Doni dello Spirito Santo: Il dono di FORTEZZA

Il dono di Fortezza.

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[J.-J. Gaume: “Il trattato dello Spirito Santo”; vol. II, Cap. XXX]

II dono di scienza è un magnifico supplemento alla ragione. Esso è all’anima ciò che il telescopio è all’occhio. Per via della conoscenza certa e ragionata della verità, egli ci comunica la semplicità della colomba e la prudenza del serpente, sventa i sofismi dell’empietà, illumina tutte le scienze umane e le riunisce in una vasta sintesi. Con la rettitudine ch’egli dà al giudizio, scevera il vero dal falso, e il bene dal male. Mediante il giusto apprezzamento delle cose, ci preserva dagli incanti affascinatori del mondo e del demonio, dalle illusioni dello spirito, dagli errori del cuore, fonte di tormenti e d’ire, di divisioni e di disperazioni. Ne risulta che il dono di scienza sulla terra è la pace; senza di questo è la guerra. Due ragioni soprattutto dovrebbero renderlo oggi più che mai prezioso: l’ardore per la scienza e l’affascinamento per le cose futili. – Senza questo dono necessario, il dotto è una talpa cui offusca la luce, o un bambino che balbetta, e l’uomo qualunque si sia, un filatore di tele di ragno, un. Costruttore di castelli di carta. – Tuttavia, conoscere chiaramente la verità, sia nell’ordine soprannaturale, che nell’ordine naturale, non basta: occorre all’uomo il coraggio d’essere conseguente con sé medesimo. Grande dev’essere questo coraggio; imperocché la verità esige sovente fiere battaglie, e la virtù costosi sacrifici. A questo bisogno lo Spirito Santo provvede con un nuovo dono : la fortezza. La cognizione di questo nuovo beneficio ci sarà data con la risposta ai nostri tre quesiti: Che cosa è il dono di fortezza? Quali sono gli effetti? quale ne è la necessità? -1° Che cosa è il dono di fortezza ? La fortezza è un dono dello Spirito Santo che comunica il coraggio ad intraprendere grandi cose per Iddio e la fiducia di compierle, malgrado tutti gli ostacoli. [“Domini fortitudinis est habitus in appetitu irascibili infusus, quo disponitur animus ad hoc quod perveniat ad fìnem cujuslibet operis inchoati et evadat quaecumque pericula imminentia: quod quidem excedit naturam humanam”. Vig., c. XII, p. 418]. – Fra il dono di fortezza e la virtù di fortezza, sant’Antonino enumera quattro differenze. – 1° L’uno e l’altro suppongono una certa fermezza d’anima, sia per operare, ossia per soffrire; ma la virtù di fortezza ha la sua sfera d’azione dentro i limiti della potenza umana, e non si estende al di là. Il dono di fortezza ha la sua nella misura della divina potenza, su cui si appoggia, secondo la parola del profeta: “Nel mio Dio io attraverserò il muro”: cioè dire, atterrerò tutti gli ostacoli insormontabili alle forze naturali. – 2° La virtù di fortezza dà all’anima il coraggio di affrontare i pericoli, ma non la fiducia di affrontarli e di evitarli tutti. Il dono di fortezza opera l’uno e l’altro, sia che occorra affrontare gravi pericoli o superare grandi difficoltà. – 3° La virtù di fortezza non si estende a tutto ciò che è difficile. La ragione si è che la virtù di fortezza si appoggia sull’umana potenza. Ora, la potenza umana non è una in faccia a tutte le difficoltà. Ma essa si divide, secondo le difficoltà, in facoltà differenti. Cosi, gli uni hanno la forza di vincere le concupiscenze della carne; ma non hanno quella di cimentarsi ai supplizi e alla morte. Altrimenti è del dono di fortezza. Appoggiandosi sulla potenza divina come sulla sua propria, ei si estende a tutto e basta a tutto. Giobbe lo proclama con quelle generose parole: “Ponetemi vicino a voi, e venga ad assalirmi chi vuole”. – 4° La virtù di fortezza non conduce