la strana sindrome di nonno Basilio -26-

nonno

     Egregio direttore mi ripropongo alla sua attenzione e a quella dei suoi lettori, per continuare le riflessioni, aiutato, a volte contestato, dai miei cari nipoti. Le accennavo la volta scorsa al ricordo del caro zio Tommaso, sant’uomo e santo sacerdote, ricordo che mi riempie di tanti rimpianti, emozioni sottili e tanta gratitudine per il Signore, per aver concesso questa presenza illuminante nella mia vita. Commosso ed in lacrime a tale ricordo, non mi accorgo che nella stanza è entrato Mimmo, mio nipote, al quale faccio cenno dei miei pensieri, del mio stato d’animo, ed ecco che egli, come a rompere l’incanto, con il suo solito fare sornione e beffardo, esordisce dicendo : “… ma nonno questi erano altri tempi … tu sei rimasto al “giuramento antimodernista” di Pio X che oggi poi è stato abolito!” Direttore, la prego, mi dica che non è vero!… ma come … il “giuramento antimodernista” istituito da S. Pio X al fine di aiutare, per mezzo della intercessione divina, i preti a resistere alle insidie degli errori di quella dottrina che era stata definita l’“eresia delle eresie”, perché? … perché è stato abolito, come e chi ha osato? Certamente non può essere stato il Santo Padre, un Papa non può modificare il deposito della fede che gli è stato affidato. e allora chi sarà stato? La pagherà certamente davanti al Signore! Sono a dir poco indignato …!! Mimmo poi, pensando di consolarmi, mi dice ancora: “ma nonno pensa che oggi i sacerdoti non indossano più nemmeno l’abito talare …”. Direttore, ma questa è l’aperta violazione della disciplina canonica, che impone al clero l’abito talare o almeno il “clergyman”, che costituisce già una strana concessione alle confessioni protestanti; infatti l’abito ecclesiastico deve rappresentare un segno ed una testimonianza nel mondo, un richiamo a Dio ed una riaffermazione del senso del sacro, specialmente nei tempi attuali, nei quali esso appare notevolmente affievolito. Esso è la “corazza” del prete”. Invece sono sempre più numerosi i preti, specialmente giovani – mi dicono Mimmo e Caterina (che sollecitata dalla nonna è intanto accorsa con l’apparecchio della pressione), – che indossano abiti laici (molto spesso neanche contraddistinti da una piccola croce all’occhiello della giacca), che ne rendono non riconoscibile il ruolo nella società, come se volessero tener nascosta la loro perenne ed insostituibile qualità. “… ma nonno lo sanno tutti che “l’abito non fa il monaco”, dice ancora Mimmo, senza accorgersi della superficialità e della stupidità di tale ricorrente risposta. Infatti gli dico -giudichi lei, direttore, se ho detto bene e se è il caso mi corregga – “… ma renditi conto che quella sentenza è riferita solo a coloro che monaci non sono, per sostenere che tali non diventerebbero, anche se indossassero il saio. Quindi essa non si rivolge agli ecclesiastici che dismettono il loro abito e quindi si privano del loro particolare distintivo religioso. Una risposta coerente (anche se certamente infondata) sarebbe quella che desse una spiegazione credibile alla loro volontà di nascondersi e di non far riconoscere al gregge la loro funzione di pastori. Interviene Caterina a sostenermi: “Tutto ciò è anch’esso un segno inconfondibile di decadenza del sacro, di un ridimensionamento del sacerdozio e di un suo avvicinamento allo stato laicale (come peraltro avviene in altre –false- religioni e sette eretiche, sia pure per ora, da un punto di vista apparentemente solo formale, ma con una potenzialità di estendersi fino ad intaccare la sostanza, lungo il processo di secolarizzazione che si è accentuato con il concilio [direttore, ma sempre questo concilio, ma siamo sicuri che non sia una ridicola trovata di Mimmo, o uno dei sui scherzi da buontempone sacrilego ed irriverente? O peggio uno dei soliti conciliaboli messi su da “coloro che hanno per padre il demonio” per mandare un po’ di anime all’inferno?]. Così come il baciare le mani del sacerdote, mani che non sono più di Ciccio, Mimì, Carminuccio, Gigino o Peppiniello, ma sono le mani di Cristo, mani che possono fare ciò che non è consentito agli Angeli, e non è stato consentito nemmeno alla più pura tra tutte le creature, e cioè la Vergine Maria, Madre di Dio: la Consacrazione con la Transustanziazione in Corpo di Cristo”. E nessuno sa, continuio io, che il tocco della mano del sacerdote costituisce un sacramentale particolarmente temuto dal “farfariello” (come lo chiamava la nonna Margherita…). Mimmo riprende il suo attacco: “Guardate che oramai il “sacro ministero” è concepito come un “ordo”, cioè una classe, un ceto, uno stato del “popolo di Dio”, una funzione che si attua in diversi “officia o “munera” così come è scritto qui, in questo documento, … dove sta? … Ah eccolo …” il “Presbytorium Ordinis”. Ecco che però Caterina ribatte subito: ma qui non c’è “potestas”, ma solo “officia”! cioè in tal modo il prete non è più il sacerdote di Dio, ma diventa “sacerdote del popolo di Dio”, che lo legittima quale sua “funzione”. Ma quindi, caro Mimmo, non è più il Signore Dio a scegliere e chiamare il sacerdote, ma il popolo che costituisce una forma dell’unico sacerdozio di Cristo!?! Ma benedetto nipote, nello stesso Corpo mistico esistono diverse funzioni come scrive notoriamente San Paolo … te lo ricordo così a memoria: “Poiché, come in un solo corpo abbiamo molte membra e queste membra non hanno tutte la medesima funzione …”(Rom. XII, 4). Quindi queste forme generalizzate e malamente specificate di sacerdozio comune, non hanno alcun senso, oltre ad essere contrarie a tutto ciò che la Tradizione cattolica ha sempre osservato! Ma Mimmo non si da per vinto e tirando fuori un altro foglio, dice: “Ecco qui: parla di due forme di sacerdozio, ecco … nella “Lumen Gentium” ai punti 10 e 62 , e cioè “il sacerdozio comune dei fedeli e quello ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo …”. Qui si parla di “ordinazione reciproca”, di due funzioni paritetiche del “sacerdozio unico di Cristo”… “ … ma in somma Mimmo, sbotto io, questo è contro tutto il deposito della fede, e poi questa distinzione di essenza e di grado fra i due non viene mai spiegata, è solo una elucubrazione verbale! … dimmi la verità, questa specie di documento, lo hai creato tu, magari per una commedia buffa da recitare con i tuoi amici mattacchioni! Ecco, guarda, come quando dici che il primo posto tra le funzioni sacerdotali spetta alla predicazione …. “Ma è scritto qui, nel “Presbyterorum Ordinis” al punto 4. Cerca di giustificarsi Mimmo,… ascoltate: “I presbiteri, nella loro qualità di cooperatori dei vescovi, hanno innanzitutto il dovere … ve lo dico anche in latino (ma guarda un po’, Mimmo che cita in latino … incredibile, pur di sostenere tesi assurde!!) “primum habent officium” di annunciare a tutti il Vangelo di Dio”. Mimmo, io non so se vuoi burlarti di me, ma voglio con calma spiegarti che tutto ciò che dici è contrario a tutta la Tradizione ed al dettato espresso dal Concilio di Trento, se non vado errato nella Sessione XXIII, nella quale si enuncia con “magistero infallibile ed irreformabile” –ascolta bene- che la figura del sacerdote si definisce in primo luogo per “il potere di consacrare, offrire e dispensare il Corpo e Sangue di Cristo”, ed in secondo luogo “per il potere di rimettere o non rimettere i peccati”. La predicazione la possiamo fare anche noi, volendo, e pertanto non è necessaria alla definizione della figura sacerdotale. Ti porto un esempio elementare, con una domanda semplicissima: “Ma secondo te, quante prediche avranno fatte Santi sacerdoti come S. Leopoldo Mandic, o il Padre Pio di Pietrelcina, visto che passavano quasi tutto il loro tempo a confessare? Questi quindi, secondo quanto hai letto, e ammiro il tuo impegno nel citare anche in latino … non assolvevano al loro ministero sacerdotale? E devo anche riprenderti quando dici che il sacerdote è presidente dell’assemblea così come la “sacra presidenza del vescovo” (questa poi,… sembra una terminologia da sindacalisti e dai … Mimmo sii serio, almeno ogni tanto, via!!…). A questo punto interviene Caterina che giustifica il povero e mortificato Mimmo: “nonno, Mimmo citava solo un passaggio del punto 2 della “Presbyterorum Ordinis” in cui veramente è scritto “… i presbiteri convocano e adunano il popolo nella S. Messa affinché i fedeli possano offrire se stessi a Dio”! Ma no ragazzi, ma questa non è la Chiesa Cattolica, chiamatela come volete: setta neo-modernista, setta vaticana, dormitorio dei vigilanti della fede, ruspa di autodemolizione … tutto è, ma non certo la Chiesa di Cristo, né tantomeno il Corpo Mistico di Cristo, vero Dio e vero Uomo. I “preti moderni” -interviene Caterina, ben informata al riguardo- trascinati dalla secolarizzazione, hanno accettato, senza reazione, l’equazione di “Chiesa-Mondo”. Ne consegue che fanno del Cristianesimo una religione della vita, del felice successo dell’ideologia vittoriosa, della città degli uomini gaudenti; cercano di farsi accettare come cappellani discreti, come funzionari servili e comodi, la cui sola funzione consiste in un atto di presenza, senza più ritrovare la tagliente coscienza della profezia evangelica. Povero “clero moderno”, che merita la condanna che Péguy lanciò contro il modernismo: «Un certo bisogno di novità per la novità, un certo bisogno di apparire moderno a qualsiasi costo, che infierisce tanto pericolosamente oggi, e in modo così ridicolo tra un numero abbastanza largo di parroci, razza, del resto, di imitatori, e che fa loro commettere tante sciocchezze, tante stupidaggini e un numero piuttosto grande di delitti, per pura vigliaccheria, per il gusto di non sembrare quello che si è …». Chi ama il mondo odia Dio, dice S. Giacomo, ed io aggiungo: e serve da schiavo il “farfariello” per fargli poi eterna e “calorosa” compagnia!Non c’è un “nuovo volto di prete”, ma un “mondo nuovo” con problemi puramente umani; di fronte a questo però, v’è il medesimo compito apostolico: “Ite et docete”(andate ed insegnate) ad una massa il popolo di Dio, senza Dio! Perciò, il prete che si fonde nella massa, deve restare prete per la salvezza delle anime e se vuole essere nuovo, ha negato il suo sacerdozio. Che il prete avvicini, in quanto uomo, gli altri uomini, va bene, ma, in quanto prete, egli è al di sopra, su “un piano che gli Angeli invidiano”, perché consacrato, perché prete del Mistero, l’“alter Christus”, e il prete non deve dimenticare, davanti agli uomini, l’eminenza del suo sacerdozio, tradendo Cristo in croce e la sua Chiesa … altro che Giuda! Quanta tristezza e indignazione quando si sente un “nuovo prete” dire: «Sono un uomo tra gli altri e nulla più»! È spaventevole! Vi è, oggi, in seno alla Chiesa cattolica, molto di più di un malessere, e questo per l’umana mania di “anticipare l’avvenire”, senza più “ricordare il passato”. Ricordiamo le parole di Gesù: «Il mio cibo è fare la Volontà di Colui che mi ha mandato a compiere la Sua Opera, perché sono sceso dal Cielo per fare non la mia Volontà, ma la Volontà di Colui che mi ha mandato». Quindi, in faccia al “mondo nuovo”, il prete deve diffidare delle “vane novità. A te, Mimmo, dovrò poi un po’ insegnarti qualcosa del Concilio di Trento, (le ricordo per inciso che “insegnare agli ignoranti” è un’opera di misericordia spirituale … o hanno eliminato anche questo?) visto che tanti “can che dormono” hanno fatto finta di dimenticare, inducendo i più giovani ad ignorare, convincendoli che la Chiesa di Cristo deve aprirsi al mondo per essere meglio ingannati e coinvolti nelle miserie e nelle umane immondezze, accettandone ed incorporandone i principi bislacchi suggeriti da falsi teologi e dottori che propongono pozioni magico-teologiche e ricette fasulle, da pastori che non solo non pascolano e curano le pecore, ma spalancano le porte dell’ovile servendo le pecore stesse, con gli ignari agnellini, ai loro complici, alla razza di vipere, ai lupi voraci, magari al forno su di un piatto d’argento, ben cotte, con il contorno di patate novelle e di un bicchiere di falanghina … oh … strano, ne sento il profumo … ah … ma no, è la mia cara mogliettina che ci ha preparato un manicaretto a base di agnello con patate al forno! Direttore mi perdoni, ma la devo lasciare … il dovere mi chiama … a tavola! … parlando di queste cose, mi si è sciolta una fame! Slurp! Buon appetito a tutti!. Benedicimus Domine nos etc. ….

Mons. De Ségur: L’INFERNO (3)

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III

L’ETERNITA’ DELLE PENE DELL’INFERNO

L’eternità delle pene dell’inferno è una verità di fede rivelata

    Dio stesso ha rivelato alle sue creature l’eternità delle pene che le attendono nell’inferno, se esse saranno tanto insensate, perverse, ingrate, nemiche di se stesse per ribellarsi alle leggi della sua santità e del suo amore. Riconducetevi, coro lettore, alle testimonianze già citate nel corso di questo opuscolo. Quasi sempre, ricordandoci la rivelazione misericordiosa che si era degnato di fare di questa salutare verità ai nostri progenitori, il Signore nostro Dio parla dell’eternità delle pene dell’inferno, già mentre parla dello stesso inferno. Così attraverso il Patriarca Giobbe e Mosè, Egli ci dichiara che nell’inferno « regna un orrore eterno “sempiternus horror” ». Il testo originale è anche più forte, significando la parola “sempiternus”: sempre eterno, quasi come se volesse dire « eternamente eterno ». Il Profeta Isaia ci ripete il medesimo insegnamento, senza dimenticare questa terribile apostrofe che indirizza a tutti i peccatori: « Chi tra voi potrà dimorare nel fuoco divoratore, nelle fiamme eterne, “cum ardoribus sempiternis?” ». qui ancora il superlativo sempiternus! Nel nuovo Testamento, l’eternità del fuoco e delle pene dell’inferno torna in ogni occasione sulle labbra di Nostro-Signore e sotto la penna dei suoi Apostoli. Qui, riportatevi, caro lettore, a qualche brano che vi abbiamo già citato. Io non ricorderò se non una parola del Figlio di Dio, perché essa riassume solennemente tutte le altre; è la stessa sentenza che presiederà la nostra eternità per tutti: « Venite, benedetti del Padre mio, ed entrate in possesso del reame che vi è stato preparato dall’origine del mondo! Allontanatevi da me, maledetti, ed andate nel fuoco eterno che è stato preparato per il demonio e i suoi angeli ». Ed il Giudice adorabile aggiunge: « questi andranno al supplizio eterno, e gli altri entreranno nella vita eterna; “in supplicium aeternum, in vitam aeternam” ». – Questi oracoli del Figlio di Dio non hanno bisogno di commenti. Sulla loro chiarezza luminosa la Chiesa appoggia diciannove secoli di insegnamento divino, sovrano ed infallibile, che riguarda l’eternità propriamente detta della beatitudine degli eletti in cielo e delle pene dei dannati all’inferno. Dunque, l’eternità dell’inferno ed i castighi spaventosi costituiscono una verità rivelata, una verità di fede cattolica, “certa” così come l’esistenza di Dio e come gli altri grandi misteri della religione cristiana.

L’inferno è necessariamente eterno a causa della natura stessa dell’eternità.

