J.-J. GAUME: La profanazione della DOMENICA [lett. VII]

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LETTERA VII.

LA PROFANAZIONE DELLA DOMENICA:

ROVINA DEL BENESSERE.

4 maggio.

I.

Signore e caro amico,

Più m’innoltro io nell’impresa, che la vostra amicizia in’ impose, più l’abisso, il quale io scandaglio, diviene largo e profondo. – Giaschedun passo mi conduce alla convinzione ragionata, che non si può toccare ad una sola delle basi date pel Cristianesimo alla società, senza cagionare uno sconvolgimento generale. In particolare, mi torna evidente come il giorno, che non si può violar pubblicamente la grande legge del riposo ebdomadario senza trasformare immantinente il suolo d’una nazione in un vasto campo di rovine [“Qui offendi! in uno factus est omnium reus”. (Jacob., II, 10). La rovina del benessere, intorno a cui io voglio ragionare oggigiorno, ne è una novella prova. Perché attendete voi alle opere servili nella domenica? Rivolgete a tutti i profanatori del santo giorno quest’interrogazione, essa tira invariabilmente in sulle loro labbra la seguente risposta: « Non posso io fare altrimenti. — E perché? — Perché io sono astretto a contentare le mie pratiche; perché io sono obbligalo a sostenere la concorrenza; perché è necessario che sia pur in istato di pagare le mie cambiali al loro scadere; perché bisogna che provveda io a’miei affari, e che io ottenga qualche beneficio». – In altri termini, questa risposta significa: Io lavoro nella domenica, perché io ho paura di perdere, o di non abbastanza lucrare; io ho paura di non giungere al benessere cui ambisco, o di non conservar quello che posseggo, o di cader nel bisogno. – Essa è cosa dunque assai evidente, che l’interesse nella maggior parie è il vero motore della profanazione della domenica. Ora, giammai non fu più chiaramente dimostrato, che l’iniquità mentisce a se stessa. Voi verrete a riconoscere che il vostro calcolo è falso, sotto ogni rapporto, assolutamente falso, cioè: 1° che il lavoro della domenica non procura alcun benessere di sorta; 2° ch’è la cagione la più feconda del malessere e della miseria.

II.

Sulle prime, il lavoro della domenica non procura alcun benessere. Per far crescere un albero, una pianta, non è sufficiente cosa di coltivarli ed irrigarli, fa d’uopo che Iddio loro impartisca l’accrescimento, regolando con saviezza l’aria, la rugiada, il freddo ed il calore. Venendo una cosa sola di queste a mancare, tutte le pene del giardiniere sono perdute. Parimente, per acquistar del benessere e guadagnar del danaro, non basta dedicarsi al lavoro, ma abbisogna che 1’Altissimo lo benedica e lo faccia prosperare: voler fare senza di Lui è fabbricare sopra l’arena. Il mortale, qualunque stratagemma metta in campo, non perverrà mai ad eludere questa legge. – Ora, l’Onnipotente non benedice, né giammai benedì, né benedirà mai il lavoro della domenica. La ragione n’è che il lavoro della domenica è un oltraggio alla sua bontà ed una rivolta contra la sua autorità. Esso è un oltraggio alla sua bontà. Questo Padre, che adorna i gigli de’campi, che nutrisce gli uccelli’ del firmamento, ci disse: Io so meglio di voi stessi, che voi abbisognate di vestimenta e di nutrimento; compiete in prima di tutto la mia volontà; lavorale, pregate, riposatevi quando ve lo comando; e state’ in pace, la mia bontà vi elargirà ciò, di cui voi mancate; in altri termini: lavorate, come Io lo voglio, sei giorni della settimana, ed io vi nutrirò nel settimo. Egli lo proferì; e da seimila anni tiene la parola. Io sfido di citar nella storia antica, o nella storia contemporanea un uomo, una famiglia, una nazione che sia stata priva del necessario per aver rispettato il riposo della domenica. Se altrimenti s’avesse la cosa, Iddio sarebbe Egli un padre? Non sarebbe Egli il più ingiusto di tutti i tiranni? E chè! Mi vieta Egli di lavorare, e perché io a Lui ubbidisco, Egli mi lascia sprovveduto del necessario, mi spoglia Egli d’un legittimo benessere, mi punisce egli di mia docilità! Egli, Egli stesso dunque eccita la violazione di sua legge. Nel delirio di suo orgoglio Proudhon pronunciò egli giammai una più orribile bestemmia! Esso è una rivolta contra la sua autorità; novella ragione, per la quale Iddio non lo benedice, nè giammai Io benedì, né giammai lo benedirà. E chè! L’Eterno condanna, l’Eterno colpisce di castighi terribili la rivolta contra dell’autorità umana, la rivolta de’ sudditi contro ai loro principi, la rivolta de’ figliuoli contro ai loro genitori, e santificherà Egli con benedizioni la rivolta contra se stesso e contra la sua legge? Evidentemente la cosa così non può succedere: La ragione lo predica, ed i fatti lo dimostrano. Affine di render la prova più perentoria, estendo io la questione amplissimamente, e paragonando le nazioni alle nazioni, così enuncio: se il lavoro della domenica è una sorgente del benessere, la nazione, la quale lavora in domenica, deve, uguale del resto in tutt’altra cosa, godere d’un maggior benessere che la nazione la quale non lavora: ed anche la stessa nazione che non attendeva al lavoro ieri, e v’attende oggi, deve esser più ricca oggi, che non ieri: vediamo.

