distribuito a Prima, a Terza, a Sesta e a Nona ; ed ogni divisione di questo salmo contiene sedici versetti. Per qual ragione questi due salmi soli? A che questi sedici versetti? 1 due salmi rammentano le due alleanze di Dio con gli uomini: l’antica e la nuova. I sedici versetti significano gli interpreti di questa doppia alleanza. Per l’antica i dodici minori profeti, e i quattro maggiori: per la nuova i dodici Apostoli e i quattro Evangelisti [Durandus, lib. V, c. 5]. – I salmi e gl’inni di codeste ore sono egualmente in accordo con le differenti ore del giorno nelle quali noi li recitiamo. Al levar del sole il principio; a Terza la continuazione; a Sesta la perfezione ; a Nona la fine della carità e della vita; giacché, pur troppo! la vita non è che un giorno!

  1. I Vespri. — I Vespri sono la quinta ora dell’Uffizio del giorno, e la loro antichità è uguale a quella della Chiesa [Constit. Apost., lib. VIII, c. 40]. – Oh! come a giusta ragione la madre nostra ha consacrato quest’ora alla preghiera! Quante memorie ne rammenta! Primieramente il sacrificio della sera offerto ogni giorno al tempio di Gerusalemme; quindi l’istituzione della santa Eucaristia; infine la deposizione dalla croce, e la sepoltura di Nostro Signore. Tali sono le ragioni, per cui la Chiesa desidera si vivamente che i fedeli stiano pregando durante quest’ora memorabile. – Ma conoscono essi forse il pregio della preghiera, sentono essi battere di riconoscenza il loro cuore quei cristiani di ogni età e di ogni condizione, che sdegnano d’assistere al Vespro? I Vespri, udiamo rispondere con empia leggerezza, i Vespri sono pei preti. Ma non è dunque per tutti i cristiani che è stata istituita la santa Eucaristia? Non dovete voi dunque niente a Dio per questo benefizio? Non è dunque per voi che Gesù Cristo è stato immolato? L’ora, in cui questi grandi miracoli sono stati operati, è dunque muta, insignificante, inefficace sul vostro cuore? Che fate voi dunque durante quest’ora memorabile, in cui lacrime ardenti dovrebbero sgorgare dai vostri occhi, e unirsi a preghiere anche più ardenti ? Ah! se voglio saperlo, interrogo le pubbliche piazze, i pubblici passeggi, le case da giuoco, li passatempi, ed essi mi rispondono pur troppo. E che? Non arrossirete giammai di ferire in tal modo la dignità del cristiano? O nostri padri nella fede! che cosa avreste pensato, se vi fosse stato detto che i tardi nipoti profanerebbero un’ora sì santa, un’ora commemoratrice di tanti benefizi! Vergogna a coloro che sentono la riconoscenza come un peso gravoso e difficile! I cuori che si rendono ingrati son cuori malvagi; e rassomigliano a quei frutti che il sole non può maturare, e che son privi perciò di sapore e di odore. Onta ai cuori servili, a quei pessimi cristiani che non si recano in chiesa alla mattina che spinti dal solo timor servile; mentre alla sera, allorché non vi è anatema e minaccia di peccato mortale, se ne dispensano affatto! – Per noi, cristiani docili, più i vespri sono abbandonati, più dobbiamo farci un dovere di assistervi; le nostre obbligazioni hanno da crescere in proporzione dell’indifferenza dei più. Rechiamoci al piede degli altari a pregare, a gemere, ad adorare, a ringraziare pei nostri ingrati fratelli; e noi fortunati, se potremo compensare colla nostra pietà il loro Salvatore e il nostro! – La bellezza dell’uffizio della sera basterebbe per sé sola a renderci assidui al medesimo. I vespri si compongono di cinque salmi, di cinque antifone, di un capitolo, di un inno, del Magnificat e d’una sola orazione, se per altro non si fa commemorazione di qualche festa speciale. – Questo numero cinque è stato stabilito per onorare le cinque piaghe di Nostro Signore, e per espiare i peccati che abbiamo commessi nel corso della giornata abusando dei nostri cinque sensi. – La tromba della Chiesa militante, la campana, risuonò tre volte: la prima per annunziare l’uffizio; la seconda per dirci che è tempo di partire; la terza per significare che l’uffizio comincia. Arrivati alla chiesa, il clero e i fedeli si raccolgono in sè stessi un breve istante, e preparano la loro anima alla preghiera, recitando il Pater e l‘Ave Maria, le quali due orazioni si dicono in ginocchio e in silenzio. Si dà principio col segno della croce, per invocare il soccorso della santa Trinità, e per confessare i misteri della Incarnazione e della Redenzione. La mano che nel tracciare il segno augusto si porta a quattro parti, ne dice che il Figlio di Dio è venuto a chiamare i suoi eletti, dispersi ai quattro angoli della terra. Quando dunque vedete l’officiante, dall’alto del suo seggio, fare il segno adorabile, rappresentatevi Gesù Cristo sulla croce in vetta al Calvario, colle braccia stese per accogliervi i figli di Adamo divenuti suoi, e tutti chiamare, tutti stringere al suo cuore con questa parola d’ineffabile amore: “Sitio”; Io ho sete, sete di voi ». Facendo il segno della croce, il sacerdote, stando rivolto verso l’altare, dice: “Deus in adiutorium meum intende”: « O Dio, venite in mio aiuto »; e i fedeli egualmente in piedi e volti verso l’altare, per esprimere che la confidenza è tutta intera nei meriti di Gesù Cristo, rispondono con effusione, “Domine, ad adiuvandum me festina”: «. Signore, affrettatevi a soccorrermi ». – Quindi per maggiormente testimoniare