   Da molto tempo la fragilità naturale dello spirito umano si piega sotto il peso di questo terribile mistero dell’eternità dei castighi dei riprovati. Già dai tempi di Giobbe e Mosè, diciassette o diciotto secoli prima dell’era cristiana, certi spiriti leggeri e troppe coscienze troppo gravate dai carichi parlavano della mitigazione, o del termine delle pene dell’inferno. « Essi immaginano, dice il libro di Giobbe, che l’inferno decresce ed invecchia. » Oggi, come in tutti i tempi, questa tendenza a mitigare e ad abbreviare le pene dell’inferno trova degli avvocati più o meno interessati alla cosa. Ma essi si ingannano. Oltre al fatto che la loro supposizione si fonda solo sull’immaginazione ed è direttamente contraria alle affermazioni divine di GESÙ-CRISTO e della sua Chiesa, essa parte da una concezione assolutamente falsa della natura stessa dell’eternità. Non solo non ci sarà termine, ma nemmeno una mitigazione alle pene dei dannati, perché è totalmente impossibile che ciò possa accadere. La natura dell’eternità vi si oppone in maniera assoluta. L’eternità, in effetti, non è come “i tempi”, composti da una successione di istanti aggiunti l’uno agli altri, i cui insiemi formano i minuti, le ore, i giorni, gli anni, i secoli. Nel tempo si può cambiare, semplicemente perché c’è il tempo di cambiare. Ma se davanti a noi non abbiamo né giorno, né ora, né minuti o secondi, non è evidente che non si possa passare da uno stato ad un altro? Questo è ciò che accade nell’eternità. Nell’eternità non ci sono istanti che succedano ad altri istanti e che ne siano distinti. L’eternità è una modalità di durata dell’esistenza che nulla ha in comune con la nostra terra; noi possiamo conoscerla, ma non possiamo comprenderla. È il mistero dell’altra vita; è una vera e misteriosa partecipazione all’eternità stessa di Dio. Come dice San Tommaso, con tutta la tradizione: l’eternità è « tutta intera in una volta, tota simul ». È un presente sempre attuale, indivisibile, immutabile. Non ci sono secoli accumulati dopo secoli, né milioni di secoli aggiunti ad altri milioni di secoli, queste sono delle maniere tutte terrestri e perfettamente false di concepire l’eternità. Io lo ripeto, la natura stessa dell’eternità, che non assomiglia affatto alle successioni dei tempi, fa sì che ogni cambiamento sia impossibile, sia in bene che in male. Per ciò che riguarda le pene dell’inferno, ogni cambiamento pertanto è impossibile; e così come la cessazione, anche la mitigazione di queste pene costituirebbe necessariamente un cambiamento, dobbiamo concludere, con una certezza completa, che le pene dell’inferno sono assolutamente eterne, immutabili, e che il sistema di mitigazioni non è che una deficienza dello spirito, o un capriccio dell’immaginazione e del sentimento. Quel che sto per riassumere qui sull’eternità, caro lettore, è forse un po’ astratto; ma più ci rifletterete, più ne costaterete la verità. In ogni caso, che noi comprendiamo o non, dobbiamo riferirci al proposito, alla chiarissima, normalissima affermazione di Nostro Signore GESÙ-CRISTO; e con tutta semplicità e certezza della fede, diciamo: « io credo alla vita eterna, “credo vitam aeternam”, vale a dire all’altra vita, che per tutti sarà immortale ed eterna: per i buoni, immortale ed eterna nelle beatitudini del Paradiso; per i cattivi, immortale ed eterna nei castighi dell’inferno. Un giorno Sant’Agostino, Vescovo di Ippona, era occupato a scrutare, almeno finché lo poteva fare il suo potente spirito, la natura di questa eternità, ove la bontà e la giustizia di Dio attende tutte le creature. Egli cercava, approfondiva, a volte intravedeva, a volte si sentiva arrestato dal mistero. Tutto ad un tratto dinanzi a lui apparve, in una luce radiosa, un vecchio dal volto venerabile e tutto splendente di gloria. Era San Girolamo, che quasi centenario, stava per morire in un luogo molto lontano da lui, a Bethleem. Sant’Agostino guardava stupefatto e con ammirazione la celeste visione che si offriva ai suoi occhi: « l’occhio dell’uomo non ha mai visto, gli disse il vegliardo, l’orecchio dell’uomo non ha mai inteso, e lo spirito dell’uomo non potrà mai comprendere quello che tu cerchi di comprendere » … e così sparì. Tale è il mistero dell’eternità, sia in cielo, sia nell’inferno. Crediamo umilmente, e profittiamo del tempo di questa vita affinché, quando per noi cesseranno i tempi, veniamo ammessi alla buona eternità e che, per la misericordia di Dio, evitiamo l’altra.

Altra ragione dell’eternità delle pene: l’assenza di grazia.

Quando anche il dannato avesse davanti a lui il tempo per poter cambiare, per convertirsi ed ottenere misericordia, questo tempo non gli potrebbe servire, perché? Perché la causa dei castighi che egli sconta sarebbe sempre là. Questa causa è il peccato, è il male che ha scelto sulla terra come sua parte. Il dannato è un peccatore impenitente, incontrovertibile. Il tempo per convertirsi, in effetti, non è sufficiente. Ahimè! Noi lo vediamo purtroppo anche in questo mondo. Noi viviamo in mezzo a gente che il buon Dio attende da dieci, venti, trenta, quaranta anni, ed anche più. Per convertirsi è necessaria, inoltre la grazia. Non c’è conversione possibile senza il dono essenzialmente gratuito della grazia di Gesù-Cristo, la quale è il rimedio fondamentale del peccato, ed il primo principio della resurrezione delle povere anime che il peccato ha separato da Dio e così gettato nella morte spirituale. GESÙ-CRISTO ha detto: « Io sono la resurrezione e la vita »; ed è con il dono della sua grazia che Egli risuscita le anime morte e che le conserva in seguito in vita. Ora nella sua saggezza onnipotente, questo sovrano Signore ha stabilito che in questa vita, che è il tempo della nostra prova, la sua grazia ci sarà data al fine di farci evitare la morte del peccato, e di farci credere nella vita dei figli di Dio. Nell’altro mondo, non c’è più il tempo della grazia né della prova, ma quello della ricompensa eterna per coloro che avranno corrisposto alla grazia vivendo cristianamente ed il tempo dei castighi eterni per coloro che avranno respinto la grazia, morendo nel peccato. Tale è l’ordine della Provvidenza, e nulla lo cambierà. Dunque, nell’eternità non ci sarà più grazia per i peccatori riprovati, e poiché senza la grazia, è assolutamente impossibile pentirsi efficacemente, così com’essa è necessaria per ottenere il perdono, il perdono stesso è impossibile; la causa del castigo rimane sempre, ed il castigo, che non è che l’effetto del peccato, sussiste egualmente. Senza grazia, non c’è pentimento, senza pentimento non c’è conversione, senza conversione nessun perdono, senza perdono, nessuna mitezza né cessazione possibile della pena. Non è ragionevole? Il ricco malvagio del Vangelo non si pente nel fuoco dell’inferno. Egli non dice: « io mi pento! », e non dice nemmeno « io ho peccato ». Egli dice: « Io soffro terribilmente in questa fiamma! » È il grido del dolore e della disperazione, non il grido del pentimento. Egli non si cura di implorare il perdono, non pensa che a se stesso ed al suo sollievo. L’egoista chiede invano una goccia d’acqua che potrebbe dargli sollievo: questa goccia d’acqua è il tocco della grazia che lo salverebbe; gli viene risposto che questo è impossibile. Egli detesta il castigo, non la causa. È la storia raccapricciante di tutti i dannati. Quaggiù la città di Dio e la città di satana sono come insieme mischiate; si può passare dall’una all’altra; da buono si può diventare cattivo, o da cattivo si può diventare buono. Ma tutto questo cesserà al momento della morte. Allora irrevocabilmente le due città saranno separate, come dice il Vangelo, non si potrà passare dall’una all’altra, dalla città di Dio alla città di satana, dal Paradiso all’inferno, e viceversa dall’inferno al Paradiso. In questa vita tutto è imperfetto, il bene come il male; nulla è definitivo; e non essendo mai rifiutata a nessuno la grazia di Dio, si può sempre sfuggire al male, all’impero del demonio, alla morte del peccato, finché si è in questo mondo. Ma come già detto, tutto questo appartiene alla vita presente; ma dal momento che un poveraccio in stato di peccato mortale, ha dato l’ultimo respiro, tutto cambia aspetto: l’eternità succede al tempo; di momenti della grazia e della prova non ce n’è saranno più; la resurrezione dell’anima non è più possibile, e l’albero caduto a sinistra, resterà sempre a sinistra. Dunque, la sorte dei riprovati è fissata per sempre; nessun cambiamento, nessuno sconto di pena, nessuna sospensione, nessuna cessazione dei loro castighi è più possibile. A loro manca non solo il tempo, ma pure la grazia!

Terza ragione dell’eternità delle pene : la perversità della volontà dei dannati.

   La volontà dei dannati, è come pietrificata nel peccato, nel male, nella morte soprannaturale. Che cosa in questa vita rende possibile il fatto che un peccatore possa convertirsi? Innanzitutto, come detto, che ne abbia il tempo e poi che il buon Dio gli conceda sempre la grazia. Ma inoltre, poiché egli è libero, che la sua volontà possa, di sua scelta, ritornare dal lato di Dio. Si tratta infatti di un atto di libera volontà quello che ha allontanato il peccatore dal suo Dio; ed è pertanto con un altro atto di libera volontà, attraverso la grazia di questo Dio buono, che può tornare a Lui, pentirsi e, da povero figliuol prodigo, tornare perdonato alla casa paterna. Ma al momento della morte, ecco che accade per la libertà quel che avviene per la grazia: è finita, finita per sempre. Non si tratta più di scegliere, ma di dimorare in quel che si è scelto. Voi avete scelto il bene, la vita: possederete per sempre il bene e la vita. Voi avete scelto follemente il male e la morte: voi siete nella morte, e per sempre, e solo perché voi l’avete voluto quando potevate volerlo. È l’eternità delle pene! – Ancora oggi nel palazzo di Versailles si può osservare la camera dove morì Luigi XIV, il 1 settembre 1715. Vi sono gli stessi mobili, ed il particolare lo stesso pendolo. Per un sentimento di rispetto per il grande re morto, si arrestò questo pendolo nel momento in cui egli diede l’ultimo respiro, alle quattro , trenta ed un minuto; poi non è stato più toccato. E così dopo cento sessanta anni, la lancetta immobile del quadrante segna le quattro, trenta e un minuto. È una immagine suggestiva dell’immobilità in cui entra e resta la volontà dell’uomo nel momento in cui lascia questa vita. La volontà del peccatore dannato resta dunque necessariamente quella del momento della morte. Così com’è, resta immobilizzata, è eterizzata, se così si ci si può esprimere. Il dannato vuole sempre e necessariamente il male che ha fatto, dice S. Bernardo. Il male e lui fanno un tutt’uno; è come un peccato vivente, permanente, immutabile. Così come i beati, che vedono Dio nel suo amore e Lo amano necessariamente, i riprovati, non vedendo Dio che nei castighi della sua giustizia, Lo odiano necessariamente. Io vi chiedo allora: non è una giustizia rigorosa quella che colpisca con un castigo immutabile una immutabile perversità? E che una pena eterna, sempre la stessa, punisca una volontà eternamente fissata nel male, eternamente staccata da Dio con la rivolta e l’odio, una volontà bloccata nel sempre peccare? Da ciò che stiamo per dire, come da quel che precede, risulta in modo evidente che nell’inferno i dannati non avendo né il tempo, né la grazia, né la volontà di convertirsi, non possono essere perdonati e devono necessariamente subire un castigo immutabile ed eterno; infine come rigorosa conseguenza, le pene dell’inferno, non solo non avranno mai fine, ma non sono suscettibili di queste mitigazioni con le quali ci si vorrebbe illudere.

Se è vero che Dio sia ingiusto nel punire con delle pene eterne dei peccati momentanei.

   Si tratta di una vecchia obiezione, sollevata per timore da coscienze malconce. Nel quarto secolo l’illustre arcivescovo di Costantinopoli, S. Giovanni Crisostomo, la risolveva già in questi termini: « C’è chi dice “io ho messo solo un istante ad uccidere un uomo, a commettere un adulterio, e per questo peccato di un momento, devo subire delle pene eterne” ». « Sì certamente, perché ciò che Dio giudica nel peccato, non è il tempo impiegato nel commetterlo, ma la volontà che lo fa commettere ». Ciò che abbiamo già detto sarebbe già sufficiente per eliminare anche l’ombra di una difficoltà. Essendo nell’inferno assolutamente impossibile la conversione ed il cambiamento, per difetto di tempo, di grazia e di libertà, la causa del castigo sussiste eternamente nella sua interezza, e deve, a rigor di giustizia, produrre eternamente il suo effetto. Nulla da eccepire. Si tratta di pura giustizia. Voi trovate ingiusto che Dio possa con una pena eterna punire dei crimini di un istante? Ma vedete cosa accade ogni giorno nell’umana società. Tutti i giorni essa punisce con la morte assassini, parricidi, incendiari etc. che hanno perpetrato il loro crimine nell’arco di qualche minuto. È questo ingiusto? Chi oserebbe dirlo? Ora che cos’è la pena di morte nell’umana società? Non è una pena perpetua, senza ritorno? Senza mitigazione possibile? Questa pena di morte priva per sempre dalla società degli uomini, come l’inferno priva per sempre dalla società di Dio. Perché dovrebbe essere altrimenti per i crimini di lesa maestà divina, vale a dire per i peccati mortali? – Ma qui il tempo non ha nulla a che fare col peso morale del peccato. Come diceva S. Giovanni Crisostomo, non è la durata dell’atto colpevole che viene punita nell’inferno con una pena eterna, ma è la perversità della volontà che ha fatto agire il peccatore e che la morte è venuta ad immobilizzare. Persistendo sempre questa perversità, il castigo vi si applica eternamente: lungi dall’essere ingiusto, è tutto ciò che c’è di più giusto, ed anche necessario. La santità infinita di Dio non deve respingere forse eternamente un essere che si trova in uno stato eterno di peccato? Tale è il riprovato nell’inferno. E poi chiunque vi rifletterà seriamente noterà che in ogni peccato mortale vi è un doppio carattere: il primo, che è essenzialmente finito, è l’atto libero della volontà che viola la legge di Dio e pecca; il secondo, che è infinito, è l’oltraggio fatto alla santità, alla Maestà infinita di Dio. Da questo punto di vista, il peccato racchiude una malizia in qualche modo infinita: « quamdam infinitatem », dice San Tommaso. Ora la pena eterna risponde in modo esatto a questo carattere finito ed infinito del peccato. Essa stessa è finita ed infinita: finita nell’intensità; infinita ed eterna nella durata. Finita quanto alla durata dell’atto e alla malizia della volontà di colui che pecca, per cui il peccato è punito con una pena più o meno considerevole, ma sempre finita in intensità; infine in rapporto alla santità di Colui che è offeso, è punito con una pena di durata infinita, cioè eterna. Ancora una volta niente di più logico, di più giusto delle pene eterne che nell’inferno puniscono il peccato ed il peccatore. Ciò che non sarebbe giusto, sarebbe che tutti i riprovati subissero la stessa pena. In effetti è evidente che non sono colpevoli tutti allo stesso modo. Tutti sono nello stato di peccato mortale; uniti in questo, meritano tutti ugualmente una pena eterna; ma non essendo colpevoli tutti allo stesso grado, l’intensità di questa pena eterna è esattamente proporzionale al numero ed alla gravità della colpa di ognuno. Ancora una volta abbiamo una giustizia perfetta, una giustizia infinita. Infine ancora un’osservazione molto opportuna: se le pene del peccatore impenitente, riprovato nell’inferno, avevano un fine, questo sarebbe lui stesso, e non il Signore, che avrebbe quindi l’ultima parola nella sua lotta sacrilega contro Dio. Egli potrebbe dire a DIO: « Io prendo il mio tempo, voi prendete il vostro. Ma che il vostro tempo sia corto o lungo, io finirò sempre per avere la meglio su di Voi; io sarò maestro della situazione ed un giorno, che vogliate o non, io dividerò la vostra gloria e la beatitudine eterna nei cieli ». È possibile, io vi domando? – Dunque da questo punto di vista ancora, ed indipendentemente dalle ragioni perentorie che esporremo, la Giustizia, la Santità divina, richiede di stretta necessità che i castighi dei dannati siano eterni. – « Ma la bontà di DIO? » … forse qualcuno penserà! – La bontà di DIO qui non ha nulla a che fare: l’inferno è il luogo della sua giustizia, infinita come la sua bontà. La bontà di DIO si esercita sulla terra, dove Egli perdona tutto, sempre ed immediatamente dopo il pentimento. Nell’eternità la bontà non si esercita più, perché non c’è che da coronare nelle gioie del cielo la sua opera compiuta sulla terra col perdono. Vedreste per caso che, nell’eternità DIO esercitasse la sua bontà nei confronti di gente che ne hanno abusato indegnamente sulla terra, e che non vi hanno fatto ricorso nel momento della morte, e che ora non ne vogliono e non possono più volerne? Questo sarebbe semplicemente assurdo. Da parte di DIO soprattutto, la bontà non potrebbe esercitarsi a spese della giustizia. – Dunque, punendo con delle pene eterne delle colpe passeggere, lungi dall’essere ingiusto, DIO è giusto, anzi giustissimo.