  • III.

Altre fiate la Francia era il modello de’ popoli pel rispetto del giorno sacro: la sua fedeltà la aveva forse impoverita? L’avea essa impedita di pervenire a quel grado di benessere e di prosperità che formava la sua gloria, e’ il legittimo soggetto dell’ambizione de’suoi vicini? Dopo che ella calpesta co’piedi la legge divina, è ella divenuta più ricca, più avventurosa? I suoi tributi sono essi meno gravi? Le sue finanze più prospere? Il suo debito meno considerabile? Il benessere generale s’aumentò esso? Gli utopisti hanno un bel cianciare, sovra venti solfa composti di cifre aggruppate a modo loro, il benessere sempre crescente del popolo emancipato; il popolo emancipato nulla vi crede, e giammai si trovò egli più malcontento. – « Nel fallo, dice un personaggio cosi giudizioso osservatore, che spiritoso scrittore, per nulla è provato che gli oggetti di prima necessità siano presentemente più abbondanti, ed a più buon mercato che altre volte. Ciò che si fa colla meccanica, ciò che è di pura industria, offerisce sotto questo rapporto un magnifico perfezionamento: si comprano a vilissimo prezzo delle berrette di cotone, delle zimarre, dei giornali, de’pulcinella e delle spille. Ma pagasi men caro che cento anni passati il pane, la carne, il vino mediocre, i legumi, le uova, i frutti ed il latte? Il povero popolo ha egli più abbondantemente ed a più tenue costo legna pel suo inverno? Spende egli meno in olio ed in candele? Ottiene egli con lo stesso valsente un migliore alloggio? Ha egli vestimenta più confacenti nell’incrudescente stagione? » Sopra tutto ciò si danno allegazioni affermative; ma prove non ne conosco io, e credo che sarà più facile stabilire il contrario. E poi, quando si sarà fatto il conto de prezzi assoluti, bisognerà venire alla comparazione de’ salari, e dopo questa, a quella della quantità del lavoro domandato col numero delle braccia lavoranti; e se noi vogliamo fondatamente ponderare i mali della concorrenza artigiana e commerciale, informarci di quello che guadagnano odiernamente la più parte delle femmine in dodici ore di lavoro all’ago; finalmente computare i giorni in cui non si lavorò dalla più parie degl’industriali, noi meritamente dubiteremo, che la condizione delle classi povere sia di presente comparativamente prospera, e comprenderemo come i migliori, e i più ragionevoli si lagnino di loro sorte assai più amaramente, che non le generazioni precedenti. » – L’aumento del benessere, del quale cotanto ci si parla, è pertanto almeno assai controvertibile; ciò che non lo è punto, è l’accrescimento del numero de’ poveri. Stante che nel 1789 la Francia, fedele all’osservanza della domenica, non contava che quattro milioni di poveri sopra ventisei milioni di abitanti; essa ne annovera ora sette milioni sopra trentacinque milioni di anime. Ciò che non è parimente disputabile, si è che la consumazione della carne era alla medesima epoca assai più considerevole, che non lo sia oggi. Per citarne un sol esempio, la consumazione particolare della città di Parigi era, nel 1789, di 25 per 100 più forte che nel 1845. Se dunque, come si dice, si mangiava meno di pane, egli è perché si pascevano più di carne. A’ nostri dì noi camminiamo inversamente, ed il termine del progresso sarà una popolazione condannata a nutrirsi di tartufi o di pane asciutto.

IV.