la gratitudine, che loro ispira questa celeste protezione, essi cantano con entusiasmo di amore il “Gloria Patri, etc”: «Gloria al Padre, ecc. ». La loro gioia ed il loro ardore nel pubblicare le lodi del loro Padre che è nei Cieli, si manifestano con queste parole: Alleluia, Alleluia: « Allegrezza, felicità ». – Nel corso della quaresima, tempo di digiuno e di penitenza, l’ “Alleluiaè surrogato da queste parole, che hanno lo stesso senso: “Laus tibi, Domine, rex aeternae gloriae”: « Lode a voi, o Signore, eterno re della gloria ». – Detta appena l’antifona, che è destinata a infiammare la nostra carità, un corista intona il primo salmo: “Dixit Dominus Domino meo” « Il Signore, Padre eterno, Dio onnipossente, ha detto a Gesù Cristo, suo Figlio, e mio Signore NEL GIORNO DELLA SUA GLORIOSA ASCENSIONE: Siedi alla mia destra».In questo magnifico salmo la Chiesa canta la generazione eterna del Figlio di Dio, il suo sacerdozio’ egualmente eterno, come anche il suo dominio eterno e assoluto sul mondo, divenuto la conquista della Croce. Ma che? i vespri non son forse destinati ad onorare i funerali di Gesù Cristo? Come avviene dunque che la Chiesa, questa tenera Sposa, inginocchiata, per cosi dire, sulla tomba del suo divino Sposo, fa risuonare soltanto all’orecchio de’suoi figli canti di gioia, ed inni di trionfo e d’immortalità? Ah! ciò avviene perch’ella vede la vita uscire dal seno della morte; vede la vittoria scaturire dai patimenti! E questo nobile pensiero non sarà per tutti noi un’eloquente lezione? Il secondo salmo dei vespri della domenica è il “Confitebor”: « Io vi loderò, o Signore ». Esso è come una continuazione del primo. Per la bocca di David, la Chiesa canta i benefizi che ne procura il regno del suo divino Sposo, e celebra in particolare l’istituzione del divino banchetto, al quale sono invitate tutte le generazioni che vengono in questo mondo!Che cosa rimane adesso, se non che descrivere la felicità di quelli, che si sottomettono all’impero di Gesù Cristo? E ciò fa la Chiesa nel salmo, “Beatus vir qui timet Dominum”: « Felice l’uomo che teme il Signore ». Allato alla descrizione semplice e affettuosa della felicità dell’uomo giusto che teme Iddio e osserva i suoi comandamenti, la Chiesa pone il quadro del peccatore. Durante la sua vita, egli è tristo e disgraziato; al momento della morte, digrigna i denti e irrigidisce per lo spavento; defunto, egli entra nel luogo dei supplizi, alla porta del quale egli lascia la speranza: la speranza di uscirne mai più! La Chiesa nel salmo precedente ha ricordato ai giusti che il Signore li renderà felici, se porteranno il suo amabile giogo. Che di più naturale che l’esortarli adesso a cantare la loro felicità? Ed ecco che questa tenera madre, appropriandosi la voce del Re profeta, li esorta a lodare e a benedire la grandezza, la potenza, e soprattutto l’ammirabile bontà del loro Padre celeste : “Laudate, pueri, Dominum, laudate nomen Domini” : « Miei figli, lodate il Signore, lodate il nome del Signore ». Questo invito provoca uno slancio di amore; e tutte le bocche e tutti i cuori si uniscono per rispondere: «Sì, che il nome del Signore sia benedetto: fin da ora e fin ai secoli dei secoli »: “Sit nomen Domini benedictum, ex hoc nunc et usque in sæculum”; e nel seguito di questo ammirabile salmo ognuno proclama a gara le ragioni particolari che ha di benedire il Dio buono, il Dio che veglia sul povero e sul debole, come sopra la pupilla degli occhi proprii.Dalle ragioni personali che muovono ciascuno di noi, e tutti gli uomini in generale, a benedire Iddio e ad amarLo, la Chiesa passa alle ragioni riguardanti la grande famiglia cattolica. A meno che non si chiuda in petto un cuore di marmo, questi benefizi sono stati tali, che dobbiamo struggerci d’amore al ricordarli. Tale è l’oggetto del quinto salmo: “In exìtu Israel de Ægypto, domus Jacob de popolo barbaro”: « Allorché Israele uscì dall’Egitto, e la casa di Giacobbe si partì da un popolo barbaro ». Qui la Chiesa ne fa risalire più che tremila cinquecento anni addietro, e fermandoci sulle rive del mar Rosso, e nel deserto del Sinai, discopre agli occhi nostri il quadro splendidissimo delle meraviglie e dei prodigi che Dio operò per liberare Israele dall’Egitto, e per farlo entrare nella Terra promessa. E sotto il simbolo di questi miracoli dell’Egitto e del Mar Rosso, del Deserto e del Sinai, essa ce ne fa vedere dei più gloriosi e dei più consolanti, operati in nostro favore; vale a dire la nostra liberazione dal demonio, dal peccato, dalla morte, dall’inferno, mediante il Battesimo. Ella ci mostra, in quelli nascosta, la fede che ne conduce attraverso del deserto della vita, come la colonna conduceva Israele; la legge di grazia discendente dal Calvario, come la legge antica discendeva dal Sinai, il pane degli Angeli, nutrimento dell’anima nostra, come la manna nutrimento degli Ebrei; e questi miracoli della legge nuova ci son presentati essi stessi come un contrassegno dei miracoli più grandi ancora, per mezzo dei quali il Signore vuol condurci dal deserto della vita nella celeste Gerusalemme: tali sono i benefici che la Chiesa ci ricorda. Quindi, come Davide, paragonando Dio onnipotente e forte agli Idoli deboli ed insensati delle nazioni gentili, questa tenera madre ci stimola, con tutto l’affetto e tutta l’estensione della sua carità del suo zelo, ad abiurare il culto degli dei menzogneri per attaccarci irrevocabilmente al Signore, che ci ha dato contrassegni sì luminosi della sua grandezza, della sua potenza e della sua bontà. – Questo salmo, al quale la poesia propina non ha nulla da paragonare, è seguito dall’Antifona e dal Capitolo. Il Capitolo delle domeniche ordinarie è tolto dall’Epistola di S. Paolo agli Efesini: “Bexedictus Deus”, ecc.: « Benedetto Dio e Padre del Signor Nostro Gesù Cristo, il quale: ha benedetti con ogni benedizione spirituale del Cielo in Gesù Cristo, siccome in Lui ci elesse prima della fondazione del mondo, affinché fossimo santi ed immacolati nel cospetto di lui per carità » (Ephes. 