Se è lo stesso per i peccati di debolezza.

   Senza volere scusare oltre misura i peccati di debolezza di cui gli stessi cristiani si rendono molto spesso colpevoli, occorre riconoscere che c’è un abisso tra quelli che li commettono e coloro che la Sacra Scrittura chiama in genere “i peccatori”. Questi sono le anime perverse, i cuori impenitenti che operano il male per abitudine, senza rimorsi, come cosa ordinaria, e che vivono senza DIO, in rivolta permanente contro GESÙ-CRISTO. Questi sono i peccatori propriamente detti, i peccatori di professione. « Essi peccano finché vivono, diceva San Gregorio; essi peccherebbero sempre se potessero vivere sempre; essi vorrebbero vivere sempre per poter sempre peccare. Per costoro, una volta che sono morti, la giustizia del sovrano Giudice esige evidentemente che non siano mai senza castigo, perché essi non hanno mai voluto essere senza peccato ». Queste non sono le disposizioni degli altri: una quantità di povere anime cadono in peccato mortale, e ciò nonostante esse non sono né cattive né corrotte, ed ancor meno empie, è la fragilità che le fa cadere, e non l’amore per il male nel quale esse cadono. Esse somigliano ad un bambino strappato dalle braccia della madre con violenza o per seduzione; che si lasciano così separare da essa, ma con dispiacere, senza mai lasciarla con lo sguardo e tendendo sempre a lei le braccia; non appena il seduttore lo lascia, egli torna a gettarsi subito pentito e gioioso nelle braccia della buona madre. Tali sono questi poveri peccatori occasionali, quasi per caso, che non amano il male che commettono, e la cui volontà non è gangrenata, almeno nel fondo. Essi subiscono il peccato piuttosto che ricercarlo; essi si pentono già nel momento in cui vi si abbandonano. Di tali peccati, non sono essi ben più scusabili? E come la misericordia adorabile del Salvatore non accorderebbe con facilità, soprattutto nel momento decisivo della morte, grandi grazie di pentimento e di perdono ai figliuol prodighi che, pur offendendoLo, non Gli hanno voltato le spalle, e che, pur lasciandosi trasportare lontano da Lui, non Lo hanno lasciato con lo sguardo e col desiderio? Si può affermare che il DIO che ha detto : « mai rigetterò colui che viene a me », troverà sempre nel suo divino Cuore dei segreti di grazie e di misericordie sufficienti per strappare queste povere anime alla eterna dannazione. Ma, diciamolo ben forte, questo è un segreto del Cuore di DIO, un segreto impenetrabile alle creature, sul quale non bisogna contare troppo, perché lascia comunque sussistere questa terribile dottrina, che è di fede, e cioè che ogni uomo che muore in peccato mortale è eternamente dannato e destinato nell’inferno ai castighi che meritano le sue colpe. Una parola per finire. Che gli spiriti sottili e le « anime sensibili » che cercano di cavillare in luogo di credere semplicemente e di santificarsi, si rassicurino pensando ai riprovati. La giustizia, la bontà, la santità di Nostro Signore regoleranno tutto al meglio, sia nell’inferno che nel purgatorio, là non ci sarà nemmeno l’ombra di una qualsiasi ingiustizia. Tutti coloro che saranno all’inferno avranno perfettamente meritato di esservi e di dimorarvi eternamente, per quanto terribili possano essere le loro pene, pene assolutamente proporzionate alle loro colpe. Qui non è come per i tribunali, le leggi e i giudici della terra, che possono ingannarsi, colpire ingiustamente, punire troppo o troppo poco: il Giudice eterno e sovrano GESÙ-CRISTO sa tutto, vede tutto, può tutto; Egli è più che giusto, è la Giustizia stessa, e nell’eternità, come ha dichiarato con la sua stessa bocca, « renderà a ciascuno secondo le sue opere », né più, né meno. Dunque, benché spaventose, incomprensibili allo spirito umano, le pene eterne dell’inferno saranno sovranamente, eternamente giuste.

Chi sono coloro che prendono la strada dell’inferno?

In primo luogo sono gli uomini che abusano della loro autorità, in un ordine qualunque, per indurre i loro subordinati al male, sia con la violenza, sia con la seduzione. « Un duro giudizio li attende ». Veri satana della terra, essi sono coloro ai quali si indirizza, nella persone del padre, la terribile parola della Scrittura: « O lucifero, come sei caduto dalle altezze del cielo? » – Sono tutti coloro che abusano dei doni dello Spirito per distogliere dal servizio di Dio la povera gente e per strappar loro la fede. Questi pubblici corruttori sono gli eredi dei farisei del Vangelo, e cadono sotto l’anatema del Figlio di DIO: « Maledetti a voi, scribi e farisei ipocriti! Perché chiudete agli uomini il regno dei cieli. Voi non vi entrate, ed impedite agli altri che vi entrino. Maledetti voi, scribi e farisei ipocriti! Perché voi percorrete la terra e i mari per fare un proselito; e quando lo avete guadagnato, fate di lui un figlio dell’inferno, due volte peggio di voi. » – A questa categoria appartengono gli empi pubblicisti, professori di ateismo ed eresie, e questa turba di scrittori senza fede e senza coscienza che ogni giorno mentono, calunniano, blasfemano coscientemente, e di cui il demonio, padre della menzogna, si serve per perdere le anime ed insultare GESÙ-CRISTO. Poi vi sono gli orgogliosi che, pieni di se stessi, disprezzano gli altri e contro di loro scagliano impietosamente la pietra. Gli egoisti, i ricchi malvagi che affogando nella ricerca del lusso e della sensualità, non pensano che a se stessi e dimenticano i poveri. Ne è testimone il ricco malvagio del Vangelo, del quale DIO stesso ha detto: « … egli fu sprofondato nell’inferno. ». Poi ci sono gli avari che sognano solo di accumulare scudi, e che dimenticano GESU’-CRISTO e l’eternità. Gli uomini d’affari, che mediante operazioni più che dubbie, per mezzo di ingiustizie consumate in segreto e commerci disonesti, sottraendo magari illecitamente i beni della Chiesa, fanno o hanno fatto la loro fortuna, grande o piccola, su basi che la legge di DIO condanna. Di essi è scritto: « che non possederanno il regno dei cieli ». Ci sono poi i voluttuosi, che vivono tranquillamente, senza rimorsi, con le loro impudiche abitudini, che si abbandonano a tutte le passioni, che hanno come Dio il loro ventre, che finiscono per non aver altra felicità che nei piaceri bestiali e grossolani dei sensi. Vi sono le anime mondane, frivole, che non pensano che a divertirsi, che a trascorrere il tempo follemente, le persone oneste secondo il mondo ma che dimenticano la preghiera, il servizio di DIO, i Sacramenti di salvezza, che non hanno alcuna preoccupazione della vita cristiana, non pensano affatto alla propria anima; essi vivono in uno stato di peccato mortale, e la lampada della propria coscienza è spenta, senza che essi se ne inquietino. Se il Signore viene all’improvviso, come ha predetto, essi ascolteranno la terribile risposta che Egli indirizza alle vergini stolte del Vangelo: « non vi conosco! ». Maledetto l’uomo che non è rivestito dell’abito nuziale! Il Giudice sovrano ordinerà ai suoi Angeli di afferrare, al momento della morte, « il servitore inutile » per farlo gettare, piedi e mani legati, nell’abisso delle tenebre esteriori, cioè nell’inferno! Coloro che vanno all’inferno, sono le coscienze false ed ambigue che calpestano, con cattive confessioni e comunioni sacrileghe, il Corpo ed il Sangue del Signore, « mangiando così e bevendo la propria condanna », secondo la terribile parola di San Paolo. Ed ancora abbiamo le persone che abusano delle grazie di DIO, trovano il modo di essere malvagi negli ambienti più santi; sono i cuori pieni di odio, che rifiutano di perdonare. Infine abbiamo i settari della franco-massoneria e le vittime insensate delle società segrete, che si votano, per così dire, al demonio e giurano solennemente di vivere e morire fuori dalla Chiesa, senza Sacramenti, senza GESÙ-CRISTO, e di conseguenza, contro GESÙ-CRISTO. Non è detto che tutte queste povere persone andranno certamente all’inferno, ma esse vi si dirigono, cioè vi si incamminano. Fortunatamente per loro, non vi sono ancora giunte, e si spera che prima della fine del loro viaggio, essi preferiscano convertirsi umilmente piuttosto che bruciare eternamente. Ahimè, il cammino che conduce all’inferno è così largo, così comodo! Va sempre in discesa, è sufficiente lasciarsi andare. Il Nostro Salvatore ce lo dice a chiare lettere: « la via che porta alla perdizione è larga e molti vi si incamminano! ». Esaminatevi, lettore amico mio; e se per disgrazia avete bisogno di mutare percorso, di grazia, non esitate, e portatevi fuori dalla strada dell’inferno finché siete ancora in tempo.

Se sia certa la dannazione di qualcuno che si vede morire in malo modo

   No. Questo è un segreto che appartiene solo a DIO. Ci sono persone che mandano tutti all’inferno, così come altri che mandano tutti in cielo. I primi credono di essere giusti, i secondi caritatevoli. In verità entrambi si ingannano; il loro primo errore è voler giudicare le cose che all’uomo non è dato conoscere quaggiù. Vedendo morire qualcuno in malo modo, si deve indubbiamente tremare, e non dissimulare la terrificante probabilità di una eterna riprovazione. È così che a Parigi, qualche anno orsono, una disgraziata madre, apprendendo la morte di suo figlio avvenuta in   circostanze raccapriccianti, presa da crisi di disperazione, restò in ginocchio per due giorni. Trascinandosi da un mobile all’altro, tra crisi continue di disperazione e ripetendo incessantemente: “figlio mio, povero figlio mio!! … nel fuoco! … bruciare, bruciare eternamente!!”. Era orribile sia il vederla che il sentirla. Ma nondimeno, benché probabile, benché possa sembrare certa la perdita eterna di qualcuno, resta sempre, nell’impenetrabile mistero di ciò che passa tra l’anima e DIO nel momento supremo, il non disperare. Chi potrà dire cosa passa nel profondo delle anime, anche nelle più colpevoli, in questo istante unico in cui il DIO di bontà, che ha creato tutti gli uomini per amore, che li ha riscattati col suo sangue e vuole la salvezza di tutti, fa necessariamente, per salvare qualcuno di essi, un ultimo sforzo di grazia e di misericordia? Ci vuole così poco tempo alla volontà per rivolgersi a DIO! – Anche la Chiesa non tollera affatto che si pronunci, come certuni fanno, la dannazione certa per chicchessia. Questo è un usurpare il ruolo di DIO. salvo Giuda e qualcun altro la cui riprovazione è più o meno esplicitamente rivelata da DIO stesso nelle Sante Scritture, la dannazione di qualcuno non è assolutamente sicura. La Santa Sede ne ha dato una curiosa prova non molto tempo orsono, in occasione della beatificazione di un grande servo di DIO, il P. Pallotta, che è vissuto e morto a Roma in concetto di grande santità, sotto il Pontificato di Gregorio XVI. Un giorno il santo prete accompagnava all’ultimo supplizio un assassino della peggior specie, che rifiutava ostinatamente di pentirsi, si beffava di Dio, blasfemava, sghignazzava fin sul patibolo. Il P. Pallotta aveva esaurito tutti i mezzi di conversione. Egli era sul patibolo, al fianco di questo miserabile; col viso bagnato di lacrime, si era gettato in ginocchio, supplicandolo che chiedesse perdono per i sui crimini, mostrandogli l’abisso aperto dell’inferno nel quale stava per cadere: a tutto questo il mostro aveva risposto con un insulto ed un’ultima blasfemia; e la sua testa cadde sotto il colpo fatale. Nell’esaltazione della sua fede, del suo dolore, della sua indignazione, e perché questo turpe scandalo si potesse trasformare per la folla che assisteva in una lezione salutare, il povero prete si alzò, prese per i capelli la testa sanguinante del giustiziato e presentandola alla moltitudine : « Vedete – gridò con voce tuonante -guardate bene, ecco la faccia di un dannato! » Questa pulsione di fede era certo ben concepibile, ed in un certo senso era ammirevole. Questo però fu sufficiente per arrestare il processo di beatificazione del venerabile Pallotta; tanto la Chiesa è Madre di misericordia e tanto Ella spera, anche contro la speranza, poiché si tratta della salvezza eterna di un’anima! È così che si può lasciare qualche speranza e portare qualche consolazione ai veri cristiani al cospetto di certe morti terrificanti, improvvise ed impreviste, o anche positivamente cattive. A giudicare dall’apparenza, queste povere anime sono evidentemente perse; da tanti anni quel vecchio viveva lontano dai Sacramenti, si beffava della Religione, ostentava incredulità! Questo povero giovane, morto senza potersene rendere conto, si comportava così male, ed i suoi costumi così deplorevoli! Quest’uomo, questa donna sono stati sorpresi dalla morte in un momento così cattivo, e sembrava certo che non abbiano avuto il tempo di rientrare in se stessi! Non importa, noi non dobbiamo, non possiamo dire in maniera assoluta che essi sono dannati. Senza nulla togliere ai diritti della Santità e della Giustizia di Dio, non perdiamo mai di vista, quelli della sua Misericordia. A questo proposito ricordo un fatto straordinario, e nello stesso tempo molto consolante. La fonte da cui lo traggo è per me una garanzia assoluta della sua perfetta autenticità. In uno dei migliori conventi di Parigi, ancora oggi vive una religiosa, di origine giudaica, notevole per le sue alte virtù e la sua intelligenza. I suoi genitori erano israeliti, e non so come, all’età di circa venti anni, ella si convertì e ricevette il battesimo. Sua madre era una vera giudea; prendeva sul serio la sua religione, e praticava di conseguenza tutte le virtù di una buona madre di famiglia. Ella amava sua figlia con passione. Quando apprese della conversione della figlia, entrò in un furore indescrivibile; a partire da questo giorno si scatenò ininterrottamente con minacce e stratagemmi di ogni genere per riportare « l’apostata », come ella la definiva, alla religione dei suoi padri. Dal canto suo, la giovane cristiana, piena di fede e di fervore, pregava incessantemente e faceva di tutto per ottenere la conversione di sua madre. Costatando la sterilità assoluta dei suoi sforzi, e pensando che un grande sacrificio, più che tutte le preghiere, potesse ottenerle la grazia che impetrava, si risolse di darsi tutta a GESÙ-CRISTO e di farsi religiosa; cosa che mise in atto coraggiosamente. All’epoca aveva circa venticinque anni. La disgraziata madre fu più esasperata che mai nei confronti della figlia e verso la Religione cristiana, cosa che faceva aumentare ancor più l’ardore della novella religiosa per conquistare a DIO un’anima a lei tanto cara. Ella continuò così per venti anni. Vedeva sua madre di tanto in tanto, l’affetto materno si era in parte ridestato, ma, almeno in apparenza, non si intravedeva nessun progresso sul versante dell’anima. Un giorno la povera religiosa ricevette una lettera che la metteva al corrente della morte improvvisa della madre: l’avevano trovata morta nel suo letto. Descrivere la disperazione della religiosa sarebbe impresa impossibile. Come impazzita, non sapendo che cosa facesse o dicesse, corse, con la lettera in mano, a gettarsi ai piedi del Santo-Sacramento; e quando i suoi singhiozzi le permettevano di pensare e parlare, ella disse, o piuttosto gridò a Nostro Signore. « Dio mio, è così che avete esaudito le mie suppliche, le mie lacrime e tutto ciò che ho fatto per venti anni? » Ed enumerando, per così dire, i suoi sacrifici di ogni genere, ella aggiunse, con strazio inesprimibile: « … e pensare che malgrado tutto ciò, mia madre, la mia povera madre, è dannata! » Ella non aveva completato la frase, che una voce uscì dal Tabernacolo dicendole: « E che ne sai tu? » Spaventata la povera suora restò interdetta. « Sappi, riprese la voce del Salvatore, che per confonderti e consolarti nello stesso tempo, Io ho dato a tua madre, nel momento supremo, una grazia così potente di luce e di pentimento, che la sua ultima parola è stata: « Io mi riposo e muoio nella Religione di mia figlia ». Tua madre è salva, è in Purgatorio … e non smettere di pregare per lei ». – Io ho sentito raccontare più volte dei fatti analoghi. Qualunque sia l’autenticità di ciascun caso in particolare, essi testimoniano una così grande e dolce verità, e cioè che in questo mondo la misericordia di DIO sovrabbonda, che all’ultimo momento, Ella compie uno sforzo spremo per strappare i peccatori all’inferno; e che infine qui cadono tra le mani dell’eterna Giustizia, solo coloro che rifiutano fino alla fine gli approcci della Misericordia.