Dopo aver paragonato la Francia con se stessa, paragoniamo le nazioni colle nazioni. Sono trascorsi sessanta anni; tutte le nazioni civilizzale dell’universo osservavano religiosamente la domenica; una sola eccettuata, tutte 1’osservano ancora. – L’eccezione, è la Francia. Ora, la sua posizione geografica, la fertilità del suo terreno, l’industria de’suoi abitanti, 1’attività loro, lo stesso loro genio, non la rendono inferiore a niun popolo. Niuna sollecitudine religiosa ne distrasse il pensiero di lei dal lavoro e dalla speculazione, e ciascun anno essa ebbe sessanta giorni di lavoro di più degli altri. Se il non cessare dalle opere servili nella domenica è una fonte di ricchezze, certamente il popolo profanatore deve essere oggi il primo pel benessere, per la prosperità: eppure si vede affatto il contrario. – Imperocché se tutti i popoli si ingrandirono in forza e in territorio, in ricchezza, in tranquillità ed in benessere, la Francia decadde sotto tutti i rapporti. A chi ne dubita, io consiglio di legger l’opera che ha pubblicalo, non è guari, uno de’vostri più savi colleghi, il sig. Baudot. – La decadenza morale e materiale della Francia, dopo sessanta anni, v’è scritta in fatti ed in cifre, che sfidano tutti gli ottimisti, tutti gl’increduli e tutti gli utopisti.. Ma, senza andar tanto lontano, è sufficiente d’aprir gli occhi e di riguardare. – Per restringere l’orizzonte, vi ripeterò di osservare solamente l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Perché continuano a testimoniare il rispetto il più edificante pel giorno sacro del riposo, questi due popoli, a1 quali noi non la cediamo sotto nessun altro rapporto; son essi meno di noi i due re della fortuna e dell’opulenza? Il commercio loro è meno fiorente del nostro? La marina loro è meno possente e meno bella? L’industria loro meno avanzata? L’agricoltura loro meno intelligente? Il benessere loro meno generale e meno solido? Se il quadro a voi paresse troppo angusto, percorrete pure, ed oso novellamente sfidare tutti i cercatori di citare una sola persona, una sola famiglia, una sola provincia, una sola nazione che sia stata dalla santificazione della domenica impoverita od impedita d’arricchirsi.

V.

Il mio compito non è peranco finito; imperciocché soggiunsi che la profanazione della domenica è la cagione la più feconda del malessere e della miseria. – S’appelli egli uomo o popolo, il profanatore del sacro riposo butta a’ piedi il divieto divino per l’ingordigia d’un guadagno temporale: la paura di perdere, o la brama di conseguire, tale è, sotto un nome o sotto un altro, il motivo del suo colpevole lavoro. Qui eziandio s’inganna; si dimentica che il voler edificare quando Iddio lo proibisce, è un coacervare rovine. Io lo so; perché non vien sempre immediatamente percosso nel suo benessere, orgogliosamente dice: ho faticato nella domenica, e qual disastro m’è mai sopravvenuto? Attendiamo un poco. I popoli d’Italia hanno un proverbio, che riporta: Iddio non paga tutti i sabbati, ma egli giammai fa bancarotta. Dappoi il 1789, la Francia non cessa dal replicare: Io lavorai nella domenica, e quale disgrazia mai m’accadde? In che il mio benessere ne soffrì? Eccone la risposta: Di poi il 1789, non havvi sorta di prove, di umiliazioni, di dolori, di miserie e di calamità, cui la Francia non abbia subito. La terra del continuo ha tremato sotto i passi suoi, questa trema ancora: rivoluzioni, alle quali niune si possono nella storia pareggiare, o agguagliare, coperta l’hanno di rovine, di sangue e di ossami. Sopra della testa di lei il cielo è divenuto di bronzo, e flagelli d’ogni genere si sono rovesciati sopra la stessa. Niuna altra nazione venne cotanto sovente straziata dalla guerra civile; due volte venne essa visitata dalla peste; due volte la carestia ha immerso nelle angosce della miseria quelli de’ suoi figliuoli, che codesta non consegnava agli orrori della fame; durante cinque anni, lo straripamento de’ suoi grossi fiumi ne ha desolalo le città e le campagne; finalmente, un’inondazione tale che giammai a memoria d’ uomo si è veduta, ha portalo il disertamento nelle sue più doviziose provincie, e messo al colmo la generale cospirazione degli elementi contro al popolo profanatore della domenica. – Nonostante tutto ciò, la Francia accecata continuava tutto sacrificare al culto dell’oro, e ripetere con burbanza: lavorai io nella domenica, e quale disgrazia mi colse? Durante diciotto anni, il suo re non pronunciò un discorso ufficiale senza felicitarla della sua prosperità, ogni giorno crescente; senza glorificare il culto della materia, e senza incoraggiarla nella via da essa intrapresa. L’eterno lascia buccinare lutti questi piaggiatori; egli lascia agire tutti gli operai d’ iniquità; egli si tace intorno alla profanazione della sua legge. La sua ora suona; in un batter d’occhio, senza che si possa altrimenti spiegare, il re della materia insieme a tutta questa prosperità svanisce come una bollicina di sapone allo spirar del venticello. Lo spavento diventa generale, la capitale s’allerrisce, la confidenza si ritira, il commercio è conquassato, il lavoro è in feria, tutte le fortune vacillano, i fallimenti piovono come la grandine in un giorno di uragano, la bancarotta pubblica minaccia d’inghiottire, non solo quanto vi resta di prosperità, ma quanto v’è di bene, cosicché nessuna crisi cotanto violenta, cotanto universale, cotanto durevole aveva giammai così torturato la Francia, di cui il bilancio afferma esservi dieci bilioni di perdita in tre giorni! Tal è il pretto beneficio della profanazione della domenica durante sessanta anni.