1,3,4.). – L’officiante legge in piedi il Capitolo, e li indirizza ai fedeli che hanno cantato le lodi a Dio, affine d’incoraggiare il loro zelo, e di dare alla pietà un nuovo alimento.Questa attitudine, voluta dal decoro, conviene alle sante parole che egli pronunzia, ed esprime il rispetto che porta ai membri di Gesù Cristo che l’ascoltano. L’adunanza ascolta con riconoscenza questa breve esortazione, e risponde: “Deo gratias” : « Sien grazie a Dio »Ciò fatto s’intona l’inno: l’inno, che è espressione di amore, di coraggio, d’incitamento a compiere gli ammaestramenti ricevuti; l’inno è il canto di un esercito che s’incammina alla pugna. Esso varia secondo la festa, affinché sempre appalesi sentimenti analoghi alla circostanza. Il regno di Gesù Cristo cominciato sopra la consumato nel cielo, ecco ciò che la Chiesa canta nella domenica; quindi l’inno dei vespri della domenica è un lungo sospiro verso il cielo. Felice il cristiano che sa penetrarsi dello spirito di questa santa preghiera! Il suo cuore prova una consolazione e una felicità che il mondo e i suoi piaceri non potrebbero dargli! – La Chiesa ha cantato i benefizi del Signore, ha veduto nel passato la sua Ideazione dal demonio, il proprio stabilimento sulla terra, i favori infiniti, di cui è stata oggetto: ha veduto nell’avvenire il cielo schiuso per riceverla e compiere la sua felicità eterna. Come esprimerà tutta la sua riconoscenza? Per non soccombere sotto il peso, cerca un interprete de’ sentimenti che prova; ed eccolo. In luogo di una sua, s’alza una voce, al suono della quale il cielo e la terra debbono far silenzio; una voce sì soave, sì pura, sì melodiosa, e nello stesso tempo sì possente, che rallegra infallibilmente il cuore di Dio; questa voce è quella dell’augusta Maria, della madre dei cristiani. Ecco pertanto la dolce Vergine di Giuda, la madre di Dio, la Vergine per eccellenza, la Vergine del Cielo, che sta per esprimere la riconoscenza della Vergine della terra, la casta sposa dell’Uomo-Dio, la Chiesa cattolica. – S’intona il Magnificat, quel canto sublime, slancio d’ineffabile amore, poema in dieci canti, profezia magnifica, che valse a Maria il titolo glorioso di Regina dei profeti: «La mia anima glorifica il Signore, ecc. ». Si sta ritti durante il Magnificat, per rispetto alle parole di Maria, e perché questa nobile attitudine ben dimostra la gioia e il contento di un cuore colmo di grazie, e disposto a tutto intraprendere per testimoniare al suo benefattore il sentimento della gratitudine. Nel tempo del Magnificat l’officiante esce dal suo posto e va rivestirsi del piviale. Bentosto preceduto da un chierico che porta l’incensiere, egli sale all’altare, prende la navicella dell’incenso, ne mette sul fuoco, e dice le parole: “Ab illo beneficaris, in cuius honore cremaberìs” : « Sii benedetto da Colui, in onore del quale sarai consumato ». Pronunciando tali parole, fa il segno della croce per ricordare che pei soli meriti di Gesù Cristo ogni benedizione si spande sulla terra; quindi egli prende il turibolo dalle mani del chierico; incensa tre volte la croce posta sopra il tabernacolo, prima a destra, poscia a sinistra, infine da ciascuna parte, come per circondare l’altare, figura di Gesù Cristo, col profumo che dal fuoco esala e che è simbolo della fede dei cristiani e del fervore delle loro preghiere. – Terminata questa cerimonia, il chierico incensa il celebrante, e con ciò gli rende onore come al rappresentante di Gesù Cristo. Il prete dice in seguito: “Dominus vobiscum”; « Che il Signore sia con voi »; alle quali parole i fedeli rispondono: “Et cum spiritu tuo”; « E che egli sia col tuo spirito ». Seguita poscia immediatamente l’orazione della messa chiamata Colletta, perché riunisce in qualche modo le preghiere indirizzarte a Dio. Dettosi di nuovo dal sacerdote “Dominus vobiscum”, augurio di pace e di carità, i chierici invitano i fedeli a lodare e a benedire il Signore con queste parole: “Benedicamus Domino”; « Benediciamo il Signore »; e tutti gli assistenti rispondono: “Deo gratias” : « Noi ringraziamo Iddio ». Così termina questa parte dell’uffizio della sera. Si può egli immaginare qualche cosa più bella, più completa, meglio ordinata?

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io vi ringrazio d’avermi istruito nelle sante cerimonie del vostro culto ; fate che esse accendano in me lo spirito della fede e della preghiera. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose, e il prossimo come me stesso per amor di Dio, ed in prova di questo amore io assisterò regolarmente al vespro.