CONCLUSIONI PRATICHE  

Uscire immediatamente e ad ogni costo dallo stato di peccato mortale.

   Quali pratiche conclusioni possiamo trarre da tutto questo, mio buono e caro lettore? Queste grandi verità non ci vengono rivelate da DIO che per ispirarci fortemente il timore che è, con la fede, la base della salvezza, timore della giustizia e dei giudizi di DIO; timore del peccato che porta all’inferno; timore di questa dannazione e maledizione spaventosa, di questa disperazione senza fine, di questo fuoco sovrannaturale che penetra nello stesso tempo le anime e i corpi, di queste tenebre oscure, di questa orribile società di satana e dei demoni, infine, dell’eternità immutabile di tutte queste pene, giustissimo castigo del riprovato.

COME EVITARLO

   Certo è una buona, anzi ottima cosa aver fiducia nella misericordia senza misura, ma, alla luce della vera fede, la speranza non deve essere separata dal timore, e se la speranza deve sempre dominare il timore, questo avviene a condizione che il timore sussista come le fondamenta di una casa, che danno a tutto l’edificio forza e solidità. Così il timore della giustizia di DIO, la paura del peccato e dell’inferno deve allontanare dall’edificio spirituale della nostra salvezza ogni vana presunzione. Lo stesso DIO che ha detto: « Mai rigetterò colui che viene a me » , ha detto egualmente : « Preparate la vostra salvezza con timore e tremore ». Bisogna santamente temere per aver il diritto di sperare santamente. In presenza degli abissi brucianti ed eterni dell’inferno, rientrate in voi stessi, mio caro lettore, ma per bene e seriamente. Come vi trovate ora? Siete nello stato di grazia? non avete sulla coscienza qualche grave peccato per cui, se moriste improvvisamente questo potrebbe compromettere la vostra eternità? In questo caso, credetemi, non esitate a pentirvi sinceramente, poi andate a confessarvi oggi stesso appena avete un momento disponibile. È necessario dirvi, che di fronte all’inferno, tutto passa in secondo ordine, ed è imperativo, -sentitemi bene- assolutamente imperativo, assicurare la vostra salvezza. « A che serve all’uomo guadagnare il mondo, se poi perde la sua anima? Ha detto a tutti noi il Giudice sovrano, e cosa potrà dare in cambio della sua anima? » –   Non rimandate a domani quel che potete fare oggi! E poi … siete sicuri che ci sarà un domani per voi? Io ho conosciuto una volta, in un piccolo villaggio della Normandia, un povero uomo che dopo il suo matrimonio, cioè dopo trenta anni, s’era lasciato prendere dai suoi affari, dal suo piccolo commercio e poi, bisogna dirlo, dall’osteria e dal vino, tanto che aveva finito per dimenticare il servizio di DIO. Egli non era malvagio, tutt’altro. Due o tre mezzi attacchi gli avevano fatto paura, ma sfortunatamente non tanto da farlo tornare ai suoi doveri. Le feste di Pasqua si avvicinavano. Il suo curato lo incontrò una sera e gli parlò molto francamente! « Signor curato, rispose l’altro, io vi ringrazio per la vostra bontà, ci penserò, ve lo prometto, parola di uomo onesto. Se non vi dispiace, tornerò a parlare con voi fra qualche giorno. » Il giorno seguente si trovò il corpo del povero uomo in un fiume là vicino: attraversandolo a cavallo, era stato colpito da apoplessia ed era caduto nell’acqua. – Due anni or sono, nel quartiere latino, uno studente di ventiquattro anni, che dopo il suo arrivo a Parigi, si era dato ai bagordi con tutti i comportamenti tipici dei giovani, riceveva un giorno la visita di uno dei suoi compagni, così buono e puro come poco lo era lui stesso. Era un compatriota che veniva a chiedergli nuove circa il suo paese. Dopo qualche minuto di conversazione, questi si ritirò. Ma ricordandosi subito che aveva dimenticato uno dei suoi libri dall’amico, tornò a bussare alla sua porta. Egli dormiva, nessuna risposta. La chiava era però nella serratura. Dopo aver suonato e bussato di nuovo, entrava … il disgraziato era steso a terra morto stecchito. Non era passato neppure un quarto d’ora da quando l’amico lo aveva lasciato. Un aneurisma, pare, gli avesse lesionato il cuore. Si trovò una scrivania piena di lettere abominevoli, ed i soli libri che componevano la sua esigua biblioteca, erano dei più osceni che si trovassero. Esempi del genere si potrebbero moltiplicare senza numero, senza contare poi i mille incidenti che ogni giorno fanno per così dire, passare repentinamente dalla vita alla morte; gli incidenti ferroviari e stradali, ad esempio, le cadute da cavallo, gli incidenti di caccia o di navigazione, i naufragi, etc. essi mostrano con maggiore eloquenza che tutti i ragionamenti, che bisogna sempre essere pronti a comparire davanti a DIO, che non bisogna giocarsi la proprie eternità con un “forse”, e che l’uomo in stato di peccato mortale che non pensa a riconciliarsi immediatamente con DIO con il pentimento e la confessione, è un folle che danza su un abisso, un triplice folle. « Io non comprendo – diceva S. Tommaso – come un uomo in stato di peccato mortale sia capace di ridere e scherzare ». Egli si espone con gaiezza di cuore a sperimentare a sue spese le profondità di questa parola spaventosa dell’Apostolo San Paolo: « È una cosa orribile cadere tra le mani del DIO vivente ».

Evitare con grande cura le occasioni pericolose e le illusioni  

   Ma non si tratta solo di vivere nello stato di peccato mortale quando si è avuta la sventura di cadervi. Bisogna portare ancora più lontano il nostro zelo della eterna salvezza, e prendere delle precauzioni ancora più serie. Non bisogna contentarsi di uscire al più presto dalla via dell’inferno, bisogna evitare di esserne avviati. Bisogna ad ogni costo evitare le occasioni di caduta, soprattutto quelle che per triste esperienza hanno dimostrato la loro pericolosità. Un cristiano, un uomo con senso comune, affronta tutto, sopporta tutto per sfuggire al fuoco dell’inferno. DIO stesso non ha forse detto: « Se la vostra mano destra, se il vostro piede, se il vostro occhio, se ciò che avete di più caro al mondo è per voi occasione di peccato, tagliatelo, cavatelo senza esitare; è meglio entrare, non importa a quali condizioni, nel regno di DIO e nella vita eterna, piuttosto che essere gettati nell’abisso del fuoco, nel fuoco eterno, ove il rimorso non muore mai, ed il fuoco mai si estinguerà ». – Nessuna illusione al riguardo! Le illusioni sono il movimento aggirante con il quale il nemico cerca di sorprenderci quando non riesce ad avere garanzie da un attacco frontale e fa che queste illusioni siano perfide, sottili, multiple, frequenti! Esse si attaccano a tutto, ma più particolarmente all’egoismo, con i suoi freddi calcoli e le sue raffinatezze; sopra ogni sfumatura di insurrezione dello spirito contro la fede, contro l’intera sottomissione dovuta all’autorità della Santa Sede e della Chiesa; sulle pretese necessità di salute o di abitudini, che fanno scivolare insensibilmente nella fossa dell’impurità; sugli usi e le convenienze del mondo in mezzo alle quali si vive, e che vi introducono facilmente nel turbinio del piacere, della vanità, dell’oblio di DIO, e nella negligenza della vita cristiana: infine sull’accecamento della cupidigia che spinge tanta gente a frodare, con il pretesto della necessità del commercio nel generale costume negli affari, della saggia preveggenza per l’avvenire dei figli, etc. Ma lo ripeto, nessuna illusione! Quanti riprovati sono oggi all’inferno che non vi sono entrati che da quest’ultima porta! Si può sedurre se stessi, almeno in una certa misura, ma non si saprebbe ingannare lo sguardo di DIO. – La stessa vita religiosa non sempre è sufficiente a preservarcene. Sappiatelo bene, ci sono religiosi all’inferno; ce ne sono pochi, io spero, ma infine ve n’è. E come sono arrivati là? Con il fatale cammino delle illusioni: illusioni che riguardano l’obbedienza, la pietà, la povertà, la castità, la mortificazione, l’uso della scienza, ed altro, che so? … è com’è largo questo cammino delle illusioni! Qui ne darò un esempio, preso dalla vita di S. Francesco d’Assisi. Tra i principali appartenenti al nascente ordine dei Frati Minori, vi era un certo fra’ Giovanni da Strachia, la cui passione per la scienza minacciava di far deviare i suoi religiosi dalla semplicità e dalla santità della loro vocazione. San Francesco lo aveva avvertito a più riprese, ma sempre invano. Giustamente sgomento della funesta influenza che questo provinciale esercitava, lo depose in pieno Capitolo, dichiarando che Nostro-Signore gli aveva rivelato che bisognava agire con questo rigore, perché l’orgoglio di questo uomo aveva attirato su di lui la maledizione di DIO. L’avvenire lo dimostrò ben presto. Il disgraziato morì in effetti in mezzo alla più terribile disperazione, gridando: « Sono dannato e maledetto per l’eternità! » – E delle raccapriccianti circostanze che seguirono alla sua morte confermarono questa sentenza.

Assicurarsi la salvezza eterna con una vita seriamente cristiana

Volete ancora essere più sicuri di evitare l’inferno, mio caro lettore? Non vi contentate di evitare il peccato mortale, di combattere i vizi ed i difetti che vi ci conducono; conducete una vita buona e santa, seriamente cristiana e piena di GESÙ-CRISTO. Fate come le persone prudenti che attraversano percorsi impervi che costeggiano precipizi: per paura di cadere, esse si guardano bene dal camminare sul bordo, ove un semplice passo falso potrebbe diventare fatale; esse prendono saggiamente l’altro lato della strada, e si allontanano quanto più possono dal precipizio. Fate lo stesso. Abbracciate generosamente questa bella nobile vita che si chiama la vita Cristiana, la via della pietà. Guidati dai consigli di qualche santo prete, imponetevi una sorta di regolamento di vita, nel quale farete entrare, in proporzione ai bisogni della vostra anima e delle circostanze esteriori nelle quali vi trovate, qualche buono e solido esercizio di pietà, tra i quali vi raccomando i seguenti, alla portata di tutti: Cominciate e finite la vostra giornata sempre con una preghiera ben curata, fatta col cuore. Aggiungete, mattino e sera, la lettura attenta di una o due paginette del Vangelo, o dell’Imitazione, o di qualche altro buon libro a vostra scelta che meglio vi edifichi; e dopo questa breve lettura qualche minuto di raccoglimento e di buoni propositi, al mattino per la giornata, alla sera per la notte, col pensiero della morte e dell’eternità. Prendete l’eccellente abitudine di fare il segno della croce tutte le volte che uscite dalla vostra camera, e ogni volte che vi entrate. Questa pratica, estremamente semplice, è molto santificante. Ma abbiate sempre cura di non fare questo segno sacro alla leggera, senza pensarvi, distrattamente come una routine, come fanno tanti. Bisogna farlo religiosamente e gravemente. – Cercate, se i doveri del vostro stato ve ne lasciano l’opportunità, di andare a Messa tutte le mattine, di buon’ora, per ricevere ogni giorno la benedizione per eccellenza. E di rendere a Nostro Signore il dovuto omaggio che ciascuno di noi Gli deve nel suo grande Sacramento. Se non potete, sforzatevi almeno di fare ogni giorno un’adorazione al Santo Sacramento, sia entrando in Chiesa, sia da lontano e dal profondo del vostro cuore. Rendete ugualmente ogni giorno, con cuore veramente filiale, alla Santissima Vergine MARIA, Madre di DIO e Madre dei Cristiani, qualche omaggio di pietà, di amore, di venerazione. L’amore della Santa Vergine, unita all’amore del Santo Sacramento, è una caparra quasi infallibile di salvezza, e l’esperienza ha dimostrato in tutti i secoli che Nostro-Signore GESÙ-CRISTO accorda delle grazie straordinarie sia durante la loro vita, sia al momento della loro morte, a tutti quelli che invocano e che amano sua Madre. Portate sempre addosso o uno scapolare, o una medaglia, o un rosario. Prendete senza lasciarla mai l’abitudine eccellente di confessarvi e comunicarvi spesso. La Confessione e la Comunione sono i due grandi mezzi offerti dalla misericordia di GESÙ-CRISTO a tutti quelli che vogliono salvare e santificare le loro anime, evitare le colpe gravi, crescere nell’amore del bene e nella pratica delle virtù cristiane. Non si può al riguardo dare una regola generale, ma ciò che si può affermare con certezza, è che gli uomini di buona volontà, cioè quelli che vogliono evitare sinceramente il male, servire il buon DIO ed amarLo con tutto il cuore, sono tanto migliori se si comunicano frequentemente. Quando si è così disporti si è al meglio; e questo dovrebbe ripetersi più volte alla settimana, o anche ogni giorno; tutti i buoni cristiani farebbero molto bene, avendone la facoltà, a santificare con una buona Comunione tutte le domeniche e le feste, senza mancarvi mai per loro colpa. Il celebre Catechismo del Concilio di Trento, sembra dire che il meno che possa fare un cristiano, appena preoccupato della sua anima, è l’andare al Sacramento tutti i mesi. Infine, proponetevi, nel vostro piccolo regolamento di vita, di combattere incessantemente i due o tre difetti che voi notate, o che altri hanno fatto rimarcare essere in voi: è questo il lato debole della piazza, ed è evidentemente da qui che da un momento all’altro il nemico tenterà sorprese e colpi di mano. Evitate come la peste le cattive frequentazioni e le cattive letture. Voi lo comprendete, caro lettore, che io non vi raccomando cose obbligatorie, lungi da me! … ma, vi ripeto, se entrate in questa via di generosità e di fervore e la seguirete risolutamente, voi vi assicurerete in maniera sovrabbondante il grande affare della vostra eternità; e sarete così certi di evitare le pene eterne dell’inferno, come si è certi di evitare le privazioni della povertà, con una saggia ed intelligente amministrazione che aumenti potentemente la propria fortuna. In ogni caso, non mancate di prendere da queste direzioni ciò che potrebbe fare al vostro caso al meglio; ma per l’amore dell’anima vostra, per l’amore del Salvatore che ha versato tutto il suo sangue per essa, non indietreggiate davanti al Vangelo, e siate dei buoni cristiani. – Pensate spesso seriamente all’inferno, alle sue pene eterne, alle sue fiamme divoranti, e vi assicuro che andrete in cielo. Il grande missionario del cielo è l’inferno. Un giorno, un buon prete che, dopo aver per quaranta anni predicato in tutta la Francia con encomiabile zelo apostolico, era a Roma ai piedi del buono e Santo Padre, S.S. il Papa PIO IX, che si intratteneva familiarmente con lui su questo bel mistero. « Predicate molto le grandi verità della fede, gli diceva il Papa, predicate soprattutto l’inferno. Nessuna dissimulazione, dite chiaramente, con fermezza e a voce alta, tutta la verità sull’inferno. Nulla è più efficace nel far riflettere e ricondurre a DIO i poveri peccatori. » È proprio ricordandomi di queste parole, così profondamente vere del Vicario di GESÙ-CRISTO, che ho intrapreso la stesura di questo piccolo lavoro sull’inferno. E poi, meditando le pene eterne e le sciagure dei riprovati, mi sono pure ricordato di una espressione di San Girolamo che eccitava una vergine cristiana al timore dei giudizi di DIO: « Territus terreo”, egli scriveva, atterrito atterisco ». Io mi sono sforzato di farlo qui, e Nostro Signore mi è testimonio che nulla ho nascosto di quanto so di questo terribile mistero. A voi lettore, chiunque voi siate, trarne profitto. Quante anime sono in cielo spinte principalmente dal timore dell’inferno! Io vi offro questo modesto opuscolo chiedendo al buon DIO di farvi penetrare in fondo all’anima queste grandi verità che esso riassume, affinché il timore vi ecciti all’amore, e l’amore vi conduca dritti in Paradiso. Degnatevi di pregare per me [ … e per i redattori di questo blog –ndr.-], affinché DIO mi faccia misericordia, come a voi stessi, degnandosi di pormi con voi, nel numero dei suoi eletti.

pio IX

8 dicembre 1875, festa dell’Immacolata Concezione.

