J.-J. GAUME: La profanazione della DOMENICA [lett. VI]

LETTERA VI.

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LA PROFANAZIONE DELLA DOMENICA

ROVINA DELLA LIBERTÀ.

25 aprile.

I.

Signore e caro amico,

Avete voi la caritatevole ed interessantissima idea di divertire un certo numero dei vostri colleghi, e di veder da vicino i loro smodati sghignazzamenti d’incredulità; o meglio ancora, siete voi solleticato dal prurito di sentirvi tacciare voi stesso di reazionario, e me di gesuita? – In questo caso v’indico un mezzo di conseguire infallibilmente l’uno e l’altro. – Comunicate a’ quei certi tali signori, i quali seggono in sulla montagna rossa, ed anche in sulla montagna bianca, questa lettera, dove io pretendo stabilire che la profanazione della domenica è la rovina della libertà. Siccome deggio io attendermi che un fitto nembo d’infuocale obiezioni d’ogni lato mi si scaglierà addosso, così voi giudicherete atto prudente, se comincio io con mettermene al coperto: nelle guerre di discussione il vero scudo è la logica. Per essere in tutta regola, la logica proceder deve da definizioni inespugnabili, e svilupparsi in induzioni rigorosamente concatenate le une colle altre: egli è di somigliante guisa che la rosa spunta dal bottone, e questo dalla semenza. Fermati sì i miei preliminari, vengo io alle definizioni, e domando: Che cosa mai è la libertà? Quali ne sono i limiti? quale n’è la base, e la condizione?

II.

Noi possiamo, signore e caro amico, dirittamente ripetere della libertà, ciò che vi diceva d’una celebre istituzione: « Molto ne parlarono, ma assai poco l’hanno conosciuta. In sulle prime, a’ giorni nostri incontransi pel mondo milioni di mortali i quali riguardano la libertà come il diritto di fare tutto quello che si vuole. Se così si passasse la cosa, mi spiccerei di presto presto stringere il mio bordone, ed intascare il mio breviario, per andar ad abitare l’impero della luna; e ciò per un’eccellente ragione: imperciocché diverrebbe inabitabile la terra. – Ammettiamo, in effetti, che la libertà sia il diritto per ciascuno di spacciare, e fare tutto quello che gli frulla pel capo, senza altra norma che i suoi capricci; supponiamo di seguito un paese godentesi di simile avventurosa libertà. Ecco un uomo, il quale lacera la vostra riputazione, come una fiera affamata sbrana la sua preda. Voi gliene chiedete la ragione. — La ragione? E questa, che io son libero di far quanto più mi piace. — Ah! tu sei libero di squarciar la mia riputazione, e di questo ti compiaci! Io sono dunque anche libero di deturpar la tua, e vi trovo il mio diletto: ed ecco due cittadini, i quali, in virtù della libertà, s’avventano tutte le ingiurie immaginabili. – Eccovene un altro, il quale abbordandovi con amorevole aria , vi infligge un violento mostaccione, e vi ruba la vostra borsa. — Birbante! gli dite voi, non contento di percuotermi, tu mi derubi? Ehi sì, io sono libero di farlo, e ciò mi piace.— Ahi tu sei libero di schiaffeggiarmi e di spogliarmi? Io dunque sono altresì libero di renderti la pariglia. Ed ecco due cittadini i quali, in virtù della libertà, si ripicchiano come de’ pugilatori, e si depredano come de’ briganti: o la libertà concede somiglianti diritti, o no. Se essa il dona, con senno io premisi che la contrada, sommessa al suo impero, è piena di gravissimi pericoli; se essa non li dà, bisogna necessariamente riconoscere che la libertà si rinchiude in certi limiti.

III.