Compieta. — Colmo di benefizi l’uomo ha espresso a Dio la propria gratitudine; egli è animato da ottime disposizioni, la terra gli sembra trista, la vita pesante, i suoi sospiri sono pel cielo; ma il suo esilio non è finito, e più d’una prova gli resta a subire. Ormai il giorno nel suo tramonto annunzia l’avvicinarsi della notte, tempo funesto sotto ogni rapporto; che l’uomo, soldato stanco, va a dormire, ma il demonio non dormirà, ed al contrario moltiplicherà le sue insidie. Egli, leone che rugge, va attorno con maggior furore per rapire e sbranare qualche pecorella. Ecco quale addiviene la posizione dell’uomo al cadere del giorno! Se venisse a domandarvi che cosa deve fare per evitare gli agguati del nemico e conservarsi fedele a Dio fino al ritorno della luce, quale consiglio gli dareste voi? Aspettando la vostra risposta, io vi spiegherò i suggerimenti della Chiesa; poscia voi mi direte se conoscete alcun che di meglio. « Mio figlio, essa gli dice, gettati tra le braccia del tuo Padre celeste; sii sobri, e vigilante; prega il tuo angelo custode e i santi che amano di proteggerti; sopra tutti prega Maria di vegliar su di te come una tenera madre veglia sul suo figlio che dorme: riposa in pace sotto la potente loro protezione, e non potrà nuocerti il demonio ». E per fortificare nel cristiano questi vivi sentimenti di una ingenua confidenza la Chiesa gli fa recitare Compieta. [Compieta significa complemento, poiché quest’Ora compisce l’Uffizio]. – Ecco la prova di ciò che abbiam detto nella spiegazione di questa ultima ora dell’uffìzio. – Compieta comincia con queste parole: Convertiteci, o Dio, voi che siete il nostro Salvatore, e allontanate da noi la vostra collera. La sola cosa che possa far allontanare Dio da noi e impedirgli d’avere pel nostro riposo quella cura paterna che domandiamo, si è il peccato. Ecco perché si comincia dal pregarlo di purificarcene e di convertirci di tutto cuore; noi Gli diamo il più potente motivo a ciò, ricordandogli che è il nostro Salvatore. – Il primo salmo ne fa ricordare il Re- Profeta che esprime al Signore la propria gratitudine, vivamente penetrato da una effusione di carità pei benefizi ricevuti, e che implora il soccorso contro i suoi nemici. – È in Dio riposta la sua fiducia, e sul seno paterno di lui assolutamente si riposa. Qual cantico poteva star meglio sulla bocca del cristiano, di questo nuovo Re-Profeta, il quale dopo aver pugnato contro i suoi nemici e dopo aver terminata la sua giornata con l’aiuto di Dio, cerca in un riposo necessario di prender nuove forze e nuovo vigore per combattere l’insidiatore della sua salute? Tale è il senso del salmo Cum invocarem: « Allorché io ho invocato questo Dio autore della mia giustizia egli mi ha esaudito ». « Miei figli, invocate dunque il Signore, ne dice la Chiesa in questo primo cantico, e la vostra speranza non andrà fallita ». – Volete sapere in qual modo Iddio protegga l’uomo, che spera in Lui? Il secondo salmo ve ne istruisce. Esso ci mostra effettivamente l’uomo che abita sotto la custodia dell’Altissimo e trova quiete inalterabile nella protezione del Dio del cielo; il demonio e i suoi agguati, gli empi e le loro macchinazioni nulla possono a danno del giusto: “Qui habitat in adiutorio Altissimi, in protectione Dei coeli commorabitur”: « Quegli che si appoggia al braccio dell’Onnipotente, vive in pace sotto la protezione del Dio del cielo ». – Ora che resta? Un avviso da darsi a noi, ma un avviso importantissimo; cioè di stare in guardia, e se ci svegliamo nella notte, di volger subito il nostro cuore a Dio. Tale è l’oggetto del terzo salmo: “Ecce nunc benedicite Domino”: « Adesso dunque benedite il Signore ». Se così è, conclude la Chiesa: “Dall’alto della montagna di Sion, quel Dio che ha fatto il cielo e la terra, vi benedirà”. Tutti i cuori e le voci si riuniscono per cantare l’antifona; per assicurar cioè che saranno fedeli a queste sagge raccomandazioni L’inno che segue è un lungo sospiro verso il cielo, ed è come il principio di quella preghiera notturna che non mancheremo di fare, se siamo colti dalla veglia insonne. L’officiante, recitando il capitolo subito dopo che è cantato l’inno, soggiunge questa bella preghiera tolta dal profeta Geremia: “Tu autem in nobis es Domine, et nomen sanctum tuum invocatum est super nos, ne derelinquas nos, Domine Deus noster”: « Ma tu, o Signore, sei con noi, ed il tuo santo nome fu sopra di noi invocato; non abbandonarci, o Signore Dio nostro ». [4 I Thess. V, 5]. – I fedeli ringraziano il sacerdote, e benedicono il Signore con queste parole: Deo gratias: « Noi ne ringraziamo Iddio ». – Qui comincia tra tutti questi figli della stessa famiglia, riuniti di presente ai piedi del loro Padre comune, e fra poco dispersi nelle loro particolari dimore, un colloquio, una specie d’addio, di buonanotte cristiana, la cui tenerezza e la cui mirabile semplicità non può con parola venire espressa: spetta al cuore di comprenderla. – Un