VI.

Che ne pensate voi? e sopra qual motivo attribuite voi le calamità della Francia alla profanazione della domenica? Ecco quello che migliaia d’uomini, grandi e piccoli, mi gridano con un cipiglio sdegnoso, con uno spregevole alzar di spalle, e con beffarde, sardoniche, squarciate risate. Ciò che io ne so? Voglio pur contarvelo: Io so, che non si dà effetto senza cagione; Io so, che Iddio governa le nazioni secondo leggi egualmente giuste ed invariabili; Io so, che infra simili leggi trovasene una, che intima : Il colpevole sarà punito per dove peccò [“Per quae peccat qui, per haec et torquetur”. Sap., XI, 47.]. – Io so, che l’ingordigia del lucro è la vera cagione della profanazione della domenica; Io so, che le perdite temporali sono la punizione adequata della cupidità; lo so adunque, che le calamità delle nostre finanze sono il salario legittimo della profanazione della domenica; Io lo so e per le leggi della logica, e per la nozione tessa della sapienza divina. – Non sembra forse a voi stesso logicissimo e conformissimo alla sapienza infinita di guarire il male per un rimedio che lo estingue nella sua cagione? – Ecco quello che io so: ecco ora ciò che io ignoro: Io non so, che vi siano effetti senza cagione; – Io non so, che Dio abbia abdicato; Io non so, che la legge, la quale condanna il mortale ad esser punito dove peccò, abbia cessato d’essere in vigore; Io non so, perché Iddio non lascerebbe le ritorse temporali ad un popolo, che vuole arricchire malgrado Lui; Io non so, perché l’Altissimo sarebbe meno abile d’un medico ordinario, la cui prima cura è di proporzionare il rimedio alla malattia; Io non so, perché, umanamente parlando, il popolo profanatore della domenica è dopo sessanta anni il più sconcertato, il più agitato, il più inquieto, e, comparativamente, il più infelice di tutti i popoli. – Io non so, perché, sempre umanamente discorrendo, l’Inghilterra, e gli Stati Uniti, i quali, sotto nessun rapporto, non valgono meglio della Francia, ma de’quali il rispetto pel giorno del Signore ci copre di rossore, fruiscano d’una stragrande materiale prosperità e fortuna. Ecco quello che io non so, e ciò, che sarei vago d’apprendere da nostri grandi personaggi. – Voi comprendete del resto, signore e caro amico, che io sono alienissimo dall’attribuire esclusivamente alla profanazione della domenica tutti gl’infortuni della Francia. Io ho voluto solamente rendere a questa cagione di rovina la troppo larga parte, che le tocca nei nostri malanni. Determinare l’estensione della sua influenza noi posso io; le mie lettere precedenti vi mostrarono ch’essa è incalcolabile. – Se dunque i popoli o gli uomini profanatori della domenica vogliono intendere un consiglio, io loro direi: “Guardatevi; voi v’attaccate con Chi è più forte di voi. Non si fa punto giuoco impunemente di Dio; voler voi arricchire senza Iddio, e malgrado suo, quest’è tentar l’impossibile, quest’è provocar il fulmine. Gradite, ecc.

 

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.