sempre le sue intraprese al loro fine, perché non dipende dall’uomo di raggiungere il fine delle sue opere, e di scansare tutti i mali e tutti i pericoli: e la prova è che fluisce col soccombere morendo. Il dono di fortezza compie tutte queste consolanti meraviglie. Difatti, per le opere generose che gli fa compiere, conduce l’uomo alla vita eterna: lo che è il fine di tutte le imprese e la liberazione da tutti i pericoli. Glorioso risultato in cui lo riempie di una fiducia che esclude il timore contrario, e che san Paolo cantava dicendo: “Io posso tutto in quegli che mi fortifica. [S . Anton., iv p., tit. XIII, c. I, p. 210. — S. Th., 2a, 2a, q. 139, art. 1, corp..; Vig., ubi supra.] – Tale è il dono di fortezza in sé medesimo. Resta a dimostrarsi nei suoi rapporti con gli altri doni e negli effetti che produce. -2° Quali sono gli effetti del dono di fortezza? Sia che lo si annoveri salendo o discendendo, il dono di fortezza occupa il quarto grado tra i doni dello Spirito Santo. – Esso è posto nel centro di questo brillante corteggio, come un re sul suo trono, o come un generale d’armata in mezzo ai suoi ufficiali. Due ragioni spiegano il posto che gli è assegnato. Da un lato, tra tutte le opere divine, quelle che più colpiscono sono le opere di forza; dall’altro, il dono di fortezza protegge tutti gli altri doni e gli riduce in atto. È per essi, per la loro conservazione e per la loro gloria che libera da continue battaglie. Se il riposo interiore è soprattutto il loro premio, razione esteriore è il suo. [Rupert., De oper. Spir. Sanct., lib. VI, c. I].Ora, operare e soffrire sono i due obietti del dono di fortezza: fare l’uno e l’altro con coraggio e perseveranza, sono i suoi effetti.Operare. Il dono di fortezza, abbiamo detto, comunica il coraggio d’intraprendere grandi cose: e quali sono? Se non si trattasse che di certe azioni strepitose, fuori della vita ordinaria della maggior parte degli uomini, il dono di timore non sarebbe di un grandissimo pregio, imperocché sarebbe raramente necessario. Però, come tutti gli altri, il dono di fortezza è indispensabile alla salute. Quali sono le grandi cose alle quali si applica? per conoscerle, basta studiare questa questione: che cosa è l’uomo?L’uomo è un re decaduto che cerca il suo trono. Che l’uomo sia stato creato re e che sia decaduto dal suo regno, è verità che si trova scritta in capo all’istoria di tutti i popoli. È il domma che rivela ogni giorno e ogni ora del giorno, anche a quello che lo nega, la lotta intestina del bene e del male, la coesistenza nello stesso cuore di sublimi istinti e d’ignobili tendenze. Che l’uomo sia chiamato a riconquistare il suo regno, è una seconda verità, non meno certa della prima. Su di essa riposano e la religione e la legislazione di tutti i popoli; imperocché su di essa riposa la distinzione del bene e del male. Il bene è ciò che conduce l’uomo alla sua riabilitazione, il male è ciò che ne lo allontana. Risalire sopra il suo trono è dunque la grande opera che l’uomo deve compiere.Ora, essendo i mezzi sempre della stessa natura del fine, grandi sono quelli dati all’uomo per arrivare al fine suo ultimo. Impiegarli con coraggio e perseveranza è dunque compiere una gran cosa, per la quale il dono di fortezza è indispensabile. [“Ad magna praemia perveniri non potest, nisi per magnos latore”. S. Greg., in Evang. Homil., XXXVII]. – Quali sono questi mezzi di riabilitazione e di conquista? Essi sono del numero di dieci, chiamati per eccellenza il Decalogo, o le dieci parole. Queste dieci parole, o dieci verbi sono come dieci incarnazioni di Dio. Praticandoli, l’uomo diventa un decalogo vivente, si riabilita, diventa re, e diventa Dio. Compiere il decalogo é dunque la gran