fanciullo del coro canta colla sua voce pura come quella di un angiolo: “In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum” – « affido l’anima mia ». – I fedeli rispondono: In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum; « Tra le vostre mani, o Signore, affido l’anima mia ».II fanciullo del coro : “Redemisti me, Domine, Deus veritatis”: « Voi mi avete redento, o Signore, Dio di verità ». L’angiolo della terra espone a Dio i più potenti motivi di proteggerci; noi gli apparteniamo, Egli ci ha ricomprati a prezzo infinito, Egli è il Dio di verità, fedele alle sue promesse; Egli adunque non può mancare di proteggerci. – I fedeli: “Commendo spiritum meum”: « Affido l’anima mia ». – Il fanciullo del coro : “Gloria Patri, et Filio, et Spiritui Sancto”; « Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo ». – I fedeli: “In manus tuas, Dumine, commendo spirito meum”; « Tra le vostre mani, o Signore affido l’anima mia ».Il pensiero dell’esilio e dell’avvicinarsi dei pericoli della notte, diffonde in questa risposta una malinconia che non permette di terminare il Gloria Patri: « Come era al principio, e ora, e sempre, e nei secoli dei secoli ». Queste parole sono riservate alla vera patria: la Chiesa della terra non le fa udire che nel momento delle solenni allegrezze. Il fanciullo del coro: “Custodi me, Domine, ut pupillam oculi”: « Custodiscimi, o Signore, come la pupilla dell’occhio ». I fedeli : “Sub umbra alarum tuarum protege me”: « Proteggimi all’ ombra delle tue ali ».Ditemi, per fede vostra, conoscete voi qualche cosa di più bello che questo colloquio? Qualche cosa che meglio dipinga il candore di un fanciulletto tra le braccia del padre suo? Questo figlio prediletto, sicuro che il Dio che regna nel cielo l’ama con la tenerezza di un padre, non ha altro desiderio che di abbandonare questa terra di esilio, questa valle di lagrime, e di giungere a fruire della pace nel seno del Signore. Ed ecco la madre sua, la Chiesa cattolica, sempre così bene ispirata, che gli mette in bocca le parole del vecchio Simeone, il quale dopo aver veduto la salute d’Israele, non domandava altro che la morte: “Nunc dimittis”: « Lascia ora , o mio Dio, partire in pace il tuo servo ». Segue una preghiera, che ammirabilmente riassume le domande indirizzate a Dio nella Compieta. – Ecco dunque la famiglia cristiana sul punto di separarsi. Quegli che sulla terra ne è capo e padre non può lasciare i figli senza augurar loro le più abbondanti benedizioni; quindi il sacerdote non contento dell’ordinario saluto, “Dominus vobiscum”: « Che il Signore sia con voi », ha ricorso ad espressioni più toccanti, e che meglio palesino l’affezione che porta ad essi, non che il desiderio ch’Egli ha di vederli felici. Esso dice : “Benedicat et custodiat nos omnipotens et misericors Dominus, Pater, et Filius, et Spiritus Sanctus. Amen”: « Che ci benedica e ci custodisca l’onnipotente e misericordioso Signore, Padre, Figliuolo e Spirito Santo. Così sia ».Prima di partire, tutti insieme salutano un’ultima volta la loro tenera Madre che è in cielo; essi la supplicano di volgere sui figli suoi gli sguardi della sua misericordia, e di aprir loro le sue braccia materne. Qual altro asilo infatti è più sicuro del seno di una madre? E allora voi udite le vòlte del tempio echeggiare a vicenda della Salve Regina, dell’Alma Redemptoris, dell’Ave Regina Coelorum, che gli angioli ascoltano con gioia e vanno a ripetere sulle loro arpe d’oro nella celeste Gerusalemme ai piedi della Vergine piena di grazia, nostra madre e loro regina.Andate adesso, o diletti figli, dormite in pace, il rimorso non turberà il vostro sonno, non angustierà l’anima vostra. « Per tal modo la domenica scorre giuliva per quelli che sanno veramente santificarla! la preghiera, la carità, gioie innocenti, familiari riunioni, diletti pacifici l’hanno abbellita; e quando questa giornata è finita, quando con tutti gli altri giorni va a cadere nell’abisso del passato, vi scende luminosa per le buone opere che ha fatto compire e profumato dall’incenso bruciato davanti agli altari » [Quadro poetico delle Feste Cristiane, del Visconte Walsh]. – Diamo termine a ciò che riguarda la compieta, aggiungendo che questa ultima ora dell’uffizio diurno si trova accennata negli antichi Padri della Chiesa [Basii., in Regul. interr. 37. — Clem. Alex., lib. II io. D. Paedag., c. 4. — Isid., De Offic. Eccles., lib. I , cap. 21]. L’uso di pregare prima di prendere il consueto riposo sembra stabilito dalla natura stessa. – La Chiesa l’ha consacrato, e ordinandoci di ringraziare Dio alla fine della giornata, ella propone alla nostra adorazione il Salvatore messo nel sepolcro, di maniera che nel suo uffizio quotidiano ella onora il suo divino Sposo dalla sua nascita fino alla sua sepoltura. Che bel soggetto di meditazione pei suoi figli! Che mezzo ammirabile di renderli quali devono essere, cioè altrettanti Gesù Cristo [Christianus, alter Christus].

