Omelia della Domenica fra l’ottava dell’Ascensione

 

Apparecchio alla Festa dello Spirito Santo-

[Del canonico G. B. Musso – Seconda edizione napoletana, Vol. II -1851-]

 

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Egli è Gesù Cristo, che nell’odierno Vangelo parla ai suoi discepoli nel seguente tenore: “Quando manderò sopra di voi lo Spirito Santo, Spirito di verità, che procede dal Padre, Ei vi darà di me la più ampia testimonianza, Ei vi farà conoscere la mia Persona, la mia dottrina e la Divinità che in me si asconde. Voi, poscia, da questo Spirito illuminati nell’intelletto, infiammati nel cuore renderete di me, dell’Evangelio mio, della mia fede, testimonio fedele e costante a tutte le nazioni, fino a suggellarlo col proprio sangue”. Per disporsi a ricevere questo Spirito santificatore, promesso dal divino Maestro, si congregarono i discepoli sul monte santo di Sion, sollecitando co’ più vivi desideri, colle più fervide preghiere la sua discesa. Vogliamo ancor noi, uditori amatissimi, ricevere lo Spirito Santo che illumini le nostre menti, che infiammi i nostri cuori? Convien prepararsi, convien disporsi. Due sono le disposizioni necessarie a premettersi, e che tutte le altre racchiudono: disposizione negativa, disposizione positiva. Disposizione negativa, che consiste nell’allontanarsi dal peccato; disposizione positiva, che consiste in praticare le cristiane virtù. Io leggo ne’ santi Vangeli che lo Spirito Santo venne in forma di colomba in riva al Giordano, e si fermò sul capo del Redentore, battezzato dal suo precursore Giovanni, e questo simbolo di colomba da noi richiede la disposizione negativa; Io leggo che lo Spirito discese sopra gli Apostoli nel cenacolo in forma di fuoco, e questo simbolo esige da noi una disposizione positiva. Vediamolo.

I . Lo Spirito Santo, disceso dal cielo in forma di colomba, assunse forse la natura di volatile? E allora che venne in forma di fuoco, prese la natura di questo elemento? E quella colomba, e quel fuoco furono e sono inseparabilmente uniti alla Persona del divino Spirito? No, risponde a queste domande il grand’Agostino (Lib. 4 de Trin.), né la natura della colomba, né quella del fuoco fu unita allo Spirito Santo, né queste reali figure, formate di purissimo aere per ministero degli Angeli, furono in Lui permanenti. Ciò premesso ad istruzione de’ men colti, io dicea che la colomba, in forma della quale apparve lo Spirito del Signore, richiede da noi per riceverlo una disposizione negativa, cioè l’allontanamento dal peccato. Infatti il reale Profeta, per volare a riposarsi in seno a Dio, desiderava e chieder ali di colomba, simbolo di innocenza. “Quis dabit mihi pennas sicut columbae, et volabo, et requiescam” (Ps. LIV,7)? Il nostro divin Salvatore, in raccomandare ai suoi Apostoli e a noi l’evangelica e virtuosa semplicità, ci propone l’esempio della colomba, “estote semplices sicut columbae” (Matt. X, 16). La colomba in realtà è un augello che di sua natura abborre le immondezze e le sozzure, fugge dalle fogne, dalle cloache e dalle limacciose paludi; amante di respirar l’aria più pura suol sempre spiccare il volo sulla cima delle più alte torri, ed ha pochi eguali nella nitidezza delle sue piume. Date uno sguardo alla colomba spedita dell’arca, dal Patriarca Noè. Spiccato il volo si aggirò per gl’immensi spazi dell’aere, e non scorgendo sotto di sé che acque mortifere e galleggianti cadaveri, non trovando ove fermare il piede senza macchiarsi, fece presto ritorno in seno all’arca. Quanto fece la colomba di Noè dopo il diluvio, altrettanto si protestò che fatto avrebbe riguardo all’uomo carnale il grande Iddio, pentito d’averlo creato: “Non permanebit Spiritus meus in homine in aeternum, quia caro est” (Gen. VI, 3). L’ uomo dimentico di essere stato da me creato a mia immagine e somiglianza, dimentico della nobiltà del suo spirito, si avvilisce a riporre la sua felicità negl’immondi piaceri, nella carne, nell’opere carnali? Ah dunque non abiterà lo spirito mio in esso lui in eterno, “non permanebit spiritus meus in homine in aeternum, quia caro est”. Chiunque ha il cuore imbrattato da questo fango, attaccato a questa pece, non isperi poter ricevere lo Spirito Santo. L’uomo carnale è l’oggetto di sua necessaria ed infinita abominazione; già lo fu con sommergerlo tutto in massa nell’acque micidiali di un universale diluvio, seguirà ad esserlo fino alla consumazione de’ secoli, e in tutt’i secoli eterni. “Non permanebit spiritus meus in aeternum, quia caro est”.

Se lo spirito del Signore (dicea fin da’ suoi tempi S. Vincenzo Ferrerio, quel gran Santo che ha predicato su quest’istesso pulpito, da cui ho l’onore di parlarvi) se lo Spirito Santo discendesse un’altra volta dal cielo in forma di colomba e venisse fra noi, ditemi dove fermerebbe il suo volo, dove poserebbe il suo piede? Nelle nostre contrade? ma no; l’allontanerebbero da queste le oscene parole, le maledizioni, gli scandali, le bestemmie. Forse nelle nostre case? Ma no; in molte abita il demonio della discordia, la guerra tra marito e moglie, la lite tra padre e figlio, l’odio tra fratello e sorella, l’invidia tra congiunti e congiunti; in questo sta la mala pratica, in quella la rea amicizia; qui è la conversazione dissoluta, là la veglia scandalosa. Nelle botteghe forse e nelle officine? Ma no; Lo metterebbero in fuga le bugie, le frodi, gl’inganni, le usure. Via, troverà luogo almen nelle Chiese; né pure, anche dal luogo santo dovrebbe ritirarsi con orrore per non sentire i cicalecci, i rumori sconvenevoli, i prolungati discorsi, per non vedere gli amoreggiamenti, le occhiate libere, le sacrileghe profanazioni della santa sua casa.