cosa che l’uomo deve fare, e l’unica per la quale il tempo gli sia dato. – Questa intrapresa è tanto difficile quanto grande. Tre potenze formidabili sono legate per farla cadere: il demonio, la carne e il mondo. Il demonio: e ciò che abbiamo detto nella prima parte del nostro lavoro, ci dispensa di parlare dell’astuzia, della crudeltà, dell’odio di questo primo nemico, e per conseguenza, dei pericoli che ci fa correre. Faraone il quale, congiungendo l’ipocrisia alla crudeltà, intraprende di sterminare il popolo d’Israele; Nabuccodonosor che fa gettare i giovani Ebrei nella vasta fornace, riscaldata sette volte più del necessario, e la cui fiamma si eleva sino al cielo; Erode il carnefice dei bambini di Bethleem, rappresentano imperfettamente il demonio, il suo odio, i suoi inganni e la sua sete insaziabile delle anime. – La carne: focolare furibondo dove fermentano notte e giorno, dalla culla sino alla tomba, la dilettazione, l’amore, la vanità, l’ira, il desiderio, l’avversione, l’odio, la tristezza, l’audacia, l’insubordinazione, la speranza, il timore, la disperazione. Come rappresentare questa carne che cospira perpetuamente contro lo spirito? È Eva che offre il frutto proibito al suo marito, e lo invita a dilettarsi con lei nel male. È la moglie di Putifar che sollecita al delitto il bello e casto Giuseppe. È Tamar che, abbigliata di vesti da cortigiana, si pone a sedere sull’angolo della via per aspettare Giuda, e attirarlo nei suoi vergognosi lacci. È Dalila che addormenta Sansone sulle sue ginocchia, gli taglia la chioma ove risiede la sua forza, e lo consegna ai Filistei, cioè dire ai demoni, che gli cavano gli occhi e ne fanno il loro zimbello. – La carne, abile a condurre al male, non lo è meno a svolgere dal bene. Nessun genere di guerra contro se medesimo che l’uomo non debba conoscere, mai un sacrificio che non debba esser pronto a imporsi. Ora è una passione da lungo tempo nutrita che bisogna domare, un legame pieno d’incanti seduttori che bisogna rompere; ora un bene male acquistato, del quale bisogna spogliarsi; ma quanti reclami, quante obiezioni, quante impossibilità e quanti rimorsi! – Altre volte Iddio chiama ad una vocazione sublime: egli vuole un prete, un missionario, una carmelitana, una suora di carità. È Abramo che deve abbandonare la terra dei suoi padri, la sua famiglia, i suoi amici, e partire per una lontana regione. Qui pure, chi dirà le lacrime, le preghiere, i pretesti, gli ostacoli che la carne e il sangue oppongono alla chiamata divina? E pur nonostante, sotto pena di morte, bisogna tutto sormontare. – Il mondo: moltitudine immensa di rinnegati che scompiglia in mezzo a piaceri insensati e le cui provocazioni, i sogghigni, le massime, i costumi, il lusso, le feste, i teatri, le mode, i quadri, le incisioni, le statue, le danze, i canti, gli scritti sono altrettanti dardi infiammati. Bisogna che l’uomo viva in mezzo a questo affascina mento generale, senza lasciarsi ammaliare; in mezzo a questo incendio di lussuria, senza bruciare come i tre fanciulli nella fornace di Babilonia, senza perdere uno dei loro capelli. Vincere il demonio, vincere se stesso, tale è l’opera che l’uomo deve compiere: opera immensa e molto superiore alle forze sue. Pur tuttavia, non è che la prima e la meno difficile parte del suo compito: soffrire è la seconda. – Soffrire. Sant’Antonino e san Tommaso danno parecchie ragioni per mostrare che ci vuole più forza per patire che per operare. « Senza dubbio, dicono essi, attaccare e gettarsi nel pericolo, precede, quanto al tempo, il tollerare e soffrire. Nonostante, tollerare e soffrire è più essenziale alla forza, più nobile, più difficile e più perfetto. – Prima di tutto è più difficile combattere