Uso del latino. — La Chiesa offre a Dio tutte le ore del suo uffizio in una lingua ignorata oggi giorno dalla pluralità dei fedeli; ed essa a Lui le indirizza cantando. È conveniente di farvi ammirare in questo doppio uso la profonda sapienza della madre vostra. E primieramente perché si usa la lingua latina nelle pubbliche preghiere? – 1° Per conservare l’unità della fede, colla nascita del Cristianesimo, il servizio divino si faceva in lingua volgare nella maggior parte delle chiese. Ma anche le lingue, come tutte le umane cose, sono soggette a mutazioni. La lingua francese, per esempio, non è più la stessa di quella di duecento anni fa; molte parole sono antiquate, altre han cangiato senso. Il giro delle frasi differisce tanto, quanto le nostre mode differiscono da quelle dei nostri avi . Ma una cosa deve restare immutabile, e questa si è la fede; onde per metterla al coperto da questa perpetua instabilità delle lingue viventi, la Chiesa cattolica impiega una favella costante, una lingua, che, non essendo più parlata, non è più soggetta a cangiarsi. L’esperienza ne mostra che la Chiesa è stata, qui come dappertutto, diretta da una sapienza divina. – Osservate infatti ciò che accade ai protestanti: essi hanno voluto impiegare nelle loro liturgie le lingue viventi, ed ecco che sono incessantemente obbligati a rinnovare le formule, a ritoccare le versioni della Bibbia; ed eccovi alterazioni infinite! Se la Chiesa li avesse imitati sarebbe stato necessario che ad ogni cinquant’anni si riunissero i concilii generali per redigere nuove formule circa l’amministrazione dei sacramenti. – 2° Per conservare la cattolicità della fede. L’unità di favella è necessaria per mantenere un legame più stretto e una comunicazione di dottrina più facile tra le differenti Chiese del mondo, e per renderle più stabilmente attaccate al centro dell’unità cattolica. Togliete la lingua latina, ed ecco che il sacerdote italiano che viaggia in Francia, o il sacerdote francese che viaggia in Italia non può più celebrare i santi misteri, né amministrare i sacramenti. Questo è appunto ciò che accade al protestante; fuori della sua patria, egli non può più partecipare al culto pubblico. – Un cattolico non è fuor di paese in alcuna delle contrade della Chiesa latina. – Sia lode pertanto ai sovrani Pontefici, che non hanno trascurato verun mezzo per introdurre ovunque la liturgia romana; sicché l’uomo imparziale scorge qui pure una prova novella del loro luminoso zelo per la cattolicità, carattere augusto della vera Chiesa. Ohimè! se i Greci e i Latini avessero avuto uno stesso linguaggio, non sarebbe stato sì facile a Fozio e ai suoi aderenti di trascinare tutta la Chiesa greca nello scisma, attribuendo alla Chiesa romana errori e abusi, di cui non fu colpevole giammai! 3° Per conservare alla Religione la maestà che le conviene. Una lingua dotta, e che è intesa soltanto dagli uomini istruiti, ispira più rispetto del gergo popolare. I più santi misteri parrebbero forse ridicoli, se fossero espressi in sermone troppo famigliare. E questo è cosi vero, che gli stessi protestanti, nemici giurati della lingua romana, se ne sono accorti come gli altri; ma piuttosto che rinunziare ai loro anticattolici pregiudizi, han voluto divenire incoerenti a sé stessi, ed hanno fatto tradurre l’uffizio divino in francese. A meraviglia : ma i Bassi-Bretoni, i Piecardi, gli Alvergnesi, i Guasconi non avevano forse egual diritto di udire l’uffizio divino nei loro dialetti, come i Calvinisti di Parigi di udirlo in francese? Perchè mai i riformatori, così zelanti per l’istruzione del basso popolo, non hanno tradotto la liturgia della santa Scrittura in tutti questi dialetti? Non avrebbe ciò a parer loro contribuito a render la Religione più rispettabile? [Bergier, art. Langue]. Al contrario, la lingua greca in Oriente, la lingua latina in Occidente, doppio idioma del popolo-re, conservano qualche cosa della maestà romana, che conviene perfettamente alla maestà molto più grande della Chiesa cattolica. A una Religione padrona del mondo la lingua dei dominatori del mondo, come a una dottrina immortale una lingua invariabile. Ma se la Religione e la ragione debbono ringraziare la Chiesa cattolica per aver adottate le lingue greca e latina, le scienze non le debbono minor gratitudine. Immortalando la loro favella, la Chiesa ha rese immortali le letterature dei Greci e dei Romani, siccome i Papi hanno salvato, santificandoli, i monumenti dei Cesari. Senza la croce che le è soprapposta, da lungo tempo la colonna Traiana non sarebbe più in piedi. – Del resto, non è vero, che per l’uso di una lingua morta i fedeli si trovino privati della cognizione di quello che è contenuto nella liturgia. Anziché interdir loro questa conoscenza, la Chiesa raccomanda ai suoi ministri di spiegare al popolo le differenti parti del santo Sacrificio, e il senso delle pubbliche preghiere. [Conc. Trid., sess. XXII, c. VlII]. – Di più ella non ha assolutamente proibito le traduzioni delle preghiere della liturgia, per le quali il popolo può vedere nella sua lingua quello che i sacerdoti dicono all’altare. Non è dunque vero, come ne l’accusano i protestanti, ch’ella abbia voluto nascondere i suoi misteri: no, ella ha solamente voluto mettersi al coperto dalle alterazioni, conseguenza inevitabile dei cambiamenti di linguaggio [Bona, Rer. Liturg., lib. I , c. V, p. 53].