Quali sono questi limiti? Prima di dirlo, conchiudiamo che la libertà non è, né può essere il diritto di tutto fare. Assai più, benché l’uomo libero possa operar il bene ed il male, il potere d’agir male nulladimeno non è essenziale alla libertà, altrimenti Iddio non sarebbe libero, o la sua libertà sarebbe meno perfetta di quella del mortale; altrimenti ancora, tutte le leggi delle nazioni sarebbero dei mostruosi attentati, giacché tutte hanno come scopo d’incatenare la possanza di fare il male, ed il sig. Proudhon avrebbe ragione di sostenere che l’anarchia è lo stato normale dell’uomo. La libertà, non consistendo né nel potere d’eseguir tutto ciò che uno vuole, né nella facoltà di commettere il male, essa deve pertanto definirsi: la possanza di far il bene, o ciò che amo meno, il diritto di fare quello, che non nuoce ad alcuno. – Mi domanderete ora voi quali sono i limiti della libertà?! limiti dalla libertà, vi diceva, sono i diritti altrui Per altrui, io intendo Dio, il prossimo e noi medesimi, se voi lo permettete. Epperciò colui solo è libero, e merita tale esser denominato, che, nelle sue parole e nelle sue azioni, rispetta ogni diritto, od in altri termini, che compie tutti i suoi doveri verso di Dio, de’ suoi simili, e di se stesso. – Questi doveri hanno la ragione e regola loro nella volontà infallibile dell’Eterno. Donde questa conseguenza inevitabile, che l’uomo, o il popolo il più libero è quegli che rincontra il meno di ostacoli per compier la volontà dell’Altissimo in ogni cosa, e che la compisce il più fedelmente. – Tale è la definizione insieme cotanto sublime, e semplice che la Scrittura stessa ci presenta della umana libertà: servire a Dio, dice questa, egli è regnare [“Servire Deo regnare est”.]

IV.

Ora, due ostacoli permanenti s’oppongono a questa possanza del bene, e tendenti conseguentemente a violar la libertà dell’uomo: vale a dire le proprie passioni e le passioni altrui. Egli è un fatto, che ciascun mortale si trova inquietato nel cerchio de’ suoi doveri, che egli prova, non so, quale secreto prurito d’uscirne, e così usurpare in sui diritti dell’Onnipotente, de’suoi simili, e della sua anima stessa in favore del suo corpo. Per non esser vinto è costretto di rimanere costantemente sotto le armi. Anzi, tale è la violenza della lotta, che i più valorosi, travagliati di codesta, gridano gemendo : Infelice che io mi sono! Non faccio il bene, il quale voglio, ed opero il male, che io ho in odio (“Non enim quod volo bonum, hoc ago: sed quod odi malum, illud facio”. (Rom . VII, 45.). – Infino a tanto che il mortale non è pervenuto a signoreggiare codeste possanze focose, egli è schiavo. In questa qualità, voi lo vedete trascinarsi colla corda al collo verso tutto ciò che vi è d’opposto al dovere, e la sua libertà non sembra più essere che la funesta possanza di eseguir il male, ed accade per anco che più non la sente, che più non la comprende che per essa, ed in questo strano rovesciamento egli appella impedimento, tirannia, dispotismo tutto quello che tende a liberare in lui la possanza del bene, restringendo in catene quella del male. Allora, qualunque sia il suo nome, ogni autorità lo grava; egli l’insulta in se stesso, egli l’abbomina, egli ad essa maledice. Per toglierle il prestigio della medesima, egli la mette in derisione, ed il suo più ardente anelito è di vedere il giorno, in cui potrà spezzarne Io scettro, e gettarne i pezzi nell’insanguinato fango dei crocicchi. Che un uomo, che un popolo, che un mondo riescano in questa cieca lotta contro la propria libertà loro: tostamente le passioni erette in leggi diventano novelli e formidabili ostacoli alla libertà di tutti. Il bene più non si può compiere, che a pericolo della fortuna o della vita; e il martire solo rimane indipendente.

V.