Ma dunque non vi sarà luogo alcuno fra noi, ove possa discendere lo Spirito del Signore? Si, miei dilettissimi, vi sarà, e quale? Torniamo alla colomba di Noè. Questa spedita la seconda volta dall’ arca adocchiò un arboscello di verde ulivo, su quello fermò il volo, e col rostro un ramicello, con quello in bocca ritornò all’arca. Simbolo di pace è l’ulivo; e perciò la colomba (mi servirò della frase del citato S. Vincenzo), la colomba dello Spirito Santo discenderà in que’ cuori che sono in pace con Dio per la giustificante grazia; in quei cuori che vogliono far pace con Dio per mezzo di una sincera penitenza, in quei cuori che sono in pace col prossimo per vera inalterabile carità. Simbolo di misericordia è il soave liquore che produce l’ulivo; verrà di buon grado a far altresì la sua mansione in quei cuori che d’olio di misericordia sono ripieni, che di misericordia son ridondanti a pro degli afflitti, a vantaggio de’ bisognosi, a sollievo de’ miserabili.

Ed eccoci entrati nella seconda disposizione positiva che nell’esercizio consiste delle cristiane virtù, le quali da noi esige lo Spirito Santo venuto in forma di fuoco.

II. Insegna l’angelico dottor S. Tommaso (3, P. q. 39, a 7), che lo Spirito Santo prese forma di fuoco per significare gli effetti meravigliosi ch’Egli produce nell’anime nostre, purché in noi ritrovi le necessarie disposizioni. Il fuoco illumina, e lo Spirito Santo, che luce si appella, rischiara le tenebre della nostra notte. Il fuoco consuma, ed Egli consuma i nostri vizi e le colpevoli abitudini: “Deus noster ignis consumens est” (Ebr. XII, 29). Il fuoco infiamma ed Egli infiamma i nostri cuori del suo santo amore; ma la massima parte dei cristiani resiste a questo fuoco a somiglianza degl’induriti Ebrei usciti dall’Egitto. Parlò Iddio a Mosè fra mezzo alle fiamme d’un ardente roveto per dimostrare l’eccesso amor suo, intento a liberarli dal tirannico giogo del Faraone, e in una colonna di fuoco si fece loro per condurli alla terra promessa. E pur quella gente di dura cervìce, e di cuore incirconciso, fu sempre insensibile e sconoscente a così amorevoli rimostranze. Ma che cerchiam di quel popolo? Volgiamoci a noi. Gesù Cristo si dichiara esser Egli disceso dal cielo per accendere nel nostro cuore questo divin fuoco, “ignem veni mittere in terram, et quid volo nisi ut accendatur” (Luc. XII, 49). E non ostante l’amoroso suo desiderio e l’espresso suo volere, a questo fuoco divino fa resistenza l’umana freddezza. Al fuoco elementare non resistono i più duri macigni, gli stritola in polvere, non reggono i più sodi metalli, gli fa correre liquidi. Solo la cenere gli fa resistenza, e giunge ad estinguere la sua fiamma, e a spegnere il suo calore. Or mirate, dice lo scrittore della Sapienza, se questa cenere ingrata non è il simbolo più espressivo della sconoscenza dell’uman cuore, che, dimentico di Chi lo creò, volge gli affetti suoi a tutt’altro, che al suo Fattore. “Cinis est cor eius … quoniam ignoravit qui se finxit (Sap. XV, 10, 12). Così è, miei cari, al fuoco dello Spirito Santo fa colpevole resistenza la cenere della nostra ingratitudine, quando si chiudono gli occhi a’ suoi lumi, quando si fa il sordo alle sue voci, alle sue sante ispirazioni, quando si soffocano i salutari rimorsi, che desta nella nostra coscienza per trarci a ravvedimento e a salute. Meritiamo, allora il rimprovero che S. Stefano fece ai caparbi Giudei: “Vos semper Spiritui Sancto resistitis” (Act. VII, 51).