Uso del canto. — Dall’idioma della Chiesa cattolica passiamo al suo canto ed esponiamone rapidamente l’origine, l’uso, la bellezza. Il canto è naturale all’uomo, e si rinviene presso tutti i popoli; il canto è essenzialmente religioso, e fin dal principio si vede da per tutto impiegato nei culto divino. Quest’accordo universale prova che il canto è gradevole al Signore, e che è un mezzo legittimo di rendergli una parte del culto che Gli dobbiamo. Ma che cosa è il canto? Esso, risponde un antico e pio autore, è il linguaggio degli angeli [Durandus, lib. V, c. 11]; forse è il linguaggio che l’uomo parlava primi della sua caduta. In questa ipotesi, la nostra attuale parola non sarebbe che un avanzamento di quella parola primitiva. * [Annuali di Filosofia Cristiana, an. 1830]. – Essendo l’uomo stato interamente degradato dal peccato originale, si comprende che la sua favella abbia dovuto subire una degradazione corrispondente. Almeno sembra che il canto sarà il linguaggio del cielo, o dell’uomo interamente rigenerato, poiché non parlasi che di canti e d’armonie tra i felici abitanti della celeste Gerusalemme. Checché ne sia di queste congetture, il canto sarà sempre l’espressione viva e misurata dei sentimenti dell’anima: il suo potere è magico, ed è questo un altro mistero. – Per ricordare all’uomo la sua lingua primitiva, o per insegnargli quella che deve parlare in cielo, la Religione ha consacrato l’uso del canto nei suoi divini esercizi. Ella non vuole che gli uomini si adunino al piede degli altari senza parlare il linguaggio degli Angeli, o la lingua dell’innocenza. L’uomo esiliato ri trova nei nostri templi l’idioma e il cammino della sua patria: re decaduto, quivi pure gli è dato di balbettare la lingua che parlò nei giorni della sua felicità. Si può ideare un insegnamento più utile, un pensiero più ammirabile? Il canto arreca ancora altri vantaggi: esso muove il cuore e lo eccita alla divozione [S. Aug., Confess. lib. VI]; scaccia la tiepidezza nelle pratiche religiose, infonde una santa letizia e inspira alacrità nella recita dell’uffizio divino, che senza ciò potrebbe talvolta sembrar lungo, e ingenerare ben anche della noia [S. Basil., In Psal. I. — Lactant., lib. VI, cap. 21. — S. Chrys., In Psal. 41]; egli è come una professione solenne di fede e di amore, mercé della quale ci rechiamo a vanto d’invocare il Signor Nostro, e di celebrare le sue lodi senza tener conto dei sarcasmi e delle bestemmie dell’empietà [Ruff, Hist., lib. X , c. 35, 37. — Theodoret., lib. III, c. I]; finalmente dissipa le suggestioni del demonio, ci merita i favori del cielo, e rende propizio lo Spirito Santo, come apparisce in moltissimi luoghi delle sante Scritture [Reg. passim. — Daniel. III]. – L’uomo dunque canta, e la Chiesa canta con lui, mostrandosi anche in questo l’erede fedele di tutto ciò che vi ha di vero, di bello, di buono, nelle tradizioni dell’universo, poiché tutti i popoli hanno cantato. Noi non parleremo dei pagani: essi avevano pervertito l’uso del canto: in luogo di celebrare il Dio della natura, essi cantavano i delitti e le avventure scandalose delle loro false Divinità. – Gli Ebrei appena furono riuniti in corpo di nazione, seppero abbellire cogli accenti della voce le lodi del Signore. Chi non conosce i cantici sublimi di Mose, di Debora, di David, di Giuditta, dei profeti? David non si limitò a comporre i salmi, ma stabilì cori di cantori e di musici per lodar Dio nel tabernacolo. Salomone suo figlio fece osservare l’uso medesimo nel tempio, ed Esdra lo ristabilì dopo la schiavitù di Babilonia. – Fin dall’origine del Cristianesimo, il canto fu ammesso nell’uffizio divino, quando specialmente la Chiesa acquistò la libertà di dare al suo culto la magnificenza e il lustro conveniente, in ciò autorizzata dall’esempio di Gesù Cristo e degli Apostoli. La nascita di questo divino Salvatore era stata annunziata ai pastori di Betlemme dai cantici degli angioli. Son noti quelli di Zaccaria, della santa Vergine, del vecchio Simeone; e il Salvatore stesso, durante la sua predicazione, gradì che le moltitudini del popolo venissero incontro a Lui e l’accompagnassero nella sua entrata in Gerusalemme, cantando: Osanna! Sia benedetto colui che viene in nome del Signore, benedetto il regno, che viene, del padre nostro Davide: Osanna nel più alto dei Cieli [Marc XI, 10], e continuassero così fino nel Tempio. San Paolo esorta i fedeli a eccitarsi mutuamente alla pietà con inni e cantici spirituali: “Parlando tra di voi con salmi ed inni e canzoni spirituali, cantando e salmeggiando, coi vostri cuori al Signore” [Ephes. V, 19], e cantava egli stesso nella sua prigione di notte con Sila. – I nostri padri nella fede misero in pratica le lezioni del grande apostolo. Plinio il giovane, avendoli interrogati per sapere che cosa operassero nelle loro adunanze, essi gli risposero, che si riunivano la domenica, per cantar inni a Gesù Cristo,come a un Dio [Epist. XCVIl. — Veggansi pure i Concili di Laodicea, c. XV; di Cartagine, IV, can. 10; di Agide, can. 21; di Aix, can. 152, 135, ecc.]. Lo stesso è avvenuto in tutta la serie dei secoli. I più grandi uomini, che la Chiesa abbia prodotto e la terra ammirato, annettevano al canto una tale importanza, che non disdegnavano di regolarlo da loro stessi e d’insegnarlo agli altri; testimoni di ciò noi abbiamo sant’Atanasio, san Crisostomo, sant’Agostino, sant’Ambrogio, san Gregorio papa. Sant’Ambrogio che regolò il canto della Chiesa di Milano in un tempo in cui i teatri del Paganesimo sussistevano tuttavia, evitò accuratamente d’imitarne la melodia, al che egualmente provvide san Gregorio per la chiesa di Roma, benché questi, riformando il canto in un secolo in cui erano scomparsi i teatri pagani, non trovasse veruno inconveniente a introdurre nel canto ecclesiastico melodie più piacevoli, ma tali per altro che non potessero eccitare alcuna pericolosa rimembranza. – Da ciò è derivata la distinzione tra il canto Ambrosiano e il canto Gregoriano. Il primo è più grave, il secondo più melodioso; il primo è tuttora in uso nella Chiesa di Milano, il secondo è diffuso in una gran parte della Cristianità. San Gregorio prese da tutte le Chiese ciò che vi era di meglio, appoggiandosi sopra il canto degli antichi Greci; egli scelse i mottetti che più gli piacquero, li modificò col suo gusto che era squisito, e li rese ad esprimere con maggior leggiadria i misteri lieti o dolorosi, la dolce tristezza della penitenza o la felicità d’una vita piena di virtù. – Ad esempio di David, Pipino re di Francia, ma specialmente Carlo Magno suo figlio, diedero molte cure al canto religioso. Avendo osservato che il canto Gallicano era meno dilettevole di quello di Roma, mandarono in quella capitale del mondo cristiano de’ chierici intelligenti affinché studiassero e imparassero il canto di san Gregorio, cui ben presto introdussero nelle Gallie. Non però tutte le Chiese di Francia l’adottarono uniformemente alcune non ne accolsero che una parte e lo mescolarono con quello che era anticamente in uso. È questa la cagione della differenza che esiste tra il canto delle diverse diocesi ‘ Leboeuf, Trattato storico del canto, c. 3].