È cosa dunque evidente che l’affrancamento dalle passioni, o la libertà interiore è la sorgente della libertà esteriore. – Una persona, un popolo corrotto, che parla di libertà, è un cieco che ragiona de colori; un uomo, un popolo corrotto che si vanta di pervenire alla libertà rovesciando Iddio da’ suoi altari, i Re dal trono loro, è un forsennato, il quale schianta le dighe d’un fiume per impedirne l’inondazione. Signor no, e mille volle no, la libertà giammai ebbe per madre, né per sorella la corruzione, giammai per piedestallo un pavimento imbrattato di sangue, giammai per malleveria uno straccio di caria in sul quale è scritto, finanche in aurei caratteri: Libertà, ugualità, fraternità. La libertà è figliuola del coraggio e compagna della virtù : essa posa la sua base ne’ profondi ripostigli del cuore. Qualunque cuore immune dalla tirannia delle passioni è libero ; se esso non trovasene esente, può usurpare il nome della libertà, ma la realtà gli manca: quello non ha che la licenza, e la licenza è proprio la schiavitù. In una parola, nei nostri tempi d’illusione e di menzogna, permettete voi, che v’insista sovra di questo punto essenziale: la corruzione è la tirannia de’ vizi; la tirannia de1 vizi è la schiavitù delle anime; la servitù delle anime è il presagio infallibile della schiavitù dei corpi. – Ogni popolo corrotto è schiavo del diritto; esso è un armento esposto sopra una piazza di fiera, il quale non attende che il compratore. Voi sapete che l’Àbd-el-Kader di sua epoca, Giugurta, gettò codesta fulminante predizione in sulla faccia della regina del mondo, e Giugurta diceva il vero; e la sua parola non invecchiò punto: di modo che dobbiamo noi tener per certo che il popolo il più vicino alla schiavitù è il popolo il più corrotto, a meno che sia condannato esso a perire [“Urbem venalem et mature perituram si emptorem invenerit” (Salt. in Jugurth.)].

VI.

Ma chi può affrancare i figliuoli d’Adamo dalla tirannia delle passioni? Nelle epistole precedenti, noi lo abbiamo, anzi meglio abbiamo noi dimostrato, che una cosa sola n’è capace: la Fede. Ora non evvi Fede senza religione, e non vi è religione colla profanazione della domenica: noi ne abbiamo pure allegato la prova. Ammonimento pertanto al secolo nostro che non desidera che libertà, non discorre che di libertà, non travaglia se non per la libertà, e dice di non poter vivere senza libertà. Ebbene nel suo linguaggio e nel suo culto egli è sincero, o no. Se egli è sincero, che prenda dunque i mezzi per toccarne il fine: li conosce ora. Né le leggi, né le forme governamentali, né le rivoluzioni, né le utopie, né i ragionamenti, né le agitazioni febbrili, né gli ammutinamenti, né le barricate cangeranno la natura delle cose: la libertà è incompatibile colla corruzione; la corruzione regna dappertutto ove non domina la fede; la fede cessa dal dominare dovunque la legge sacra della domenica è disprezzata. Infra i due scelga, abbracci, o rigetti. Se esso, non è sincero, io ho nulla a replicargli: il solo sentimento, che possa inspirare, è una profonda pietà.

VII.