Affinché non si rinnovi in noi, o non si confermi questa mostruosa resistenza, convien disporre, in questa già cominciata novena, convien preparare il nostro cuore, acciò lo Spirito Santo accenda del suo santo amore. Volete ch’io ve ne accenni il modo? Rammentatevi il profeta Elia, allorché per confondere i falsi profeti di Baal, e far conoscere al popolo astante che il Dio d’Israele era il vero Dio, si accinse a far discendere fuoco dal cielo per accendere e consumare un olocausto. Scelse egli dodici pietre, secondo il numero delle Tribù d’Israele, e ne formò un altare; su quello dispose le legna, e sopra la massa delle medesime collocò le parti della vittima immolata; indi per ben tre volte sparse acqua abbondevole sopra la vittima, le legna e l’altare; finalmente con fervide preghiere invocò il Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe, e al tempo stesso ecco cadere dal cielo un’ardentissima fiamma che divorò vittima, legna e le stesse pietre che componevano l’altare. Ecco fedeli amatissimi, ecco la norma. Acciò sopra di noi discenda il fuoco del vivificante Spirito del Signore, fa d’uopo comporre l’altare con mistiche pietre. Saranno queste le astinenze, i digiuni, la mortificazione de’ sensi, le opere di spirituale e corporale misericordia. Edificato l’altare, si devono su quello preparare le legna. Legna opportune a formar questo mistico rogo, sono le lezioni spirituali, le limosine ai poverelli, le volontarie penitenze. Su di tal rogo dobbiamo collocare la vittima. Vittima non v’è, non v’è sacrifizio a Dio più accettevole d’uno spirito contristato, d’un cuore umiliato e contrito pel dolore de’ propri peccati: “Sacrificium Deo spiritus contribulatus, cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies” ( Ps. L, 19). Su questa vittima di cuor contrito bisogna versare acqua abbondante, acqua di lacrime, acqua d’amarissima pena, lacrime che partano dall’intimo del cuor compunto, ad imitazione di S. Pietro che in questi giorni nel cenacolo, in aspettazione dello Spirito Santo, quantunque certo del perdono delle sue colpe, non cessava di piangere i suoi spergiuri; ad imitazione di S. Tommaso, che piangeva la sua incredulità; ad imitazione di tutti gli Apostoli congregati, che piangevano la loro fuga e l’abbandono del loro divino Maestro. Finalmente siccome la preghiera di Elia ottenne la prodigiosa discesa del fuoco del Signore, che consumò l’olocausto, così le nostre preghiere muoveranno il cuore di Dio a mandarci il Santo suo Spirito che in noi distrugga ogni colpa, purghi ogni macchia, dissipi ogni affetto terreno, e ci accenda del fuoco dell’eterna sua carità. Così avvenne nella Pentecoste agli Apostoli, alle pie donne, ai devoti fedeli con Maria Vergine nel cenacolo adunati. Essi tutti concordemente uniti in viva orazione e perseverante preghiera, sollecitarono l’arrivo del loro promesso Spirito del Signore che sopra ciascuno di essi si fece vedere in forma di lucidissime fiamme. “Hi omnes erant perseverantes unanimiter in oratione cum Maria matre lesu” (Act. I, 14.)

Felici noi se al termine di questa santa novena che è da Gesù Cristo istituita e a tutte l’altre ha dato il nome, si troveranno in noi le fin qui indicate disposizioni. Lo Spirito Santo verrà nelle nostre anime, e vi farà la sua mansione: co’ sette suoi doni, colla superna sua luce diraderà le tenebre del nostro intelletto, ci farà conoscere la vanità delle cose terrene, e la grandezza ed importanza delle eterne: ci renderà luminosa, convincente testimonianza della Persona, della Divinità, della dottrina e della fede di Gesù Cristo. E noi rischiarati nella mente, infiammati nel cuore, Gli daremo, ad imitazione degli Apostoli, prove e testimonianze di fedeltà, di riconoscenza coll’integrità della nostra fede, coll’osservanza della sua legge, coll’esemplarità de’ nostri costumi, coll’imitazione de’ suoi esempi, coll’esercizio delle cristiane virtù, fino a pervenire ove col Padre e con lo Spirito Santo vive e regna ne’ secoli de’ secoli. Così sia.

Il trattato del Purgatorio

Oggi, nella falsa chiesa dell’uomo, apostatico-conciliare, viene negata, dagli adepti del “principe di questo mondo” e dai marrani della quinta colonna della “sinagoga di satana” infiltrata nel Santuario Santo, l’esistenza del Purgatorio, e finanche quella dell’inferno, prospettando una misericordia fasulla, senza pentimento, contrizione e proposito, dal carattere francamente luciferino, per precipitare le anime, così miseramente ingannate, nel fuoco eterno. La “Verità rivelata” ed il “Magistero” della Chiesa Cattolica, hanno fornito delle risposte esaustive e definitive al riguardo, eterne ed immodificabili. Ecco, come una grande Santa, S. Caterina da Genova, canonizzata dal Santo Padre Clemente XII, ha descritto, come meglio ha potuto, con parole umane, lo stato delle anime del Purgatorio, essendo così di sprono: 1) – nel cercare di evitarlo con i mezzi che la Provvidenza divina ci ha messo a disposizione; 2) – nel portare un aiuto alle anime purganti onde progrediscano verso l’eterno Bene, il Paradiso, e godere così della vista beatifica di Dio.

Caterina genova

TRATTATO DEL PURGATORIO

Di Santa Caterina da Genova

Come (la santa), per relazione col fuoco divino che percepiva nel suo cuore e che la rendeva casta interior­mente, vedeva con gli occhi dell’anima e comprendeva la condizione dei fedeli nel purgatorio – erano lì per purificarsi prima di essere presentati al cospetto di Dio, in paradiso.

1. – Quest’anima santa, ancora vestita del suo corpo, era stata posta nel Purgatorio dell’amore divino, che, pieno di fuoco, la bruciava completamente e purificava in lei ogni cosa, perché – lasciata questa vita – potesse essere subito presentata al cospetto del suo dolce Dio. E, grazie a questo amorevole fuoco, comprendeva nel suo intimo la condizione dei fedeli nel purgatorio: erano lì per purgare ogni ruggine e macchia di peccato non ancora mondate nel corso della loro esistenza terrena. Nell’amorevole Purgatorio del fuoco divino la Santa, unita al divino amore, gioiva di tutto ciò che operava in lei e, comprendendo la condizione delle anime, usava queste parole:

2.- «Le anime del Purgatorio non possono avere al­tra scelta che essere lì. Ciò avviene per disposizione di Dio, che ha operato con giustizia”. I purganti non sono nella condizione di voltarsi indietro e dire: «Ho commesso certi peccati, per cui merito di stare qui». E neppure dire: «Non vor­rei averli commessi, così ora andrei in paradiso». Né ancora: «Lui uscirà di qui prima di me o io ne uscirò prima di lui». Non sono in grado di tenere alcuna memoria propria, né in bene né in male, né su altri: sono così felici di appartenere al piano di Dio, che non han­no pensieri per se stessi. Vedono solo tanta bontà e l’opera di Dio, che, pieno di misericordia, conduce l’uomo a sé; (le anime) non percepiscono la pena e il bene che ciascuno vive dentro se stesso – del resto, se riuscissero a percepirli, non potrebbero più prender parte alla carità pura. Non vedono neppure di essere nella pena per i loro peccati né sono in grado di trattenere nella mente quella vista, perché sarebbe una imperfezio­ne in atto, che non può esistere in questo luogo: lì non è più possibile peccare attualmente. La percezione del Purgatorio avviene in loro una sola volta, nell’istante, cioè, in cui abbandonano questa vita e poi mai più, perché questo costitui­rebbe una proprietà.