contro un più forte che contro un più debole. Ora colui che assalta si pone in atto di più forte, mentre colui che sostiene l’urto si presenta come più debole. – Di poi, colui che sopporta e che soffre sente attualmente il male e il pericolo, mentre quegli che assale non gli vede che nel futuro. Ora è assai più difficile non essere tocco dal male presente che dal male futuro. – Finalmente sopportare implica una certa lunghezza di tempo, mentre assalire può farsi ad un tratto. Ma per rimanere lungo tempo incrollabile all’attacco; al pericolo e al dolore, vi vuole assai più energia che il portarsi subitamente ad un opera difficile. » [S. Th., 2a 2ae, q. 123, art. 6, ad 1, S. Anton., iv p., tit. XIII, c. I, fol. 210]. – Di qui, quella parola di un grande capitano: Le migliori truppe non sono le più ardenti alla battaglia, ma le più costanti alla fatica. – Che cosa deve l’uomo soffrire? Meglio sarebbe domandare quel che non deve soffrire. Dolori fisici e dolori morali, dolori nati internamente, dolori venuti dal di fuori, “foris pugnae, intus timores”; malattie d’ogni genere e di tutti gli organi, povertà, contraddizioni, calunnie, ingiurie, ingiustizie, assalti da parte del demonio, della carne e del mondo; insomma, la pena del corpo e la pena dell’anima sotto tutte le forme: tale è il corteggio che lo circonda durante tutto il corso del suo pellegrinaggio. – Non parliamo che della condizione comune a tutte le esistenze. Sovente l’uomo, e soprattutto il cristiano è predestinato a dei patimenti eccezionali. La sua virtù irrita il mondo e il demonio. Per lui in particolare, sono il loro odio, i loro sarcasmi, i loro disprezzi. Per lui, oggi come a tempo addietro, sopra una gran parte del globo, si battono le catene, si aprono le prigioni, si sollevano le potenze, si affilano le spade, e si accendono i roghi. Bisogna che l’uomo, il fanciullo, il vecchio, e la timida vergine affrontino tutto questo apparecchio di morte e la morte medesima: l’apostasia sarebbe l’ inferno. – Ma che cosa è l’uomo? La debolezza stessa. Cercate tutto ciò che vi è di più debole nella natura; una foglia che porta via il vento, quest’è l’uomo. Così lo definisce lo stesso Spirito Santo: “Folìum quod vento rapitur”. [Job., XIII, 25] .- Incapace d’avere un buon pensiero, non può da se stesso né operare né volere, a benefizio del suo ultimo fine. – Incostante, egli forma buone risoluzioni che egli non mantiene. Come vile, la più piccola pena lo spaventa; sensuale, la mortificazione gli è in orrore: insubordinato, il giogo dell’obbedienza gli pesa. Alla più piccola violenza che egli é obbligato farsi per Iddio, lo scontento è in fondo del suo cuore, la resistenza nella sua volontà, l’opposizione nel suo spirito, il lamento e il mormorio sulle sue labbra. Ecco, e assai meno ancora, la secca foglia che si appella l’uomo.- Con tutto ciò, bisogna che questo essere cosi debole diventi la forza viva; bisogna che questo figlio di Dio diventi perfetto come suo Padre. A malgrado di tutti gli ostacoli che abbiamo accennati, malgrado il demonio, malgrado il mondo, malgrado se stesso, bisogna che questo re caduto riconquisti il trono che egli ha perso. – Misurate la sua debolezza e la grandezza dell’impresa, e voi avrete la misura del bisogno continuo ch’egli ha del dono di fortezza. – Grazie a questo dono divino, il mondo, da diciotto secoli in qua, ha visto incredibili meraviglie. Egli ha visto milioni d’anime, anime di ricchi e anime di poveri, anime di dotti e d’ignoranti, anime di vecchi, di donne e di fanciulli, anime viventi nel chiostro e nel secolo, in Oriente ed in Occidente, sotto tutte le latitudini, forti, coraggiosi e costanti nell’esecuzione dei loro santi propositi; forti e