OMELIA della DOMENICA VII DOPO PENTECOSTE

DOMENICA VII DOPO PENTECOSTE

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

(Vang. di S. Matteo VII, 15-21)

sansone

– Peccato castigo di sé medesimo –

“Un albero malvagio, così Gesù Cristo nell’odierno Vangelo, un albero malvagio non può produr frutti buoni”: “Non potest …arbor mala bonos fructus facere”. E che si darà uomo così folle, che si lusinghi raccogliere da uno spino grappoli d’uva, ovvero fichi da’ triboli? Eh che uno spino non può produrre che spine pungenti, e un tribolo non può dare che triboli aspri e molesti. “Non potest arbor mala bonos fructus facere. E qual è quest’albero malvagio? Egli è il peccato; qualunque altro male o di animo o di corpo, o di sostanze non merita il nome di male. Solo il peccato, il peccato solo è l’unico e vero male, è quella pianta infelicemente feconda di tutti gli altri mali, è quell’albero pessimo velenoso che produce frutti a sé proporzionati, pessimi cioè, maligni, avvelenati. – Ad accennarli in compendio, come richiede la strettezza del tempo, basterà il dire che il peccato è pena e castigo di sé medesimo, o si consideri secondo la natural ragione, o si riguardi secondo Dio. Passo a dimostrarvelo, se mi seguite con attenzione cortese.

I . Il peccato è pena e castigo di sé medesimo considerato secondo la natural ragione. Che cosa è il peccato? Egli è una violazione della legge eterna, scritta nel nostro cuore da Dio Creatore, regola infallibile d’ogni nostro operare. Ora un’azione qualunque, opposta a questa legge è un vero disordine, e siccome cosa fuori del suo ordine, trovasi in istato di violenza, la violenza stessa deve portare sconcerto tanto nel fisico, quanto nel morale; sconcerto che non può seguire senza pena e dolore, come un osso fuor dal suo luogo che reca spasimi, finché non torni alla propria giuntura; onde quelle stesse opere malvagie, dice lo scrittore della Sapienza, alle quali si determina l’uomo peccatore, si convertono in suo danno e in suo tormento. “Per quae peccat quis, per haec et torquetur” [Sap. XI, 17). – Vediamolo in pratica. Un uomo dedito al vizio del vino, non è egli vero che tosto perde la stima e la re putazione, che diviene l’obbrobrio del paese, e la favola delle conversazioni? Non è un castigo, per uno smodato e vile piacere di gola, restar privo dell’uso di ragione, rovinarsi la sanità, ed abbreviarsi la vita? Gli antichi Spartani, sebbene idolatri, avevano in sommo orrore questo vizio; onde per allontanarne i loro figliuoli, facevano a bella posta divenir ubriaco un loro schiavo; indi convocati i figli: mirate, dicevano, a che si riduce un uomo posseduto dal vino, come parla a sproposito, come va barcollando: ohimè! dà del capo or in questa, or in quella parete. Ahimè! Che cade stramazzone per terra, e sbalordito vomita un lago di caldo vino fetente. Ecco, o figli, i tristi effetti del vino e dell’ubriachezza; abbominate, o cari, vizio tanto vituperoso e dannevole. – Con più ragione adunque possiamo dire noi cristiani che questo peccato è un vero e palpabile castigò di sé medesimo: “Per quae peccat quis, per haec et torquetur”. Che diremo poi del vizio del giuoco, di quel giuoco che forma l’occupazione de’ giorni anche festivi, prolungati sovente a notte avanzata? Di quel giuoco in cui si arrischia tutto il guadagno della settimana? Quante spine produce mai quest’albero maligno! Quanti rancori, risse, contrasti, collere, imprecazioni, bestemmie! Che notti inquiete senza chiuder occhi per un giocatore che ha perduto! Guai alla povera moglie, guai a’ figli, al primo in cui s’incontra un giocatore disperato. A quanti giusti rimbrotti si espone per la sua crudeltà in togliere il pane di bocca ai suoi figlioletti per sacrificarlo alle carte e alla sua malnata passione! Quanti per giuoco passano da una buona fortuna alla mendicità; quanti, a finirla, morti allo spedale lasciano raminga e pezzente la propria famiglia! Non sono questi i meritati castighi, che si trae addosso il peccato del giuoco disordinato e vizioso? Così è: “Per quae peccat quis, per haec et torquetur”. E di quel vizio, che l’apostolo neppur vorrebbe si nominasse, del vizio e della disonestà, così universale nel mondo, che dovrò io dire? Io non vorrei camminare in questo fango, non vorrei maneggiare questa pece. Mi basterà mostrarvi nella persona di Sansone, che non v’è forse altro vizio che più di questo formi la pena ed il tormento del vizioso. Sansone, giudice in Israele, terrore de’ Filistei, onor di sua nazione, per la rea amicizia di Dalila donna venale, perde la riputazione, perde i capelli, perde la forza, perde gli occhi, perde finalmente la vita. – A tutte queste disavventure va incontro un impudico. Perdite d’onore, di sostanze, di sanità e della vita stessa, dacché non vi è peccato che più di questo acceleri la morte, e consumi la vita di chi n’è infetto, anche per fisiche cagioni. E ben lo sanno per dolorosa prova quei sciagurati, che ancor vivi, portano già le carni marce e infracidite. Qui sì che ci cade precisamente il detto del Savio: “Per quel che uno pecca, per quell’istesso vien tormentato:“Per quae peccat quis, per haec et torquetur”, peccato di carne, pena di carne. – Dite altrettanto d’ogni vizio. L’avaro è nemico di sé stesso, il superbo è da tutti aborrito, l’invidioso fa sangue cattivo, il ladro non ride sempre, il goloso si accorcia la vita. Insomma, siccome il ferro produce la sua ruggine, siccome il legno il suo tarlo, e il panno la sua tignuola, così il peccato, anche secondo la natural ragione, genera la sua pena, e il suo castigo.

II. Che sarà poi quando alla ragione naturale si aggiunga la giustizia di Dio? È verità di fede che il peccato deve esser punito. Siccome l’ombra segue necessariamente il suo corpo, così la pena necessariamente segue il peccato. E perciò una delle due, o dobbiamo noi castigare in noi stessi la nostra colpa, e distruggerla con vero dolore di animo umiliato e contrito, o pure Iddio offeso troverà ben Egli modo da prendersi la giusta vendetta. Ve lo ripeto, è di fede, che il peccato deve essere punito o in questa, o nell’altra vita: sentenza è data, e registrata nell’odierno Vangelo: “Omnis arbor quae non facit fructum bonum excidetur, et in ignem mittetur”. Ogni albero che non fa frutti buoni “excidetur”, ecco la pena temporale, “et in ignem mittetur” ecco la pena eterna. La strada dunque non passa: o punire il peccato colla sincera contrizione del cuore, e coll’opere di vera penitenza, o lo punirà Iddio colla sua giustizia. Se ne protesta Egli altamente (Ezech. VII, 9 ): “Scitis quia ego sum Domimis percutiens: si poenitentiam omnes simul peribitis” (Luc. XIII, 13). Suppongo qui che forse alcun di voi vada dicendo in cuor suo: Io ho peccato, continuo a peccare e me ne vanto talora nelle brigate degli amici pari miei, e pure vivo tranquillo, e non me ne è venuto alcun male : “Ne dixeris, Peccavi, et quid mifi accidit triste? [Eccl. V, 4]. Rispondo: quando si dice che il peccato chiama il castigo, non si asserisce che sarà castigato sull’istante: la pena non sempre scarica in sul momento sopra il peccatore. Non vi lasciate più passare nel pensiero, o uscir di bocca: io ho peccato e pecco, e non me n’è avvenuto alcun male. “Ne dixeris, peccavi, et quid mihi accidit triste?”. Ve ne avvisa lo Spirito Santo; perciocché l’Altissimo Iddio è un paziente distributore, “Altissimus enim est patiens redditur” [Eccl. ut supra]. Dio è paziente, dice S. Agostino, perché è onnipotente. Paziente, soggiunge S. Pietro (Ep. II, 3, 9), perché abbiate tempo a ravvedervi, perché vi aspetta a penitenza, perché vi vuol salvi; ma se voi abusate di sua sofferenza, il giorno di Dio destinato alla vostra punizione potrà tardare qualche tempo; ma un po’ più presto, un po’ più tardi vi coglierà, quando meno il pensate: “adveniunt autem dies Domini ut fur” (ibidem, v. 10). – Osservate i sempre giusti ed inscrutabili giudizi di Dio in ritardare o in accelerare i meritati castighi. Cento venti anni tardò il castigo di tempi di Noè minacciato agli uomini carnali: venne poi, e sommerse in un universale diluvio il mondo intero. – Venti anni stette nascosto ed impunito l’attentato de’ fratelli di Giuseppe da essi venduto in ischiavo: ma in fine la tribolazione, la prigionia e lo spavento di peggiori sciagure tolse loro di bocca la confessione, che il sangue del tradito fratello chiamava sopra di loro la meritata vendetta. – Tre anni Acab godé in pace la vigna usurpata a Nabot, e poi ferito a morte sparse nella stessa vigna l’ultimo sangue. – Un anno Davide riposò tranquillo nel suo peccato, ma dopo colla morte di due figli, colla ribellione di un terzo figlio, con mille altri infortuni provò quant’era pesante la mano di Dio vendicatore. – Poche ore passarono dalla calunniosa sentenza data da’ sordidi vecchioni contro la casta Susanna, ad essere sepolti, a furor di popolo sotto una tempesta di pietre. – Un istante, in cui Anania e Saffira confermarono una solenne bugia, bastò per farli cader morti a’ piedi di S. Pietro. – Or qui, miei cari, se siamo persuasi che peccato e castigo siano due cose inseparabili, se io e voi che mi ascoltate siamo peccatori, come in tutta verità dobbiamo confessare, che faremo per evitare l’ira di Dio armata a scaricarci sul capo i colpi di sua mano tremenda? Quale scudo al riparo, o qual via alla fuga? È questa l’interrogazione che in riva al Giordano faceva il Battista alle turbe ebree venute ad ascoltarlo. “Razza di vipere, gridava egli altamente, chi vi mostrerà il modo da fuggire la divina iracondia, che si va preparando a farvene sentire i più funesti effetti? “Genimina viperarum, quis ostendit vobis fugere a ventura ira” (Luc. III, 7). – Ecco ch’io vel suggerisco e vel predico: fate frutti degni di penitenza “Facite fructus dignos paenitentiae” (Luc. V, 3). Badate bene al mio avviso. Voi siete alberi malvagi, che non producono alcun buon frutto, e perciò la scure è già vicino alla radice che vi minaccia il taglio: e la condanna al fuoco: “Jam securis ad radicem; omnis arbor non faciens fructum bonzi excidetur, et in ignem mittetur” (Ibid. v. 2). – Altrettanto inculco a voi, fedeli miei dilettissimi: volete fuggire l’ira di Dio che vi sovrasta? Fate frutti, e frutti degni di penitenza. La vera e degna penitenza comincia dallo spirito contristato per l’orrore della colpa, e del cuore umiliato e contrito, ch’è quel sacrificio tanto a Dio accettevole che placa il suo sdegno. A questa interior penitenza fa d’uopo aggiungere l’opera di penitenza esteriore, l’osservanza de’ comandati digiuni, l’adempimento de’ propri doveri, la mortificazione de’ sensi, la pazienza, la rassegnazione alla divina volontà nelle tribolazioni, le preghiere, le limosine, le pratiche infine di soda cristiana pietà. Così facendo non avremo a temere i divini flagelli: saremo alberi ricchi di buoni frutti, frutti di virtù di vita eterna, che Iddio ci conceda.

La Cresima.

La Cresima.

[Mons. J.-J. Gaume: Il trattato dello Spirito Santo, vol. II, cap. XXIV]