3.- Le anime sono nella carità e non possono devia­re da essa con una mancanza volontaria: non sono più in grado di volere né desiderare altro, se non esclusivamente il volere puro della carità pura. In­fatti, essendo immerse nel fuoco del Purgatorio, ap­partengono al disegno divino – che è carità pura – e in esso non sono nella condizione di deviare in nessuna parte. Trovano così impedimento nel com­mettere peccato attuale e, parimenti, nel compiere atti meritevoli.

4.- Non credo esista felicità paragonabile a quella di un’anima del Purgatorio, tranne quella dei Santi del Paradiso. E ogni giorno questa gioia aumenta per influsso di Dio nelle anime e tende ad aumentare, perché ogni giorno consuma ciò che impedisce tale influsso. La ruggine del peccato è l’impedimento; il fuoco consuma la ruggine e così l’anima si apre sempre di più all’influsso di Dio. Se un oggetto coperto, stando al sole, non può corrispondere al riverbero del sole – non per difet­to del sole, che continuamente splende, ma per ciò che lo copre – quando la copertura si consumerà, esso si dischiuderà al sole e corrisponderà al suo ri­verbero nella misura in cui si sarà consumato ciò che lo copriva. Lo stesso accade per la ruggine del peccato, co­pertura delle anime nel Purgatorio: essa si consuma man mano per il fuoco e, nella misura in cui si consu­ma, corrisponde al suo vero sole, Dio. Tanto cresce la gioia, quanto viene meno la ruggine e l’anima si apre all’influsso: mentre una cresce, l’altra si ridu­ce, sino a quando non sia giunto al termine (il tem­po dell’espiazione). La pena non diminuisce, dimi­nuisce il tempo in cui restare in essa. Per ciò che concerne la loro volontà (le anime) non possono mai dire che quelle siano pene; gioi­scono della disposizione divina, con la quale è uni­ta la loro volontà nella pura carità.

5.- Ma, contraria­mente alla gioia della volontà in tale modo unita, subiscono una pena così atroce, che lingua non può parlarne, né intelletto può capirne una minima scin­tilla, se Dio non glielo mostrasse per grazia speciale. Dio mi ha mostrato questa scintilla per sua gra­zia, ma non mi è possibile esprimerla a parole. Quella vista, che il Signore mi mostrò, non lasciò mai più la mia mente. Dirò di ciò che mi successe quel che riuscirò a esprimere e intenderà chi il Si­gnore vorrà che intenda.

6.- Il fondamento di tutte le pene è il peccato, ori­ginale o attuale. Dio ha creato l’anima pura e semplice, pulita da ogni macchia di peccato, dotata di istinto beatifico verso di Lui; da quest’ultimo l’allontana il peccato originale. Il peccato attuale poi, si aggiunge ad esso e allontana di più l’anima da Dio e, a mano a mano che si scosta, l’anima diventa maligna, perché non è corrisposta da Dio. Tutte le forme di bontà esistenti, vengono per divina partecipazione, che nelle creature irrazionali corrisponde come vuole e come ha disposto e non viene mai meno a esse. Verso l’anima poi, Dio cor­risponde in maggiore o minore misura a seconda del suo stato di purificazione dal peccato. Quando l’anima si avvicina alla sua prima crea­zione pura e netta trova in sé un istinto beatifico che cresce con tale impeto e furore di fuoco di ca­rità – il quale l’attira al suo fine ultimo – da dive­nirle insopportabile l’impedimento. A mano a ma­no che vede farsi vicino il suo fine ultimo, la pena diventa per lei più grande e atroce.

7.- Le anime che sono nel Purgatorio non possiedo­no peccato né esiste impedimento fra loro e Dio, ad eccezione di quella pena che le ha costrette e a cau­sa della quale l’istinto non ha potuto raggiungere la sua perfezione (nel fine ultimo che è Dio). Vedendo con certezza quanto sia grave anche un solo impedimento presso Dio e che, per necessità di giustizia, viene ritardato quell’istinto, ne nasce un fuoco così terribile che è paragonabile a quello dell’inferno, anche se non c’è colpa, – colpa che si ritrova invece nei dannati dell’inferno, perché pro­dotta dalla volontà maligna. A questi Dio non cor­risponde la sua bontà; i dannati restano in quella volontà disperata e nella malignità, contro la vo­lontà di Dio.