coraggiosi per vincere le tentazioni, forti, magnanimi e generosi per sopportare le avversità e i dolori. Lo stesso Spirito Santo rende loro questo omaggio « Essi debellarono i regni, operarono la giustizia, conseguirono le promesse, turarono le gole ai leoni, estinsero la violenza del fuoco, schivarono il taglio della spada, guarirono dalle malattie, diventarono forti in guerra, misero in fuga eserciti stranieri, riebbero le donne i loro morti resuscitati. »[Hebr., XI, 38, 85]. Noi conosciamo ciò che hanno fatto: vediamo adesso quel che hanno patito. « Altri poi furono stirati non accettando la liberazione per ottenere una migliore risurrezione. – Altri poi provarono e gli scherni e le battiture, e di più le catene e le prigioni; furono lapidati, furono segati, furono tentati, perirono sotto la spada; andarono raminghi, coperti di pelli di pecora e di capra, mendichi, angustiati, afflitti: coloro dei quali il mondo non era degno; errando per i deserti e per le montagne e nelle spelonche e caverne della terra. E tutti questi lodati colla testimonianza renduta alla loro fede, non conseguirono la promissione; avendo disposto Dio qualche cosa di meglio per noi affinché non fossero perfezionati senza di noi. »[Ibid., 35 e seg.]. Ecco ciò che il mondo ha visto; ed ecco ciò che ha inteso. In nome di tutti questi allievi della forza, egli ha sentito Paolo che getta questa sublime sfida a tutte le potenze nemiche: « Io non temo nulla: imperocché io posso tutto in Colui che mi fortifica. Chi ci separerà dall’amore di Gesù Cristo? La tribolazione o l’angoscia o la fame? o la nudità? o il pericolo? o la persecuzione, o la spada?… Io sono assicurato che né la morte, né la vita, né gli angeli, né i principati, né le potenze, né le cose presenti, né le future, né la violenza, né tutto ciò che vi è di più alto o di più’ profondo, né nessun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù. »[ Act. XX, 24; Philipp., IV, 13; Rom., VIII, 35-89]. – Ha inteso Teresa che piglia per divisa: “O patire o morire”. Ha sentito una delle figlie di Teresa, Maddalena de’ Pazzi, ancor più sublime, se è possibile, di sua madre, che dice: “patire e non morire”. Ha sentito Giovanni della Croce, riassumente tutti i suoi voti in queste parole: “soffrire ed esser disprezzato per amor di Dio”. – Quanti altri accenti non meno ignoti al mondo pagano, non hanno risuonato nell’umanità cristiana dal giorno in cui lo spirito di fortezza è disceso su di lei. E per credere al Cristianesimo, vi è ancora chi chiede dei miracoli! – qual’è la necessità del dono di fortezza? Dopo quel che abbiamo detto, una simile questione sembra superflua. Ciò non è nulla. In quanto al dono di fortezza, come in quanto agli altri doni dello Spirito Santo, l’uomo si trova nell’alternativa che non si sfugge, che abbiamo segnalata: o vivere sotto l’impero dello spirito di fortezza, o vivere sotto la tirannia dello spirito contrario. E qual è? lo Spirito di accidia. [“Spiritus fortitudinis illummat Spiritum tristem accidiae, quae propter taedium laboris sùbterfugit viriliter bona operari, infirmitate victus sensualitatis. S. Anton., IV p., tit. X, c. I, p. 158]. – Vediamo in che consiste e quel che fa dell’uomo e del mondo. L’accidia è un torpore spirituale che ci impedisce di adempiere ai nostri doveri. 