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Il cristiano può adesso ammirarsi; ma egli deve soprattutto rispettarsi: Agnosce o Christiane dignitatem tuam . – Come tempio vivente dello Spirito Santo, Ei conosce i preziosi materiali con cui è costruito, ed i numeri misteriosi secondo i quali sono stati adoperati. Ma non basta una conoscenza generale. Fa d’uopo analizzare minutamente ciascuno degli elementi di questa creazione divina, incomparabilmente più bella e più degna de’nostri studi, che il mondo fisico con tutte le sue magnificenze. Per rimanere nei limiti naturali del nostro argomento, non parleremo né dei sacramenti in generale, né del simbolo, né del decalogo, né dell’orazione domenicale, quantunque tutte queste parti della divina costruzione sieno tante dipendenze ed effetti della grazia. La Cresima, le virtù, i doni, le beatitudini, i frutti, compongono il dominio diretto dello Spirito Santo. Tale è il campo più ricco di tutte le miniere della California, che .si apre alla nostra esplorazione. È di fede che i sacramenti, dandoci la grazia, ci danno lo Spirito Santo con tutti i suoi doni. Che forse ne vien di conseguenza che la Cresima sia inutile? Già noi abbiamo risposto negativamente, e dato la prova sommaria della nostra risposta. Bisogna svolgerla, e dire il fine speciale, o se si vuole, la ragione d’essere della cresima. « I sacramenti della nuova legge, ripeteremo con san Tommaso, non sono stabiliti soltanto per rimediare al peccato, e perfezionare la vita soprannaturale, ma altresì per produrre degli effetti speciali di grazia. Cosi dappertutto dove si presenta un effetto particolare di grazia, si rinviene un sacramento. » [“Sacramenta novae legis ordinantur ad speciales effectus gratiae; et ideo ubi occurrit aliquis specialis effectus gratiae, ibi ordinatur speciale sacramentum”. I II p., q. 71, art. 1, corp.]. – L’uomo venendo al mondo, non possiede che la vita naturale, e gli è necessaria la vita soprannaturale. Il Battesimo gliela dà. Tale è il fine speciale di questo sacramento. La debolezza fisica e morale è propria dell’infanzia. Se non fortificasse con l’età il suo corpo e la sua anima, l’uomo non diverrebbe uomo. Cosi è pure del cristiano. La forza gli è tanto più necessaria poiché è nato soldato. Destinato a lotte continue, la sua vita si definisce, una guerra. [“Militia est vita hominis super terram”. Job., VII,]. -L’antico Israele è la sua immagine vivente. Dai lidi del mar Rosso, tomba dei loro tiranni, gli Ebrei attraversano, dando continui combattimenti, il deserto che gli separa dalla terra promessa. Sette nazioni potenti ne disputano loro il possesso: ecco il cristiano. – Uscito dalle acque battesimali, con cui è stato liberato dalla schiavitù del demonio, per arrivare al cielo sua patria, gli è d’uopo attraversare il deserto della vita con le armi alla mano. La lotta non sarà contro esseri di carne e di sangue come lui; ma contro nemici ben altrimenti terribili, i principi dell’aria, le sette potenze del male. Evidentemente egli ha bisogno d’armi e di un maestro delle armi. In questa conferma, lo Spirito Santo si dà a lui come tale. Dice il Papa san Melchiade: « che lo Spirito Santo, scendendo nelle acque del battesimo, comunica loro nella sua pienezza la grazia che dà l’innocenza: nella cresima, arreca un accrescimento di grazia. Nel battesimo noi siamo rigenerati alla vita; nella cresima siamo preparati alla lotta. Nel battesimo noi siamo lavati; nella cresima siamo fortificati. ». [Apud S. Th,, III p.; q. 71, art. 1, corp.]. – Il Vicario di Gesù Cristo è l’eco fedele del divino maestro. A chi Nostro Signore riserba egli il miracoloso cambiamento degli Apostoli in uomini nuovi, e il cambiamento non meno ammirabile dei fedeli in martiri eroici? allo Spirito Santo che, disceso direttamente dal cielo sui primi, si dà ai secondi con la imposizione delle mani degli Apostoli, vale a dire mediante il crisma. – « Io vado, diceva tanto agli uni che agli altri, a mandare lo Spirito del Padre. Rimanete nella città, finché voi non siate rivestiti della forza dall’alto. Siate senza timore, e lo stesso Spirito Santo che parlerà per la vostra bocca e che vi darà una eloquenza tanto potente, che i vostri avversari non avranno nulla da replicare. »[Joan., XX, 16. — Luc. XXIV, 49; XX, 15]. – Come indica il suo nome, la confermazione è dunque il sacramento della forza: che essa sia stabilita per comunicarla al cristiano e fare di lui un soldato generoso, la Chiesa cattolica non ha mai cessato d’insegnarlo mediante i suoi concili, e la storia di provarlo con fatti luminosi. Di qui, quella dichiarazione solenne del Concilio di Firenze, cioè dire dell’Oriente e dell’Occidente riuniti sotto la presidenza dello stesso Spirito Santo: « L’effetto del sacramento della cresima, è di dare lo Spirito Santo come principio di forza, in quella guisa che fu dato agli Apostoli il giorno della Pentecoste, affinché il cristiano confessasse arditamente il nome di Gesù Cristo» [“Effectus autem confìrmationis sacramenti est, quia in eo datur Spiritus sanctus ad robur, sicut datus est apostolis in die Pentecostes; ut videlicet christianus audacter Christi confìteatur nomen”. Decret. ad Ann.]. – Il concilio di Magonza non è meno esplicito: « Secondo la promessa del Signore, lo Spirito Santo che noi riceviamo nel battesimo per la purificazione del peccato, si dà a noi nella cresima con un accrescimento di grazia, che ha per effetto di proteggerci contro gli assalti di Satana; d’illuminarci a fine di meglio comprendere i misteri della fede; di darci il coraggio di confessare arditamente Gesù Cristo e di fortificarci contro i vizi. Tutti questi beni il Signore ha formalmente promesso di darli ai fedeli per mezzo dello Spirito Santo, che doveva mandare. Tutte queste promesse sono state adempiute sugli apostoli il di della Pentecoste, come i loro atti ne porgono splendida testimonianza. 1 » [Conc. Mogunt, 1549, c. XVIII]. – Anche oggidì esse si compiono sui fedeli, nelle quattro parti del mondo, mediante il sacramento della cresima. La ragione è che lo Spirito Santo dimora sempre con la Chiesa, e che i suoi favori necessari per formarla, non lo sono meno per conservarla. Ora comunicandosi mediante la cresima, Io Spirito Santo opera parecchie grandi meraviglie nel cristiano, sua creatura privilegiata. La prima è una nuova Infusione della grazia santificante. – « La missione o la donazione del Santo Spirito, insegna san Tommaso, non ha luogo mai senza la grazia santificante, della quale lo Spirito Santo medesimo è il principio. È dunque manifesto che la grazia santificante è comunicata dalla cresima. Nel battesimo e nella penitenza questa grazia fa passare l’uomo dalla morte alla vita. Negli altri e nella confermazione specialmente essa accresce, ed afferma la vita( di già esistente. Questo sacramento perfeziona l’effetto del battesimo e della penitenza, nel senso che dà al penitente una remissione più perfetta de’ suoi peccati. Se un adulto, per esempio, si trova in stato di peccato senza saperlo, oppure se non è perfettamente contrito, e che si accosti alla cresima di buona fede, ei riceve mediante la grazia di questo sacramento la remissione dei suoi peccati. [III p., q. 71, art. 7, corp. et ad 1]. – La seconda è la grazia sacramentale. Oltre la grazia santificante, ciascun sacramento dà una grazia speciale, in relazione col fine del sacramento che la conferisce: e lo si appella grazia sacramentale. Nel sacramento della cresima è ama grazia di forza. Così la grazia sacramentale aggiunge qualche cosa alla grazia santificante propriamente detta. [“Gratia sacram entalis addit, saper gratiam gratum facientem comuniter sumptam, aliquid effectivum speciali effectus ad quod ordinatur sacramentum”. S . Thom. ubi sitpra, ad 8.] – Nella confermazione essa aggiunge la forza necessaria al cristiano: forza di memoria, per ritenere, senza mai dimenticarle, le grandi verità cattoliche, base e bussola della vita: forza d’intendimento, per comprendere la religione nei suoi dogmi e nei suoi precetti, nel dettaglio delle sue pratiche e nel suo magnifico complesso: nei suoi benefìci e nella sua storia, affinché tutte queste cose non abbiano nella nostra estimazione e nella nostra ammirazione né superiore né rivale. Forza di volontà, per tenere alto e fermo il vessillo cattolico, malgrado le diserzioni dei falsi fratelli, le persecuzioni del mondo, gli attacchi incessanti dell’inferno, e le interne sollecitazioni delle corrotte inclinazioni. Forza di tutte le facoltà in guisa, da armarle e da farle salire all’altezza della gran lotta,, delle quali l’anima è la posta, e il cielo la ricompensa. [S. Th., III p., q. 71, art. 1, ad 4, et art. 1, corp.]. – La terza è il carattere. In materia di sacramenti, chiamasi carattere un potere spirituale destinato a fare celate azioni nell’ordine della salute. [“Character est quaedam spiritualis potestas ad aliquas sacras actiones ordinate”. S. Th., ibid., art. 5, corp.]. Questo carattere è una grazia. Questa grazia è data allo scopo di distinguere quelli che la ricevono, da quelli che non la ricevono. Ogni grazia agisce sulla essenza medesima dell’anima. – Il carattere sacramentale è dunque interno, inerente all’anima e per conseguenza inammissibile. – Da ciò deriva che i sacramenti che l’imprimono non possono essere reiterati. « Vi sono tre sacramenti, dice il concilio di Firenze, il battesimo, la cresima e l’ordine che imprimono nell’anima un carattere, cioè dire un segno spirituale, distintivo e indelebile. » [“Tria sunt sacramenta, baptismus, confìrmatio et ordo, quae characterem, id est, spirituale quoddam -signum a caeteris distinctivum , imprimunt in anima indelebile”. Conc. Fiorent. decret. union.]. – E il concilio di Trento: « Se qualcuno dice che nei tre Sacramenti, battesimo, cresima e l’ordine non è impresso nell’anima un segno spirituale indelebile che impedisce di rinnovarli, sia scomunicato. » [“Si quis dixerit in tribus sacramentis, baptismo scilicet, confìrmatione et ordine, non imprimi characterem in anima, hoc est signum quoddam spirituale et indelebile, unde ea iterari non possunt ; anathema sit”. Sess. VII, 7]. – Il carattere essendo una forza, un potere, produce degli effetti reali in relazione con la sua natura e i bisogni dell’uomo. Cosi il carattere del battesimo distingue il cristiano dall’infedele, e gli comunica tutt’insieme la forza di compiere ciò che è necessario alla sua personale salute, e di confessare la sua credenza col ricevimento degli altri sacramenti ai quali dà il diritto. [“In baptism o accipit homo potestatem ad ea agenda, quae ad propriam pertinent salutem, prout scilicet secundum seipsum vivit Baptizatus accipit potestatem spiritualem ad protestandam fìdem per susceptionem aliorum sacramentorum”. S . T h ., III p., q. 72, art. 5, Corp. et ad 2]. -Ma non basta comunicare all’uomo la vita divina con i mezzi di conservarla, vivendo solitariamente. Bisogna da un lato che questa vita vada sviluppandosi come la vita naturale: e dall’altro, che il cristiano sia armato contro ai pericoli esterni, atteso che l’uomo è fatto per vivere in società. Mediante il carattere ch’essa imprime, la cresima soddisfa a tutte queste esigenze. Del cristiano essa fa un soldato. In esso ella aumenta la vita, della grazia ricevuta nel battesimo, e lo innalza alla perfezione. Ne risulta che il confermato può fare, nell’ordine della salute, certe azioni differenti da quelle di cui il battesimo l’ha reso capace. [“In hoc sacramento datur plenitudo Spiritus sancti ad robur spirituale, quod com petit perfectae aetati. Homo autem cum ad perfectam aetatem pervenerit, incipit jam comunicare actiones suas ad alios; antea vero quasi singulariter sibi ipsi vivit. S. Tohm., III p., q. 72, art. 12, corp.]. – Queste nuove azioni sono in rapporto, con la condizione del cristiano uscito dall’infanzia; e nel momento di entrare nella gran mischia che si appella la vita sociale. Certo la lotta contro ai nemici invisibili è la condizione di ogni anima battezzata dal giorno in cui ella si sveglia alla ragione. Ma il combattere i nemici visibili della fede, non comincia che più tardi nell’adolescenza, e al ruscire dal focolare domestico. Questi nemici sono i persecutori della verità; pagani, empi, libertini, corruttori, bestemmiatori, uomini e donne di tutte le condizioni, razza innumerevole che non sono, o che non son più cristiani e che non vogliono che si sia. – Il sacramento della cresima riveste il cristiano della forza necessaria contro questi nemici, a fine di sostenere nobilmente i combattimenti esterni della virtù. Vediamo ciò con l’esempio degli apostoli. Essi hanno ricevuto il battesimo, e nonostante si tengono nascosti nel Cenacolo fino al giorno della Pentecoste. Una volta confermati, escono dal loro ritiro, e senza temere né gli nomini né l’inferno, annunziano dappertutto la dottrina del loro maestro. Né le promesse, né le minacce, né le verghe, né le catene, né le prigioni, né le torture, né la morte non scuotono il loro coraggio. Così è altrettanto dei martiri. La quarta è l’accrescimento della virtù. Per comprendere questa nuova operazione, fa d’uopo scendere con la falce della filosofia e della fede, sino nelle profondità della natura dell’uomo e del cristiano. Nel cristiano vi sono due vite: la vita umana e la vita divina: ambedue si sviluppano su tante linee parallele; ambedue unite da leggi di conservazione e da rapporti di somiglianza, accusano l’unità di principio e l’unità di fine. – Siccome la quercia con tutta la sua potenza di vegetaazione, d’accrescimento e di solidità si trova in germe nella ghianda; cosi nel germe di vita umana e nel germe di vita divina; depositato in noi, si trovano in principio le forze, che più tardi si manifesteranno con atti, e si dischiuderanno in abitudini, d’onde dipenderà lo sviluppo dell’uomp e del cristiano. – Non vi è nessuno che non ammiri nelle piante questo lavoro di vegetazione e di accrescimento: potremmo noi seguirlo con minore interesse nella nostra debole natura d’uomini e di cristiani? Nello scoprire il segreto nel più umile vegetale, è la gioia del sapiente e il trionfo della scienza. Qual trionfo più nobile, qual gioia più viva di sorprenderlo in noi stessi. Il mezzo di giungere a questo risultato, è di farci una idea giusta di ciò che s’intende per abitudini e per virtù: per virtù infuse e per virtù acquisite; per virtù naturali e per virtù soprannaturali. – Chiamasi abitudine, una disposizione, o una qualità dell’anima, buona o cattiva. Essa è buona se è conforme alla natura dell’essere e del suo fine; cattiva se è contraria all’uno od all’altro. L’abitudine essendo una forza o un principio d’azione, dà luogo ad atti buoni o malvagi. Così, l’abitudine di agire con riflessione è buona, imperocché essa è conforme alla natura dell’essere ragionevole. Al contrario, l’abitudine di eccedere nel sonno, nel bere o nel mangiare, è cattiva: poiché essa tende a mettere al disopra ciò che deve stare al disotto, il corpo al disopra dell’anima. La virtù è una abitudine essenzialmente buona. Questa definizione mostra tutta la differenza che esiste tra l’abitudine propriamente detta, e la virtù. La prima è buona o cattiva, e porta al bene o al male. La seconda è essenzialmente buona e non può portare che al bene. – Di qui, quell’altra definizione, di sant’ Agostino: «La virtù è una buona qualità, o abitudine dell’anima, che fa viver bene, che niente può impiegare a male, e che Dio ha posto in noi, senza di noi. » [“Virtus est bona qualitas seu habitus m entis, qua recte vivitur et qua nullus male utitur, et quam Deus in nobis sine nobis operator”. De lib. arbit, lib. XI, c. XVIII]. -Nell’ordine puramente naturale, si distinguono le virtù infuse e le virtù acquisite. Le prime, come dice sant’Agostino, sono in noi, senza di noi; ma è chiaro che mediante gli atti spesso reiterati, queste buone qualità acquistano alla lunga una grande energia, e cosi sviluppate si appellano virtù acquisite. Meno che altrove non deve l’uomo attribuirsi ciò che appartiene a Dio. Nell’ordine naturale, come nell’ordine soprannaturale, è sempre sopra un fondamento divino eh’ esso lavora. I semi delle virtù acquisite sono in lui senza di lui. Il solo suo merito è nella coltura che egli dà ai doni del Creatore. E altresì gli atti che risultano dalla sua cooperazione, non raggiungono mai la perfezione del principio da cui essi emanano: simili ai ruscelli, la cui acqua è sempre meno pura, di quella della stessa sorgente. Le virtù naturali infuse o acquisite, procedendo da principi puramente naturali, cioè a dire non essendo che lo svolgimento della vita umana, hanno per termine la perfezione naturale. Il domandare ad esse di innalzare l’uomo ad un fine soprannaturale, cioè dire di condurlo nella perfezione della sua vita divina, sarebbe assurdo. La ragione è chiara come la luce del giorno. In tutte le cose i mezzi debbono essere proporzionati al fine; dunque il naturale non può produrre il soprannaturale. Però il soprannaturale è il fine per il quale l’uomo è stato creato. Come vi perverrà egli? Con la sua ordinaria lucidità, san Tommaso ci darà la risposta. – Dice l’angelico dottore: « Nell’uomo vi sono due principi moventi: l’uno interiore che è la ragione, l’altro esteriore che è Dio. II primo generatore delle virtù pura mente umane, pone l’uomo in stato di agire, in molti casi, conforme alla rettitudine ed all’equità naturale. Ma ciò non basta; l’uomo è chiamato a vivere d’una vita divina. – Di questa seconda vita, lo stesso Spirito Santo è il principio. La grazia eh’Egli diffonde nell’anima al momento del battesimo, è un elemento divino, donde procedono virtù soprannaturali, coinè le virtù naturali procedono dalla ragione e dall’eleménto umano. Queste virtù prendono il nome di virtù soprannaturali infuse. – Esse non sono la grazia, molto meno le virtù naturali non sono la ragione; come pure l’atto non è la potenza: nè l’effetto è la causa. » – Avuto riguardo alla vita divina che é in noi e della quale dobbiamo vivere a fine di giungere al nostro fine ultimo, queste virtù soprannaturali sono altresì più necessarie delle virtù puramente naturali o umane. – « La virtù, dice san Tommaso, perfeziona l’uomo e lo rende capace di atti, in relazione alla sua felicita. Ora vi sono per l’uomo due sorta di felicità o di beatitudine: l’una proporzionata alla sua natura d’uomo, e alla quale egli può pervenire con le forze della sua natura; ma non senza l’aiuto di Dio, “non tamen absque adjutorio divino”: l’altra, superiore alla natura, alla quale l’uomo non può pervenire che con forze divine, imperocché essa è una certa partecipazione della natura stessa di Dio. Gli elementi costitutivi della natura umana, non potendo innalzare l’uomo a quella seconda beatitudine, è occorso che Dio sopraggiungesse dei nuovi elementi, capaci a condurre l’uomo alla beatitudine soprannaturale, come gli elementi naturali lo conducono ad una naturale beatitudine. » – Tutti questi elementi sono compresi nella parola grazia, la più profonda senza dubbio e la più bella della lingua religiosa. Ora, in capo alle virtù nate dalla grazia, stanno le tre virtù teologali : la fede, la speranza e la carità. Come prime espansioni alla vita divina esse ci mettono, come conviene, in relazioni soprannaturali con Dio, nostro fine ultimo, e loro oggetto immediato. – La fede deifica l’intelligenza, messa in possesso di certe verità soprannaturali, che la luce divina le fa conoscere. La speranza deifica la volontà, dirigendola verso il possesso del bene soprannaturale conosciuto dalla fede. La carità deifica il cuore, che essa spinge all’unione col bene soprannaturale, conosciuto mediante la fede, e desiderato per mezzo della speranza. Non solamente il cristiano dee vivere nei suoi rapporti soprannaturali con Dio, ma ancora con sé stesso, co’ suoi simili con la creazione tutta intera. Come adempirà egli a quest’ obbligo? Dal principio vitale soprannaturale in lui escono necessariamente come un nuovo getto, le quattro grandi virtù morali: la prudenza, la giustizia, la forza, la temperanza. – Noi diciamo necessariamente; la ragione è che Dio non opera con meno perfezione nelle opere della grazia che nelle opere della natura. Ora, nelle opere della natura non si trova un sol principio attivo che non sia accompagnato da mezzi necessari al compimento dei suoi atti propri. Cosi tutte le volte, che Dio crea un essere qualunque, lo provvede di mezzi per fare quello a cui è destinato. Ma infatti la carità, predisponendo l’uomo al suo fine ultimo, è il principio di tutte le buone opere che vi conducono. Bisogna dunque che con la carità siano infuse, e che dalla carità escano tutte le virtù necessarie all’ uomo, per compiere i suoi doveri non solamente verso il Creatore, ma verso la creatura. – Le quattro virtù morali essendo come il cardine su cui muovonsi in giro i rapporti dell’ uomo con tutto ciò che non è Dio, hanno ricevuto il nome di virtù cardinali. [S. Th., l a, 2ae, q. 63, art. 3, corp.]. – E con ragione; poiché da esse sono animati, diretti, informati soprannaturalmente i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre affezioni e i nostri atti, nell’ordine domestico e nell’ordine sociale. La prima è la prudenza. Questa madre delle virtù morali, che le dirige, come una madre dirige le sue figlie, si definisce: Una virtù che, in tutte le cose, ci fa conoscere, e fare ciò che è onesto, e fuggire ciò che non lo è. Questa definizione, ammessa del pari dalla filosofia e dalla teologia, mostra che non vi è virtù morale senza la prudenza. « Difatti, dice san Tommaso, viver bene, vuol dire operar bene. Non basta conoscere quel che c’è da fare, bisogna conoscere altresì la maniera dì fare. Ciò suppone la scelta giudiziosa dei mezzi. Alla sua volta questa scelta avendo rapporto col fine che si vuol raggiungere, suppone un fine onesto e mezzi convenienti per giungervi: tutte cose che appartengono alla prudenza. – Se voi gli sopprimete non vi è più virtù. La precipitazione, l’ignoranza, la passione, il capriccio, divengono il movente delle azioni; la stessa virtù sarà vizio. Dunque senza la prudenza non v’ha virtù possibile. [S. Bernard Serm. 40 super Cani]. Apprendiamo di qui qual regio dono fa lo Spirito Santo all’anima, dandole la prudenza, mediante il battesimo, sviluppandola per mezzo della cresima. Impariamolo eziandio dal bisogno continuo che abbiamo di questa virtù; poiché essa si applica a tutto. Parimente si distingue la prudenza personale, che insegna a ciascuno il modo di adempiere a’ suoi doveri verso sé medesimo, verso l’anima sua e verso il corpo suo. La prudenza domestica, che insegna al padre a dirigere la sua famiglia. La prudenza politica, che insegna ai re a governare i popoli in modo, da condurli al fine per cui Dio gli ha creati; la prudenza legislativa, alla quale i legislatori debbono le leggi eque ed i regolamenti salutari. Nemica della prudenza della carne, dell’astuzia, della menzogna, della frode, della sollecitudine esagerata delle cose temporali, la prudenza, figlia della grazia, è la gloria esclusiva degli abitanti della Città del bene. Essa forma la loro felicità; e se il mondo attuale cammina di rivoluzioni in rivoluzioni, se tutto in esso e malcontento, instabilità, febbre d’oro e di godimenti, bisogna attribuirlo alla perdita della prudenza cristiana ed al regno della prudenza satanica. La seconda virtù morale che esce dalla grazia, come il frutto esce dall’albero, e che matura al sole della confermazione, è la giustizia. La giustizia è una virtù che fa rendere ad ognuno ciò che gli appartiene. – Illuminata dalla prudenza, la giustizia soprannaturale rispetta innanzi tutto i diritti di Dio. Questi, come proprietario incommutabile d’ogni cosa, ha diritto a tutto e sopra tutto, per conseguenza al culto interiore ed esteriore dell’ uomo e della società. Qui la giustizia si manifesta mediante là virtù di religione, che comprende l’adorazione, la preghiera, il sacrificio, il voto, l’adempimento fedele dei precetti relativi al culto diretto del Creatore. «Essa rispetta i diritti del prossimo, ricco o povero, debole o forte, inferiore o superiore. Ad essa il mondo deve la fine dell’impiego dell’uomo a profitto di un uomo, dell’uccisione del bambino, della schiavitù, del dispotismo brutale, che pesò su tutti i popoli avanti la redenzione, e che pesa ancora su tutte le nazioni estranee ai benefizi del Vangelo. Essa insegna all’uomo a rispettare se stesso, la sua anima e i suoi diritti, il suo corpo ed i suoi, la sua vita, la sua morte e fino al suo sepolcro.Essa gli insegna finalmente a rispettare le creature governandole con equità, cioè conforme al loro fine: in spirito di dipendenza come in bene d’altri; con timore, come dovendo render conto dell’ uso che ne avrà fatto. Si immagini dunque ciò che diverrà il mondo sotto l’impero della giustizia soprannaturale!La terza virtù cardinale è la forza. Senza di essa la prudenza e la giustizia sarebbero lettere morte. Non basta aver cognizione del bene, nemmeno la volontà, bisogna averne il coraggio. Il coraggio è figlio della forza. La forza è una virtù che tiene l’anima in equilibrio tra l’audacia e il timore. L’audace pecca per eccesso, il timido per difetto, il forte tiene il mezzo tra l’uno e l’altro. [“Fortitudo est mediocritas inter audaciam et timorem constituta”. Apud Ferraris, Biblioth., etc., art. Virtus, n. 120]. – La forza ha un doppio ufficio, attivo e passivo. Attivo, in faccia al dovere perché affronta i pericoli: passivo, all’avversità perché oppone la pazienza. La magnanimità, o la grandezza di animo, la confidenza, il sangue freddo, la costanza, la perseveranza, la rassegnazione, l’attività, sono figlie della forza. Tutta questa famiglia, soprannaturalizzata dalla grazia, innalza il carattere dell’ uomo al suo più alto grado di nobiltà, intanto che essa produce nella vita privata, come nella vita pubblica, gli atti ammirabili che non si cessa d’ammirare, dacché lo Spirito Santo, diffuso nel mondo, gli ha resi così comuni. V’è egli bisogno d’aggiungere che per ragione delle circostanze presenti la forza deve essere, la grande virtù dei cristiani? forza per mettere, mediante il numero, la grandezza e la santità delle loro opere, un contrappeso alle iniquità del mondo; forza eroica per resistere agli attacchi eccezionali, di cui sono l’oggetto; forza per soffrire gli oltraggi inauditi, prodigati verso tutto ciò che hanno di più sacro e di più caro. La quarta virtù cardinale è la temperanza. È una virtù che regola l’uso del bere, e del mangiare; che reprime la concupiscenza, e modera i piaceri del senso. – Come le tre sue sorelle, cosi la temperanza è madre di una nobile e numerosa famiglia. La sobrietà, l’astinenza, la castità, la continenza, la verginità, il pudore, la modestia, la clemenza, l’umiltà, l’amabilità sono le sue figlie. Oh! vivano in un uomo, e quest’uomo diventerà il tipo del bello morale, la personificazione dell’ordine. – L’anima illuminata dalla prudenza, regolata dalla giustizia, sostenuta dalla forza, comanda al corpo; e il suo comandamento, eseguito con esattezza, allontana tutto ciò che degrada la natura umana. Lungi dall’uomo temperante, la gola, l’ubriachezza, la crapula, l’Impurità, la folle prodigalità, il lusso rumoso, i piaceri seduttori, in una parola, la vergognosa schiavitù dello spirito sotto il dispotismo della carne. Tale è la quarta virtù alla quale lo Spirito Santo comunica mediante la cresima, una nuova energia. Noi tralasciamo di dire se la temperanza in tutte le sue applicazioni, è una virtù necessaria ai cristiano moderno, condannato a vivere in mezzo di un mondo costituito tutto quanto sulla intemperanza. Benché sia difficilissimo in molti casi distinguere il naturale e il soprannaturale, la ragione e la grazia, questo duplice movente degli atti umani, come parla san Tommaso; nonostante la distinzione è reale. Costantemente ammessa dalla teologia cattolica, essa è fondata sul principio incontrastabile di una doppia vita nel cristiano. Vita puramente naturale come creatura destinata ad un fine naturale, e provvista di mezzi di pervenirvi. Vita soprannaturale, come figlio adottivo di Dio destinato ad un fine soprannaturale, imperiosamente obbligatorio per tutti gli uomini nell’ordine attuale della Provvidenza. Ne risulta che la prudenza, la giustizia, la forza, la temperanza sono altrettante virtù naturali infuse: ma tra la prudenza, la giustizia, la forza, la temperanza soprannaturali, grande è la differenza. Differenza nel principio: le prime procedono dalla ragione; le seconde dalla grazia. Differenza nel fine: le prime ci pongono in rapporti naturali e puramente umani col loro oggetto; le seconde in rapporti soprannaturali e divini. – Differenza nella efficacia: le prime sono inutili alla salute: le seconde non vi conducono. Differenza nella loro dignità: le prime si regolano secondo i lumi della ragione: le seconde, secondo i lumi dello Spirito Santo. Le prime fanno l’uomo onesto; le seconde il cristiano. Ora tra l’uomo onesto ed il cristiano, è tutta la differenza, che separa l’insetto che striscia, e l’uccello che vola. Un solo tratto ci fa pronunziare questo giudizio. La temperanza naturale, o filosofica per esempio, si limita a reprimere la concupiscenza del bere e del mangiare, in guisa da prevenire ogni eccesso, capace di nuocere alla salute, e di turbare la ragione; è il terra terra della virtù. La temperanza soprannaturale va più oltre. Essa conduce l’uomo a castigare il suo corpo ed a ridurlo in servitù, mediante l’astinenza nel bere e nel mangiare e di ciò che può lusingare i sensi. È la verità della virtù, la ratifica dell’ordine, mediante la subordinazione, completa della carne allo spirito, e dello spirito a Dio. Lo stesso è delle altre virtù. [S. Th., l a, 2ae, q. 63, art. 4, corp.]. – La differenza tra le virtù naturali e le virtù soprannaturali ci è nota. Ma in che cosa diversificano queste ultime da’ doni dello Spirito Santo? Questa questione è senza dubbio una delle più importanti che noi abbiamo da trattare. Nettamente risoluta, essa getta una gran luce sulla natura delle operazioni successive, per le quali lo Spirito Santo sviluppa in noi l’essere divino; mostra il nesso che le unisce senza confonderle; e fa risaltare con splendore l’azione necessaria di ciascuna. I seguenti capitoli saranno consacrati allo studio di questo meraviglioso lavoro, la cui cognizione chiamerà sulle nostre labbra l’esclamazione del Profeta: “Ammirabile è Dio nei suoi santi, ed è santo in tutte le opere sue”. [Ps. LXVII, 36]