8.- Da ciò si vede ed è chiaro che si considera colpa la volontà perversa che agisce contro la volontà di Dio: mentre persevera la mala volontà, persevera la colpa. Dal momento che quelli dell’inferno hanno la­sciato questa vita con la cattiva volontà, la loro col­pa non è rimessa, né si può rimettere, in quanto non possono più mutare di volontà: con quella mala volontà sono passati da questa vita all’altra. Il passo seguente conferma la decisione nei ri­guardi dell’anima, in bene o in male, a seconda del­la volontà deliberata in cui si trova: “Ubi te invenero”, cioè all’ora della morte, in quella volontà di peccare o di dolore per aver peccato, “ibi te iudicabo”. Al giudizio non segue poi remissione, perché dopo la morte la libertà d’arbitrio non è più mutabile: si ferma nella condizione in cui si trova al punto della morte. Le anime infernali portano con sé per sempre la colpa e la pena; quest’ultima poi, non è proporzio­nale alla pena che meritano, ma è infinita. Le ani­me purganti soffrono solamente la pena e, poiché sono senza colpa – cancellata dal dolore -, la pena ha un termine e diminuisce sempre di più in rap­porto al tempo, come si è detto. O miseria sopra ogni miseria, tanto maggiore poi se non è considerata dall’umana cecità!

9.- La pena dei dannati non è infinita in quantità, perché la dolce bontà spande il raggio della sua mi­sericordia anche all’inferno. L’uomo che muore nel peccato mortale merita pena e tempo infiniti, ma la misericordia divina rende possibile che solo il tem­po sia infinito e la pena sia invece limitata nella quantità, – anche se giustamente il Signore avrebbe potuto attribuire al peccatore una pena maggiore di quella che gli è stata attribuita. Vedi quanto è pericoloso il peccato commesso con malizia! Difficilmente l’uomo se ne pente e, non pentendosi, la colpa resta sempre e dura quan­to l’uomo resta nella volontà del peccato, com­messo o da commettere.

10.- Ma le anime del purgatorio hanno la loro vo­lontà in tutto conforme a quella di Dio; a lei Dio corrisponde con la sua bontà ed esse sono felici perché la loro volontà è purificata dal peccato ori­ginale e attuale. Quanto alla colpa, le anime riacquistano la pu­rezza della prima creazione perché hanno lasciato questa vita dolendosi di tutti i peccati commessi, con l’intenzione di non commetterne più. Per il dolore che provano Dio perdona subito la colpa e così alle anime non rimane (altro) se non la ruggine e la deformità del peccato, che si purifica poi nel fuoco attraverso la pena. Queste anime, purificate totalmente da ogni col­pa e unite a Dio per volontà, vedono Dio in manie­ra chiara e proporzionale a quanto Lui fa loro co­noscere; nel vedere quanto è importante la fruizio­ne di Dio e che l’anima è stata creata a quello sco­po, trovano una conformità tale che le unisce a Dio – conformità che tende a realizzarsi per l’istinto na­turale che spinge l’anima verso Dio – che non si possono dire ragionamenti, figure né esempi suffi­cienti a chiarire questa condizione, come la mente cioè l’avverta nei suoi effetti e la comprenda per sentimento interiore.

11.- Un esempio: poniamo che in tutto il mondo non ci sia che un unico pane in grado di togliere la fame e che tutte le creature si sazino anche solamente col vederlo. Ora, la creatura – cioè l’uomo – ha l’istin­to di mangiare quando è sano e, se non mangia, se non si ammala, se non muore, quella fame crescerà sempre di più, perché non viene meno quell’istinto. Lui è contento, perché conosce il pane che lo può saziare, tuttavia, per il fatto stesso di non averlo a disposizione, non può togliersi la fame. Questo è l’inferno che vive chi ha una grande fa­me: più l’uomo si avvicina al pane senza poterlo ve­dere, più si accende il suo desiderio naturale, che istintivamente è tutto rivolto verso quel pane, in cui consiste la felicità. La certezza di non vedere mai quel pane è per lui l’inizio dell’inferno vero e pro­prio, quello che vivono i dannati, privati della spe­ranza di contemplare l’autentico pane, Dio salva­tore. Le anime del purgatorio invece hanno fame, sì, perché non vedono il pane di cui potersi nutrire, ma conservano la speranza del momento in cui potran­no vederlo e saziarsene completamente; la loro pe­na consiste nel non poter soddisfare subito la fame.

12.- È chiaro che lo spirito purificato non trova altro luogo che Dio per riposare – a tal fine infatti è sta­to creato – e il peccato nell’anima non ha altro luo­go che l’inferno secondo l’ordinamento divino. Nel momento in cui lo spirito si separa dal corpo, l’anima – se si diparte in peccato mortale – rag­giunge il luogo prestabilito, guidata dalla natura del peccato. Se l’anima non ritrovasse là l’ordinamento divi­no, che procede dalla sua giustizia, vivrebbe in un inferno peggiore di quello in cui si trova, perché fuori da tale disposizione. Quest’ultima infatti è partecipe della misericordia divina, che permette ai dannati di non scontare la pena che meritano; essi, d’altro canto, si gettano subito nell’inferno – come se quel luogo fosse di loro proprietà – perché non trovano per sé nulla di più adatto e di meno dolo­roso.

13.- Lo stesso vale a proposito del purgatorio: l’ani­ma, separata dal corpo, non possiede più la purez­za originaria e, accorgendosi della sua macchia – che non si può eliminare se non per mezzo del pur­gatorio – si getta in quel luogo presto e volentieri.

Se il progetto divino non prevedesse di purgare la ruggine del peccato, in quell’istante si generereb­be un inferno peggiore del purgatorio, perché l’ani­ma si vede separata da Dio, che diventa così im­portante da far passare in secondo piano le pene del purgatorio (sebbene, come si è detto, questo luogo sia simile all’inferno).

14.- Per ciò che dipende da Dio, vedo che il paradiso non ha porta alcuna: chi vuole entrare lo può fare, perché Dio è tutto misericordia e sta con le braccia aperte verso di noi, per riceverci nella sua gloria. La divina essenza è pura e monda – molto più di quanto l’uomo possa immaginare – e l’anima che ha in sé la minima imperfezione – un fuscello, per dire – preferirebbe gettarsi in uno o mille inferni, piuttosto che ritrovarsi alla Presenza divina con una minima macchia. Ma compito del purgatorio è quello di togliere la macchia! L’anima sceglie que­sto luogo per trovare in esso la misericordia che le occorre per potersi mondare dalle sue colpe.