3 3 [“Acedia est torpor mentis bona spiritualia inchoare abhorrentis et inchoata perfìcere fastidientis.” Ferraris, verb. Acedia]. È il cloroformio di Satana. Appena che questo virus si é insinuato nel l’anima, subito la rende pesante e gli dà delle nausee per tutto ciò che è bene spirituale. – Il suo fine supremo, l’amicizia di Dio in questo mondo, la sua gloria nell’altro, i mezzi di giungervi, i doveri, le virtù, le istruzioni cristiane, le. feste, i sacramenti, la preghiera, le buone opere, la religione tutta quanta, le è grave e di disgusto. – Di qui nasce, secondo la spiegazione di san Gregorio, la pussillanimità, pussillanimitas) specie d’abbattimento e di mollezza, di fronte a una obbligazione sia pure poco costosa: come, per esempio, il digiuno, l’astinenza, la mortificazione dei sensi o della volontà; la tiepidezza, torpor, che fa tralasciare il dovere o che non lo compie che imperfettamente e per mezzo di quietanza; il divaga mento dello spirito, mentis evagatio, il quale negli esercizi di religione, è dappertutto altrove che alla presenza di Dio; l’instabilità del cuore, instabilitas cordis, le cui incostanze nel bene sono meno facili a contare dei movimenti di canna agitata da venti contrari; la malizia, malitia, all’idea dei doveri imposti all’uomo ed al cristiano, il pigro si pone a lagnarsi d’essere nato, e specialmente nato in seno al Cristianesimo; l’odio, rancor, pel sacerdote e per chiunque gli predica le sue obbligazioni o anche per gli oggetti materiali che gliene richiamano la reminiscenza; la fomentazione di tutti i vizi, imperocché sta scritto dell’ozio, figlio dell’accidia, ch’egli insegna ogni sorta di male; finalmente lo scoraggiamento, la disperazione e l’impenitenza finale. [Apud Ferraris, verb. Acedia]. – Si capisce ciò che deve diventare un uomo, un popolo, un mondo, sotto la tirannia d’un demonio simile. Se nulla è più brillante del quadro tracciato dallo stesso Spirito Santo, degli allievi del dono di fortezza, nulla è più triste del ritratto degli schiavi dello spirito d’accidia. – Essere degradato, senza energia per il bene, stupidamente indifferente per i suoi interessi eterni, confondendo tutte le religioni in un comune disprezzo, a fine di non praticarne nessuna, immerso nella materia, l’accidioso spirituale, uomo, popolo, o mondo, vuole e non vuole. Ha orecchie e finge di non sentire; occhi e finge di non vedere; piedi e non cammina; mani e non lavora.Ei rassomiglia alla porta che si apre e si serra venti volte al giorno e che la sera si trova sempre sui suoi cardini. Ei si nasconde la mano sotto l’ascella, ed è gran fatica per lui il portarla alla bocca.11 [Prov., XXXVI, 18, 15]. – Non solamente quest’uomo, questo popolo, questo mondo si degrada, ma altresì si impoverisce in verità e virtù. Ascoltiamo ancora lo Spirito Santo: « Il leone è sulla via, dice il pigro; se io esco fuori sarò divorato. Inoltre sono passato per il campo del pigro, e l’ho trovato pieno di ortiche, tutto coperto di spine, e la siepe distrutta. Vai dunque o pigro a guardare la formica, ed istruisciti alla sua scuola. Durante l’estate essa accumula per l’inverno. E fino a quando, o pigro, dormirai tu, fino a quando farai vedere il bianco per nero? – « Ecco che viene a te l’indigenza, come un viaggiatore, e la povertà come un’ armato. Agresto ai denti, fumo agli occhi: tale ó il pigro per colui che l’adopra. S’egli è tale per gli uomini, che cosa sarà per Iddio? – Spada immobile che si arrugginisce, piede inerte che si intorpidisce, veste non portata che la tignola divora, acqua stagnante di cui si formano e brulicano insetti più disgustosi, cibo stucchevole che la bocca rigetta e che non riprende mai più. Non bisogna lapidare il pigro con pietre, perché non è degno, ma bensì con lo sterco dei bovi.1 »1 [“De stercore boum lapidatus est piger; et omnis qui tetigerit eum excutiet manum ejus”. Eccl., XXII, 2 ; XXIII, 29; Prov., VI, 11; id., X, 26 ; id., XIII, 4 ; id., XXIV, 30. “De stercore boum”, dicono i commentatori, perché il bove è il modello del lavoro.

 

Autore: Associazione Cristo-Re Rex regum

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