 

PREZIOSISSIMO SANGUE DI NOSTRO SIGNOR GESÙ CRISTO

PREZIOSISSIMO SANGUE

DI NOSTRO SIGNOR GESÙ’ CRISTO

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Scopo della festa.

[Dom Guéranger: “L’anno liturgico, vol II]

La Chiesa ha già rivelato ai figli della nuova Alleanza il valore del Sangue dal quale furono riscattati, la sua virtù nutritiva e gli onori dell’adorazione che esso merita. Il Venerdì Santo, la terra e i cieli videro tutti i peccati immersi nel fiume della salvezza le cui eterne dighe si erano infine rotte, sotto la pressione associata della violenza degli uomini e dell’amore del Cuore divino. La festa del Santissimo Sacramento ci ha visti prostrati davanti agli altari in cui si perpetua l’immolazione del Calvario e l’effusione del Sangue prezioso divenuto la bevanda degli umili e l’oggetto degli omaggi dei potenti di questo mondo. Oggi tuttavia la Chiesa invita nuovamente i cristiani a celebrare i flutti che si effondono dalla sacra sorgente: che altro significa ciò, se non che, le solennità precedenti non ne hanno certamente esaurito il mistero? La pace ottenuta da quel Sangue; lo scorrere delle sue onde che riportano dagli abissi i figli di Adamo purificati; la sacra mensa imbandita per essi, e quel calice di cui esso costituisce l’inebriante liquore: tutti questi preparativi sarebbero senza scopo, tutte queste meraviglie resterebbero incomprese se l’uomo non vi scorgesse le proposte d’un amore le cui esigenze non vogliono essere sorpassate dalle esigenze di nessun altro amore. Il Sangue di Gesù deve essere per noi in quest’ora il Sangue del Testamento, il pegno dell’alleanza che Dio ci propone (Es. XXIV, 8; Ebr. IX, 20), la dote costituita dall’eterna Sapienza che invita gli uomini a quella divina unione di cui lo Spirito di santità procura senza fine il compimento nelle nostre anime.

Virtù del Sangue di Gesù.

« Avendo dunque, o fratelli – ci dice l’Apostolo – in virtù del sangue di Cristo, la fiducia di entrar nel Santo dei Santi, per la via nuova e vivente che egli inaugura per noi attraverso il velo, cioè attraverso la sua carne, accostiamoci con cuore sincero, colla pienezza della fede, purificato il cuore dalla cattiva coscienza, col corpo lavato dall’acqua pura. Conserviamo senza vacillare la professione della nostra speranza (essendo fedele chi ha promesso) e vigiliamoci a vicenda, per stimolarci alla carità e alle opere buone (Ebr. X, 19-24). E il Dio della pace, il quale ha ritolto alla morte nostro Signor Gesù Cristo, vi renda capaci d’ogni bene, in modo che voi facciate la sua volontà, mentre egli opera in voi ciò che gli è grato per Gesù Cristo, a cui sia gloria nei secoli dei secoli» (ibid. XIII, 20-21).

Storia della festa.

Non dobbiamo omettere di ricordare qui che questa festa è il memoriale di una fra le più splendide vittorie della Chiesa. Pio IX era stato scacciato da Roma, nel 1848, dalla Rivoluzione trionfante; in quegli stessi giorni, l’anno seguente, egli vedeva ristabilito il suo potere. Il 28, 29 e 30 giugno, sotto l’egida degli Apostoli, la figlia primogenita della Chiesa, fedele al suo glorioso passato, cacciava i nemici dalle mura della Città eterna; il 2 luglio, festa di Maria, terminava la conquista. Subito un duplice decreto notificava alla città e al mondo la gratitudine del Pontefice e il modo in cui egli intendeva perpetuare mediante la sacra Liturgia il ricordo di quegli eventi. – Il 10 agosto, da Gaeta, luogo del suo rifugio durante la burrasca, Pio IX, prima di tornare a riprendere il governo dei suoi Stati, si rivolgeva al Capo invisibile della Chiesa e Gliela affidava con l’istituzione dell’odierna festa, ricordandogli che, per quella Chiesa egli aveva versato tutto il suo Sangue. Poco dopo, rientrato nella capitale, si rivolgeva a Maria, come avevano fatto in altre circostanze san Pio V e Pio VII; il Vicario dell’Uomo-Dio attribuiva a Colei che è l’Aiuto dei cristiani l’onore della vittoria riportata nel giorno della sua gloriosa Visitazione, e stabiliva che la festa del 2 luglio fosse elevata dal rito doppio maggiore a quello di seconda classe per tutte le Chiese: preludio alla definizione del dogma dell’Immacolata Concezione, che l’immortale Pontefice fin d’allora aveva in mente, e che doveva schiacciare ancor più il capo del serpente. – Poi, nel corso del Giubileo indetto nel 1933 per commemorare il XIX centenario della Redenzione, Papa Pio XI, onde imprimere maggiormente nell’animo dei fedeli il ricordo e la venerazione del Sangue del Divino Agnello e per invocarne sulle anime nostre frutti più abbondanti, elevò la festa del Preziosissimo Sangue al doppio di prima classe.