15.- La lingua non può esprimere e il cuore non può capire quanto sia importante il purgatorio: la pena è infernale, ma l’anima peccatrice la riceve come dono di misericordia, perché le pene non hanno pe­so di fronte alla gravità di quella macchia che im­pedisce l’amore. Vedo che la pena di quelli che sono nel purga­torio è soprattutto quella di essere causa del dispia­cere di Dio e il fatto che esso sia il frutto di un atto volontario compiuto contro la bontà divina, rispet­to a qualsiasi altro dolore. Dico ciò perché i pur­ganti, dal momento in cui godono della Grazia, si accorgono finalmente dell’importanza dell’impedi­mento che li distacca da Dio.

16.- Sono certa delle mie parole per ciò che ho po­tuto comprendere in questa vita. Ogni vista, ogni parola, ogni sentimento, ogni immaginazione, ogni giustizia, ogni verità mi sembrano bugie. Di queste parole resto più confusa che soddisfatta, perché non trovo vocaboli più estremi con cui potermi esprimere e perciò taccio.

Le mie parole sono niente se paragonate a quel­lo che la mia mente avverte; tra Dio e l’anima c’è una conformità tale che, nel momento in cui il Si­gnore la vede nella sua purezza originale, con il fuo­co del suo amore – sufficiente ad annichilire l’ani­ma immortale – le dona quella tensione, che è sguardo unitivo, attraverso cui la lega e la tira a se. L’anima si assorbe in Dio al punto di negare l’e­sistenza di altro all’infuori di Dio. Il Signore l’attira e la infuoca continuamente, fi­no a condurla a quell’essere da cui è uscita, quella assoluta purezza nella quale fu creata.

17.- Quando l’anima vede interiormente che è attira­ta dal divino fuoco dell’Amore, sente che il calore la scioglie e ridonda nella mente il suo dolce Signo­re. Lei sa che Dio non mancherà mai di attirarla e di condurla alla perfezione, con attenzione costante e secondo i suoi piani. La pena delle anime nel purgatorio consiste pro­prio nel vedere ciò che Dio mostra loro nella sua lu­ce e di esserne attratte, senza però poter seguire quella seduzione, quello slancio unitivo che il Si­gnore ha dato loro per legarle a sé. La percezione di quanto sia gravoso quell’impedimento e l’istinto che l’anima ha di poter essere attratta da quello sguardo senza impedimenti, costituiscono la soffe­renza dei purganti. Essi non tengono conto della pena vera e pro­pria – per quanto, di per sé, sia grandissima – ma danno importanza al fatto che si oppongono alla vo­lontà di Dio, che, acceso da tanto estremo amore puro verso loro, le attira fortemente a sé con il suo sguardo unitivo, come se ciò fosse l’attività prin­cipale. Se l’anima trovasse un altro purgatorio oltre quello in cui si trova, pur di potersi liberare dall’im­pedimento al più presto, gli si butterebbe dentro, tanto impetuoso è l’amore, simile a quello di Dio.

18.- Vedo ancora che dall’amore divino si dipartono verso l’anima raggi e lampi così colmi di fuoco, pe­netranti e forti, che, se fosse possibile, annullereb­bero addirittura l’anima, non solo il corpo. I raggi compiono nell’anima due operazioni: la sua purificazione e il suo annullamento. Come succede all’oro: quanto più lo si fonde, tanto diventa puro, e, se si continuasse a fonderlo, ogni imperfezione verrebbe annullata; tale è l’effet­to del fuoco nella materia. L’anima non può annullarsi in Dio, ma in se stes­sa; a mano a mano che si purifica, si annulla in se stessa e resta in Dio l’anima pura. L’oro, puro a ventiquattro carati, per quanto fuoco gli si possa dare, non consuma più, salvo le sue imperfezioni. Ciò accade con il fuoco divino nell’anima: mentre Dio la tiene nel fuoco, lei con­suma ogni sua mancanza e va verso la perfezione dei ventiquattro carati. Monda, resta completamente in Dio senza al­cunché di proprio, perché la purificazione dell’ani­ma consiste nella privazione di noi in noi: il no­stro essere è Dio. L’anima, purificata a ventiquattro carati, rimane impassibile, perché non ha più nul­la da consumare. Se anche fosse tenuta nel fuoco, non le sarebbe penoso: è fuoco dell’amore divino che è per lei vita eterna. Possono vivere senza al­cuna contrarietà, come le anime beate, persino in questa vita, se fosse possibile per loro restare in­sieme al corpo. Ma non credo che Dio le tenga sulla terra, eccetto che per qualche grande volontà divina.

19.- L’anima è stata creata capace di poter raggiun­gere la sua perfezione originaria, vivendo secondo quanto era stato disposto per lei senza lasciarsi con­taminare dal peccato. Con il peccato originale e con quello attuale, essa perde i suoi doni e le grazie e, morta, non può risuscitare se non per mezzo di Dio. Risuscitata per mezzo del Battesimo, resta in lei però la cattiva inclinazione che la conduce (se non oppone resistenza) al peccato attuale, facendola ri­tornare alla morte.