Bellezza del canto. — Tuttavia questo canto, quale è oggi, quantunque abbia fatto grandi perdite nel passare pei secoli barbari, conserva tuttora bellezze di primo ordine, ed è, per l’uso cui è applicato, superiore di molto alla musica. Anche non aiutato da ritmo o misura offre agl’intelligenti imparziali un carattere di grandezza, una melodia piena di nobiltà, e una feconda varietà d’inflessioni. Vi ha egli infatti cosa più sublime del canto solenne del Prefazio e del Te Deum? Che di più commovente delle lamentazioni di Geremia, e più giulivo degl’inni di Pasqua? Ove trovare concenti più maestosi del Lauda Sion, o più terribili del Dies iræ? L’uffizio de’ morti è un capo d’opera, e pare di udire il sordo eco delle tombe. Nell’uffizio della settimana santa è notevole la Passione di san Matteo; il recitativo dello Storico, le grida della popolazione Giudaica, la nobiltà delle risposte di Gesù formano un dramma patetico. Pergolesi ha dispiegato bensì nello Stabat Mater la ricchezza dell’ingegno e dell’arte, ma ha egli forse perciò superato il semplice canto della Chiesa? Il carattere essenziale della tristezza consiste nella ripetizione del medesimo sentimento, e per così dire nella monotonia del dolore; e ciò non ostante esso ha variato la musica ad ogni versetto. Diverse cause possono eccitare le lacrime, ma le lacrime hanno sempre un’eguale amarezza; d’altra parte poi raramente si piange ad un tempo stesso per una moltitudine di mali, poiché quando le ferite sono molteplici sempre ve ne ha una più acerba delle altre che finisce per assorbire le minori. Quella uniforme melodia ad ogni strofa, non ostante la varietà delle parole, imita perfettamente la natura; l’uomo, che soffre, fa vagare i propri pensieri sopra diverse immagini, mentre il fondo delle sue afflizioni rimane lo stesso. – Pergolesi ha dunque disconosciuto questa verità, fondata sopra la teoria delle passioni, allorquando non ha voluto che un sospiro dell’anima rassomigliasse ad un altro sospiro che l’aveva preceduto. Egli ha obliato che dovunque è varietà ivi è distrazione, e dovunque è distrazione ivi non è tristezza [Genio del Cristianesimo, t II, c. 11]. – Che diremo dei salmi? La maggior parte sono sublimi per gravità; specialmente il “Dixit Dominus Domino meo”, il “Confitebor tibi”, e il “Laudate pueri”. L’ “In exitu” racchiude un misto indefinibile di gioia e di tristezza, di melanconia e di speranza; il “Kyrie eleison”, il “Gloria in excelsis” e il “Credo” delle Solennità sublimano lo spirito; il “Veni Creator” esprime in guisa ammirabile le ardenti suppliche d’un cuore che brama di venire esaudito. – Qual meraviglia dopo di ciò se il nostro canto sacro fa sì vive impressioni sopra uomini che hanno orecchio e cuore? – « Io non poteva saziarmi, o mio Dio, esclama sant’Agostino, di ammirare la profondità de’ vostri disegni in tutto quello che avete operato per la salute degli uomini, sicché la contemplazione di tante meraviglie riempiva il mio cuore d’inenarrabile dolcezza. Oh! qual pianto mi ha fatto spargere la melodia degli inni e de’ salmi che si cantavano nella vostra Chiesa! e quanto era io vivamente commosso all’udire risuonare nella bocca dei fedeli le vostre lodi! A misura che quelle parole tutte divine colpivano le mie orecchie, le verità da loro espresse s’insinuavano nel mio cuore, e l’ardore dei sentimenti di devozione ch’esse vi eccitavano faceva scorrere dai miei occhi un torrente di lacrime, ma di lacrime deliziose, che formavano allora il maggior piacere della mia vita » [Conf. Lib. 6]. – E per citare un uomo ben diverso da Agostino, è noto come più volte sia stato veduto Gian-Giacomo Rousseau assistere al Vespro in san Sulpizio, per provarvi quel divino entusiasmo da cui un’anima sensibile non può difendersi, quando ella prenda parte con qualche raccoglimento alle ecclesiastiche melodie, che, unite all’accordo di un popolo immenso, e alla maestà dei riti sacri, assumeva in quel superbo tempio un carattere capace di elevare l’anima fino al cielo, e di ammollire il cuore anche di uno scettico. Il semplice recitativo delle nostre preghiere, faceva su quell’uomo una tale impressione, ch’ei non poteva udirlo, senza sentirsi commosso fino alle lacrime. – « Un giorno, scrive Bernardino di Saint- Pierre, essendo io andato a passeggio con Rousseau al Monte-Valeriano, giunti alla sommità formammo il progetto di chieder da pranzo agli eremiti che vi dimoravano. Erano pochi istanti prima che si ponessero a tavola, e secondo il consueto stavano tuttora in chiesa; sicché Gian-Giacomo Rousseau mi propose d’entrare e di farvi noi pure le nostre orazioni, mentre gli eremiti recitavano le litanie della Provvidenza che sono bellissime. Fatta la nostra preghiera in una cappelletta, e quando gli eremiti si furono avviati al refettorio, Gian-Giacomo mi disse con emozione: Ora io sento tutta la verità di quel concetto del Vangelo: «Quando parecchi di voi saranno adunati in mio nome Io sarò in mezzo a loro ». In questo luogo si respira un sentimento di pace e di felicità, che penetra tutta l’anima 2 » [Etudes de la Nature, t. III, p. 508].

Preghiera.

O mio Dio, che siete tutto amore, io ringrazio di avere stabilito tanti mezzi di parlarmi al cuore; non permettete che io rimanga insensibile alla vostra voce. Mi propongo di amar Dio sopra tutte le cose, e il prossimo, come me stesso, per amor di Dio, e in prova di questo amore, io canterò col cuore e colle labbra le lodi di Dio.