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Sermone di san Giovanni Crisostomo Omelia ai Neofiti

Volete conoscere la virtù del sangue di Cristo? Risaliamo a ciò che l’ha figurato, e ricordiamo il suo primo simbolo, e narriamo il passo dell’antica Scrittura. Nell’Egitto, Dio minacciava gli Egiziani d’una decima piaga, di far perire a mezzanotte i loro primogeniti, perché trattenevano il suo popolo primogenito. Ma, affinché l’amato popolo Giudaico non perisse insieme con quelli, abitando tutti uno stesso paese, egli trovò un mezzo di riconoscimento. Esempio meraviglioso fatto apposta per farti conoscere la virtù del sangue di Cristo. Gli effetti della collera divina erano attesi e il messaggero di morte andava di casa in casa. Che fa allora Mosè? Uccidete, dice, un agnello d’un anno, e col suo sangue tingete le porte. Che dici, Mosè? Il sangue di un agnello può dunque preservare l’uomo ragionevole? Certo, egli risponde; non perché è sangue, ma perché esso è figura del sangue del Signore. – Poiché come le statue dei re, pur inerti e mute, proteggono d’ordinario gli uomini dotati d’anima e di ragione i quali si rifugiano presso di esse, non perché sono di bronzo ma perché sono l’immagine del principe; così quel sangue, privo di ragione, liberò gli uomini aventi un’anima, non perché era sangue, ma perché annunziava la venuta di questo sangue. E allora l’Angelo devastatore vedendo gli stipiti e le porte tinte, passò oltre e non osò entrare. Se dunque ora il nemico invece delle porte tinte d’un sangue figurativo, vedrà le labbra dei fedeli, porte dei templi di Cristo, arrossate del suo vero sangue, molto più esso se ne allontanerà. Perché se l’Angelo si ritirò davanti alla figura, quanto più sarà atterrito il nemico nel vedere la stessa realtà? Vuoi conoscere ancora un’altra virtù di questo sangue? Sì. Guarda donde prima s’è sparso e da qual fonte è uscito. Esso è uscito prima dalla croce medesima; il costato del Signore ne fu la sorgente. Difatti morto Gesù, è detto, e ancora sospeso alla croce, si avvicina un soldato, ne percuote il lato colla lancia e ne esce acqua e sangue; l’una simbolo del battesimo, l’altro del sacramento. E perciò non disse: Uscì sangue e acqua; ma uscì prima l’acqua e poi il sangue, perché prima siamo lavati nel battesimo, e poi consacrati dai santi misteri. – Un soldato aprì il costato, e fece un’apertura nella parete del tempio santo; ed io v’ho trovato un tesoro prezioso, e mi rallegro di scoprirvi delle grandi ricchezze. Così è avvenuto pure di quest’agnello: i Giudei uccisero l’Agnello, ed io vi ho riconosciuto il frutto del sacramento. Dal costato uscì sangue ed acqua. Non voglio, uditore, farti passare sì rapidamente sui secreti di tanto mistero; mi resta ancora a dire una cosa mistica e profonda. Dissi quest’acqua e questo sangue esser simbolo del Battesimo e dei sacri misteri. Infatti per essi fu fondata la Chiesa mediante la rigenerazione del bagno e la rinnovazione dello Spirito Santo. Per il Battesimo, dico, e i sacri misteri, che sembrano usciti dal costato. Dal suo costato dunque Cristo ha edificato la Chiesa, come dal costato di Adamo fu tratta Eva, sua sposa. Ond’è che (San) Paolo attesta dicendo: «Noi siamo membra del suo corpo e delle sue ossa» (Eph. 5,30), alludendo a questo costato. Invero, come Dio fece uscire la donna dal costato d’Adamo, così Cristo ci ha dato dal suo costato l’acqua e il sangue, destinati alla Chiesa come elementi riparatori.

Omelia di sant’Agostino Vescovo Trattato 120 su Giovanni

L’Evangelista ha usato una parola studiata, perché non ha detto: Gli percosse il costato, o ferì, o altro di simile, ma: “Aprì”; per mostrarci che la porta della vita ci si apre in certo qual modo là donde sono sgorgati i sacramenti della Chiesa, senza i quali non si ha accesso alla vita, ch’è la sola vera vita. Quel sangue che fu versato, fu versato per la remissione dei peccati. Quell’acqua ci tempera la bevanda della; salvezza; ed essa è insieme bagno, purificatore e bevanda. Questo significava l’ordine dato a Noè di aprire una porta nel fianco dell’arca per farvi entrare gli animali che non dovevano perire nel diluvio e che rappresentavano la Chiesa. Perciò la prima donna fu tratta dal costato dell’uomo addormentato e fu chiamata la vita e la madre dei viventi. Perché simboleggiava un gran bene, prima che commettesse il gran male della prevaricazione. Questo secondo Adamo, chinato il capo, si addormentò sulla croce, affinché ne fosse formata la sua sposa che uscì dal costato di lui addormentato. O morte, per cui i morti rianno la vita! Che più puro di questo sangue? Che più salutare di questa ferita? – Gli uomini erano schiavi del diavolo, e servivano ai demoni; ma sono stati riscattati dalla schiavitù. Essi infatti poterono bensì vendersi, ma non poterono riscattarsi. Venne il Redentore, e sborsò il prezzo; sparse il suo sangue, e ricomprò il mondo. Chiedete che cosa ha comprato? Guardate quel che ha dato e vedrete quel che ha comprato. Il sangue di Cristo n’è il prezzo. Che vale esso mai? che cosa, se non tutto il mondo? che cosa, se non tutte le genti? Sono molto ingrati al suo prezzo, o sono molto superbi coloro che dicono ch’esso vale sì poco d’aver comprato soltanto gli Africani, o ch’essi sono tanto grandi che fu sborsato soltanto per essi. Non si millantino dunque, non s’insuperbiscano. Quello che ha dato, lo ha dato per tutti. – Egli ebbe il sangue, onde riscattarci; e perciò prese il sangue, perché servisse ad essere versato per la nostra redenzione. Il sangue del tuo Signore, se lo vuoi, è stato dato per te: ma se non vuoi, non è stato dato per te. Ma forse dirai: Ebbe il mio Dio il sangue onde redimermi, ma ormai lo diede tutto, quando soffrì: che gliene rimane ancora da darlo anche per me? E questa è la gran cosa, che lo diede una volta, e lo diede per tutti. Il sangue di Cristo per chi vuole è salvezza, per chi non vuole è condanna. Perché dunque tu, che non vuoi morire, dubiti d’essere liberato piuttosto dalla seconda morte? Dalla quale sarai liberato, se vuoi prendere la tua croce, e seguire il Signore; perché Egli prese la sua, e andò in cerca dello schiavo.

Invito a questa Devozione.

[G. Riva: Manuale di Filotea – Milano 1888]

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Basta esser cristiano per professare una speciale devozione al Sangue divino di Gesù Cristo. Desso infatti è nientemeno che il prezzo con cui tutti gli uomini furono riscattati dalla schiavitù dell’inferno, quel mosto misterioso colla cui aspersione l’anima nostra si purificò d’ogni macchia e divenne oggetto di compiacenza agli occhi di Dio, quella mediazione che è sempre efficace ad ottenere misericordia, più che non fosse il sangue di Abele a domandare vendetta; quella fonte sempre patente da cui ognuno può trarre con gaudio acque di misericordia e di grazia. Di qui è che il Crisostomo la chiama “Salvezza delle anime”, S. Tommaso “Chiave dei tesori celesti”, Sant’Ambrogio “Oro prezioso d’infinito valore”, S. Bernardo “Tromba che altamente risuona misericordia e clemenza, e S. Maria Maddalena de’ Pazzi “Pegno e Caparra di vita eterna”. Egli è perciò che Eugenio IV, Paolo II1, Paolo IV, Gregorio XIII accordarono numerosi privilegi alla confraternita del Prezioso Sangue eretta nella Chiesa di “Santa Maria in Vado”, in Roma. Questa pia Unione venne poi confermata in perpetuo nel 1285 da Sisto V. Venuta però in qualche decadenza una sì pia istituzione, si adoperò per rilevarla il canonico Gaspare de Bufalo, di cui vassi ora inoltrando in Roma il processo di Canonizzazione [fu poi effettivamente canonizzato nel 1954 da SS. Pio XII -ndr.- ]. Né furono vani i suoi sforzi, perocché in poco d’ora vide divenute famigliarissime in Roma e in molti altri paesi le sante pratiche da lui suggerite, specialmente quella delle Sette Offerte costituenti la Corona del preziosissimo , non che quella di un mese intero, e specialmente quello di giugno, parzialmente destinato a questo culto. [oggi luglio]. A questo dilatamento, che va sempre crescendo, contribuì l’istituto dei Missionari detti del preziosissimo Sangue fondati dallo stesso Canonico, non ché Monsignor Strambio, Vescovo di Macerata che ne fu sempre devotissimo. Nelle vicinanze di Roma, nei villaggi cioè di Genzano, di Laricia, di Nemi niente è più comune che il trovar scritto sopra le porte “Viva il Sangue dì Gesù Cristo”. Ciò ricorda l’efficacia della predicazione di Gaspare del Buffalo che riusciva a radicar dappertutto il culto ch’ei professava pel primo, e quindi mettere tutte le case sotto la protezione del Sangue di Gesù-Cristo, come le case degli Ebrei in Egitto erano sotto il patrocinio del Sangue dell’Agnello che bastava, da sè solo, a perseverarle dalla spada dell’Angelo sterminatore.- Professate dunque ancor voi una divozione particolare al Sangue SS. di Gesù Cristo, e una felice esperienza vi obbligherà a confessare col Grisostomo, che questo Sangue adorabile è un fiume misterioso che irriga tutta la terra, e la feconda e la adorna d’ogni più bella specie di alberi ciascheduno dei quali produce a suo tempo i frutti più belli e saporosi.

Sulle Reliquie del Preziosissimo SANGUE

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Fu dunqe già sentimento di molti critici, che il Sangue Preziosissimo di Gesù Cristo che molte chiese si glorificano di possedere non fosse altro che sangue miracoloso sgorgato da qualche Crocifisso maltrattato dagli Ebrei, fra i quali è famoso quel di Perito, oppure da qualche Sacra Ostia egualmente maltrattata. Ma il rispetto che si deve alle venerabili e pie tradizioni riconosciute legittime dai Papi stessi che ne fecero l’esame il più accurato e le autenticarono con il’appoggio dei loro più solenni Decreti, non lascia più luogo a dubitare che questo Sangue di cui si parla, anziché sangue miracoloso dei Crocifissi e delle Ostie, sia proprio sangue naturale di Gesù Cristo, cioè parte di quel Sangue che sgorgò dalle sue vene nei giorni tormentosi di sua passione . Né vale l’opporre in proposito che Gesù Cristo, nella sua Risurrezione, riprendendo tutto quello che aveva perduto, doveva ancor prendere tutto il sangue che in qualsivoglia modo aveva versato; perocché i più dotti teologi fanno notare che, a restituire nel pristino stato la sua divina Umanità, non era necessario che Gesù Cristo riprendesse fino all’ultima goccia tutto quel sangue che era uscito dal divino suo corpo, ma bastava che egli riprendesse tutto quello che era necessario a costituire perfetta la propria umanità, non ostando per niente alla sua integrità il lasciare in terra qualche piccola parte a fomento speciale di devozione ne’ suoi fedeli adoratori, onde alla vista di queste moltiplicate testimonianze della sua carità verso di noi, venissero essi a sempre più accendersi di amore verso di Lui. Tale infatti è infatti la dottrina insegnataci dal Sommo Pontefice Pio II nel famoso suo Breve del 1 Agosto 1461, ordinato ad approvare quel culto che dalla più remota antichità, fu costantemente prestato al Preziosissimo Sangue venerato in Mantova, e sempre ritenuto per sangue vero e naturale del nostro Signore Gesù-Cristo. – A provare la ragionevolezza di questa credenza non occorre che di esaminare la storia di questo sacro deposito, sempre veneratissimo fra i Mantovani. Noi la rifereremo coll’ordine, e quasi ancora colle parole del celebre Fra Ippolito Donesmondi, accreditatissimo scrittore delle Memorie Ecclesiastiche di tale illustre città.

 

DEL SANGUE PREZIOSISSIMO DI GESÙ

venerato in Mantova.

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Longino, soldato romano della provincia di Isauria, presente alla morte di Cristo, Lo ferì con una lancia nel costato, e da questa ferita ne scaturì Sangue ed Acqua. Convertito da questo miracolo, raccolse con una spugna quanto più poté di quell’umore divino, e lo portò a Mantova l’anno di Cristo 36, ove si recò per predicarvi, come primo apostolo, il Vangelo. Ivi perseguitato dal prefetto Ottavio, per cui ordine fu poi decollato il 2 Dicembre dell’anno susseguente, che era il ventesimo primo del regno di Tiberio, pensò a mettere in sicuro la gran Reliquia che aveva seco portato, nascondendola sotto quel luogo ove adesso si ammira la chiesa oltremodo magnifica di S. Andrea. – Al tempo di Carlo Magno nell’804, per celeste rivelazione, venne a scoprirsi il preziosissimo deposito lasciatovi da Longino. Il fatto fu cosi strepitoso che il Papa Leone III si recò personalmente sul posto, ed accertatosi della verità, ne portò in dono una particella all’ Imperatore. – Nel 925, per paura degli Ungari che devastavano l’Italia, i Mantovani sotterrarono il detto preziosissimo Sangue, parte in S.Andrea, e parte in s. Paolo, che era allora la chiesa cattedrale. Nel 1053 Enrico III Imperatore, venuto apposta a Mantova, adorò questo preziosissimo Sangue e presone un poco, che portò in Boemia, fece murar sotterra il rimanente temendosi ancora l’invasione dei barbari che di continuo infestavano l’Italia. – Nel 1084, per rivelazione fatta dall’Apostolo s. Andrea al Beato Adalberto, fu nuovamente trovato il divino deposito: e pei grandi miracoli che ne seguirono, venne a Mantova il Papa Leone IX, e approvata la pubblica credenza, nonché il culto supremo che si prestava a quell’insigne Reliquia, ne portò una particella in Roma, ove si mostra tuttora. – Nel 1298 Bardellone Bonacorsi, reggendo Mantova, fece aprire il luogo ov’era nascosto detto Santissimo Sangue, e lo fece portare processionalmente per tutta la città con grande festa, poi lo rinserrò come prima. – Nel 1356 Carlo IV Imperatore, venuto a Mantova, fece rompere segretamente lo stesso luogo, ove era il detto SS. Sangue, lo adoro con gran devozione facendo poi acconciar tutto come prima; e 14 anni dopo concesse amplissimi privilegi alla chiesa di S. Andrea. – Nel 1402 Francesco Gonzaga vicario, quarto re di Mantova, fece rompere segretamente il detto luogo, è presa una particella di esso SS. Sangue, lo portò a Pavia in dono a Giovan Maria Visconti, secondo duca di Milano per riconciliarlo seco lui. – Nel 1459 venne a Mantova Pio II, e vi celebrò un Concilio, al fine del quale si disputò in sua presenza sulla verità di questo Sangue, e si conchiuse che era del vero real Sangue laterale di Gesù-Cristo, poi con suo breve : “Illius qui se pro dominici salvatione gregis”, etc. del 1 Agosto 1461 dichiarò non essere in nessun modo contrario alla cristiana Religione il ritenere che Gesù-Cristo abbia lasciata in terra qualche piccola particella de suo Sangue per maggiormente accrescerne la devozione dei fedeli, e ordinò che in ogni anno fosse quel Sangue mostrato al popolo come si fa. – Nel 1479 fu trovata in S. Paolo quella particella di questo Sangue che 556 anni prima vi era stata riposta e occorsero in quest’occasione grandi miracoli, onde poi fu sempre conservata in S. Pietro, che è l’attuale Cattedrale costruita in luogo dell’antica chiesa di s. Paolo. – Nel 1321, facendo professione nel monastero di S. Paola la beata suor Paola Gonzaga figliuola del Marchese Francesco e sorella del Duca Federico, il duca medesimo, per consolare la sorella che non aveva mai visto codesto Sangue, lo fece portare con bellissima processione da S. Andrea a Santa Paola, ove fu da tutte quelle Religiose adorato, e fu da tutta la città per tutto quel giorno riverito con universal commozione.

ALTRE RELIQUIE DEL SANGUE PREZIOSISSIMO DI G. G.

Nella chiesa di S. Basilio in Bruges, città della Fiandre si ritiene esservi del Sangue vero e reale di Cristo, raccolto da Giuseppe d’Arimatea e portatovi da Teodorico Alsazio conte di Fiandra nel suo ritorno da Terra Santa l’anno 1143. – Niceforo, scrittor greco, attesta che la Beata Vergine, stando sotto la croce, raccolse in un vaso qualche poco di Sangue versato dal suo divinissimo Figlio, e conservollo presso di sé. In Marsiglia se ne adora una porzione mescolata colla terra che ne fu inzuppata. Essa è chiusa in un vasetto portatovi da Santa Maria Maddalena. Questo sangue, dice il Plerio, nel Venerdì Santo si vede sensibilmente bollire con meraviglia di tutti.

 

 

 

 

GIACULATORIA

Per cui il Settembre 1817 Pio VII concesse l’Indulgenza di 100 giorni per ogni volta che si reciti con cuor contrito.

“Eterno Padre, io vi offro il Sangue preziosissimo di Gesù Cristo in isconto de’ miei peccati per i bisogni di santa Chiesa”.

 

Giaculatoria  

Salve, o Sangue di grazia e salute;

Su quest’alma contrita discendi;

Tu la tergi, t u bella la rendi;

Tu la torna al suo primo candor.

Salve, o Vittima augusta adorata,

D’un Dio’ grande infinito sol degna;

E Viva, viva l’Eterno che regna

Sovra un trono di gloria e d’amor.