A questo punto di vista generale, e come rovina della religione, la profanazione della domenica è dunque realissimamente la rovina della libertà. Essa lo diventa ancora per una ragione più diretta e più sensibile. Di fatto, la Costituzione proclama la libertà dei culti. – Se non è questo un vano parolone, niuno ha il diritto d’insultare al culto cattolico, il quale, al postutto, è il culto della maggiorità. Con assai più di dirittura poi, niuno ha diritto d’impedire i cattolici di compiere i precetti di loro religione. – Or bene, io vi domando, sig. Rappresentante, che cosa è la profanazione della domenica, se non un atroce insulto gettato periodicamente in sulla Caccia del Cattolicesimo, un oltraggio odioso fatto a tutto ciò che havvi de’ cristiani fedeli? Eegli nel maltrattarli o nel lasciarli malmenare in tutto quello che hanno essi di più sensibile, che il governo spera guadagnarsi le simpatie delle popolazioni religiose delle nostre provincie? Il suo interesse non gli comanda forse d’usar loro riguardo? Non è forse ancora qua che ritrovatisi i principi d’ordine, di fedeltà, d’ubbidienza, ultimo argine all’inondazione che minaccia d’invaderci? – Qui non sta il tutto; la profanazione della domenica è un attentato diretto alla libertà d’una folla di negozianti, appaltatori ed operai. Codesta forza i negozianti cattolici a trasgredir la legge sacra della domenica aprendo i magazzini loro, inchiodandoli al loro banco, per vendere a chi si presenta, sotto pena di perdere le pratiche loro, di mancare la vendita, e di non esser in grado, nel giorno della scadenza, di soddisfare ai loro impegni. Codesta vi sforza gli appaltatori, e l’industriale sotto pena di soccombere alla concorrenza esuberante, che faranno altri confratelli meno fedeli di loro. Soprattutto codesta vi sforza l’operaio. — Domani è domenica, non verrò io a lavorare, dice quegli il sabato sera al suo padrone, ricevendo la sua paga. — Quest’appartiene a te ; ma, se tu non ci torni domani, tu puoi cercare lavoro altrove: e’1 povero padre di famiglia, che campa soltanto in grazia di sue braccia, e con queste sostenta i suoi figliuoli, si vede costretto di profanare il giorno di domenica. Se fossero cristiani, si va ciaramellando, così questi, come gli altri profanatori della domenica, essi saprebbero bene conservar la libertà loro, e tenersi per regola la sentenza del loro maestro nella fede: esser meglio ubbidire a Dio, che agli uomini; quindi, rifiutandosi di vendere o lavorare, s’abbandonerebbero alle cure della Provvidenza. Voi comprendete facilmente, che io sono lontano d’applaudire alla condotta degli uni o degli altri. Ma bisogna convenir parimente che il costringimento morale, col quale si angariano, non tralascia però di diventare una violazione della libertà. – Ignorasi forse, che il lavoro rigettato dagli operai buoni cristiani, sarà offerto ad operai meno fedeli, e verrà accettato? Non è cosa forse chiara, che le pratiche concorrono di preferenza presso colui che soddisfa più prontamente alle loro domande? – Ora, è cosa morale il danneggiare ne’ suoi interessi il cristiano fedele alla sua religione, ed assicurare un guadagno a chi si burla delle leggi religiose? – È cosa giusta, e ciò a disprezzo della stessa legge civile, di porre in ogni domenica i cattolici tra il loro interesse e il loro dovere? È egli permesso d’esporli ad una tentazione permanente, alla quale nonostante la loro volontà, un grandissimo numero si lascia trascinare? Il governo se tollera un cotale abuso, o l’autorizza pel suo esempio per anche, è esso il protettore sincero della libertà? – È desso il custode leale della Costituzione? Giudicatene voi. Frattanto, irremovibilmente viene statuito» che la profanazione della domenica è la rovina della vera libertà, che codesta trucida nel suo principio, e la violazione in flagrante della libertà religiosa, consacrata dalle leggi; di maniera che codesta tende a far di noi un popolo di schiavi. In grazia di codesta, ricchi e poveri sono schiavi. Codesta ribadisce al collo loro le catene delle passioni, come il sonaglio al piede dello schiavo, il negoziante è schiavo; codesta lo lega al suo banco, come il janitore janitor dei Romani alla guardia della casa. L’appaltatore è schiavo; codesta lo fissa al suo uffizio, e lo muta in una macchina di calcolo. L’operaio è schiavo, codesta l’inchioda al suo mestiere, alla sua officina, alla sua incudine, come le ruote secondarie sono inchiodate alle ali d’una macchina a vapore. Gradite, ecc.

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

Siamo un'Associazione culturale in difesa della "vera" Chiesa Cattolica.