Dio torna per risuscitarla nuovamente per mez­zo di un’altra grazia speciale, ma l’anima è talmen­te imbrattata e rivolta verso se stessa che, per ritor­nare allo stato in cui Dio l’ha creata, necessita di tutte quelle operazioni divine, senza le quali l’ani­ma non potrebbe ritornare alla sua condizione ori­ginaria di purezza. Nel momento in cui l’anima sta per ritornare al suo primo stato, proprio perché deve trasformarsi in Dio, arde così intensamente, che quello è il suo purgatorio (non guarda al purgatorio come purga­torio, ma il suo purgatorio è proprio l’istinto arden­te che le è impedito). Questo stato – l’ultimo dell’amore – si compie se è assente la parte umana, perché l’anima possiede imperfezioni nascoste e, se l’uomo le vedesse, vi­vrebbe disperato. Quest’ultimo stadio dell’amore consuma tutte le piccole mancanze e, una volta consumate, gliele mostra in modo che l’anima veda l’opera di Dio, che produce quel fuoco d’amore e consuma le imperfezioni che sono da consumare.

20.- Ciò che l’uomo giudica perfetto è difettoso pres­so Dio; non appena l’uomo compie l’atto di vedere, sentire, intendere, volere o avere memoria, si mac­chia e le operazioni che compie, apparentemente perfette, restano contaminate; se l’opera deve esse­re perfetta, si deve compiere in noi senza noi e l’o­pera di Dio deve essere in Dio senza che l’uomo agisca per primo. Questo è ciò che compie Dio nell’ultima spre­sione dell’amore puro solamente per mezzo suo. L’opera è così penetrante e ardente nel fondo del­l’anima che il corpo, che la circonda, pare si agiti fortemente, come se si trovasse in un grande fuoco che non lo lascia mai quieto, sino alla morte. L’amore di Dio che riempie l’anima (secondo quanto io vedo) dona una gioia che non si può esprimere a parole, ma questa gioia non toglie nem­meno una scintilla di pena nelle anime del purga­torio. L’amore trattenuto produce una pena grande quanto è la perfezione di quell’amore di cui Dio l’ha resa capace. Ne consegue che le anime del pur­gatorio provano gioia grandissima e pena grandissi­ma senza che la prima ne impedisca l’altra.

21.- Se esse potessero purgarsi per mezzo della con­trizione, purgherebbero in un istante tutto il loro debito, tale è l’impeto di contrizione che è in loro, poiché hanno la chiara consapevolezza dell’impor­tanza di quell’impedimento! E’ fuori dubbio che Dio non risparmia nulla al pagamento di quel de­bito, perché così è stato stabilito dalla sua giustizia. L’anima, d’altro canto, non ha più possibilità di scelta propria e non può vedere se non quello che Dio vuole, né vorrebbe vedere altro, perché così è stato preordinato per 1ei.

22.- Se poi quelli che stanno nel mondo fanno l’ele­mosina per abbreviarle il periodo della pena (1’ ani­ma) non può permettersi di voltarsi a guardarla con affetto e di prenderla in considerazione: l’unico a operare è Dio, che ha il suo modo di appagarsi. Il fatto di potersi voltare per guardare all’elemosina, risulterebbe una proprietà che la distoglierebbe dalla percezione del volere divino e, di conseguen­za, farebbe diventare la sua pena infernale. Immobili di fronte a tutto ciò che Dio dà loro (di gioia o di pena) le anime del purgatorio non po­tranno mai più voltarsi verso se stesse, perché han­no trovato la loro intimità nella volontà del Signore e su di essa si sono plasmate, felici di vivere il pro­getto divino.

23.- Presentare al cospetto di Dio un’anima in debito ancora di un’ora col purgatorio, significherebbe renderla colpevole di una grande offesa e ciò le co­sterebbe una pena pari a più di dieci purgatori, per­ché la somma giustizia e la pura bontà non potreb­bero reggerne la vista e, per parte di Dio, ciò risul­terebbe sconveniente.

Se l’anima si accorgesse che Dio non è piena­mente soddisfatto anche solo per una mancanza pa­ri a una farfallina d’occhio, non potrebbe tollerarlo, anzi, sopporterebbe più volentieri mille inferni piut­tosto di non essere ancora del tutto purificata da­vanti alla presenza di Dio (se fosse possibile sce­gliere quei mille inferni).

24.- Mentre vedo nella luce di Dio ciò che sto rac­contando, mi viene voglia di gridare così forte da spaventare tutti gli uomini di questo mondo e dire loro:

   «O miseri, che vi lasciate accecare in questo mondo al punto da non stimare affatto questa ne­cessità, quando vi imbatterete in essa! Tutti vi na­scondete sotto la speranza della misericordia di Dio, che sapete essere grande; non vi rendete con­to invece che l’immensa bontà di Dio vi giudicherà per aver agito contro la sua volontà? La sua bontà ci deve guidare a compiere il suo volere e non ad avere speranza, se ci rendiamo colpevoli di un’azio­ne malvagia. La giustizia non può venir meno e de­ve compiersi in qualche modo».

Non essere troppo sicuro di poter credere: «Io mi confesserò, prenderò l’indulgenza plenaria e a quel punto sarò purgato da tutti i miei peccati!». Sappi che questo tipo di confessione e di contrizio­ne – che occorrono per ottenere l’indulgenza plena­ria – sono difficili da raggiungere. Se solo te ne ren­dessi conto, tremeresti di timore e saresti più sicuro di non poterla raggiungere che di raggiungerla.

Anime-purganti

25.- Io vedo le anime rimanere nella pena del purga­torio consapevoli di due obiettivi: il primo consiste nel patire volentieri le pene, sapendo che Dio ha usato grande misericordia in proporzione a ciò che meriterebbero e all’importanza che ha il loro Signo­re. Se la sua bontà non temperasse la giustizia con la misericordia – e la giustizia si soddisfa col san­gue di Cristo – un solo peccato meriterebbe mille inferni eterni. Le anime purganti conoscono la grande miseri­cordia divina e volentieri patiscono la pena senza lamentarsi e senza che ne venga meno un solo cara­to, perché pare loro di meritarla giustamente, se­condo il piano divino e poiché non possono eserci­tare la loro volontà. L’altro scopo è accorgersi della gioia che non man­ca mai, anzi, cresce per accostarsi a Dio. Le anime vedono queste due realizzazioni del progetto divino non in esse né per mezzo di se stes­se, ma esclusivamente in Dio, verso il quale, rispet­to alle pene che patiscono, prestano maggior atten­zione, perché per Lui nutrono una stima più gran­de: ogni attimo di cui possono godere di Dio supe­ra ogni pena e gaudio che l’uomo possa capire, ma, nonostante li superi, non toglie una scintilla di gioia o di pena.

26.- Sento nella mia mente il processo di purificazio­ne delle anime del purgatorio nella misura in cui la vedo, in maniera sempre più chiara, come vi ho det­to ormai da due anni a questa parte; ogni giorno che passa la vedo e la sento più evidente: vedo che la mia anima sta in questo corpo come in un pur­gatorio che si sovrappone a quell’altro per salvare il corpo dalla morte – nella misura in cui il corpo stes­so è in grado di sopportare – e che cresce sempre di più, finché sopravviene la morte fisica.

Vedo che lo spirito è alienato da tutti i doni spi­rituali che possono dargli nutrimento, come la leti­zia o il piacere; non può gustare alcuna cosa dello spirito, né per volontà né per intelletto, né attraver­so la memoria per cui poter esprimere felicità di questo o di quello!

27.- Il mio mondo interiore è immobile e assediato; tutto ciò che reggeva la vita spirituale e corporale gli è stato tolto a poco a poco; nel momento in cui sono venute meno le sue impalcature, si rende conto che per lui sono state cose di cui nutrirsi e confor­tarsi, ma, una volta riconosciute come tali, sono così aborrite che scompaiono senza lasciare traccia, poi­ché lo spirito ha in sé l’istinto di eliminare ogni co­sa che possa impedire il raggiungimento della sua perfezione, a costo di permettere che l’uomo venga gettato nell’inferno, pur di pervenire al suo intento. Per questa ragione lo spirito elimina tutto ciò di cui l’interiorità dell’uomo si può nutrire e lo assedia in maniera così sottile da non lasciar passare il ben­ché minimo fuscello d’imperfezione, che non sia da lui veduto e aborrito. Per questo l’anima era assediata interiormente: non poteva sopportare che quelle persone che era­no entrate in relazione con lei e che parevano sulla via della perfezione, trovassero sostentamento in al­cuna cosa. Quando le vedeva nutrirsi di ciò che lei aborriva, lasciava quel luogo per non vederle, so­prattutto se si trattava di alcune persone in particolare.

28.- Anche la parte esteriore restava ancora assedia­ta, perché lo spirito non le corrispondeva: non tro­vava cosa sulla terra da cui poter trarre sostegno, secondo l’istinto umano, né le rimaneva altro con­forto se non Dio, che agisce per amore e con gran­de misericordia per soddisfare la propria giustizia, la cui vista le dava una grande gioia e una immensa pace. Non esce però di prigione né cerca di uscirne fintanto che Dio non abbia compiuto ciò che le oc­corre; la sua felicità è la soddisfazione di Dio e, per lei, non si potrebbe trovare pena alcuna, per enor­me che sia, quanto non corrispondere più all’ordi­namento di Dio, perché l’anima riconosce che il progetto è giusto e misericordioso. Diceva: «Vedo e tocco tutte queste cose, ma non so trovare vocaboli adatti ad esprimere ciò che vor­rei dire. Quello che ho detto, lo sento operare den­tro di me, spiritualmente».

29.- La prigione nella quale mi sembra di essere è il mondo, i legami, il corpo; la mia anima, che vive nella grazia, lo sa bene e sa bene anche che cosa im­plica essere privati della possibilità – o ritardarla – di pervenire al suo fine. L’anima è delicata ed è re­sa degna dalla Grazia divina di essere con Dio una cosa sola, perché partecipe della sua bontà. Come è impossibile che a Dio possa accadere al­cuna pena, così vale per le anime che sono a Lui vi­cine: quanto più gli si fanno prossime, tanto mag­giormente ricevono del suo Essere. Il ritardo che l’anima ha (nell’unirsi al suo Signore) è causa di grande pena per lei e fa in modo di allontanarla dal­le proprietà che ha in sé per natura e che, per gra­zia, le sono mostrate. Non potendole trattenere, ma essendone capa­ce, la pena è in proporzione alla stima che lei ha di Dio. La stima poi è tanto maggiore quanto l’anima più conosce e tanto più conosce, quanto è più sen­za peccato. L’impedimento è più terribile quando l’anima, completamente raccolta in Dio e senza al­cun altro impedimento esterno, giunge alla perfetta conoscenza senza errore.

30.- L’uomo che preferisce farsi ammazzare piutto­sto di offendere Dio, sente che la morte gli procura pena, ma la luce di Dio lo induce a dare più impor­tanza al suo Signore che alla morte corporale. L’a­nima conosce il progetto di Dio e stima ancor più quel progetto di tutti i tormenti, per terribili che possano essere, tanto quelli interiori, quanto quelli esteriori, perché Dio – per il quale quest’opera si compie – eccede in tutto ciò che si possa immagi­nare e sentire. L’anima, come già si è detto, non vede né parla né conosce danno o pena in sé propria, ma il tutto conosce in un solo istante, pur non vedendolo in se stessa, perché lo spazio che Dio occupa in lei (per poco che sia) la impregna al punto da allontanare ogni cosa e da non lasciarle considerare null’altro. Dio fa perdere tutto ciò che è dell’uomo e che il purgatorio purifica.